«Sono una teologa femminista svedese e mi sento realizzata nella Chiesa cattolica»

madeleine fredellCome si può essere cattolica, femminista, svedese, e per giunta religiosa domenicana? A questa domanda ha cercato di rispondere Madeleine Fredell, domenicana e femminista svedese.

Non è la solita propaganda tardo-femminista diffusa dai media l’8 marzo, festa delle donne, sull’emancipazione da tutto e da tutti, religione compresa, invito alla ribellione, all’indipendenza delle donne cattoliche verso il Magistero della Chiesa, inno all’aborto libero, al contraccettivo selvaggio e al diritto del sacerdozio femminile. Niente di tutto ciò, Madeleine ha raccontato con delicatezza la sua storia, la sua conversione, la sua volontà dell’essere e del rimanere cattolica, la conciliazione interna tra le ribelli e adolescenziali -secondo noi- spinte femministe e il rispetto e l’obbedienza verso la Chiesa. «Spesso devo difendere la mia fede, devo giustificare il mio essere cattolica», ha scritto. «Alcuni mi dicono di passare alla Chiesa luterana, dove posso diventare sacerdote». Eppure, la sua risposta è quella di sentirsi «perfettamente a mio agio come cattolica».

Non per forza l’essere cattoliche e femministe è una contraddizione, spiega la religiosa svedese. Venne educata nella Chiesa protestante luterana, un rituale sociale, come lo definisce, seppur si trovava spesso a frequentare di nascosto la celebrazione cattolica, dove «sapevo di trovarmi in un affascinante mondo parallelo e di farne parte. Pur essendo completamente estranea, mi sentivo profondamente inclusa. Mi presi una vera cotta per la Chiesa cattolica, ma a livello della logica continuavo a contestare tutto ciò che era cristiano». Il sacerdote luterano che la seguiva «mi suggerì di iniziare a studiare teologia e diventare io stessa sacerdote. Pensai che fosse matto: non intendevo aver nulla a che fare con quella Chiesa maschile sciovinista e clericale e continuai a partecipare alle messe di mezzanotte cattoliche a Natale».

Nel frattempo cresceva il coinvolgimento con il mondo femminista, «sentivo tuttavia un vuoto che non poteva essere colmato dal mio impegno politico. Mi recai alla locale chiesa parrocchiale luterana, ma non mi sentivo parte di essa». Arrivò così il passaggio al cattolicesimo e anche la chiamata vocazionale: «Sentivo la chiamata alla vita religiosa unita all’impegno politico, ma anche a essere sacerdote, specialmente per predicare il Vangelo. Tuttavia, la mia vita prese un’altra piega quando, durante una vacanza estiva, conobbi una comunità di religiose domenicane in un sobborgo vicino a Grenoble. Questa volta non si trattò di una cotta, bensì di una chiara convinzione. Volevo vivere come loro, in un comune appartamento tra gente comune, svolgendo un lavoro comune e predicando il Vangelo attraverso quel tipo di vita».

Oggi, racconta, «sono domenicana da ormai trentacinque anni e non ho mai avuto ripensamenti sulla mia vocazione. Pur non potendo diventare sacerdote, in tutti questi anni non sono mai stata tentata di andare altrove. Mi sento perfettamente inclusa in questa comunità, chiamata a essere un ospedale da campo. C’è una sola cosa che mi dispiace, però, ed è non poter pronunciare l’omelia durante la messa. Predicare è la mia vocazione come domenicana, e sebbene possa farlo quasi ovunque, talvolta perfino nella chiesa luterana, sono convinta che ascoltare la voce delle donne al momento dell’omelia arricchirebbe il nostro culto cattolico. La Chiesa cattolica è stata il mio primo amore, e con la grazia di Dio continuo a provare tale amore ogni giorno. E lo faccio come femminista, come esploratrice di una teologia creativa e viva e come domenicana politicamente impegnata».

Omelia a parte, ci sono tanti altri modi e possibilità di predicare e certamente la voce femminile è una ricchezza per la Chiesa ed è giusto che tale voce abbia voce in capitolo a livello decisionale. Complessivamente una bella testimonianza da parte di una radicale femminista di quanto si possa sentirsi inclusi nella Chiesa anche senza essere sacerdotesse. Infatti le donne non chiedono questo, «io mi sento realizzata nella Chiesa cattolica», ha detto Patrizia, intervenuta al recente Sinodo sulla famiglia. «A volte si cerca un ruolo nella gerarchia senza pensare che il magistero della Chiesa ci riconosce già un ruolo privilegiato nella società». Il card. Gianfranco Ravasi ha risposto al clamore mediatico che si sviluppa sempre su questo tema: «Il paradosso che emerge dalle statistiche e dalle prese di posizione che arrivano da ogni parte del mondo è che l’aspirazione profonda delle donne non è affatto quella di diventare sacerdote», semmai avere una configurazione parallela a quella della gerarchia.

Il sacerdozio non è affatto un diritto, la Chiesa non ragiona così. Non è nemmeno un ruolo di potere o di comando. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere. Non bisogna dimenticare che quando parliamo di potestà sacerdotale ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità. Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal Battesimo, che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto. Nella Chiesa le funzioni non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri».

Su questo argomento la parola della Chiesa è definitiva e va accettata. Come ricordava il card. Carlo Maria Martini, è «innegabile che Gesù Cristo ha scelto i dodici apostoli», per questo bisogna «accettare che Dio si è comunicato in un certo modo e in una certa storia e che questa storia nella sua singolarità ancora oggi ci determina. Una prassi della Chiesa che è profondamente radicata nella sua tradizione e che non ha mai avuto reali eccezioni in due millenni di storia non è legata solo a ragioni astratte o a priori, ma a qualcosa che riguarda il suo stesso mistero. Il fatto stesso cioè che tante delle ragioni portate lungo i secoli per dare il sacerdozio solo a uomini non siano oggi più riproponibili mentre la prassi stessa persevera con grande forza (basta pensare alle crisi che persino fuori della Chiesa cattolica, cioè nella comunione anglicana, sta provocando la prassi contraria) ci avverte che siamo qui di fronte non a ragionamenti semplicemente umani, ma al desiderio della Chiesa di non essere infedele a quei fatti salvifici che l’hanno generata e che non derivano da pensieri umani ma dall’agire stesso di Dio».

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I Vangeli sono “imbarazzanti”, per questo sono attendibili

VangeloI Vangeli sono imbarazzanti! Dietro a quella che potrebbe suonare come un’offesa per i cristiani, si nasconde in realtà un forte argomento a sostegno della loro storicità.

Infatti, tra i diversi criteri che gli storici utilizzano per valutare l’autenticità di un testo c’è proprio il criterio dell’imbarazzo. Questo significa, rispetto ai Vangeli, che difficilmente la chiesa primitiva avrebbe creato del materiale che avrebbe messo in imbarazzo se stessa, un brano controproducente per gli autori dei Vangeli. Attenzione, non bisogna, però, velocemente concludere che allora tutto ciò che c’è di “imbarazzante” è automaticamente “vero” ed, invece, ciò che ci si sarebbe aspettato dagli evangelisti è automaticamente “falso”: si tratta semplicemente di uno dei diversi metodi, da utilizzare in sinergia con altri. Un brano evangelico, infatti, può pretendere di essere autentico in proporzione al numero e al grado di criteri storici che riesce a soddisfare.

In tantissimi scritti del passato si rileva, grazie al confronto tra le fonti, l’omissione, la modifica o la menzogna su determinati elementi che avrebbero portato vergogna o perdita di credibilità verso lo scrittore o verso la sua comunità. Ad esempio il Lachish relief è il racconto che il popolo assiro ci ha lasciato in cui si narra la loro vittoria sul regno di Giuda durante l’assedio di Lachis nel 701 a.C. Sono elencate tutte le 46 città fortificate del regno di Giuda che sono riusciti a conquistare e l’altissimo numero di prigionieri (200mila), una chiara esagerazione per gli storici. I quali, fanno notare, che nel pomposo racconto manca però l’assedio a Gerusalemme, questo perché fu un fallimento tanto che, dopo aver accerchiato la città, tornarono a Ninive senza toccarla. Il racconto imbarazzante venne semplicemente omesso.

Tornando ai Vangeli, i primi cristiani desideravano certamente evangelizzare, convertire al cristianesimo. Lo fecero raccontando i fatti che avevano vissuto, che a loro erano stati raccontati dai testimoni oculari integrandoli tramite fonti precedenti, contemporanee (o quasi) alla vita di Gesù. I testi evangelici, tuttavia, contengono molto materiale che sarebbe stato autolesionistico includere per la chiesa primitiva e la spiegazione più probabile del perché non omisero quei brani è che, essendo fatti storici noti anche dai loro contemporanei, non bisognava e non si poteva censurarli. Vediamone alcuni:

 

1) Il battesimo di Gesù.
Giovanni Battista fu chiamato così perché usava battezzare i suoi discepoli per liberarli dai peccati. E’ scritto chiaramente nel Vangelo di Marco e di Matteo: «si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati» (Mc 1,4-5). «Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano; e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano» (Mt 3,5-6). Eppure, gli stessi Vangeli, raccontano che anche Gesù si presentò da Giovanni Battista chiedendo di essere battezzato. E’ certamente un episodio imbarazzante per i primi cristiani: «Marco racconta l’avvenimento senza una spiegazione teologica del fatto che colui che è superiore, senza peccato, si sottometta a un battesimo destinato ai peccatori», rileva il celebre biblista J.P. Meier. «E’ altamente improbabile che la chiesa si sia data pena di creare la causa del proprio imbarazzo» (Un ebreo marginale, vol.1, Queriniana 2008, p.161).

 

2) Gesù non conosce il giorno della fine.
Un altro brano imbarazzante è l’affermazione di Gesù di non conoscere il giorno esatto o l’ora della fine, nonostante sappia predire gli eventi della fine del tempo, compreso il suo ritorno. Tuttavia, alla fine del suo discorso escatologico, afferma: «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32). Ancora J.P. Meier: «E’ assai improbabile che la chiesa si sia preoccupata di inventare un detto che evidenziava l’ignoranza del suo Signore risorto» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol.1, Queriniana 2008, p.162). E ancora: «Il criterio dell’imbarazzo rende probabile che Mc 13,32 sia autentico […]. Per negare la sua autenticità si dovrebbe supporre che un qualche profeta cristiano primitivo abbia fatto ogni sforzo per attribuire l’ignoranza della venuta del Figlio dell’uomo allo stesso Figlio dell’uomo glorioso» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol.2, Queriniana 2003, p. 461,462).

 

3) La sua famiglia non credeva in lui.
Nel Vangelo di Giovanni, da molti ingiustamente ritenuto lontano dai fatti reali, compare questa frase: «Gesù se ne andava per la Galilea […], i suoi fratelli gli dissero: “Parti di qui e va nella Giudea perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai. Nessuno infatti agisce di nascosto, se vuole venire riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifèstati al mondo!”. Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui» (Gv 7,1-7). Ora, al di là di chi siano questi “fratelli”, se suoi cugini, fratelli naturali oppure fratelli di primo letto di Giuseppe (la questione non è risolta), sono chiaramente persone molto vicine a Gesù, imparentate con lui, ed è notevole leggere che non venne creduto proprio da chi lo conosceva approfonditamente. Addirittura, in Marco 3,21, si legge: «Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: “È fuori di sé”». Ritenevano che avesse perso la testa, proprio i suoi parenti. E lo sappiamo perché sono i Vangeli che riportano questo, i cui autori non censurarono neppure le cose più imbarazzanti, scomode, controproducenti.

 

4) Il dubbio di Giovanni Battista.
Molti di coloro a cui i Vangeli si rivolgevano erano stati seguaci del Battista, come lo fu per un periodo lo stesso Gesù. E’ significativo quindi che i testi riportino un Giovanni Battista perplesso di fronte al Nazareno, che non lo riconosca immediatamente come la persona che annunciava nelle sue predicazioni, quando profetizzava «colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno neanche di portare i suoi sandali» (Mt 3,11). Tanto che, una volta che Giovanni Battista venne incarcerato e seppe delle opere compiute da Gesù, inviò alcuni suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro(Mt 11,3). I Vangeli riportano tutto questo, nonostante apparisse controproducente, dato che i primi cristiani ebbero delle dispute proprio con i discepoli del Battista. Un altro dubbio importante compare in Matteo 28,17, quando a dubitare del Gesù risorto sono gli stessi discepoli.

 

5) Le donne sono le prime testimoni della resurrezione.
Le prime ad osservare il sepolcro vuoto e a cui appare Gesù, annunciando la sua resurrezione, sono alcune donne. «Che ci piaccia o no», ha scritto Craig A. Evans, docente di Nuovo Testamento presso l’Acadia Divinity College di Wolfville, «le donne nel mondo antico non erano affatto considerate testimoni credibili. Dovette a quel tempo rivelarsi estremamente imbarazzante pensare che i principali testimoni di quello straordinario evento fossero state donne e, più ancora che tra esse vi fosse qualcuna di dubbia reputazione come Maria Maddalena» (C.A. Evans, Gli ultimi giorni di Gesù, San Paolo 2010, p.105,106). Il prof. Craig Keener, importante docente di New Testament presso l’Asbury Theological Seminary, ha confermato: «la testimonianza delle donne al sepolcro è molto probabilmente storica, proprio perché risultava decisamente offensiva per la cultura di allora, non certo il tipo di testimonianza che si sarebbe inventata. Non tutte le testimonianze erano considerate di pari merito, l’attendibilità dei testimoni era essenziale e la maggior parte dei contemporanei ebrei di Gesù aveva poca stima della testimonianza delle donne, certamente ritenuta inferiore a quella degli uomini» (C. Keener, The Historical Jesus of the Gospels, Wm. B. Eerdmans Publishing Co. 2012, p. 331). Un eventuale falsario si sarebbe ben guardato dall’inventare un fatto simile, non a caso il fatto fu subito usato dal polemista anticristiano Celso come motivo di scherno: «I galilei credono a una risurrezione testimoniata soltanto da qualche femmina isterica».

 

6) La morte e la resurrezione di Cristo.
Se dobbiamo dirla fino in fondo, tutto quello che riguarda la sua morte e resurrezione è di gran lunga imbarazzante per gli autori dei Vangeli, anche se questo più che il criterio dell’imbarazzo soddisfa il criterio della dissomiglianza (utilizzato per valutare i brani che non possono derivare né dal giudaismo del tempo di Gesù, né dalla chiesa primitiva dopo di lui). Paolo scrive infatti: «noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23). La parola usata è skandalon, ovvero “pietra d’inciampo”, ciò che provoca offesa e suscita quindi opposizione. Perché mai, infatti, dei devoti ebrei avrebbero dovuto inventarsi che il loro Messia fosse morto torturato e infine appeso ad un albero, quando proprio il Deuteronomio afferma: «il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio» (Dt 21,23).  «Chi può aver inventato di sana pianta l’idea di un messia crocifisso?», si è domandato Bart D. Ehrman, docente di Nuovo Testamento presso l’Università del North Carolina. «Nessun ebreo di cui si abbia notizia. E chi furono i seguaci di Gesù negli anni immediatamente successivi alla sua morte? Ebrei palestinesi. E’ difficile capire quanto fosse offensiva, per la maggioranza degli ebrei del I secolo, l’idea di un messia crocifisso. Da dove spunta l’idea, allora? Dalla realtà storica […]. Indipendentemente dal fatto che siano ritenuti o meno scritture ispirate, i Vangeli possono essere considerati e utilizzati come fonti storiche importanti» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p. 75, 164, 165).

Per quanto riguarda la resurrezione corporale, essa era negata dai greci e dai pagani, soltanto gli ebrei la affermavano nel loro credo -anche se non in modo centrale come i primi cristiani-, rifacendosi al popolare brano biblico di Daniele 12: «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento». Una resurrezione spirituale, dunque, non certo carnale come quella di Gesù, tanto da essere scambiato al sepolcro per un giardiniere o per un compagno di viaggio dai discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-53). Come ha rilevato il già citato prof. C.A. Evans, «nessun testo biblico predisse che la resurrezione avrebbe avuto a che fare con una tale categoria di corpo. Un simile racconto è senza precedenti. Nessuno avrebbe inventato questi racconti in tale modo» (C.A. Evans, Gli ultimi giorni di Gesù, San Paolo 2010, p.107). Per quale motivo, allora, un pugno di pii ebrei avrebbe dovuto, improvvisamente, andare contro il proprio credo, contro la tradizione dell’Antico Testamento e contro alle convinzioni ebraiche della loro stessa società, dei loro familiari, inventando tale racconto dal nulla? Una verità scomoda, imbarazzante, come quella di un Messia torturato e umiliato, e poi risorto in una modalità contraria a quel che credeva la tradizione ebraica. Oltretutto, affermando questo tenacemente, a discapito delle persecuzioni e della morte a cui furono sottoposti. Il già citato studioso agnostico B.D. Ehrman, ha ammesso: «A questo punto voglio semplicemente identificare il punto più fondamentale. I seguaci di Gesù devono averlo considerato il Messia in un certo senso prima della sua morte, perché nulla della sua morte e risurrezione poteva essere ideato successivamente. Per loro il Messia non doveva morire o risorgere» (B.D. Ehrman, How Jesus Became God, HarperCollins Publishers 2014, p.118).

 

Ci sono tanti altri brani che soddisfano il criterio dell’imbarazzo, pensiamo al rinnegamento di Pietro -scelto da Gesù come leader morale degli apostoli- e al tradimento di Giuda, che rivela un clamoroso errore di scelta dei suoi discepoli da parte del Figlio di Dio. Come già scritto, il criterio di imbarazzo, da solo, non fornisce una garanzia assoluta sull’autenticità dei racconti ma certamente contribuisce a validarne l’autenticità. Tanto che perfino il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau, a chi accusava i Vangeli di falsità, usava rispondere: «Amico mio, non è così che si inventa» (Rousseau, Emilio o dell’educazione, Armando Editore 2012, p.177).

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Caso Emanuela Orlandi, le cinque verifiche che chiarirebbero il mistero

Del caso di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983, abbiamo iniziato ad occuparci diversi anni fa, consapevoli che pochi tra i nostri lettori erano e sono interessati alla vicenda. Eppure il dossier sul caso, che recentemente abbiamo pubblicato, si è rivelato un imprevisto successo in termini di visitatori.

In esso abbiamo analizzato tutte le principali ipotesi di spiegazione dei fatti emerse in questi anni, riconoscendo nella ricostruzione effettuata dal cosiddetto supertestimone Marco Fassoni Accetti la pista certamente più promettente. L’uomo si è presentato in Procura nel 2013 autoaccusandosi di essere stato uno dei responsabili e dei principali telefonisti (il cosiddetto Amerikano) della sparizione di Emanuela e di Mirella Gregori, un’altra ragazza scomparsa un mese prima.

Nonostante la presenza di diversi elementi determinanti nel ritenerlo una persona realmente informata e/o partecipe ai fatti, la Procura ha preferito archiviare il caso nel 2015 e indagare l’uomo per calunnia e autocalunnia. Nella lunga intervista che gli abbiamo fatto, Fassoni Accetti ha accusato i giudici di non aver voluto indagare davvero sulla sua persona, perché «c’era la volontà di chiudere le vicenda in un certo modo […]. C’è stata una serie di negligenze che io penso, in un certo senso, sempre manovrate dal Sisde», cioè i servizi segreti italiani.

Verso Fassoni Accetti c’è un certo scetticismo anche a livello mediatico, certamente ha contribuito l’incomprensibile campagna denigratoria nei suoi confronti da parte della trasmissione Chi l’ha visto?, dove è stato dipinto come pedofilo per numerose puntate. Un ruolo lo ha avuto anche il giornalista Pino Nicotri, strenuamente affezionato alla sua tesi (Emanuela uccisa a scopo di libidine o vendetta verso la famiglia, morte poi strumentalizzata da estranei: un’ipotesi carente e superficiale, come abbiamo mostrato nel nostro dossier) e non sempre molto tollerante verso chi la pensa diversamente. E’ arrivato, ad esempio, ad accusare un nostro collaboratore di avergli attribuito parole che, in realtà, si trovano e si trovavano palesemente scritte proprio nei suoi articoli e libri (si veda qui la questione della “perdizione” e quella di “Marinis”), oltre a diffondere informazioni imprecise (come l’utilizzo assiduo e prolungato di Accetti dei computer della biblioteca Villa Leopardi, smentito dall’impiegato della biblioteca) e attribuire virgolettati a persone che non hanno mai fatto quelle affermazioni (ci riferiamo ai virgolettati attribuiti da Nicotri al magistrato Severino Santiapichi, il quale ci ha telefonicamente smentito di aver pronunciato le frasi che gli sono state attribuite).

L’archiviazione del caso Orlandi, non firmata dal magistrato Giancarlo Capaldo -titolare delle indagini prima di essere estromesso dal procuratore Giuseppe Pignatone– si limita a ipotizzare che Fassoni Accetti abbia ricostruito i fatti senza esserne stato partecipe ma non indica dove abbia potuto apprendere gli elementi che ha fornito, di cui molti inediti, così come non ci sembra ragionevole liquidare velocemente tutte le coincidenze biografiche che effettivamente legano l’uomo alle vicende di cui ha detto di aver fatto parte (una persona a lui intimamente vicina che si recava a Boston proprio nel periodo in cui da lì partivano lettere dei presunti rapitori della Orlandi, la sua abitazione vicino a Mirella Gregori e Alessia Rosati, la sorprendente compatibilità di voce con quella dell’Amerikano, un’intercettazione del 1997 ecc.).

 

Basterebbe poco per arrivare ad avere idee, non definitive ma almeno più chiare sul ruolo avuto -se lo ha avuto- da Marco Fassoni Accetti. Le azioni da fare sono queste:

1) Fornetto di Kathy Skerl. Nel complesso scenario di cui ha parlato, Fassoni Accetti ha inserito anche il misterioso caso di Kathy Skerl, ragazza trovata morta il 21/01/84 a Grottaferrata. L’uomo ritiene essere stata uccisa da persone della “fazione vaticana” contrapposta alla sua e ha dichiarato che nel 2005 alcuni suoi sodali, avendo appreso la sua intenzione a presentarsi in Procura, avrebbero temuto l’emergere dei nomi dei responsabili dell’omicidio della Skerl, per questo -sempre secondo Fassoni Accetti-, simulando di essere operai del cimitero Verano, avrebbero smurato il fornetto della Skerl prelevando la bara come se si trattasse di una traslazione, lasciando all’interno della tomba a mo’ di codice la maniglia a forma di angelo svitata dalla cassa. Lo scopo sarebbe stato sopratutto «sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori», ovvero la camicia bianca, con l’etichetta “Frattina 1982”, con cui venne vestita la salma della Skerl, sigla che effettivamente comparve nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh”. Un particolare tuttavia non torna: se queste persone erano interessate a togliere di mezzo il collegamento tra la Skerl e la Orlandi, ovvero la camicetta con cui è stata vestita la salma della prima, perché non l’hanno direttamente distrutta ma nascosta in una scenografia a Cinecittà, come ci ha riferito Fassoni Accetti e come ha rivelato anche ai magistrati, indicando il luogo esatto dove andarla a recuperare? C’è qualcosa che non va.

Fassoni Accetti ha aggiunto che, saputo dell’omicidio della Skerl, nel 1984, si sarebbe recato al «liceo della Skerl, dove conobbi Ligeia Studer, una compagna di scuola. Tra noi nacque anche una storia d’amore, durata tre mesi. Volevamo far credere al gruppo contrapposto che Ligeia ci aveva rivelato notizie interessanti e sapevamo cosa fosse accaduto»(Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Inoltre, tornando al fornetto di Kathy, ha affermato: c’è «un altro personaggio losco, molto losco, che tiene una pagina sulla Skerl, che fa di tutto per rendermi non credibile e che si è affrettato a dire “no, no, c’è stato un restauro”. Non è vero assolutamente, quando morì Wojtyla e quando mi dissero che era stata trafugata andai subito ed era così com’è. Va periziato il materiale con cui è stata chiusa e si vedrà che è di dieci anni fa». Abbiamo contattato l’uomo a cui si riferisce ma, rifiutando di accoglierci nel gruppo Facebook che gestisce, ci ha risposto a nome di tutti i membri del gruppo (tra cui diverse compagne di scuola di Kathy): «Per noi non esiste al momento nessuna connessione tra il caso Orlandi e quello della Skerl, anche se non è da escludere. Ma le affermazioni del testimone [Fassoni Accetti, NDA] sono non credibili e la magistratura ha chiarito bene la situazione di questo personaggio. Quindi la prima cosa che facciamo nel gruppo, in mancanza di riscontri e di elementi credibili, è non discutere nemmeno le cose che dice Accetti. Nessuno dei compagni di Kathy conosce o si ricorda di questa Ligeia e il loculo stesso non è mai stato profanato e non è mai stata portata via nessuna bara, tanto meno sarebbe stato possibile. Per noi quello che racconta Accetti non è credibile e quindi non è di nessun interesse parlarne, allontanerebbe solamente dalla strada, come ha fatto con Emanuela. Non siamo interessati, e non solo io, a parlare delle teorie di Accetti. Per quanto riguarda la sepoltura, non ci sembra assolutamente il caso entrare in questo argomento nel rispetto del riposo dovuto a Kathy».

Siamo sinceramente rimasti un po’ sorpresi da questa chiusura preventiva anche soltanto al parlare della vicenda, in fondo anche quello della Skerl è un caso mai risolto e oggi, per la prima volta dopo oltre trent’anni, qualcuno ne parla e racconta fatti inediti, comunque da verificare. Non sappiamo se tale persona sia in contatto con la famiglia Skerl e a che titolo gestisca la pagina della ragazza defunta. Curioso è stato apprendere che tale persona ha un curriculum biografico speculare a quello di Fassoni Accetti, con il quale è anche quasi coetaneo: anche lui appassionato di teatro e fotografia artistica (passione che lo ha portato «lungo i cimiteri di tutta l’Europa»), regista teatrale, sceneggiatore eclettico, si definisce «comunista per scelta ideologica», cresciuto a Reggio Calabria, nel 1983 si trova a Roma per una collaborazione annuale con il teatro Abraxa. «Non lo conosco», ci ha detto Fassoni Accetti e rispetto al fornetto e ai presunti lavori realizzati nel 2005, «non dice la verità».

Giovanni Luigi Guazzotti, l’avvocato di Marco Fassoni Accetti, ha comunque presentato un esposto-denuncia al capo della Procura di Roma sul loculo della Skerl, basterebbe semplicemente verificare se la cassa c’è oppure no, un’operazione semplice tramite gli strumenti tecnologici odierni, non servirebbe nemmeno rompere la lapide. Certo, è difficile credere che dei finti operai del cimitero si siano introdotti al Verano per smurare il fornetto e prelevare la cassa della ragazza con la scusa di una traslazione, producendo quindi finti documenti (certamente occorreva l’approvazione della famiglia Skerl) e superando i relativi controlli con l’alto rischio di essere scoperti, oltretutto senza che la famiglia Skerl venisse informata o avvertita dai responsabili del cimitero. Eppure, perché Fassoni Accetti -che pazzo non sembra essere- se sapesse di dire il falso dovrebbe spingersi a presentare addirittura un esposto in Procura rischiando che, in caso di accertamento, verrebbe immediatamente condannato per calunnia e passerebbe alla storia come il più grande “sciacallo del caso Orlandi”? Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ci ha riferito: «Riguardo alla bara, la richiesta la dovrebbero fare i parenti, ho provato a contattarli ma sembra che non siano interessati alla cosa». Perché non sono interessati? In caso di assenza della cassa saremmo di fronte ad un uomo che sapeva e che conosce chi l’ha sottratta, così come è a conoscenza dei responsabili dell’omicidio della giovane Skerl. La famiglia avrebbe tutto l’interesse, quindi, ad appurare le dichiarazioni dell’uomo. In alternativa, la famiglia potrebbe presentare i documenti dei lavori che la persona che gestisce la pagina Facebook di loro figlia sostiene siano stati fatti per giustificare i segni effettivamente presenti sulla lapide.

 

2) Claudia, l’amica di Alessia Rosati. Una seconda verifica che si potrebbe fare è verso Claudia, amica del cuore di Alessia Rosati, un’altra ragazza sparita nel nulla il 23 luglio 1994. Marco Fassoni Accetti, che abitava a pochi passi dalla Rosati, sostiene di averla indotta lui ad allontanarsi da casa, come per la Orlandi e per Mirella Gregori, per operare ricatti e minacce verso elementi del Sisde, coinvolto un anno prima nello scandalo dei fondi neri. Ma, anche in questo caso, Alessia poi scomparve davvero. Come per la Gregori, c’è un’amica che sembra nascondere dei segreti, sono gli stessi genitori della Rosati ad esserne convinti, sostenendo che tale Claudia abbia mentito per coprire qualcosa. Fassoni Accetti ha riferito che l’amica «fu presente nel momento in cui la Rosati non fece ritorno presso la sua famiglia». L’uomo ha invitato a verificare la testimonianza di Claudia, ha anche telefonato a casa Rosati lasciando un messaggio in segreteria telefonica ma i genitori di Alessia non lo hanno mai richiamato e si sono recati alla trasmissione televisiva di Chi l’ha visto?. Ha anche sostenuto che nell’agenda telefonica della Rosati sarebbe appuntato il suo numero telefonico. Si potrebbe verificare in questa direzione.

 

3) Perizie grafiche.  Marco Fassoni Accetti ha indicato alcune donne che dice essere state sue sodali. In particolare, ha sostenuto che una di esse, P.D.B., avrebbe scritto i comunicati che partirono da Boston nei mesi successivi alla sparizione di Emanuela Orlandi. La stessa donna, in un lungo colloquio avuto con noi, ha invitato a confrontare la calligrafia di tali comunicati con le lettere che lei inviò a Fassoni Accetti nel periodo durante il quale l’uomo si trovava agli arresti (1984-1985) in seguito all’investimento del piccolo José Garramon, avvenuto il 21 dicembre 1983. La calligrafia dei comunicati è ben individuabile e presenta caratteristiche particolari, basterebbe quindi fare una perizia grafica di confronto. Abbiamo chiesto a Fassoni Accetti di queste lettere ma ci ha risposto che gli risulta «difficile rintracciarle».

 

4) Testimonianze. Ci sono persone che Fassoni Accetti ha citato in quanto avrebbero avuto contatti con lui o potrebbero avvalorare o smentire alcuni particolari del complesso scenario che ha rivelato. Una di esse è  la già citata Ligeia Studer, compagna di liceo di Kathy Skerl la quale avrebbe avuto una relazione sentimentale con l’uomo qualche anno dopo l’omicidio di Kathy. La donna oggi vive con la sua famiglia in Africa, più volte abbiamo cercato di contattarla senza mai ricevere risposta. Fassoni Accetti ha aggiunto che la Studer «fu scelta per ulteriori somiglianze quali l’altezza, il colore dei capelli, simili alle “altre Catherine”. Inoltre frequentava una scuola di danza come la Catherina Gillespie». Se è vero sarebbe un’ennesima serie di coincidenze, se è falso perché la Studer non ha querelato Fassoni Accetti? Certamente è a conoscenza di quanto scritto su di lei perché ci siamo premurati di informarla. Un’altra donna che Fassoni Accetti ha citato tra le “complici” è la cecoslovacca Iva Skibovà«La agganciai in piazza San Pietro. Era bionda, aveva 18 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Abbiamo contattato e avvertito anche lei, senza ricevere risposta.

Una terza persona che potrebbe aiutare a chiarire un particolare è Arianna Santiapichi, figlia del giudice Severino, presidente della Corte d’Assise per l’attentato a Papa Wojtyla. Fassoni Accetti ne ha parlato a proposito della presenza di Emanuela Orlandi nell’83 in un camper nei pressi dell’abitazione del giudice Santiapichi, nella pineta tra Ostia e Castel Porziano (dove poi investì il Garramon nel dicembre ’83). «Il camper», ha affermato, «per noi era un elemento strategico, ci consentiva di agire senza destare sospetti. Alla Orlandi, senza spiegare il motivo, facemmo delle foto nelle quali si rendeva riconoscibile il luogo. Più che Santiapichi, ci interessavano i familiari, in particolare la figlia Arianna, con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). A questo proposito abbiamo contattato il fratello di Arianna, l’avvocato Xavier Santiapichi il quale, oltre ad essere fortemente scettico verso le dichiarazioni di Fassoni Accetti (dice però di essere informato soltanto da ciò che riportano i giornali), ci ha riferito: «mia sorella non si è mai interessata di queste cose, fra l’altro aveva un fidanzatino in Sicilia e stava sempre in Sicilia con il suo fidanzatino». Elemento confermato anche dal padre, Severino Santiapichi, in una telefonata avuta con noi il 27/02/16. Bisognerebbe tuttavia chiedere conferma diretta ad Arianna Santiapichi, appurando se si tratti proprio di quel periodo (agosto-dicembre 1983).

 

5) Filmato. Un quinto elemento che sarebbe utile chiarire è se venne ripresa dalle telecamere la persona che nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2012 ha lasciato una busta con all’interno un teschio sul colonnato di San Pietro. E’ lo stesso autore, hanno concluso i magistrati, di colui che ha spedito le due lettere nel marzo 2013 a Raffaella Monzi, ultima persona ad aver visto Emanuela Orlandi, e Antonietta Gregori, sorella di Mirella. Le lettere sono arrivate due giorni prima della comparsa di Marco Fassoni Accetti in Procura, in esse si leggono delle minacce: “non cantino le due belle more” per non finire uccise come Katy Skerl, oltre a diversi altri elementi (come la foto di un teschio fotografato in via Giulia con scritto Eleonora De Bernardi, stesso nome della ex moglie di Fassoni Accetti -colei che è stata accusata da quest’ultimo di aver spedito i comunicati da Boston-, la quale, ci ha riferito l’uomo, ha abitato proprio in via Giulia).

E’ stato lo stesso Fassoni Accetti ad aver fatto ritrovare il teschio e ad aver inviato le lettere, per prepararsi la scena? L’uso dei codici sembra proprio il suo modus operandi. Lui ha negato, sospettando che l’autore potrebbe essere la persona che lo avrebbe minacciato nel 1998, riconducibile agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York. Ha sostenuto che la sua imitazione di Roberto Benigni nel marzo 1999 a Domenica In, a cui seguì un viaggio negli USA in cui finse di essere il noto comico attirando la stampa americana (unico momento di apparizione pubblica di Fassoni Accetti in questi ultimi trent’anni),  fu una sorta risposta alle minacce subite. Si tratterebbe di un ecclesiastico in servizio negli Stati Uniti che «pretendeva la restituzione di materiale fotografico su azioni precedenti, seppellito nel 1982-83 nei pressi di Santa Maria di Galeria, un sito archeologico medievale. Ricordo che c’erano degli anfratti, delle cavernette, dove nascondemmo alcune scatole metalliche con documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato. Ma niente di speciale. Basta, c’è il riserbo istruttorio» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Parla al plurale perché in quell’occasione sarebbe stato accompagnato da Musa Serdar Celebi, una delle persone indicate (poi assolte) dal terrorista turco Alì Agca come suoi complici nell’attentato al Papa. Fassoni Accetti ha invitato a interrogare Celebi per avere riscontri su quanto dichiarato.

Ci risulta davvero inverosimile che Fassoni Accetti possa essere l’autore delle due lettere e del teschio in piazza San Pietro: un mitomane ossessionato dal caso Orlandi fin dal 1983 (come testimoniato dai familiari), aspetterebbe 30 anni nell’anonimato costruendo un’intricata storia per poi apparire nel 2013, cadendo nella colossale ingenuità di anticiparsi proprio due giorni prima da due lettere in cui cita proprio i codici e i collegamenti che farà nel suo racconto in Procura. Uno che passa una vita a studiare ed inventare una storia simile non commette un errore tanto ingenuo proprio nel momento decisivo, cioè quello della sua comparsa. Se non è stato lui, esiste quindi qualcuno che conosce i fatti e teme il suo racconto, intimando ai testimoni di non parlare? Il teschio sul colonnato di San Pietro è una minaccia verso lo stesso Fassoni Accetti, depositato proprio nell’anniversario dell’incidente in cui fu coinvolto, dove perse la vita José Garramon. Fassoni Accetti ha sempre dichiarato di essersi deciso a presentare in Procura soltanto nel marzo 2013, dopo l’elezione pontificia del non curiale Papa Francesco. Il presunto minacciatore, quindi, come faceva a sapere nel dicembre 2012 -quando depositò il teschio sul colonnato di San Pietro- che Accetti si sarebbe presentato nel marzo 2013? Nessuno poteva certo sospettare che Benedetto XVI avrebbe rinunciato al ministero petrino nel febbraio 2013. E’ stata una coincidenza? Accetti voleva già presentarsi, anche prima del cambio di pontefice, e il minacciatore ne è venuto a conoscenza? Oppure, ipotesi inquietante (ma assurda), l’autore del gesto sapeva che Accetti era pronto a presentarsi già nel 2005 se non fosse stato eletto un pontefice curiale, è poi venuto a conoscenza delle intenzioni di Benedetto XVI di “dimettersi” di lì a poco (segreto pontificio rivelato soltanto a tre persone) e ha minacciato Accetti preventivamente, temendo l’elezione di un pontefice non curiale nel conseguente conclave? Oppure è proprio Fassoni Accetti lo sprovvedutissimo autore delle lettere e del teschio? Per chiarirlo sarebbe opportuno che i magistrati riferissero se esiste o meno il filmato in cui questo minacciatore lascia il teschio sul colonnato di San Pietro, luogo altamente monitorato dalle telecamere.

 

Siamo consapevoli che chi non conosce il caso non avrà capito molto di quanto scritto finora, tuttavia riteniamo che queste siano le necessarie verifiche che bisognerebbe fare per chiarire definitivamente le idee sul ruolo avuto da Marco Fassoni Accetti e, di conseguenza, per far luce sul caso di Emanuela Orlandi.

La redazione

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Qual è la funzione del Papa? Perché tutte le religioni sono divise tranne il cattolicesimo?

Francesco dietroPer spiegare chi è il Papa leggiamo le parole del Catechismo: «Il Papa, vescovo di Roma e successore di San Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità della Chiesa. E’ il vicario di Cristo, capo del collegio dei vescovi e pastore di tutta la Chiesa, sulla quale ha, per divina istituzione, potestà piena, suprema, immediata e universale» (Compendio 182).

“Successore di Pietro” dovrebbe essere chiaro, deriva dal primato di Pietro, lo ha voluto direttamente Gesù. “Vescovo di Roma” vien da sé, perché storicamente il cuore della Chiesa è diventato quello , la città che ai tempi era il cuore del mondo. E’ lì che Pietro si è stabilito negli ultimi anni, è lì che ha subito il martirio, è lì che il suo ruolo è stato raccolto dal successore.

Ma la frase che dà una spiegazione più piena del ruolo del pontefice (parola bellissima, tra l’altro: “colui che getta un ponte”) è quella che arriva subito dopo: «Perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità della Chiesa». Perché la Chiesa sia unita occorre un punto di riferimento ultimo, un’autorità ultima a cui guardare. Una, non due. E non un’idea, una dottrina: ma una persona, “visibile”. Il primato del Papa serve a questo: affida al successore di Pietro, in maniera “perpetua” – cioè fino a quando durerà la storia del mondo-, il compito di custodire la Tradizione. Di far sì che l’essenziale della fede non si disperda, non cambi natura. Rischio concretissimo, visto che la stessa fede passa attraverso uomini. E tra noi uomini, si sa, le divisioni sono all’ordine del giorno.

Nella Chiesa, no. Si può discutere sull’interpretazione, sulla morale, sulle dottrine, sul rapporto con il mondo. Ma alla fine c’è un criterio, un punto di confronto -e di conforto- ultimo: l’autorità del Papa. Se non ci fosse, presto o tardi ognuno farebbe solo ciò che gli passa per la testa. Userebbe certe parole a modo suo, dandogli un significato diverso. Leggerebbe Antico e Nuovo testamento a modo suo. Il risultato sarebbe un’inevitabile divisione. Che è quello che succede a tutti, fuori dal cattolicesimo. Tutte le grandi confessioni religiose sono profondamente divise, anche se noi tendiamo a immaginarle come dei “blocchi” unici. I musulmani sono divisi in sunniti e sciiti. Negli ebrei si distinguono ortodossi, ultraortodossi e liberali. Ma anche i cristiani che non riconoscono l’autorità del Papa finiscono per essere divisi: calvinisti, luterani, avventisti…

Per questo il Papa è detto anche “vicario di Cristo”, termine che scandalizza molti. E’ un’esagerazione? No. E’ che custodendo la fede, come abbiamo detto, assicura la presenza continua di Cristo nella storia. Ma poi c’è un altro punto interessante: “capo delle chiese locali, i successori degli apostoli. Pastori come lui, quindi. E uno dei punti più importanti è l’unità tra di loro. C’è un capo, perché «senza testa non c’è corpo» dicevano i padri della Chiesa. Ma la Chiesa è anche una compagnia, una unità. E infatti la sua guida è molto più collegiale di quanto si pensi.

Certo, il Papa può sbagliare. Giovanni Paolo II ci ha persino scherzato su il giorno stesso della sua elezione: «Se sbaglio, mi corrigerete…». Il Papa è un uomo, un peccatore come noi. E può sbagliare anche lui, come noi. Tranne che in un momento molto preciso, in cui Dio lo assiste in maniera particolare: quando decide di intervenire su materia di fede e di costumi ex cathedra, cioè letteralmente “dalla sua cattedra”. Capita di rado, dev’esserci proprio in gioco la necessità di fissare una volta per tutte -o di ribadire- un aspetto particolarmente decisivo della fede. Infatti la Chiesa lo chiama “magistero straordinario”. Ma l’infallibilità (che, nota bene, dipende dall’assistenza dello Spirito Santo, non dalla “bravura” del Papa) c’è solo in quel momento. Oltre che in momenti altrettanto straordinari e solenni come i concili ecumenici, assemblee che raccolgono tutti i vescovi sotto la guida del pontefice. Tutto questo c’entra molto con l’ultima frase che abbiamo letto prima: quell’«ha per divina istituzione, potestà piena…». Per divina istituzione. Se è vero quello che abbiamo detto fin qui della Chiesa, non c’è nessuna difficoltà ad ammettere che Dio la accompagni in maniera particolare sopratutto nei momenti più delicati, più importanti, più decisivi nel preservare la tradizione della fede.

Ci sono Papi che hanno sbagliato, e molto. Ma nessuno ha contraddetto la tradizione. Puoi scorrere tranquillamente i duemila e rotti anni di storia della Chiesa: ci sono errori, evoluzioni e cambiamenti come in tutte le realtà umane, ma non trovi una contraddizione che sia una sulle verità fondamentali della fede. Una volta che sono state proclamate, nessun pontefice le ha mai messe in discussione. In duemila anni, capisci? Basterebbe questo per sospettare che ci sia sotto qualcosa di sovrumano..

Detto questo, però, forse il nome più importante del Papa è un altro. Quello a cui ci si rivolge a lui da sempre: Santo Padre. “Santo” non perché tutti i Papi lo siano automaticamente (molti lo sono diventati, molti altri no). Ma perché la figura stessa del Papa, il suo ruolo, è un richiamo a Dio. Obbliga a pensare a Lui.

 

di Davide Perillo, tratto da La fede spiegata a mio figlio (Piemme 2007, p. 101-105)
 

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L’etica laica messa in difficoltà da un semplice esperimento mentale

whitewaterSecondo Richard Dawkins, il più famoso militante ateo del mondo (anche se poi si è definito agnostico, ed infine cristiano culturale), «l’universo che osserviamo ha precisamente le caratteristiche che dovremmo aspettarci se non vi è, in fondo, nessun disegno, nessuno scopo, nessun male e nessun bene, nient’altro che una cieca e impietosa indifferenza» (R. Dawkins, River out of Eden, p. 131,132).

L’ex zoologo inglese ha ragione: senza Dio non può esistere alcuno scopo all’incidente evolutivo della vita umana, così come non possono esistere i valori oggettivi e assoluti, nessun “giusto” (comportamento retto) o “ingiusto” (comportamento non retto), nessun bene e male assoluti. Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, ha spiegato: «poiché sono un ateo devo abbracciare l’amoralità. Senza Dio, non c’è moralità, niente è letteralmente giusto o sbagliato». Il bioeticista Peter Singer ha esemplificato meglio: «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora questo è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale».

Senza un Bene e un Male preesistenti all’uomo dire, per esempio, che la pedofilia è un male diventa una mera opinione, con lo stesso valore dell’opinione contraria. Chi decide, infatti, chi ha ragione? In base a quale assoluto? Tutto è relativo a cosa pensa la maggioranza per cui, in una società a maggioranza pedofila anche la pedofilia diventa un bene. Certo, un non credente può senz’altro affermare che abusare i bambini è sbagliato e si tratta di un male assoluto, che rimane tale anche se tutto il mondo pensasse il contrario. Ma la sua posizione è irrazionale perché non riesce a giustificare il fondamento assoluto della sua dichiarazione. Come spiegato dal filosofo Emanuele Severino, «in chi è convinto dell’inesistenza della verità, e in buona fede rifiuta la violenza, questo rifiuto è, appunto, una semplice fede, e come tale gli appare. E, non esistendo la verità, quel rifiuto della violenza rimane una fede che, appunto, non può avere più verità della fede (più o meno buona) che invece crede di dover perseguire la violenza e la devastazione dell’uomo» (C.M. Martini, “In cosa crede chi non crede?”, Liberal 1996, p.26).

E’ stato proposto recentemente un esperimento mentale per capire meglio tutto questo. Immagina di essere un atleta sano di 20 anni sulla riva di un grosso fiume in piena. All’improvviso noti qualcosa nell’acqua e ti rendi conto che è una persona che sta annegando, è una donna anziana in preda al panico, senza fiato. Vagamente la riconosci come una povera vedova del villaggio vicino, ti guardi attorno ma non c’è nessuno, sei da solo. Hai pochi secondi per decidere se restare fermo oppure tuffarti e salvarla, consapevole che così facendo metterai la tua vita in serio pericolo. E’ razionale rischiare la vita per salvare questa straniera? E’ moralmente buono farlo?

Il cristiano, ad entrambe le domande, può rispondere un deciso “sì”. Non c’è vita che non abbia un valore assoluto, perché voluta da Dio e non dal caso evolutivo. Siamo chiamati ad emulare l’esempio di Gesù che, non solo ha rischiato ma addirittura sacrificato la sua vita per il bene degli altri. La coscienza non è un’illusione, un epifenomeno del cervello che si può tranquillamente trascurare, e ci spinge a tuffarci nell’acqua. Per l’umanista secolare, invece, nascono grossi problemi e dilemmi. Tutto è soggettivo, biologicamente ed evolutivamente parlando il giovane del nostro scenario non ha nulla da guadagnare nel tuffarsi per salvare la donna, lei è povera ed anziana e non otterrà alcun vantaggio finanziario o riproduttivo. L’umanista secolare potrebbe riconoscere, intuitivamente, che il mettere a disposizione la propria vita per salvare l’anziana è una buona azione, un’azione morale. Ma non ha alcuna base razionale per dirlo e farlo, la decisione è tra l’empatia verso un estraneo (da una parte) e l’utilitaristico interesse personale dall’altro. Se il giovane deciderà di sedersi e guardare annegare la donna, l’umanista secolare non può criticarlo. Ha semplicemente agito in modo razionale. «Niente è letteralmente giusto o sbagliato», ci spiegano i filosofi atei.

Questo è effettivamente un esempio calzante che abbatte l’esistenza di una presunta etica o morale laica. Ovviamente, non significa che l’ateo non può prendere decisioni etiche, tutti abbiamo amici non religiosi che vivono vite estremamente morali e ammirevoli. Il problema è che queste loro decisioni non possono essere giustificate se non su mere ed effimere opinioni e gusti personali, non ci sono imperativi morali vincolanti. Che sia bene sedersi ad osservare un bambino indifeso che viene torturato è un’opinione, valida quanto il suo opposto. Per lo stesso motivo, come abbiamo già scritto, chi non crede in Dio non può nemmeno credere davvero nei diritti umani.

L'”argomento morale” aiuta quindi a comprendere come chi esclude Dio dall’esistenza è poi costretto, per coerenza, ad abbracciare l’amoralità e il relativismo, a parlare solo di opinioni e sentimenti/sensazioni personali. Non di “bene” e non di “male”, non di “coscienza”, non di “giusto” e non di “sbagliato”. L’ateo che si sente a disagio in questa condizione dovrebbe comprendere che allora esiste una legge morale dentro di noi che ci indica cosa è davvero bene (non torturare i bambini) e cosa è davvero male (torturare i bambini), e ci convince che non si tratta di una mera opinione personale ma di un assoluto che rimarrà tale per sempre, indipendentemente da tutto perché è una legge preesistente all’uomo stesso. Una coscienza che non è un’illusione, quindi, ma la firma che il Creatore ha lasciato dentro di noi.

La redazione

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Crescita non equilibrata se al bambino manca la figura paterna

CoppiaUn tribunale inglese si è pronunciato su due bambine avute da un donatore di sperma omosessuale, cresciute con la madre biologica e la compagna. Le bambine hanno vissuto sballottate tra le due donne e il padre biologico unito al suo compagno, fino a quando i rapporti tra i quattro adulti si sono rotti. Ogni coppia voleva le bambine per sé.

La sentenza le ha affidate alle due donne sostenendo però che i due uomini debbano avere una relazione seppur minima con le bambine «perché è necessario per ogni bambino avere durante la crescita rapporti anche con figure maschili e non soltanto femminili. C’è un vuoto esistenziale nelle bambine», si legge nella sentenza, «che è dovuta alla mancanza di una relazione significativa con figure maschili».

Al di là delle macabre vicissitudini nelle quali sono costretti a passare i bambini nati in provetta e affidati a coppie omosessuali, occorre sottolineare l’ammissione degli esperti del tribunale inglese: l’assenza della figura paterna nella crescita di un bambino (e lo stesso vale, ovviamente, per l’assenza materna), compresi i casi di divorzio dei genitori, è causa di grosse difficoltà di crescita. Tema fondamentale sopratutto in questo periodo dove si parla esclusivamente dell’importanza della madre, quasi che l’omogenitorialità femminile fosse migliore o più accettabile di quella di due papà gay.

Due eminenti criminologi americani, Michael Gottfredson e Travis Hirschi, hanno ad esempio scritto che «la percentuale della popolazione divorziata, la percentuale di famiglie dirette da donne e la percentuale di individui senza legami all’interno della comunità sono tra i più potenti predittori dei tassi di criminalità». Ovvero, come ha mostrato il prof. W. Bradford Wilcox, docente di Sociologia presso l’Università della Virginia, questi bambini hanno «quasi il doppio delle probabilità di finire delinquente rispetto ai ragazzi che hanno buoni rapporti con il padre». Anche il sociologo David Popenoe, della Rutgers University, ha osservato che «i padri sono importanti per i loro figli come modelli di ruolo. Essi contribuiscono a mantenere l’autorità e la disciplina. E sono importanti per aiutare i loro figli a sviluppare sia l’autocontrollo che sentimenti di empatia verso gli altri»«Uomini e donne portano la diversità nella genitorialità», ha spiegato la psicologa americana Trayce Hansen, «ciascuno da un contributo prezioso per l’allevamento dei figli che non può essere replicato dagli altri: madri e padri semplicemente non sono intercambiabili, due donne possono essere entrambe buone madri, ma non possono essere un buon padre. L’amore materno e quello paterno, anche se ugualmente importanti, sono qualitativamente diversi: ciascuna di queste forme di amore senza l’altra può essere problematica, perché ciò che un bambino ha bisogno è l’equilibrio complementare che i due tipi di amore dei genitori forniscono».

Daniel Paquette, docente di Psicologia presso l’Università di Montreal, ha rilevato che «i padri svolgono un ruolo particolarmente importante nello sviluppo di apertura dei bambini per il mondo. Tendono ad incoraggiare i bambini a correre dei rischi, mentre allo stesso tempo garantiscono la loro sicurezza, permettendo così ai bambini ad imparare ad essere più coraggiosi in situazioni non familiari, nonché di stare in piedi da soli». A causa della predisposizione degli uomini alla forza muscolare, alle maggiori dimensioni fisiche rispetto alla madre, al loro carattere più aggressivo, i padri «svolgono un ruolo importante nel proteggere i propri figli dalle minacce dell’ambiente». Lo psicologo Rob Palkovitz ha infatti notato che «l’assenza di paterna è citata da più studiosi come il fattore di rischio più grande per la gravidanza in età adolescenziale delle ragazze».

Sempre il prof. Wilcox ha scritto un lungo articolo su tutto questo, mettendo a disposizione anche dei grafici riassuntivi. Qui sotto, ad esempio, un grafico che riporta i tassi di gravidanza adolescenziale nelle ragazze che hanno rapporti di alta qualità con i loro padri (azzurro), rapporti di media qualità (rosso), rapporti di bassa qualità (verde) e che vivono con una madre single (viola).

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Qui sotto, invece, un grafico che riporta i tassi di depressione nei ragazzi che hanno rapporti di alta qualità con i loro padri (azzurro), rapporti di media qualità (rosso), rapporti di bassa qualità (verde) e che vivono con una madre single (viola).

wilcox_depression2.jpg

 

L’amore che dona il padre è qualitativamente differente a quello donato dalla madre, non è sostituibile. Lo ha spiegato recentemente il dott. Alberto Villani, vicepresidente della Società Italiana di Pediatria: «è chiaro che nella formazione, nella crescita di un bambino, il ruolo materno e il ruolo paterno sono fondamentali. Noi dobbiamo prevedere per il bambino quella che è la sua situazione ottimale. Quindi senz’altro esiste un ruolo paterno, un ruolo materno, esiste anche addirittura una genetica diversa e innegabilmente questo ha un valore».

La redazione

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La conversione della filosofa Jordan Monge: «ho trovato la fede all’università di Harvard»

JordanMongeLa spiritualità e l’agiografia cristiana sono ricche di esempi di conversioni o di radicalizzazioni di una fede tiepida, a volte per diretto intervento soprannaturale (p.es. san Paolo), per l’incontro con sofferenze e ingiustizie sociali (come sembra esser stato per san Francesco), altre volte grazie alla maturazione di un’intelligenza inquieta (p.es. sant’Agostino, e in epoca contemporanea Anthony Flew), oppure dall’aver sperimentato l’effimera vanità dei piaceri della vita (p.es. sant’Ignazio).

Negli Stati Uniti da qualche anno ha una certa visibilità il caso della filosofa e divulgatrice Jordan Monge che, come racconta lei stessa, da un passato di ateismo si è convertita alla fede cristiana divenendo molto attiva tramite pubblicazioni cartacee e online. Dopo un’adolescenza da militante dell’ateismo, le cose cambiarono in età universitaria, ad Harvard (il cui motto è veritas). Lì ha incontrato uno studente cristiano, John Joseph Porter, col quale si trovò a discuteva cordialmente, andando oltre il “ci vuole fede” (in perfetta linea col sola fide luterano), risposta che la Monge giudicava “codardia intellettuale”. Ed invece, racconta,  ad esempio «mi ha spronato a pensare alla mia incoerenza, da atea, quando gli rinfacciavo ciò che era giusto e sbagliato, abbracciando categorie universali».

Il primo passaggio di Monge (www.jordanmonge.comfu spostarsi su posizioni deiste: «il giorno di San Valentino», ha ricordato, «ho cominciato a credere in Dio. Non c’era nessuna vergogna intellettuale nell’essere deista, dopo tutto ero nelle fila di persone rispettabili come Thomas Jefferson e altri padri fondatori», modificando anche le sue riflessioni a livello filosofico e scientifico. Ma questa fase durò poco e presto intuì che la croce del sacrificio di Cristo non era “un grottesco simbolo di divino sadismo” ma “un significativo atto d’amore”, rimedio di mali e peccati dell’umanità. «La Croce sembrava non più soltanto un simbolo di amore, ma la risposta ad un bisogno incurabile. Quando ho letto per la prima volta la scena della crocifissione nel Vangelo di Giovanni mi sono ritrovata in lacrime».

Il bisogno di approfondire l’ha spinta  così a «divorare libri apologetici da diverse prospettive. Ho letto il Corano e “L’Illusione di Dio” di Richard Dawkins, ma nulla in confronto alla ricca tradizione cristiana dell’intelletto. Avevo litigato con i miei coetanei ma non avevo mai studiato le opere dei maestri: Agostino, Anselmo, Aquino, Cartesio, Kant, Pascal, e Lewis. Quando l’ho finalmente fatto, l’unica cosa ragionevole è stata quella di credere nella morte e risurrezione di Gesù Cristo». Ma, altro passaggio bellissimo, «se volevo continuare questa indagine non potevo lasciare che fosse soltanto un mero viaggio intellettuale».

Per questo, la giovane filosofia ha chiesto il battesimo cattolico nella Pasqua del 2009, comprendendo che «Dio si rivela attraverso le scritture, la preghiera, gli amici, e la tradizione cristiana». Un cammino sinergico di fede e ragione che è una perfetta incarnazione dell’incipit della Fides et Ratio (Giovanni Paolo II, 1998): “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. Significativa la frase che Jordan Monge ha usato per sintetizzare il suo percorso: «Venni a Harvard cercando la verità. Invece, questa ha trovato me».

Roberto Reggi

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Sono cattolici anche i principali paleontologi ed evoluzionisti spagnoli

Più volte abbiamo sottolineato il fatto che per i principali scienziati della storia non è mai esistita alcuna dicotomia tra scienza e fede, anche perché molti di loro furono sacerdoti, gesuiti e appartenenti all’ordine religioso.

A questo proposito abbiamo realizzato due dossier, il primo è un elenco di tutti i maggiori scienziati cristiani e cattolici mentre, il secondo, è un elenco di loro citazioni sul rapporto tra scienza e religiosità. In Italia, ad esempio, possiamo andare dal più conosciuto Galileo Galilei al meno conosciuto padre Benedetto Castelli, fondatore dell’idraulica; dal famoso padre della biologia Lazzaro Spallanzani, gesuita, a padre Andrea Bina, inventore del primo sismografo moderno. Il famoso gesuita padre Angelo Secchi, fondatore della spettroscopia astronomica e pioniere dell’astrofisica a padre Francesco Lana de Terzi, anche lui gesuita e considerato il fondatore della scienza aeronautica. L’elettricità biologica è stata scoperta dal devoto cattolico Luigi Galvani, al sacerdote sismologo Giuseppe Mercalli è dedicata la scala che misura l’intensità delle scosse sismiche mentre al sacerdote Francesco Denza sono dedicate oltre 200 stazioni metrologiche essendo il padre italiano della scienza che studia l’atmosfera. Fino ad arrivare ai giorni nostri, dai credenti (e cattolici) Carlo Rubbia e Enrico Bombieri, Nobel e medaglia Fields fino ai celebri matematici Giovanni Prodi e Ennio De Giorgi, devoti cristiani, alla contemporanea Fabiola Gianotti.

Anche in Spagna, tuttavia, la situazione è molto simile, come ha spiegato recentemente Alfonso V. Carrascosa, ricercatore presso il Museo Nacional de Ciencias Naturales e membro del Consiglio superiore di ricerca scientifica (MNCN-CSI): «La Chiesa cattolica», ha scritto il dott. Carrascosa, «afferma che la fede e la teoria dell’evoluzione sono compatibili, a condizione che non vi sia un’interpretazione ideologica di quest’ultima». Questa compatibilità è mostrata dal fatto che sono tanti gli scienziati cattolici spagnoli di alto livello che hanno contribuito a sviluppare la ricerca scientifica, anche in campo biologico ed evolutivo.

Qualche esempio: il fondatore della paleontologia in Spagna è stato un religioso francescano, padre José Torrubia (1698-1761), è suo infatti il primo trattato di questa disciplina, intitolato Historia Natural, che ha il compito di studiare i resti fossili. Un altro importante paleontologo è stato padre Manuel Torres (1750-1817), sacerdote domenicano e scopritore del megaterio, un genere estinto di mammiferi vissuti durante il Pliocene e il Pleistocene nelle Americhe. Importante anche il contributo dell’entomologo cattolico Mariano de la Paz Graells, autore di 75 documenti con dettagliate descrizioni di nuove specie, tra cui il lepidottero Graellsia isabelae (il cui nome scientifico è derivato dal suo nome), ed autore del volume Mastodología Ibérica in cui parla a lungo di scienza e fede.

Il primo “cacciatore di dinosauri” spagnolo è stato Juan Vilanova Piera (1821-1893), pioniere della geologia e dello studio della preistoria, docente di Geologia e Paleontologia presso l’Università di Madrid. E’ lui lo scopritore dei primi fossili di dinosauro in Spagna e noto anche divulgatore sul rapporto positivo tra evoluzione e fede, spiegando che la Genesi «non aveva intenzione di essere un trattato geologia o di qualsiasi altra scienza, ma piuttosto intendeva far comprendere agli Ebrei la grandezza e l’onnipotenza di Dio Creatore», contrastando il letteralismo biblico tipico del mondo protestante. Contemporaneo a Darwin vi fu padre Eduardo Llanas, membro dell’Accademia di Belle Arti di Barcellona, ​​prete cattolico che criticò fin da subito l’uso ideologico della teoria della selezione naturale, spiegando comunque che «non vedo alcuna ragione valida per affermare che le opinioni espresse nel libro di Darwin siano offensive dei sentimenti religiosi» (E. Llanas, “El origen de las especies”, 1859).

Contributo importante per la ricerca paleontologa spagnola è stato dato da Hugo Obermaier (1877-1946), sacerdote cattolico e tra i fondatori del Museo di Scienze Naturali di Madrid, per lui venne creata la cattedra di “Historia Primitiva del Hombre” presso l’Università di Madrid. Non si può omettere il “più importante antropologo basco”, ovvero il sacerdote cattolico José Miguel de Barandiaran e Ayerbe (1889-1991), considerato patriarca della cultura basca grazie alle sue scoperte nel campo dell’antropologia. Un importante divulgatore della conciliabilità tra evoluzione e fede cattolica è stato invece l’antropologo Telesforo Aranzadi (1860-1945), eminente scienziato spagnolo, mentre il sacerdote e archeologo cattolico Jesús Carballo García Taboada (1874-1961) è riconosciuto come il pioniere della speleologia, nonché creatore del Museo Regional de Prehistoria y Arqueología di Cantabria. Devoto cattolico fu anche Santiago Alcobé e Noce (1903-1977), illustre professore di Antropologia presso l’Università di Barcellona, tra i più importanti antropologi spagnoli. Il paleontologo Miquel Crusafont (1910-1983) ha diffuso più di tutti la teoria dell’evoluzione biologica in Spagna, fondatore nel 1969 dell’Istituto provinciale di Paleontologia di Barcellona. In una delle sue lettere ha scritto: «dal nostro punto di vista non vi è nulla nella scienza che è in contrasto con il dogma, mai la scienza -a parte qualche spirito pusillanime- potrà contraddire i dogmi della fede cristiana cattolica».

Il paleontologo Bermudo Meléndez (1912-1999) è stato docente e presidente della Real Sociedad Española de Historia Natural (1964), nonché autore del trattato del Tratado de paleontología (1947) in cui afferma che l’evoluzione è guidata da una direzionalità teleologica e finalista, ammettendo l’intervento di Dio. Uno scienziato cattolico, frequentatore del Monasterio del Paular. Il genetista catalano Antonio Prevosti (1919-2011) è considerato l’introduttore in Spagna della genetica delle popolazioni naturali, ha spesso partecipato ai convegni di Pax Romana (il Movimento Cattolico Internazionale degli Intellettuali e culturali) e ha tenuto lezioni presso la Facoltà di Teologia a San Cugat del Valles, collaborando oltretutto con riviste religiose come Apostolado sacerdotal, Orbis catholicus o Forja, manifestando apertamente la fede cattolica. E’ ancora vivo invece Emiliano Aguirre (1925-), ex gesuita e missionario che ha dato importanti contributi alla paleoantropologia, vincitore del Premio Príncipe de Asturias e membro della Real Academia de Ciencias Exactas, Físicas y Naturales. Il suo libro La Evolución, pubblicato presso la Editorial Católica, ha segnato una tappa fondamentale per la diffusione sociale delle idee evolutive in Spagna. Francisco J. Ayala  (1934-) è un importante biologo evoluzionista cattolico, vincitore della National Medal of Science e del Premio Templeton (2010) per i suoi contributi nell’ambito del rapporto tra scienza e fede.

Ecco dunque alcuni esempi di importanti scienziati che hanno appassionatamente condiviso nella loro vita la fede e la scienza, la biologica e l’evoluzione. Molti di essi impegnati anche nell’ordine religioso come sacerdoti e gesuiti. Come ha affermato il cattolico Martin A. Nowak, noto docente di Biologia evolutiva presso l’Università di Harvard, «L’evoluzione non è un argomento contro Dio, non più della gravità, essa è un principio organizzatore del mondo vivente: Dio la usa per dispiegare la vita sulla terra. La potenza creatrice di Dio e le leggi dell’evoluzione non sono in conflitto tra loro: Dio agisce attraverso l’evoluzione, ne è la causa ultima. Senza Dio non ci sarebbe affatto l’evoluzione. Allo stesso modo Dio usa la gravità per organizzare la struttura dell’universo su larga scala. Senza Dio non ci sarebbe alcuna gravità. Né la gravità né l’evoluzione rappresentano sfide per la fede cristiana» (M. Nowak, in “Dio oggi. Con lui o senza lui cambia tutto”, Cantagalli 2010, p. 201,202).

La redazione

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La Rivoluzione francese, il primo violento tentativo di scristianizzare la società

ghigliottina franceseNon c’è nessun avvenimento storico che non abbia avuto il suo “cuore di tenebra”, anche quanto tentava di promuovere dei nobili ideali. L’esempio più eclatante riguarda forse quello della Rivoluzione Francese che registrò fenomeni come il Terrore o il massacro dei cittadini vandeani; nonostante la proclamazione della Carta dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino.

E’ paradossale il fatto che, sebbene la Dichiarazione affermasse che «nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose», i rivoluzionari attueranno una feroce persecuzione contro il cattolicesimo: prima intromettendosi negli affari ecclesiastici imponendo la Costituzione civile del clero che venne di fatto a creare una Chiesa scismatica da Roma, e in seguito, incarcerando o uccidendo i preti refrattari che si rifiutarono di giurare su questo documento. Anche il clero costituzionale iniziò, tuttavia, ad essere presto colpito perché sospettato di essere vicino alla Monarchia e ai Girondini, e del resto, molti rivoluzionari non vedevano alcuna differenza tra le due Chiese.

Già nell’estate del 1793 si registrarono degli incidenti che lasciarono intravedere la volontà scristianizzatrice di alcuni militanti come gli avvenimenti verificatisi col pretesto della ricerca dei metalli preziosi all’interno delle chiese o nella fusione delle campane necessaria all’industria di guerra. Il cosiddetto fenomeno della “scristianizzazione” si affermò inizialmente nei diversi dipartimenti a causa dell’azione intrapresa da alcuni rappresentanti in missione: il 26 settembre 1793 Fouché dichiarò alla società popolare di Moulins di voler sostituire «ai culti superstiziosi e ipocriti» quello della Repubblica e della morale naturale, e il 10 ottobre vietò ogni cerimonia religiosa al di fuori delle chiese e laicizzò i cimiteri facendo trascrivere al loro ingresso «la morte è un sonno eterno»; a Rochefort, Lequinio trasformò la chiesa in un tempio della Verità; nella Somme, Dumont fece sequestrare a Maubeuge gli oggetti preziosi usati per il culto (definiti «ornamenti del fanatismo e dell’ignoranza»); e altri rappresentanti incoraggiarono il matrimonio dei sacerdoti. Questo movimento si estenderà successivamente anche a Parigi: il 7 novembre il vescovo della città, Gobel, fu costretto a dimettersi pubblicamente insieme ai suoi vicari; mentre il 10 si festeggiò una “Festa della Libertà” all’interno della chiesa di Notre-Dame, che venne successivamente consacrata alla Ragione. La scristianizzazione non passò tuttavia solo attraverso la violenza, ma anche introducendo delle innovazioni come il calendario rivoluzionario costituito dalle decadi al posto delle settimane, e l’istituzione dell’era repubblicana (fatta iniziare il 22 settembre 1792). Inoltre, parallelamente alla scristianizzazione, si affermò anche il culto dei martiri della libertà (individuati in figure come Marat o Chapelier), le cui effigi si sostituirono nelle chiese, divenute templi della Ragione, a quelle dei santi cattolici (cfr. A. Sobul, La rivoluzione francese, Roma 1998 pp. 272-276).

Questa politica trovò tuttavia lo sfavore della maggior parte dei membri del Comitato di Salute Pubblica, ivi compreso quello dello stesso Robespierre. L'”Incorruttibile” era contrario alla scristianizzazione sia per motivi “filosofici” (pur detestando il cattolicesimo, era ugualmente contrario all’ateismo da lui considerato come aristocratico ed estraneo al popolo), sia sopratutto per motivi politici in quanto era cosciente che simile politica avrebbe rischiato di inimicarsi la maggior parte del popolo francese (che era rimasto attaccato al culto tradizionale), oltre all’opinione pubblica dei paesi rimasti neutrali (cfr. F. Furet-D. Richet, La rivoluzione francese, Bari 1974 p. 288).

Con l’aiuto di Danton, Robespierre trascinò i Giacobini contro gli scristianizzatori e la Convenzione emise il 6 febbraio un decreto che riconfermò la libertà di culto. In realtà, questo provvedimento ebbe risultati assai limitati in quanto la stessa Convenzione, due giorni dopo, stabilì che i decreti dei rappresentanti in missione relativi alla chiusura delle chiese restassero in vigore, e proclamò che i preti costituzionali potessero celebrare il loro culto solamente in forma privata. Mentre alcuni rappresentati si conformarono alle direttive, la maggioranza di essi ritenne invece che l’influsso dei preti costituzionali potesse essere pericoloso e maltrattarono o imprigionarono i sacerdoti che rifiutarono di dimettersi (cfr. G. Levebvre, La rivoluzione francese, Milano 1958 p. 408).

Robespierre tentò di instaurare un culto deista, il cui culmine fu raggiunto con la Festa dell’Essere Supremo svoltasi l’8 giugno 1794. Questo culto, però, cadde presto in disuso dopo la fine del politico francese, e i suoi successori continuarono la loro politica di ostilità verso la religione. Il deputato Cambon propose un decreto, approvato dalla Convenzione, in cui si affermava che la Repubblica non avrebbe più salariato alcun culto; mentre i rappresentati in missione continuarono a combattere il “fanatismo” (ossia il cattolicesimo): i rappresentanti Pelletier e Besson con un’ordinanza del 30 brumaio dell’anno III ordinarono l’arresto di tutti i preti che continuavano a professare il culto e la chiusura delle chiese ancora aperte; nell’Haute-Garonne e nel Tarn, i preti (ance se abdicatari) furono messi sotto sorveglianza; nell’Orne, il vescovo costituzionale, che aveva in precedenza abdicato, chiese l’autorizzazione per celebrare nuovamente gli uffici e venne arrestato per questa sola ragione. Né la persecuzione risparmiò le confessioni che erano state discriminate sotto l’Ancien Régime: i pastori luterani di Montbéliard abdicarono sotto la minaccia di arresto, mentre nel Besançon venne chiusa nell’ottobre 1794 la sinagoga. Nel frattempo, i Termidoriani cercarono di fare rivivere il culto repubblicano, espresso nelle feste civiche delle decadi e furono persino arrestate delle persone che si astenettero dal lavorare la domenica. Nonostante ciò, i tentativi per diffondere la fede patriottica non riuscirono ad attecchire tra il popolo in quanto essa non era una creazione dell’anima popolare; ma un’idea della classe borghese, il cui governo si rendeva sempre più impopolare e debole.

Crebbero difatti le proteste contro la politica antireligiosa anche all’interno della Convenzione. Il vescovo costituzione di Blois, Grégoire, denunciò infatti che: «La libertà di culto esiste in Turchia, ma non in Francia; il popolo vi è privato di un diritto di cui si gode negli stati despoti; persino sotto le reggenze del Marocco e di Algeri». Sebbene questo discorso cadde nel vuoto, si levarono sempre più numerose le voci contro la persecuzione della religione; e già in taluni dipartimenti, dei privati cittadini e degli ex preti costituzionali, con la complicità delle autorità locali, riaprivano le chiese; mentre nei dipartimenti di frontiera i preti refrattari iniziarono a tornare in patria. A rendere impossibile l’ulteriore prosecuzione dei provvedimenti anticlericali, fu la politica di amnistia che il Governo aveva adottato in Vandea: i rappresentanti in missione dell’Ovest erano difatti coscienti che non ci sarebbe stata nessuna pacificazione finché non fosse stata ripristinata la libertà di culto, e difatti provvidero ad abrogare tutti i provvedimenti di rigore antireligioso, ristabilendo la libertà sia per i preti refrattari che costituzionali.

La ritrovata libertà religiosa nei paesi dell’Ovest non poté quindi non estendersi anche al resto della Francia: il 21 febbraio 1975, un deputato della Pianura, Boissy d’Anglas, pur detestando il cattolicesimo, ripropose la libertà di culto con la motivazione che una religione clandestina poteva essere ben più pericolosa di una pubblica. Furono perciò riaperte le chiese, anche se vigevano ancora molte restrizioni in materia religiosa (vi era per i preti il divieto di indossare l’abito talare, fare processioni, suonare le campane…). Questo decreto contribuì alla ricostituzione del clero costituzionale, che domandò la restituzione delle loro patenti sacerdotali strappate con la forza; ma anche il clero refrattario rientrato in Francia prese a riorganizzare (con la contrarietà del governo parigino) il culto romano (sulla riapertura delle chiese cfr. A. Mathiez, La reazione termidoriana, pp. 179-201).

La laicizzazione e i tentativi di instaurare una nuova fede civica distaccò una parte dei francesi dalla tradizione cristiana, ma gli avvenimenti mostrarono che la maggior parte del popolo era rimasta attaccata al culto tradizionale. Motivo che spingerà Napoleone Bonaparte a stipulare nel 1801 un Concordato con la Chiesa Cattolica.

Mattia Ferrari

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«Gesù è certamente storico, lo studio da agnostico»

ehrmanBart D. Ehrman è uno dei principali studiosi del Gesù storico, agnostico e tra i più impegnati a smentire le tesi miticiste sul “mito di Gesù”. Ecco un brano del suo libro.

 
 

di Bart D. Ehrman*
*docente di Nuovo Testamento presso l’Università di North Carolina

 
da Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, pp. 3-8

 

Ogni settimana ricevo due o tre e-mail in cui mi si chiede se Gesù sia esistito o meno come essere umano.

All’inizio, qualche anno fa, ho pensato che si trattasse di una domanda stravagante e non l’ho presa sul serio. Gesù è esistito, certo. Lo sanno tutti. O no?

Il quesito tuttavia si è ripresentato e ben presto ho cominciato a domandarmi perché tanta gente me lo rivolgesse. Il mio stupore si è accresciuto non appena sono venuto a sapere che in certi ambienti mi viene, erroneamente, attribuita la tesi secondo cui Gesù non è mai esistito.

Mi sono meravigliato perché la mia formazione di studioso è avvenuta sul Nuovo Testamento e sul cristianesimo delle origini, e da trent’anni dedico la mia ricerca alla figura storica di Gesù, ai vangeli, al movimento cristiano primitivo e ai primi tre secoli di storia della Chiesa.

Come tutti gli studiosi del Nuovo Testamento, ho letto migliaia di libri e articoli in inglese e in altre lingue su Gesù, sui vangeli e sul cristianesimo delle origini, ma ero del tutto all’oscuro, come la maggior parte dei miei colleghi, dell’esistenza di un simile corpus dii testi improntati allo scetticismo.


Nessun miticista è uno studioso o un accademico.

Va premesso che nessuno di questi libri è stato scritto da esperti del Nuovo Testamento o da studiosi del cristianesimo delle origini che insegnano in scuole di teologia, nei seminari, o nelle università più importanti, e nemmeno in quelle di second’ordine americane o europee (né di altri parti del mondo). Per quanto ne so, nessuno studioso del cristianesimo delle origini, tra le migliaia che insegnano negli istituti citati, nutre alcun dubbio circa l’esistenza di Gesù.

Basta una rapida ricerca su Internet per capire quanta influenza abbia avuto in passato quello scetticismo radicale e con quanta rapidità si stia diffondendo tutt’oggi. Per decenni è stata l’opinione dominanti in paesi come l’Unione Sovietica.

Fatto ancora più sorprendente, pare che oggi sia l’opinione prevalente in certe regioni del mondo occidentale, fra cui alcune aree dei paesi scandinavi. Gli autori di questa letteratura scettica si ritengono “miticisti”, cioè persone convinte che Gesù sia un mito, intendendo un racconto privo di basi storiche, una narrazione storicamente verosimile di fatti che in realtà non sono mai avvenuti. Gesù sarebbe un mito perché i tanti racconti antichi che lo vedono protagonista sono privi di basi storiche. La sua vita e i suoi insegnamenti sarebbero stati inventati dai primi narratori orali.


La storicità di Gesù supportata da tutti gli specialisti.

Come ho già detto, l’opinione che Gesù sia esistito è condivisa pressoché da tutti gli specialisti della disciplina. Ciò non costituisce di per sé una prova, naturalmente: l’opinione degli studiosi, in fondo, è solo un’opinione. Eppure, quando dovete prendere un appuntamento con il dentista, volete che sia un esperto, giusto? Qualcuno potrebbe replicare che la storicità di Gesù è un caso diverso, poiché si tratta di storia e gli studiosi hanno la stessa facoltà di accedere al passato di chiunque altro. Ma non è così.

Milioni di lettori hanno acquisito le proprie “conoscenze” sul cristianesimo delle origini da Dan Brown, autore del Codice Da Vinci. Ma la loro è stata una scelta sensata? Tutti gli storici seri del movimento cristiano primitivo, nessuno escluso, hanno dedicato molti anni di vita ad acquisire le conoscenze necessarie per diventare esperti nel loro settore di studi.

La sola lettura delle fonti richiede competenze in una serie di lingue antiche: greco, ebraico, latino e spesso aramaico, siriaco e copto, per non parlare delle lingue moderne usate nell’ambito specialistico (tedesco e francese, per esempio). E questo è solo l’inizio.

Per acquisire competenze sono necessari anni di paziente esame dei testi e una conoscenza approfondita della storia e della cultura greca e romana, delle religioni del mondo mediterraneo antico, pagano ed ebraico, della storia della Chiesa cristiana e dell’evolversi della sua vita sociale e della sua teologia, oltre, naturalmente, a molte altre cose.

Ora, se tutti coloro che hanno dedicato anni di studio al raggiungimento di tali competenze sono convinti che Gesù di Nazareth sia stato una figura storica, il dato deve far riflettere. Non è una prova, lo ripeto, ma se non altro dovrebbe far sorgere qualche dubbio.

Eppure, non c’è modo di persuadere i teorici della cospirazione che i loro assunti poggiano su prove troppo esili per essere convincenti, mentre invece sono del tutto persuasive quelle a favore della storicità di Gesù. E sono sostenute da tutti gli studiosi del mondo antico, del Nuovo Testamento, della classicità, delle origini cristiane del Nord America e, in generale, del mondo occidentale.


Ehrman: non sono credente, contano le prove.

Molti di loro non nutrono interessi personali e, per la verità non lo faccio nemmeno io. Non sono cristiano e non sono interessato ad appoggiare la causa cristiana o a promuovere un programma di orientamento cristiano.

Sono un agnostico molto vicino all’ateismo, e la mia vita e la mia visione del mondo non sarebbero diverse se Gesù non fosse esistito.

Come storico, penso che le prove siano importanti. E così il passato. E per chi attribuisce valore alla prove e al passato, l’esame imparziale del caso porta a una conclusione inequivocabile: Gesù è davvero esistito, e se qualcuno lo nega con tanta insistenza non è perché abbia esaminato le fonti con le lenti obiettive delle storico, ma perché il suo diniego serve ad altri propositi.

Da una prospettiva imparziale, una sola affermazione è possibile: Gesù di Nazareth è esistito.

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