Caro Boncinelli, l’affidarsi al sacro è una scelta di salutare realismo

 

di Maria Beatrice Toro
*docente di Psicoterapia e Psicologia presso l’Università “La Sapienza” e l’Università “LUMSA” di Roma

 

Come abbiamo avuto occasione di scrivere, la persistenza della religiosità e della spiritualità, sopravvissute al processo di secolarizzazione caratteristico dell’epoca moderna, costituisce una delle sfide a quella corrente di pensiero che identifica tout court il senso del sacro come una forma di residuale irrazionalità sul cammino della mente positiva.

Con grande meraviglia rispetto alla inesauribile persistenza del senso del sacro nella mente umana, che è presente in tanti diversi contesti, di semplicità, ma anche raffinatezza culturale (mi riferisco a scienziati, filosofi, intellettuali credenti), Richard Dawkins, Lewis Wolpert ed altri numerosi autori, italiani e stranieri, hanno scritto saggi e riflessioni, a cui oggi si va ad aggiungere il libro Contro il sacro, di Edoardo Boncinelli

Ognuno con un suo ragionamento e con declinazioni differenti, essi sostengono che, cercando riferimenti e appigli per i suoi ragionamenti sulla causa dell’esistenza, l’essere umano tenda erroneamente a esportare categorie fisiche quali quelle di causa ed effetto anche in ambiti più ampi, inventando una dimensione trascendente che non ha altre ragioni d’essere che non siano l’errore e la paura. Chi rifiuta la posizione per cui la matrice della vita sia il caso, invoca il sacro, ovvero qualcosa di separato dalla nostra dimensione umana, come principio e senso ultimo della vita. Si può pensare che questo ci “deresponsabilizzi” supponendo che non tutto sia in nostro potere?

A livello psichico il riconoscimento di un limite, lungi dal rendere più irresponsabili, mi sembra invece che ponga un freno a un grave “guaio”, ovvero il sentirsi completamente autodeterminati, quasi onnipotenti nel decidere di noi stessi e del nostro destino. Cito, a tale proposito, un’interessante visione, ben espressa dal libro La caduta dell’angelo: sacro e tossicomania nella modernità, scritto da Mario Pollo nel 2012. Tra lo stimolo e la risposta, a differenza di ciò che accade negli animali, Homo sapiens ha la possibilità di interporre ragionamenti e scelte, in una ricerca di significato della propria vita che porta a farsi domande profondissime e a rispondere dopo un’imponente rielaborazione simbolica in cui nasce e trova spazio ciò che chiamiamo “cultura”.

Il senso del sacro potrebbe nascere in reazione alla vertigine per cui ci rendiamo conto di non riuscire ad abbracciare con la mente la totalità della realtà: affossare questa dimensione di trascendenza, più che liberare l’uomo dalle pastoie dell’irrazionalità, potrebbe significare consegnarsi a un narcisismo distruttivo che rifiuta completamente l’alterità, e, infine, anche quel nucleo dell’esperienza che, in qualche modo, è altro a noi stessi, perché non riusciamo a determinarci completamente. Rendersene conto non ci rende meno liberi, perché la dimensione della scelta responsabile è la più importante prerogativa dell’umano, ma ci rende consapevoli dei limiti della nostra condizione, in modo psichicamente non malato, ma, direi, sottilmente salutare.

La vita umana, infatti, è sempre a contatto con i propri limiti (corporei e temporali, fino al limite dei limiti, ovvero la morte). Si può pensare che, proprio perché siamo limitati siamo unici e irripetibili, e possiamo passare attraverso i nostri limiti tramite la dimensione vitale del cambiamento. Solo ciò che è limitato può avere una forma e solo ciò che è potenzialmente qualcosa di più dei suoi limiti può cambiare, evolvere, non negando il limite ma accettandolo. In psicologia stiamo sempre più diventando coscienti di quanto sia importante la dimensione dell’accettazione e, non a caso, accanto all’importante concetto di autostima abbiamo posto quello, più importante ancora, dell’auto accettazione, o (auto compassione).

Non è per fermarsi a ciò che si è, “rassegnandosi” al limite, ma per orientarsi al cambiamento senza rinnegare ciò che siamo, o siamo stati. Il limite, senza il suo opposto, l’illimitato, “non produce storia ed evoluzione” (M. Pollo, La caduta dell’angelo, Franco Angeli 2012). Nell’incontro/scontro tra queste due dimensioni si gioca la vita umana, una realtà in bilico tra se stessa e il suo auto trascendersi, o, se preferiamo, tra finito e infinito, limitato e illimitato, profano e sacro.

 
Altri articoli dell’autrice:
La fede come espressione di una mente adulta (agosto 2013)
Nati per credere, risposta a Giorgio Vallortigara (aprile 2013)
La fede e il benessere psicofisico: distinzioni dall’“effetto placebo” (gennaio 2012)
 

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L’uccisione di Eluana Englaro e le false giustificazioni

Eluana EnglaroIl 9 febbraio 2009 l’Italia veniva scossa da un evento che ancora oggi, sette anni dopo, non cessa di dividere e far discutere: la morte di Eluana Englaro (1970–2009), la donna che versava in stato vegetativo da diciassette anni.

Per alcuni fu il trionfale compimento di una battaglia civile, per altri il drammatico epilogo di una guerra perduta. Per tutti, in ogni caso, quel 9 febbraio rappresenta una data storica benché ancora recente, una frattura come non si registrava da tempo, a livello di opinione pubblica. Ebbene, nonostante questi sette anni già trascorsi rimagono ancora poco noti aspetti diversi fondamentali di quello che, in termini giornalistici, è stato ribattezzato come il “caso Englaro”. Nelle righe a seguire cercheremo di rivisitarne alcuni nella speranza di offrire a tutti la possibilità, ripensando a quel 9 febbraio 2009, di farsi un’idea meno parziale e condizionata da resoconti non sempre attendibili che però circolano ancora oggi.

 

Come stava Eluana?
Cominciamo dall’aspetto forse più importante, e cioè le effettive condizioni di salute nelle quali versava Eluana. E’ opinione comune che la donna, dopo essere stata visitata da fior di medici, fosse stata riconosciuta da tutti – rispetto allo stato vegetativo in cui si trovava – come impossibilitata ad una anche minima ripresa. Ecco già in questa frase, verosimilmente riassuntiva del pensiero di molti, si condensano clamorose imprecisioni. Infatti non solo non è vero che la donna venne visitata da molti medici (basta leggersi le sentenze per accorgersi della presenza, ripetuta, di una sola perizia: quella del professor Carlo Alberto Defanti, incaricato dal padre di Eluana), ma non è vero neppure che coloro che la visitarono concordarono nelle conclusioni. La riprova ci viene dalla notevole divergenza tra il parere espresso dal già citato Defanti – e tenuto in assoluto ed esclusivo rilievo nel corso dei processi – rispetto a quello, per esempio, di uno specialista come il dottor Giuliano Dolce, il quale, anch’egli per mandato del padre, aveva seguito Eluana per qualche tempo registrando come lei, oltre ad aver ripreso, dopo diverso tempo, un regolare ciclo mestruale, fosse in grado di deglutire autonomamente, di variare il ritmo respiratorio a seconda degli argomenti trattati vicino a lei. Tutti elementi puntualmente trascurati dai pronunciamenti giudiziari, nei quali, come detto, compare invece la sola (e datata) perizia di Defanti, presa sempre per buona, anzi: come oro colato.

Un capitolo a parte meritano le effettive condizioni di Eluana prima della morte. Ricordiamo come sette anni fa circolarono, a tal proposito, i resoconti più scabrosi. Lo scrittore Roberto Saviano, per dire, sulle colonne di El Pais arrivò a sostenere che Eluana aveva il «viso deformato e gonfio, senza espressione e senza capelli». Descrizione impressionante epperò frutto di pura fantasia dal momento che, da quanto si sa, l’intellettuale partenopeo non visitò mai la donna. La vide invece – e per due volte – Lucia Bellaspiga, che fra l’altro fu anche l’ultima giornalista a farle visita prima della morte. E la descrisse così: «Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto […] i lineamenti sono poco diversi da prima, non peggiori o migliori, diversi […] dal suo sguardo capisci che è una disabile, a occhi chiusi potrebbe essere la persona più sana del mondo […] il volto è rilassato, pieno, normale, non abbruttito» (L. Bellaspiga – P. Ciociola, Eluana. I fatti. Ancora, Milano 2009, p. 8). Nota bene: né l’Autore di Gomorra, né altri si sono a tutt’oggi scusati per le loro gratuite e discutibilissime opere di fantasia.

 

La (non) vittoria del diritto
Particolarmente curioso, di quella vicenda, fu anche il dato giuridico. Si è detto che nessuno, una volta avviata la sospensione del nutrimento che avrebbe cagionato la morte di Eluana, avrebbe potuto fare nulla dal momento che, sulla vicenda, da parte della Corte d’Appello di Milano, era stata pronunciata una «sentenza passata in giudicato». Sbagliato: nessuna sentenza passò «in giudicato»; fu invece emesso un decreto di tribunale che, come tale, non era suscettibile di «passare in giudicato» ex art. 2909 c.c., perché provvedimento di «volontaria giurisdizione». Non solo: c’erano sentenze, anche precedenti, che avevano già ribadito come i decreti dei tribunali «non sono idonei ad acquisire autorità di giudicato, nemmeno “rebus sic stantibus”, in quanto sono modificabili e revocabili non solo “ex nunc”, per nuovi elementi sopravvenuti, ma anche “ex tunc”, per un riesame (di merito o di legittimità) delle ordinarie risultanze. A ben vedere anche chi ha affermato che si è trattato di una battaglia vinta sul piano del diritto non la conta giusta visto che è stato proprio il diritto, in più occasioni, a dare torto alle tesi del padre ricorrente (il 16 dicembre 2006 la Corte d’Appello di Milano, pur ritenendo ammissibile il ricorso di Beppino Englaro, non lo accolse perché «Eluana è viva» e sottrarle (come poi è stato fatto) alimentazione ed idratazione avrebbe configurato – hanno scritto i giudici – una pratica di «eutanasia omissiva, nonostante gli sforzi argomentativi dei reclamanti di scindere l’ipotesi in esame da quella dell’eutanasia»).

Per bene sei volte, infatti, i magistrati – antecedentemente alla «rivoluzionaria» sentenza della Cassazione del 16/10/2007 – negarono al tutore di Eluana il permesso di anticiparne la morte. Forse quei giudici erano tutti quanti all’oscuro della Costituzione e del citatissimo articolo 32 sul rifiuto delle terapie? Varrebbe la pena chiederselo. Senza considerare che molti sono i punti poco convincenti di quella sentenza della Cassazione del 2006. Anzitutto perché diede per certi elementi che tali non erano, come l’irreversibilità dello stato vegetativo, condizione con nette differenze cliniche da quella del coma, non è più considerata una condizione irreversibile dalla letteratura scientifica (cfr. The vegetative state: guidance on diagnosis and management  The Royal College of Physicians – «Clinical Medicine», 2003; Vol. 3(3):249-54;). In tal senso, all’indomani della sentenza n. 21748 (relatore A. Giusti) della Corte di Cassazione, Vincenzo Carpino, presidente dell’A.a.r.o.i. acronimo che sta per Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani -, si trovò costretto a precisare che in realtà «non esistono criteri precisi per accertare con sicurezza uno stato vegetativo permanente. Mancano parametri scientifici e quindi protocolli di riferimento». Oltretutto stanno emergendo prospettive interessanti in ordine ai possibili gradi di “consapevolezza” delle persone che versano in questa condizione (cfr. Cruse D. – Chennu S. – Fernández-Espejo D. – Payne W.L. – Young G.B. (2012)Detecting Awareness in the Vegetative State: Electroencephalographic Evidence for Attempted Movementst Command.«PLoSONE»(11):e49933;), per non parlare degli ormai molteplici casi di “risvegli” (come Amy Pickard, Christa Lily Smith, Patricia White Bull, Donald Herbert, Jan Grzebsky, Jesse Ramirez, Sarah Scantlin) alcuni dei quali clamorosi, come quello di Terry Wallis, avvenuto dopo 19 anni.

In secondo luogo perché la Suprema Corte diede valore ad una ricostruzione “indiretta” della volontà terapeutiche di Eluana attraverso il suo «stile di vita», si collocò in netto contrasto con altri pronunciamenti coevi della Suprema Corte. Che, quanto alla manifestazione del “non consenso” a un trattamento sanitario, in ben due sentenze – la 4211/2007 e la n 23676/2008 – sottolineò, mostrandosi decisamente più rigida, la necessità di «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà».

 

Non fu Eluana a chiedere di morire
Alla luce di quanto ha detto e ribadito la Suprema Corte ci si può legittimamente chiedere: ci fu effettivamente, da parte di Eluana, una «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa» sulla sua volontà di non vivere a certe condizioni? «Se non posso essere quello che sono adesso, preferisco morire» – secondo il padre – furono le parole della giovane donna un anno prima del tragico incidente (Englaro B. – Nave E., Eluana. La libertà e la vita, Rizzoli, Milano 2009). Non ci sono elementi per dubitare aprioristicamente che queste parole Eluana le abbia dette, anche se rimangono degli interrogativi: quando e dove sono state pronunciate? Riflettevano appieno il suo pensiero oppure un suo personale stato d’animo, magari generato dalla notizia di uno stato di coma da parte di altri? Perché in quel caso dovremmo concludere che il pensiero di Eluana – sia pure rafforzato da quel «preferisco morire», peraltro così frequente nel lessico giovanile – fosse quello di tutti dal momento che nessuno sano di mente si augurerebbe di ritrovarsi in coma o in stato vegetativo. Come andarono dunque le cose? Non è chiaro.

L’unico dato certo – anche se, guarda caso, poco ricordato – è che la stessa Corte d’Appello di Milano ha messo nero su bianco come sia stato il Beppino Englaro, e non Eluana, a richiedere la sua morte: «La. S.C. non ha ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di testamento biologico effettuale di Eluana, contenente le sue precise dichiarazioni di trattamento […] ma che fosse necessario e sufficiente accertare che la richiesta di interruzione di trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia». Parole che demoliscono un’altra leggenda metropolitana: quella secondo cui il tutore, in questo caso, abbia agito «”con” l’incapace» (Pizzetti F. G. Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione della persona, Giuffrè Editore, Milano 2008, p. 322) e che, quindi, sia stata lei, Eluana, a chiedere di non essere tenuta in vita a certe condizioni. Falso. Quella richiesta non è mai stata formulata. Non da lei, almeno: e scusate se è poco.

 

La morte di una donna
Queste poche righe non hanno, naturalmente, la pretesa – né potrebbero averla – di dissipare tutte le numerose ambiguità di un caso che ha fatto e continuerà a far discutere. E’ bene però che d’ora in poi tutti, quanto meno, tengano presenti i tre elementi – ce ne sarebbero molti altri, ma lo spazio, si sa, è tiranno – che abbiamo qui voluto mettere a fuoco:

1. Eluana Englaro, in seguito ad «eutanasia passiva» (Pavone I. R. La convenzione europea sulla biomedicina, Giuffrè Editore, Milano 2009, p.55), è morta, ma sarebbe potuta tranquillamente vivere, perché, pur versando in condizioni di evidente e gravissima disabilità, la sua salute non era affatto in pericolo;

2. Si poteva anche giuridicamente impedire la sua morte dal momento che il decreto della Corte d’Appello di Milano a cui sono seguiti il ricovero ad Udine ed il decesso della donna era revocabile in qualsiasi momento alla luce, se non altro, delle decine di esposti fioccati tanto alla Procura di Milano, tanto a quella di Udine da parte di associazioni e privati cittadini e mai, di fatto, esaminati nel merito;

3. Eluana Englaro non ha mai è espresso la volontà di morire, qualora si fosse trovata a vivere in condizione di stato vegetativo. E se lo ha fatto, la giustizia italiana non è stata – nonostante i numerosi dibattimenti e le numerose sentenze emesse sulla vicenda – in grado di accertarlo.

Riepilogando, il 9 febbraio 2009 una donna innocente e gravemente disabile, in Italia, è deceduta in solitudine (quando Eluana morì, era sola. Non c’era nessuno in quella stanza: il padre Beppino Englaro era a Lecco, come pure la madre. Non c’era un infermiere, un medico, nessuno di quelli che avrebbero dovuto “accompagnarla al riposo con presenza costante ed attenta”, com’è stato scritto da qualcuno) in seguito a disposizioni per le quali non aveva mai reso «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa», morendo – secondo quanto paventato in un appello sottoscritto da 25 fra docenti universitari e direttori di reparti di neurologia – «attraverso una lenta devastazione di tutto l’organismo».

Anche se quindi sono ormai trascorsi sette anni, anche se il tempo passa e tutto quello che volete, sinceramente: crediamo davvero che su quanto accaduto si debba tacere? Crediamo che la verità di fatti gravi, dopo un po’, debba essere taciuta? Crediamo veramente che nascondere la vergogna sotto il tappeto serva a non provarla più, a stare meglio? Oppure pensiamo che sì, quel che è accaduto ad Eluana debba essere ricordato minuto per minuto, come un dramma comune, come una pagina dolorosa, come l’occasione perduta e che dobbiamo riconquistare per dire che siamo tutti uguali non solo a parole, e che se sei il più debole, in una comunità, sei non l’ultimo bensì il primo a cui tutti debbono pensare, e il primo da proteggere?

Giuliano Guzzo

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L’immenso male dei preti pedofili. Noi cattolici, cosa diciamo?

pedofilia preti«E’ sbagliato difendere l’indifendibile», ha detto, con ragione, il card. australiano George Pell, che in questi giorni sta deponendo davanti alla Royal Commission into Institutional Responses to Child Sexual Abuse, accusato di avere coperto dei pedofili negli anni Settanta e Ottanta. Evento di grande risalto mediatico a livello internazionale, unito all’uscita del film Il caso Spotlight sui preti pedofili di Boston (i cui giornalisti, protagonisti del caso, non erano certo mossi da senso di giustizia verso i bambini abusati, ma a fare lo scoop vincendo la concorrenza, come ben spiegato da Antonio Padellaro).

Sentiamo il disagio nostro e di molti cattolici davanti a questo, davanti all’immenso male compiuto da questi sacerdoti. Molti ci scrivono, scoraggiati, e noi rispondiamo, come possiamo. Potremmo fare un lungo elenco di sacerdoti accusati e poi completamente assolti, dopo che, però, il loro nome era circolato su tutti i principali quotidiani. Potremmo elencare gli ingiusti accanimenti mediatici verso vescovi accusati di aver coperto atti di pedofilia, ed invece innocenti. Si potrebbe ricordare che i preti pedofili sono lo 0,8% dei sacerdoti in attività negli ultimi 10 anni (di cui il 60% ha compiuto atti di efebofilia e non pedofilia).

Si dovrebbe ricordare che è sbagliato cercare una responsabilità diretta di qualche Pontefice o del Vaticano, perché non sono i datori di lavoro dei preti (come è stato dimostrato). Occorrerebbe far presente che i numeri non sono più alti degli insegnanti pedofili, degli allenatori pedofili, dei ministri di altre chiese (sposati) pedofili o degli abusi che avvengono all’interno delle famiglie, da parte di zii, nonni, genitori. Potremmo far notare che la maggior parte dei casi di pedofilia nella Chiesa cattolica riguarda gli anni dal 1960 al 1980, dopo il boom della rivoluzione sessuale sessantottina, quando effettivamente la pedofilia era socialmente sottovalutata e, addirittura, sostenuta. Si pensi al manifesto a favore del diritto sessuale dei bambini, firmato dai più celebri intellettuali laicisti (da Jean Paul Sartre a Michel Foucault), o allo stretto e pubblico sodalizio tra l’International Lesbian and Gay Association (ILGA) con la North American Man/Boy Love Association, l’associazione di omosessuali pedofili.

Sarebbe giusto far presente le migliaia di sacerdoti, religiosi e religiose santi, che dedicano la loro vita ai loro parrocchiani, in ogni parte del mondo, al servizio dei fedeli, dei poveri, dei malati. Quelli che non guadagnano i titoli di giornale e non fanno rumore. Bisognerebbe citare le parole di Papa Francesco: «La Chiesa su questa strada ha fatto tanto. Forse più di tutti. Le statistiche sul fenomeno della violenza dei bambini sono impressionanti, ma mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato. La Chiesa cattolica è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata». Così come ripete spesso il card. Angelo Becciu, che tanto sta facendo in Vaticano sulla pedofilia. Doveroso sarebbe ricordare che questa continua accusa verso il cattolicesimo rivela, come spiegato da Vittorio Messori, che «chi considera più gravi le colpe “romane“, rispetto a ogni altra, è perché vengono da una Chiesa da cui ben altro si aspettava. Chi denuncia indignato le bassezze, è perché misura l’altezza del messaggio che da lì viene annunciato al mondo e che, credenti o no che si sia, non si vorrebbe infangato».

Potremmo dire tutto questo, sono cose che abbiamo scritto e continueremo a scrivere. Ma, a volte, viene proprio meno la volontà di dirle, di chiarire, di puntualizzare che un solo bambino abusato è un crimine orrendo, che i colpevoli devono pagare tutto, senza sconti, ma che non si può generalizzare. Quando, dopo tutto quello che è emerso pubblicamente in questi anni, compaiono notizie di numerosi preti che ancora oggi si macchiano di pedofilia, che si drogano, che partecipano a party omosessuali, che vanno a caccia di bambini o adulti gay sulle chat…allora vien voglia di darla vinta a chi ingiustamente generalizza, sperando che l’accusa alla Chiesa di essere il “covo dei pedofili” abbia almeno la forza di scuotere le coscienze, se ancora esistono, di queste persone e dei vescovi che le coprono, o le hanno coperte.

E, a volte, non si riesce davvero a frenare il pensiero che bisognerebbe letteralmente applicare le parole di Gesù: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Oltre all’orribile crimine di cui sono colpevoli verso i bambini, questi preti stanno creando la più grande generazione di atei della storia, un pugno -grande o piccolo, che sia- di sacerdoti è riuscito ad allontanare più persone dalla Chiesa di quante ne abbiano avvicinate i loro colleghi.

Cosa diciamo, come rispondiamo a chi sente minata la propria fede? Quasi tutte sono persone poco coinvolte nella loro realtà parrocchiale, comprensibilmente si scoraggiano perché non hanno davanti agli occhi esempi positivi di sacerdoti, di religiosi e religiose, di testimoni di Cristo. Sono in balìa dei titoli di giornale o dei preti anticattolici assoldati dai quotidiani laicisti per attaccare la Chiesa, o dei solitari e vuoti sacerdoti narcisi, che sfruttano internet per cercare consenso personale. E’ ovvio che poi ci si scoraggia. Invece, occorre coinvolgersi, o farlo ancora di più, con la realtà parrocchiale del quartiere, del paese (o di quello accanto, è uguale) o con qualche movimento ecclesiale, mettersi a disposizione, farsi indicare un bravo confessore, una guida spirituale. Bisognosi di stare con chi ha davvero negli occhi il Vangelo (e qualcuno il Signore lo dona sempre).

Perché il cristianesimo non è lo sforzo spirituale del singolo, ma lo si vive sempre all’interno di una comunità, di una compagnia umana. Allo stesso modo, soltanto facendo esperienza concreta, personale, diretta con una realtà di Chiesa, di comunità cristiana positiva ed illuminante è possibile star di fronte, senza cedimenti, all’immenso Male commesso da persone chiamate da Dio a mostrare il Bene. Ecco, questo è il nostro consiglio.

La redazione

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Nichi Vendola, in nome di quale progresso hai tolto quel bambino da sua madre?

nichi-vendola«La guida di un movimento che, se ricordo bene, si autoproclama comunista cede alla pratica ultraclassista dell’adozione di un bambino mediante la mercificazione integrale della donna resa possibile dall’utero in affitto». Queste le parole del giovane filosofo marxista Diego Fusaro a commento della notizia che il leader di Sinistra Ecologia e Libertà (SEL), Nichi Vendola, assieme al compagno gay, avrebbe acquistato un bambino in California, chiamato Tobia Antonio.

«Non può essere vero», scrive Fusaro, «sarebbe la dissoluzione immediata e irreversibile di Vendola e del suo partito; sarebbe la prova che si tratta di un partito al servizio del capitale e della mercificazione, dello sfruttamento dei corpi e dell’umiliazione permanente delle donne. No, Vendola non può legittimare quest’orrore. È sicuramente una montatura, un vile attacco ai danni suoi e del suo partito: che presto smentirà, immagino. Vendola, del resto, è uomo colto e sicuramente si ricorda di questo passaggio storico: “si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro”. Questa citazione non è tratta da un’Enciclica o da qualche manifesto cattolico in difesa della famiglia tradizionale. È, invece, desunta dal “Manifesto del partito comunista” del 1848 di Carlo Marx e Federico Engels. Due comunisti, di quelli veri». Lo stesso pensa anche Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista: «io non c’entro nulla con la sinistra fucsia, da comunista sono contro alla mercificazione dei bambini, mi fa orrore».

Purtroppo, pare proprio sia vero. Notizia che ha sconvolto perfino i feticisti di Twitter che, mentre ieri difendevano il senatore gay Sergio Lo Giudice, anche lui dichiarato ed orgoglioso acquirente di bambini, oggi massacrano di insulti e ironia l’ex governatore pugliese. Critiche arrivate da costituzionalisti e dai media Lgbt, così come da molti esponenti omosessuali, coscienti che si tratta di un fatto controproducente per le loro istanze: «speravo nella stepchild adoption», ha ammesso Vendola, dimostrando che tale pratica serviva proprio per aprire all’utero in affitto e non tanto a normare i 500 casi già esistenti di bambini in coppie Lgbt. Alcuni, tuttavia, hanno preso le difese del leader di SEL, sostenendo che in California è una pratica legale e la madre è una “donna generosa” e non viene sfruttata. Come se regalare i bambini, mercificandoli come fossero pacchi natalizi, fosse una cosa meno orribile e meno violatrice della dignità umana. C’è chi intima di “non giudicare” (gli stessi che ti giudicano se sei contro le nozze gay) e chi fa notare che sarebbero più le coppie eterosessuali a compiere queste pratiche, leggenda confutata proprio pochi giorni fa.

Molti ci hanno segnalato anche le terribili parole pronunciate da Vendola nel 1985 in un’intervista per Repubblica (riprese anche in un libro): «Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti – tema ancora più scabroso – e trattarne con chi la sessualità l’ ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione». Nel 2010 l’ex governatore della Puglia ha condannato la pedofilia ma sembra aver mai smentito o ritrattato quelle precise parole.

Nichi Vendola ha risposto parlando di “bellissima storia d’amore”. L’amore viene sempre tirato in ballo per coprire e giustificare le nefandezze umane. Ma quale amore? Un bambino reso appositamente orfano di madre, che un ricco omosessuale occidentale ha acquistato -o si è fatto regalare, è lo stesso- da una donna che per nove mesi lo ha cullato, creando con lui un legame inscindibile, illudendolo di essere la persona che lo avrebbe poi abbracciato e amato fin dalla nascita. Ed invece, Tobia Antonio è l’esperimento del progresso in cui crede l’Occidente, simbolo della mostruosità e disumanità dei nuovi diritti.

E’ stato profetico lo psichiatra Paolo Crepet, quando proprio pochi mesi fa parlò di chi torna dalla California con un bambino figlio dell’utero in affitto: «Se due gay che stanno insieme e decidono di andare in Usa o in Canada, ovvero dove si può andare, e si affitta un utero – perché è di questo che si tratta – e si torna in Italia dopo nove mesi con un bambino, io lo trovo nazista. C’è un’enorme quantità di studi sulla relazione emotiva che c’è tra il feto e la mamma durante i nove mesi di gravidanza. Non è un oggetto che hai nella pancia; è un essere umano vivente che ha delle relazioni con te. Parlo di nazismo perché se due signori gay andassero in California o in Canada ad affittare un utero, non cercherebbero una signora grassa, ma troverebbero qualcosa che si addice alla loro razza. Questo si chiama “eugenetica”, una prassi molto amata dai nazisti».

La redazione

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A cosa serve la Chiesa? Non bastano i Vangeli?

Statue of St. Peter, St. Peter's Square, Vatican, RomeSe abbiamo i vangeli, a cosa serve la Chiesa? A questa domanda risponde lo scrittore Davide Perillo, rivolgendosi ai suoi figli, usando un linguaggio comprensibile da tutti. Piccole pillole di catechismo, utili a tutti.

 

 

di Davide Perillo,
tratto da La fede spiegata a mio figlio (Piemme 2007)

 

Era facile per gli apostoli, avevano Gesù in carne ed ossa. Ma noi oggi? Come facciamo?

Questa domanda è importantissima, perché se oggi non potessimo incontrare davvero Gesù e stare con Lui, cosa ce ne faremmo del cristianesimo?

Se il Vangelo fosse soltanto il racconto di una storia chiusa duemila anni fa sarebbe solo un “Antico Testamento aggiornato”: una specie di nuova edizione, riveduta e corretta, con insegnamenti più profondi e istruzioni per l’uso più dettagliate. Niente di più. Il vecchio metodo, appunto. inutile. Tutto quello che insegna il cristianesimo resterebbe vero, importantissimo, storicamente rivoluzionario. Ma inutile. Cioè senza peso sulla nostra vita quotidiana. Senza effetti.

Gesù, invece, ha fatto un’altra cosa. Ci ha dato un modo per seguirlo identico a quello che avevano i discepoli, o quelli che lo hanno visto sulle strade della Palestina duemila anni fa. Lo stesso, identico modo, altrettanto semplice: l’incontro con una realtà umana. Fatta di uomini. Gente che mangia, beve, ride, prega. Gente che si può vedere e toccare. Con cui si può stare insieme. E’ la Chiesa.


Quando e perché nasce la Chiesa.

Ma quando nasce la Chiesa?

Negli Atti degli apostoli si legge: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2, 42-48).

Un gruppo di amici che stava insieme per un motivo: Gesù. La Chiesa, in fondo, è soprattutto questo. Un’amicizia, una compagnia di uomini e donna che stanno insieme e vivono in un certo modo. Gesù diventò qualcosa di concreto, di visibile, di toccabile, attraverso di loro, quelle persone. La Chiesa è proprio questo: è il modo che Gesù ha stabilito per rendersi incontrabile anche oggi.

E’ Lui stesso che l’ha voluta così, anzitutto chiamando gli apostoli e tenendoli con sé tre anni, tutti i giorni, per far loro acquisire quella certezza che a un certo punto fa dire: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,60).


Il primato di Pietro.

Poi, tra loro ha scelto un capo, un punto di riferimento stabile: Pietro. Glielo aveva preannunciato subito, la prima volta che lo aveva visto, quando gli aveva addirittura cambiato nome: «Fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”» (Gv 1,42).

Pietro, cioè “roccia”. Proprio come doveva essere il carattere di quell’uomo, che in un attimo si è visto descritto fino al fondo di sé, ma ancora non immaginava quale sarebbe stato il suo destino.

Poi la scelta divenne esplicita: «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”» (Mt 16, 13-19).

Il primato di Pietro, cioè l’idea del papato, emerge lì. Ma c’è un altro momento in cui la Chiesa viene già annunciata nella forma che prenderà dopo. «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi […]. Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato» (Lc 10,1-20). E ancora: Gesù ha istituito l’Eucarestia e i sacramenti, che sono proprio i segni della sua presenza. Ha inviato lo Spirito Santo, che «dà forza alla Chiesa, le dà vita, ne rende certo il cammino», come dice il Catechismo.

Per questo la Pentecoste, quando lo Spirito scende sugli apostoli, è l’inizio della Chiesa. Soprattutto, ha assicurato la sua presenza tra di loro: «Dove due o tre si sono riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro» (Mt 18,20). Due o tre, proprio perché la Chiesa si fonda sull’unità tra i fedeli. E poi: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20). Non dice: “sarà come se ci fossi anch’io”, ma “sono con voi”, sono lì, presente. E’ una presenza vera.


Ecco a cosa serve la Chiesa.

Ecco, nella Chiesa Gesù c’è veramente. E attraverso la Chiesa si rende incontrabile dall’uomo di tutte le epoche e di tutti i luoghi.

La Chiesa, quel gruppo di persone convocate, messe insieme da Gesù attraverso il Battesimo, è il modo in cui Cristo mi fa compagnia oggi, entra nella mia vita ora. E lo fa in carne ed ossa, cioè secondo una realtà umana, qualcosa che posso capire e abbracciare. Proprio come era Gesù: un uomo, qualcuno con cui mangiavano, bevevano, andavano in giro. Non qualcosa da immaginare, ma uno da seguire.

Se è vero che a un certo punto della storia Dio decide di farsi uomo ed entrare nella storia, e se è vero che il metodo che sceglie per rimanere nella storia e nella vita dell’uomo è la Chiesa, allora da quel momento in poi la strada è segnata. «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10,40). Per questo san Cipriano, un grande vescovo e martire del III secolo, diceva: «Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa come madre».

E’ proprio questo che, di solito, ci dà fastidio della Chiesa: la sua pretesa di essere madre. Cioè maestra di vita. Di voler insegnare (che letteralmente vuol dire “mostrare”) all’uomo la verità. A noi sembra un atto di superbia inconcepibile. E lo sarebbe davvero, sarebbe una pretesa folle se la Chiesa fosse solo una realtà umana, un gruppo di persone che seguono l’insegnamento di Gesù. Lui, Gesù, era un grande uomo, dicono in molti. Ma i preti? E gli altri cattolici? Sono uomini come me, sbagliano come me. A volte, di più. Che titolo hanno per insegnarmi qualcosa? Non possono essermi maestri.

Solo che facendo così non si prende la Chiesa per quello che dice di essere: la prosecuzione di Gesù nella storia. Bisogna distinguere tra Chi la fa essere (Dio) e chi la compone (l’umano), la Chiesa è santa e peccatrice insieme. Ma la santità arriva tutta da Dio. E il fatto che passi attraverso l’umano, attraverso persone che sbagliano e peccano, paradossalmente è una conferma ulteriore di questa grandezza.

La Chiesa pretende di essere madre perché mostra la stessa cosa che mostrava Gesù, e mostrandola la rende possibile: un metodo, una strada, per essere se stessi. Per non dimenticare nulla di sé. Il famoso centuplo. E la strada, la via, è Cristo stesso. La Chiesa tramanda questa possibilità nella storia. Così che da Pietro e gli apostoli la fede è passata a quelli che li incontravano, e poi ad altri e ad altri ancora nella storia. Fino ad arrivare a me e a te, oggi. Questo fenomeno si chiama “tradizione”. Accade attraverso uomini, ma è salvaguardia di un fattore divino: lo Spirito Santo. E a custodirla ci sono i pastori: i vescovi e, soprattutto, il Papa, che lo Spirito Santo assiste in maniera particolare.

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Unioni civili. Matteo Renzi umilia se stesso, le coppie Lgbt e il popolo della famiglia

ladelfaPoche ore dopo la votazione in Senato del maxi-emendamento sulle unioni civili, su cui il Governo aveva posto la fiducia (primo caso nella storia italiana in cui viene chiesta su temi di coscienza), il premier Matteo Renzi è corso ad esultare su Facebook: «La giornata di oggi resterà nella storia del nostro Paese». Per lui avrebbe vinto l’amore, la speranza, la libertà e tutti i retorici slogan che il ducetto di Rignano ha copiato da Barack Obama.

Eppure, qualcuno dovrà pur fargli notare che in realtà è stato sonoramente sconfitto dal popolo del Family Day, quello che fatto smantellare il disegno di legge originale. Solo qualche settimana fa, infatti, i leader del Partito Democratico facevano la voce grossa: «Nessuno stralcio sulle adozioni», assicurava Matteo Orfini, presidente del Pd. «Passerà anche la stepchild», prometteva Luigi Zanda, capogruppo del Pd al Senato. «Le adozioni restano, noi non cambiamo rotta», giurava Debora Serracchiani, vicepresidente del Pd. Monica Cirinnà invece scriveva dieci giorni fa: «il Governo non può mettere la fiducia. Quello sulle Unioni Civili è un disegno di legge parlamentare, fatto lavorando insieme e contando sui voti di forze di opposizione. Sui disegni di legge, non essendo prodotti dal governo in carica (ma dal parlamento appunto), non può essere chiesto un voto di fiducia delle forze che sostengono il governo stesso». Ed invece hanno dovuto smantellare il ddl Cirinnà e chiedere la fiducia evitando i voti segreti e il dibattito parlamentare, consapevoli che avrebbero probabilmente perso. Per questo sono i primi ad essere stati sconfitti, poco importa che la fiducia sia stata votata (oltretutto cambiando in corsa la maggioranza!).

Lo dimostra anche il sentimento di sconfitta che provano le principali associazioni Lgbt, talmente in lutto che hanno organizzato una manifestazione il 5 marzo contro il governo Renzi. Perché il maxi-emendamento «ci disgusta e offende», scrive ad esempio la fondatrice delle Famiglie Arcobaleno, Giuseppina La Delfa. Parla di «rabbia e amarezza», perché «questa legge è una sberla in faccia, che ci trasforma in caricature viventi. E chi voterà la fiducia stasera o domani avrà tradito l’insieme delle persone omosessuali e transessuali». Il ddl Cirinnà, continua, «scrive la discriminazione e i pregiudizi nella legge, li scolpisce nella pietra ed è uno schiaffo pesante inflitto a tutte e tutti noi». Come darle torto? Renzi, coadiuvato da Scalfarotto e Lo Giudice, ha cancellato il vincolo di fedeltà per le coppie omosessuali. Così, scrivono le Famiglie Arcobaleno, «il pregiudizio viene scolpito nella pietra: i gay e le lesbiche sono promiscui – dunque poche seri, inaffidabili, traditori, non hanno nessun obbligo morale a rispettare il compagno o la compagna, non gli si chiede nemmeno di provarci, o di impegnarsi a non farlo! Un gesto di una gravità inaudita». Evidentemente, si legge anche sul Corriere, «lo stile di vita di una coppia gay è sempre e comunque nel segno della trasgressione e del tradimento continuo. A quanto pare la fedeltà non è possibile immaginarla tra coniugi che non siano un uomo e una donna regolarmente uniti in matrimonio».

Per non parlare della possibilità di divorziare in pochi giorni, «una battaglia di 30 anni per ottenere una legge che ci permette di unirci per divorziare in 3 mesi. Non capite tutti quanti che viene scritto ancora una volta nella legge, nella pietra, che noi omosessuali siamo incapaci di prenderci impegni seri, definitivi, importanti?», riflette La Delfa. «Questa legge pagliacciata, non la vogliamo». Per tutta la giornata di ieri, infatti, le associazioni Lgbt hanno manifestato con rabbia sotto al Senato, chiedendo di non votare la fiducia, arrivando anche a bloccare il traffico. Monica Cirinnà esulta per la “storica giornata dei diritti” ma le associazioni gay rispondono scrivendo che si tratta di una «brutta pagina nella storia dei diritti civili nel nostro Paese». Anche il giurista Lgbt Stefano Rodotà ha rilevato che «tutti gli interventi sono stati finalizzati a segnare il massimo di distanza possibile tra le unioni civili e il matrimonio».

Sia ben chiaro: meglio una legge del genere che il vecchio ddl Cirinnà, dove l’equiparazione al matrimonio era totale e plateale, contenente oltretutto la stepchild adoption. Il popolo del Family Day è riuscito a difendere i bambini e far stralciare una pratica che apriva indirettamente all’utero in affitto, come confermato anche dall’ex presidente della Corte costituzionale, Ugo De Siervo: «Diciamocelo chiaramente: con la “stepchild adoption” si concede il diritto a un padre naturale di estendere la genitorialità a chi desidera lui. Non vedo proprio la tutela di un diritto del bambino. Ci potrà poi essere qualche caso limite. Ma non si legifera mai per i casi limite, quanto per i casi ordinari. E qui, di ordinario, vedo piuttosto l’aspirazione di qualcuno a utilizzare la maternità surrogata nascondendosi dietro il presunto interesse del bambino».

Tuttavia il disegno di legge votato rimane una autentica porcata anche per i difensori della famiglia, «una procedura parlamentare antidemocratica, azzeramento del dibattito in Senato, sostituzione con un maxiemendamento, addirittura voto di fiducia, mai chiesto nella storia repubblicana su normative che interrogano profonde questioni di coscienza», scrive Mario Adinolfi. «Chiedo rispettosamente a Sergio Mattarella come possa non ravvisare estremi di incostituzionalità plateali in una normativa che assegna il diritto alla reversibilità della pensione, alla successione testamentaria, all’utilizzo del cognome del partner solo a 7.500 coppie omosessuali attualmente conviventi con 529 minori e non alle novecentomila coppie di fatto eterosessuali con settecentomila bambini che sono totalmente escluse da questi pletorici “nuovi diritti”».

Su Twitter c’è comunque qualcuno che esulta, ma non si accorge che il maxi-emendamento ha amplificato ancora di più la differenza tra coppie gay e famiglie naturali. Dicono che è il “primo passo”. Ma è anche l’ultimo e l’unico possibile poiché, come ha spiegato pochi giorni fa l’ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, «la parificazione della coppia omosessuale al matrimonio non è consentita dall’art. 29 della Costituzione, secondo l’interpretazione che ne dà la Consulta nella sentenza del 2010. Perché vi è una differenza naturale tra la coppia di persone di sesso diverso e quella di persone dello stesso sesso che non può consentire di evocare il principio di eguaglianza». Se per la Costituzione la famiglia è la “società naturale fondata sul matrimonio”, allora l’unica famiglia possibile è quella tra uomo e donna uniti in matrimonio. Una realtà che è naturalmente e costituzionalmente differente e diseguale dall’unione di due persone dello stesso sesso, che non potrà mai essere intesa come “matrimonio”, e quindi come “famiglia”.

 

cirinnà

 

Una legge, quella sulle unioni civili, che umilia tutti. Innanzitutto Matteo Renzi, Alfano e tutto il governo di maggioranza, perché per poterla approvare hanno dovuto cambiare in corsa la maggioranza (senza riferire al Quirinale), saltare la commissione e presentarla direttamente in aula, impedire il dibattito parlamentare e far votare tramite fiducia, modificando oltretutto radicalmente la struttura iniziale e originale. Umilia le associazioni e le coppie omosessuali, ufficializzando la loro natura essenzialmente promiscua e sminuendo la serietà dei loro rapporti, tanto che si potranno sciogliere in soli 3 mesi. Umilia le coppie eterosessuali non sposate, private dei privilegi concessi a quelle omosessuali ed, infine, umilia il popolo della famiglia che era certamente disposto a perdere -riconoscendo di difendere valori indigesti per il libertino uomo moderno-, ma voleva farlo democraticamente, all’interno di un dibattito parlamentare, di una votazione reale e concreta. Ancor meglio un referendum.

 

Post Scriptum
L’unica goccia positiva è che, per lo meno, ci siamo liberati della filosofa Lgbt Michela Marzano. «Resterò coerente con quanto ho sempre detto», ha affermato. «Nel momento in cui si dovesse approvare una legge senza la stepchild adoption, tirerò le conseguenze e molto probabilmente lascerò il Partito Democratico». E’ ora quindi per la Marzano di fare le valige, oppure la poltrona vale di più della parola data (vedi Cirinnà)? Questa mattina ha già rimandato: aspetterà la conclusione dell’iter della legge.

 

Qui sotto quando Renzi diceva: “sul Cirinnà non chiederemo la fiducia”

La redazione

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Quei preti violenti che usano il web per insultare i cattolici

preti«Internet ha dato voce a legioni di imbecilli», disse il compianto Umberto Eco. Molti ce lo ricordano segnalandoci scandalizzati gli ultimi articoli di quattro o cinque preti mediatici che da diversi anni si esibiscono pubblicamente in scene violente ed imbarazzanti e palesemente in contrasto con la testimonianza cristiana che dovrebbero dare.

Alcuni di loro hanno firmato recentemente un appello a favore delle unioni civili e delle adozioni omosessuali, ribadendo il fatto di essere «preti cattolici» e che «la “famiglia uomo-donna-bambino/a”, troppo spesso è il luogo turpe delle più atroci violenze».

Eppure proprio pochi giorni fa Papa Francesco ha ricordato che è un inganno «dire» di essere cattolici senza il «fare» da cattolici. Sono le loro “opere” e “biografie” a dimostrare che questi preti di strada, con il cristianesimo, c’entrano davvero ben poco, ovvero -secondo le parole del Papa- sono “ingannatori”. Tutti condividono il mancato rispetto della laicità, così come fu per don Gallo, proclamando apertamente la loro ideologia politica -comunista, chiaramente-, e venendo felicemente assoldati dai media anticlericali come “fuoco amico” contro la Chiesa e i cattolici.

 

Ci riferiamo, ad esempio, a don Aldo Antonelli, parroco di Antrosano, legato alla sinistra extraparlamentare di Micromega che, da sempre, si rifiuta di essere chiamato “don” per non essere confuso con i suoi colleghi sacerdoti, che disprezza apertamente. Nel 2014 Antonelli si è dimesso per avere così più tempo da dedicare all”Huffington Postquotidiano online per cui commenta tutto, dalle banche a Berlusconi (sua vecchia ossessione), da Renzi a Pasolini (fino a tenere imbarazzanti omelie su Youtube a base di poverismo ed equo-solidarismo). Di sciocchezze ne dice e ne scrive molte, come quando ha invitato la Chiesa a celebrare il divorzio in nome di un passo del Vangelo, dimenticandosi che è proprio Gesù a condannare il divorzio in un passo del Vangelo (Mt 19,9).

Si definisce prete laico e si batte per l’eliminazione del crocifisso dai luoghi pubblici, per l’eliminazione del’8×1000 (attraverso il quale riceve lo stipendio), contro l’esistenza storica della famiglia cristiana ecc. In occasione dell’arrivo di Padre Pio in Vaticano, Antonelli ha sostenuto che il santo di Pietralcina non era cristiano perché «a noi [nell’auto-culto di personalità Antonelli si dà sempre del noi] non risulta che questo Gesù abbia passato la sua vita rinchiuso in un confessionale, tra peccati e assoluzioni, così come ha fatto padre Pio. Né ci risulta che padre Pio abbia percorso, come Gesù, le strade polverose della sua Puglia accogliendo i piccoli e denunciando i poteri». A noi, d’altra parte, non risulta che Gesù scriveva sull’Huffington Post in preda a crisi di narcisismo. Contro Padre Pio il prete rosso si affida al libro di Sergio Luzzato, nonostante sia stato smentito da successive pubblicazioni, definisce «feticisti» i devoti del frate, vittime di «un minestrone tossico di superstizione, di fanatismo, di miracolismo». Stessa violenza nei confronti di Radio Maria, che viene da lui definita «diseducativa, politicamente fascista, con delle pennellate anche di nazismo e di razzismo, antisemitismo. Una radio che, se ci fosse la censura, andrebbe censurata. Mi chiedo se non sia il caso di denunciare questa radio per circonvenzione di incapaci, considerato che è seguita da persone sole, deboli e di età avanzata».

 

Un altro firmatario dell’appello è don Paolo Farinella, già noto ai tribunali per essere già stato condannato per diffamazione, è stato più volte richiamato dai vertici della Chiesa a causa della sua collusione con il mondo politico e la violazione del rispetto della laicità. Il prete, dalla fedina penale sporca, ha ammesso di contrastare «il pontificato di Benedetto XVI che ritengo una sciagura per la Chiesa». Ha minacciato di morte Silvio Berlusconi, scrivendo: «Anche subito gli darei l’unzione degli infermi con un bulacco (secchio, ndr) d’olio fino ad annegarlo. Se Berlusconi morisse ci libererebbe da una bella palla di piombo ai piedi, da un bel rospo». Ha istigato alla violenza verso Dario Franceschini, attuale ministro del governo Renzi, dicendo: «Insultare Franceschini? Se gli avessero messo le mani addosso avrebbe capito qualcosa, questa gente se le attira». Durante la campagna elettorale del 2008, il sacerdote genovese è arrivato addirittura a scrivere che la Madonna di Lourdes invitava a votare per Walter Veltroni. Nel 2013 ha definito “retrogrado” Papa Francesco perché ha diffuso il rosario chiamato misericordina.

 

Un altro di questi bei personaggi è don Giorgio Capitani, anche lui firmatario per le unioni civili, noto per aver offeso la figlia del marò La Torre tramite una lettera, scrivendo di fregarsene «delle tue maledizioni o delle tue eventuali denunce». De Capitani è stato denunciato per diffamazione dalla giornalista Grazia Graziadei. In occasione della nomina del card. Angelo Scola come arcivescovo di Milano, De Capitani ha scritto un pesante articolo (poi rimosso) in cui ha scritto: «Non può essere benedetto dal Signore colui che viene nel nome di un vaticano che si è fatto finora inculare dal Porco maledetto, sostenuto anche dalla mafia ciellina. Ma noi non lo permetteremo! Angelo Scola, patriarca di Venezia, a Milano non sei molto gradito. Rinuncia, sei ancora in tempo. Non ti vogliamo come nostro pastore! D’ora in poi faremo capire alla Chiesa vaticana che non scherzeremo più col fioretto: Cristo dovrà pur tornare sulla terra, con la frusta in mano, e buttar fuori dal tempio ladri, farabutti ed escort! Saremo decisi: sorgeranno ovunque comunità di base, le parrocchie si auto-gestiranno, non ci faremo più condizionare da una pastorale cimiteriale».

De Capitani è stato rimosso dalla parrocchia di Rovagnate in seguito alle ripetute lamentele dei parrocchiani per il suo linguaggio volgare e scurrile e per le numerose segnalazioni pervenute negli anni presso la Santa Sede e la Curia Milanese a causa dell’odio manifestato nei confronti di Silvio Berlusconi (definito apertamente «porco, corrotto e corruttore, pederasta, criminale, stragista» ecc.), al quale ha pubblicamente augurato di morire tramite un ictus “scagliato dal Signore”, mentre in un’altra occasione ha affermato: «Dio che puoi tutto spediscilo all’inferno. Tocca a noi, italiani, a dire basta, siamo stanchi di un immondo di un porco». Insulti li ha riservati anche verso la madre (defunta) di Berlusconi. Nel 2009 ha definito i soldati italiani in missione all’estero dei «maschioni fascistoidi».

 

Gli altri due preti firmatari sono Michele Dosio, conosciuto per aver sostenuto il fantomatico “blocco cattolico” dei No Tav, e il prete operaio don Claudio Miglioranza, che nelle omelie domenicali denigra Valentino Rossi ed invita alla «lotta operaia» contro Sergio Marchionne, sua vecchia ossessione.

 

Lasciamo il giudizio a chi legge, invitando anche a condividerlo tramite e-mail con i vescovi di questi tre curiosi personaggi:
info@diocesilaquila.it (per Antonelli);
amministrativo@diocesi.genova.it (per Farinella);
direzioneportale@chiesadimilano.it (per De Capitani).

La redazione

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Un’indagine psicologica sulle apparizioni ai discepoli del Gesù risorto

caravaggioCome ha fatto notare il prof. Michael R. Licona, docente di Nuovo Testamento presso la Houston Baptist University (in “The Resurrection of Jesus: A New Historiographical Approach”, Downers Grove 2010), la morte di Gesù in croce è considerato ormai un fatto certamente storico dalla maggioranza degli studiosi moderni (così come, ne abbiamo già parlato, tutti gli elementi che hanno caratterizzato le ultime ore della sua vita terrena).

La Resurrezione è invece un elemento, come tutto ciò che riguarda il soprannaturale, che non è possibile indagare tramite i limitati occhi della scienza e dell’indagine storica anche se, come già spiegato, è comunque possibile affrontare la sua veridicità anche da un punto di vista storico.

Se i criteri storici avvalorano in particolare la sepoltura del corpo di Gesù, il ritrovamento della tomba vuota -seppur sorvegliata dai soldati-, e il cambiamento radicale dell’atteggiamento dei discepoli, la spiegazione naturalista potrebbe comunque obiettare a quest’ultimo elemento. I discepoli profondamente impauriti e delusi (il tradimento di Pietro, la dispersione dei seguaci di Gesù dopo il suo arresto e durante la crocifissione ecc.) si sono trasformati improvvisamente in leoni, sfidando le autorità romane per annunciare la morte e la resurrezione di Cristo. I Vangeli giustificano questo comportamento con l’apparizione di Gesù al gruppo di discepoli dopo la morte in croce.

Ci sono sostanzialmente tre possibilità: o dicevano il vero, o mentivano, oppure erano vittime di allucinazioni. La seconda possibilità sembra davvero fuori luogo: chi mai sarebbe disposto ad accettare la tortura, la persecuzione e la morte per difendere una bugia? A quale scopo, oltretutto? Una decina di seguaci di uomo che gli aveva evidentemente illusi, crocifisso come il peggiore degli assassini, deriso e umiliato dalla folla. Perché mai avrebbero dovuto dare la vita per uno del genere? I racconti della Passione di Gesù, oltretutto, risalgono a uno-due anni dopo la morte del Nazareno, quindi le ipotetiche menzogne dei discepoli (pensiamo al ritrovamento della tomba vuota ecc.) sarebbero state immediatamente smentite da parte di tutti coloro -testimoni oculari a loro volta-, che guardavano con fastidio o disprezzo alla “setta” dei cristiani. Per questo gli scettici sono costretti a ipotizzare spiegazioni naturalistiche agli avvenimenti descritti, come appunto l’ipotesi della reazione psicologica.

Proprio a questa ipotesi si sono dedicati alcuni studiosi, come lo psicologo J.W. Bergeron e il filosofo e storico del Nuovo Testamento presso la Liberty University, G.R. Habermas, coadiuvati da tre psicologi e psichiatri, C.J. Dietzen, S.L. Marlow e G.A. Sibcy. Gli studiosi hanno confutato “l’ipotesi psichiatrica” in un interessante studio intitolato “The Resurrection of Jesus: a Clinical Review of Psychiatric Hypotheses for the Biblical Story of Easter”.

Studiando i testi di coloro che sostengono “l’ipotesi psichiatrica”, si rileva che solitamente si parla di: 1) allucinazioni, 2) disturbo di conversione (che non c’entra nulla con la conversione religiosa), 3) visioni relative al lutto. I ricercatori hanno spiegato che tali argomentazioni sono avanzate «principalmente da persone che non hanno competenze in ambito medico. Di conseguenza, l’analisi di possibili cause psicologiche per questi sintomi allucinatori è generalmente viziata e spesso assente. Infatti, da una ricerca completa su Pubmed della letteratura medica dal 1918 al 2012 per quanto questo argomento, non sono presenti articoli scientifici sulle ipotesi che avvalorerebbero i sintomi allucinatori per quanto riguarda le apparizioni».

Gli autori dello studio hanno inizialmente chiarito quel che la letteratura scientifica dice a proposito delle allucinazioni, compresi tre tipi di eziologia: allucinazione psico-fisiologica, allucinazione psico-biochimica e allucinazione psico-dinamica. Sono poi passati ad analizzare le rispettive cause, considerando che «le allucinazioni sono esperienze private, di conseguenza non sono in grado di spiegare gli incontri simultanei di gruppo dei discepoli con il risorto Gesù. Una tale spiegazione è assolutamente al di fuori del pensiero clinico». Gary A. Sibcy, del Piedmont Psychiatric Center, in particolare ha spiegato: «Ho esaminato la letteratura professionale (articoli di riviste e libri peerreviewed) scritte da psicologi, psichiatri e altri professionisti del settore sanitario nel corso degli ultimi due decenni e non ho trovato un singolo caso documentato di un’allucinazione di gruppo».

Se non è dimostrata scientificamente l’esistenza di allucinazioni collettive in un gruppo che condivide un fortissimo senso di attesa, bisogna aggiungere che dopo la crocifissione di Gesù, «i discepoli non avevano aspettative circa la sua risurrezione secondo i racconti biblici, erano scettici, disperati e tristi (Lc 24, 10-11, 17, 21), come la maggioranza degli studiosi critici ammette. Questo è esattamente ciò che ci si aspetterebbe in termini psicologici in persone che soffrono dopo una morte raccapricciante. E’ comunque importante notare che identiche e simultanee allucinazioni collettive non esistono all’interno della letteratura medica peerreviewed, e di esse non si parla nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Come tale, il concetto di allucinazione collettiva non fa parte della attuale comprensione psichiatrica».

L'”ipotesi psichiatrica” viene anche sostenuta per spiegare la conversione di San Paolo, preceduta da un’apparizione del Gesù risorto. Da persecutore dei cristiani Paolo divenne improvvisamente uno dei discepoli più ascoltati. «E’ contro-intuitivo», spiegano i ricercatori, «pensare che la visione di Gesù subita da Paolo sia nata dal desiderio subconscio di assumere un posto nella leadership dei cristiani. Non vi è alcuna traccia del fatto che Paolo abbia cercato questa posizione tra gli altri apostoli nella chiesa di Gerusalemme, lui stesso si descrive come il “più piccolo degli apostoli” (1Cor 15,9). Inoltre, era consapevole che sarebbe andato incontro a ostracismo, sconfitta personale, persecuzione e minacce di morte, essendo stato in precedenza lui stesso un persecutore dei cristiani (Fil 3,6; Gal 1,13)». Senza considerare che alla “caduta da cavallo” seguì un periodo di cecità da parte di Paolo, che molti critici spiegano con il cosiddetto “disturbo di conversione”. Eppure, «va osservato che le allucinazioni non fanno parte dei criteri diagnostici o delle caratteristiche cliniche del disturbo di conversione. L’aver sperimentato un disturbo di conversione in contemporanea ad un’allucinazione è qualcosa di doppiamente atipico ed incoerente con l’attuale comprensione psichiatrica del disturbo di conversione».

Infine, occorre dedicarsi all’ipotesi più frequentemente citata, ovvero quella dell’eziologia del dolore e del lutto. Le persone emotivamente legate al defunto, si dice, più tipicamente al coniuge, a volte possono sperimentare apparizioni visive del defunto ed in questo modo risolvono il loro lutto. Gli psicologi autori dello studio non escludono affatto che i discepoli di Gesù, «avendo appena assistito alla brutale tortura e morte del loro amato mentore, abbiano comprensibilmente sperimentato sentimenti di rabbia, di protesta, di negazione, così come disturbi fisici come contrazioni addominali ecc. Non si può escludere che tra le esperienze del lutto ci possano essere state visioni di Gesù, ma sicuramente è da escludere che tutti abbiano avuto tali visioni, coerenti tra loro. Certamente le “visioni da lutto” non sarebbero state considerate incontri reali con un Gesù fisicamente vivo, toccabile. Le esperienze tattili sarebbero state considerate sgradevoli e, sopratutto, è anche improbabile che i discepoli avrebbero rivelato le loro “esperienze da lutto” ad altri, per non parlare del lancio di una diffusa campagna di proclamazione pubblica della resurrezione di Gesù sulla base di tali illusioni da lutto».

Oltretutto, continuano gli autori, «non va trascurato il fatto che le visioni da lutto sono più comuni durante la vedovanza dopo un prolungato matrimonio, che non è direttamente analogo al rapporto tra Gesù e i suoi discepoli. Le presunte visioni di lutto che sarebbero state vissute dai discepoli di Gesù rimangono quindi ancor meno diffuse nella letteratura scientifica rispetto a quanto possediamo circa le esperienze di vedovanza». Al contrario delle altre ipotesi, comunque, quella dell”esperienza del lutto” sembra avere qualche elemento in più, tuttavia, «ci sono così tante differenze tra le “esperienze del lutto” e le apparizioni di Gesù che sostenere una loro analogia è semplicemente ingiustificato». Senza considerare, poi, che le esperienze dei discepoli non rimasero pure esperienze psicologiche ma trasformarono profondamente la loro vita e la loro fede, attivandoli e incoraggiandoli per tutto il resto della loro esistenza, caratterizzata da persecuzioni in nome di quanto dicevano.

La conclusione degli autori è che «i discepoli erano certi che Gesù era risorto dopo la sua morte per crocifissione. Le loro esperienze dopo la crocifissione di Gesù erano personali e hanno avuto un chiaro effetto sulla loro psiche, tuttavia queste esperienze del Gesù risorto non possono essere ridotte a puri fenomeni psicologici. Le ipotesi allucinatorie per il racconto biblico della resurrezione di Gesù sono incoerenti rispetto alle variegate patologie neuro-psichiatriche alla base dei sintomi allucinatori. Inoltre, è incompatibile con l’attuale comprensione psichiatrica che allucinazioni personali possano essere sperimentate in modo identico all’interno di un gruppo». Per quanto riguarda l’esperienza dell’apparizione a San Paolo, «il disturbo di conversione è decisamente improbabile e chiaramente in contrasto con le attuali conoscenze mediche. Allo stesso modo, le esperienze di dolore e lutto sono una spiegazione non soddisfacente per le diverse qualità di incontri dei discepoli con Gesù risorto». Per questo, scrivono i ricercatori, «le ipotesi psichiatriche non offrono spiegazioni accettabili per i singoli o simultanei incontri di gruppo dei discepoli con il Gesù risorto. Dobbiamo concludere, quindi, che tentare di spiegare le relazioni dei discepoli con il Gesù risorto è un’azione clinicamente non plausibile e storicamente poco convincente».

La redazione

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La bella, trasparente e pubblica amicizia tra Giovanni Paolo II e Anna Tymieniecka

giovanni paolo ii donnaIn una sorta di eterno ritorno del futile e dell’inutile, capita sovente che alcuni media diano risalto a notizie che non sono né di attualità né significative. Un perfetto esempio si può trovare nella non-notizia di questi giorni relativa al carteggio e all’amicizia tra san Giovanni Paolo II e la filosofa polacca-statunitense Anna Tymieniecka, morta nel 2014. Un’amicizia durata decenni e segnata da scambi epistolari e incontri di persona.

Si tratta di un legame che è stato trasparente, mai nascosto e sempre avvenuto alla luce del sole. Ma la BBC lo ha recentemente riproposto con l’ammiccante titolo “Le lettere segrete di Giovanni Paolo II”. Lettere segrete che, si badi bene, sono conservate nella pubblica Biblioteca nazionale polacca e che sono state anche esaminate durante i processi per la beatificazione e santificazione del papa. Non per cercare indizi di chissà quale relazione impropria o illecita, ma per verificarne l’aderenza con la dottrina cattolica, come accade per tutti gli scritti dei candidati alla canonizzazione.

È al contempo triste e divertente notare come molti media abbiano parlato di “scoop”, “rivelazione”, “carteggio svelato”, “lettere segrete”, spesso evidenziando maliziosamente che la Tymieniecka era sposata. Sembra quasi di rivivere il colloquio manzoniano tra Attilio e il conte Zio, che con parole ambigue e mezze frasi getta fango sull’integerrimo fra Cristoforo.giovanni paolo ii donna 2

Tra i vari commenti, Greg Burke della sala stampa vaticana ha commentato: «Non c’è da meravigliarsi che Giovanni Paolo II ha tenuto strette amicizie con diverse persone, uomini e donne. Non c’è da sorprendersi per questa notizia». Similmente, la Biblioteca polacca: «Giovani Paolo II era circondato da amici ecclesiastici e laici coi quali era in stretto contatto. Questo circolo includeva anche Anna Teresa Tymieniecka, ma la relazione con lei non era né confidenziale né eccezionale». La stessa BBC ha poi precisato l’ovvio in un successivo articolo: «Non ci sono indizi che il papa abbia infranto il suo voto di celibato».

E dunque? Dov’è il fatto, dov’è la notizia? Il senso comune, come anche l’agiografia cristiana, evidenziano come possono tranquillamente esistere normali e pulite amicizie tra persone di sesso diverso, come ovviamente anche tra persone dello stesso sesso. Papa Francesco, intervistato a riguardo, ha semplicemente risposto: «Un uomo che non sa avere un buon rapporto di amicizia con una donna – non parlo dei misogini: questi sono malati – è un uomo a cui manca qualcosa. […] Un’amicizia con una donna non è peccato, un’amicizia. Un rapporto amoroso con una donna che non sia tua moglie, è peccato. Il Papa è un uomo, il Papa ha bisogno anche del pensiero delle donne. E anche il Papa ha un cuore che può avere un’amicizia sana, santa con una donna. Ci sono santi amici: Francesco e Chiara, Teresa e Giovanni della Croce». E si possono aggiungere anche don Bosco e Maria Domenica Mazzarello, Francesco di Sales e Giovanna Francesca di Chantal.

Dunque ancora, dov’è il fatto, dov’è la notizia?

Roberto Reggi

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400 soubrette firmano per le unioni civili, manca solo il Gabibbo

vipAlessia Marcuzzi, Jovanotti, Geppi Cucciari, Justine Mattera, Dolcenera, Claudio Amendola, Alba Parietti, Luxuria, Emma Marrone, Laura Pausini, Riccardo Scamarcio, Mara Venier, Max Pezzali, Simona Ventura ecc. No, non è carnevale, neppure sono i prossimi concorrenti del Grande Fratello, ma alcune delle 400 soubrette (oggi si sono aggiunti anche Fedez e Orietta Berti) che hanno firmato la petizione a favore del dll Cirinnà. Mancano solo Topo Gigio e il Gabibbo.

Dopo il mondo mediatico, anche quello dello spettacolo (i soliti noti, è stato osservato) è sceso pesantemente in campo per cercare di convincere il “popolo bue”, prima bombardandolo con notizie a senso unico e poi, visto i pochi risultati, chiamando a raccolta le siliconate showgirl della televisione assieme alle milionarie meteore dell’attuale mercato musicale italiano. Giusto poco prima che scompaiano dopo aver lanciato il tormentone dell’estate.

Il dibattito è come sempre falsato. I media hanno diffuso allo sfinimento l’opinione delle 400 veline tacendo l’appello dei 500 giuristi che hanno invece firmato contro le unioni civili. Tra loro non c’è Alba Parietti e nemmeno Daria Bignardi, ma presidenti o vicepresidenti emeriti della Corte Costituzionale, come Riccardo Chieppa, Paolo Maria Napolitano, Paolo Maddalena e Fernando Santosuosso; docenti universitari che hanno fatto la storia dell’Accademia in Italia, come Ferrando Mantovani, Pierangelo Catalano, Ivo Caraccioli, Carlo Emanuele Gallo; celebri costituzionalisti come Luca Antonini, Mario Esposito e Felice Ancora; magistrati della Corte di Cassazione, come Mario Cicala, Giacomo Rocchi e Giuseppe Marra; membri del Consiglio Superiore della Magistratura come Antonello Racanelli, Fabio Massimo Gallo e Francesco Mario Agnoli ecc. Tutti firmatari dell’appello promosso dal Centro Studi Livatino contro il disegno di legge sulle unioni civili, il cui primo firmatario non è certo Geppi Cucciari, ma il prof. Mauro Ronco, ordinario di Diritto Penale presso l’Università degli Studi di Padova.

Oltre a loro sono intervenuti tanti altri noti intellettuali, come Rémi Brague, professore emerito di filosofia alla Sorbona di Parigi. Ma, sopratutto, diversi esponenti del mondo scientifico, citiamo su Il Fatto Quotidiano l’articolo dello psicoanalista Luciano Casolari, che ha descritto la gravità della maternità surrogata spiegando che per «le attuali conoscenze in campo psicoanalitico e psichiatrico si tratta di una attività ad altissimo rischio per l’insorgenza di gravi patologie psichiatriche sia per la madre surrogata che per il bambino». Oppure l’intervento del neuropsichiatra infantile Giovanni Battista Camerini, docente di presso le Università di Padova e La Sapienza di Roma, il quale ha confutato le ricerche su cui si basa l’American Psychological Association. «La comunità scientifica», ha spiegato, «non ha portato alcun dato certo a favore della beneficità di questa pratica; nessun dato certo nemmeno a favore della sua dannosità. Dico solo che non si può assolutamente affermare che la comunità scientifica sia concorde sul fatto che i figli, nati da adozioni omo-genitoriali, abbiano uno sviluppo assolutamente adeguato, e che gli indicatori di benessere siano assolutamente sovrapponibili ad altri tipi di adozione. C’è da chiedersi – e questo è il grande punto interrogativo – quali possono essere le conseguenze di una desessualizzazione della funzione paterna: una funzione paterna che viene esercitata indipendentemente dall’appartenenza ad un genere definito e riconoscibile; e quali sono gli effetti che questa desessualizzazione della funzione paterna può avere sui processi di identificazione e sul sentimento di identità».

Ricordiamo anche l’intervento di Giovanni Corsello, presidente della Società italiana di Pediatria: «vivere in una famiglia senza la figura materna o paterna potrebbe danneggiare il bambino. Materie delicate come la stepchild adoption sollevano forti interrogativi. Alcuni bimbi che hanno due mamme o due papà mostrano maggiori difficoltà di inserimento sociale e scolastico, e manifestano nelle attività ludiche segnali di fragilità e turbamento». Una dichiarazione apparsa anche sul sito web della società medica di cui è presidente, poi cancellato in seguito alle polemiche mediatiche (perché, come sempre, ci si può esprimere a favore e mai contro!). Il metodo Barilla, è stato definito. In ogni caso il dott. Corsello ha ribadito il suo pensiero sugli organi di stampa. Le stesse parole sono poi state ribadite anche dal vicepresidente della Società Italiana di Pediatria, il prof. Alberto Villani: «il professor Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria, ha detto quello che credo sia importante dire, ossia che va salvaguardata la figura del bambino; come pediatri non possiamo da un lato dire, ad esempio, che l’allattamento materno svolge un ruolo fondamentale e poi negare il ruolo della madre. Quindi la madre non può essere importante solo quando allatta o solo quando c’è la gestazione. Da anni ormai, grazie all’epigenetica si è ben compreso che un individuo è quello che è sua madre prima ancora di concepire l’individuo. Quindi è chiaro che nella formazione, nella crescita di un bambino, il ruolo materno e il ruolo paterno sono fondamentali. Noi dobbiamo prevedere per il bambino quella che è la sua situazione ottimale. Quindi senz’altro esiste un ruolo paterno, un ruolo materno, esiste anche addirittura una genetica diversa e innegabilmente questo ha un valore».

A sostenere queste posizioni è intervenuta anche la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, del Comitato Onu sui diritti per l’infanzia: «Anche i due genitori gay più bravi al mondo, devono mettere in conto per loro figlio duri ostacoli. Specie nel caso di due papà la figura femminile viene del tutto a mancare». Allo stesso modo, la dott.ssa Anna Oliverio Ferraris, psicoterapeuta e docente di Psicologia delle sviluppo all’Università La Sapienza di Roma, recentemente ha affermato: «nelle famiglie omogenitoriali esiste un problema di identificazione del bimbo nel genitore. Alcuni studi condotti negli Usa segnalano una certa insofferenza. I bimbi adottati da genitori gay lamentano talvolta la quasi esclusiva presenza di amici omosessuali dei genitori in casa, e vivono con un po’ di disagio la partecipazione che i genitori impongono loro a manifestazioni ed eventi gender».

Molto interessante anche il giudizio della dott.ssa Serenella Trezza, neuropsichiatra infantile presso l’Ospedale Niguarda Ca’Granda, nonché psicopatologa dell’età evolutiva: «mi sono documentata sulla enorme mole che in letteratura esiste circa la necessità per un bambino della presenza e della relazione con le proprie figure genitoriali biologiche, la propria mamma e il proprio papà, e quanto sia più felice un bambino che ha entrambi i suoi genitori, assieme. La nostra formazione ci ha portato a conoscere il mondo interiore, psichico dell’infanzia e non possiamo allinearci al pensiero di chi non lo comprende. Abbiamo il dovere di dare voce al mondo dell’infanzia, che non può difendersi da sola! Tocca a noi, neuropsichiatri infantili e psicologi dell’età evolutiva, oltre a tutte le nostre figure professionali che lavorano nella NPI con competenza e dedizione. Non è il momento di tacere e di allinearsi con una minoranza di persone che pensa di stravolgere tutta la psichiatria infantile con un colpo di spugna, con la minaccia di denunciare come “omofobo” tutti quelli che difendono l’infanzia. Non si può cedere alle minacce, non si può lasciare decidere agli altri, non si può nascondere sotto le sembianze di “uguaglianza e accoglienza” una violazione gravissima verso i minori».

Certo, lo sappiamo, tra giuristi e scienziati e il Gabibbo e Fedez, i telespettatori imbambolati sceglieranno sempre gli ultimi due. Ma, siamo convinti che il popolo italiano non è il popolo bue come invece pensano soubrette e opinion maker, e faremo di tutto per rimanere il faro d’Europa nella difesa della famiglia.

La redazione

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