Il voto alle donne? Già presente nel Medioevo

medioevo pernoudE’ vero: il 10 marzo del 1946 le italiane votarono per la prima volta e fu, senza alcun dubbio, una grande conquista per le donne oltre che per l’intera Italia.

Sarebbe però sbagliato immaginare che in epoche passate la condizione femminile fosse sempre e comunque di inferiorità e che il diritto di voto, per la donna, sia necessariamente conquista recente. Si prenda per esempio il Medioevo, epoca ingiustamente considerata teatro degli orrori dell’inquisizione – mentre sappiamo che la caccia alle streghe si registrò prevalentemente durante il Rinascimento e comunque nelle regioni germaniche protestanti più che in quelle cattoliche – ritenuta orribile considerazione della donna.

Ebbene, non solo l’epoca medievale fu costellata di donne potenti e influenti – i nomi di Matilde di Canossa, Eleonora d’Aquitania, Bianca di Castiglia o Ildegarda di Bingen dicono nulla? – ma vi furono anche casi, neppure necessariamente così isolati, di suffragio femminile.

Leggenda maschilista? No, si sta parlando di un dato storico, come provano, ironia della sorte, proprio le ricerche di una donna, Régine Pernoud (1909–1998), storica francese nonché grande specialista del Medioevo. Nel suo libro forse più famoso – Pour en finir avec le Moyen Age, tradotto anche in Italiano – la Pernoud infatti osserva che se si vuole osservare la condizione di «donne che non erano né alte dame né badesse né monache, ma contadine, o cittadine, madri di famiglia, o donne che esercitavano un mestiere» non esiste alternativa che rifarsi alle «raccolte consuetudinarie o gli statuti delle città, ma anche l’enorme massa degli atti notarili, soprattutto nel Mezzogiorno della Francia, dei cartulari, dei documenti giudiziari, o ancora, delle inchieste».

Ebbene, «dall’insieme di simili documenti balza fuori un quadro che per noi presenta più d’un tratto sorprendente, dato che, per esempio, vediamo le donne votare alla pari degli uomini nelle assemblee cittadine o in quelle dei comuni rurali. Spesso ci siamo divertiti, nel corso di conferenze o altre relazioni, a citare il caso di certa Gaillardine di Fréchou la quale, in occasione di un contratto d’affitto proposto dall’abbazia di Saint-Savin agli abitanti di Cauterets, nei Pirenei, è la sola a votare no, mentre il restante della popolazione al completo ha votato sì. Il voto delle donne non è sempre espressamente menzio­nato dappertutto, ma questo è forse dovuto appunto al fatto che nessuno vedeva la necessità di menzionarlo» (R. Pernoud, Medioevo. Un secolare pregiudizio, Bompiani, Milano 2001, p.113).

Ricordando questo, sia chiaro, non s’intende necessariamente presentare il Medioevo come l’età dell’oro ma, certo, è curioso come una conquista così importante come quella del voto femminile fosse già presente in un’epoca storica che, agli occhi dei più, viene ritenuta quanto di più lontano dal progresso.

Giuliano Guzzo
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato al Medioevo)

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Sull’infallibilità papale, risposta agli errori di Hans Küng

infallibilitàPochi giorni fa è comparso un appello del teologo Hans Küng con il quale ha chiesto l’abolizione del dogma dell’infallibilità papale. La richiesta è confusa e poco lucida, in ogni caso abbiamo chiesto al teologo Stefano Biavaschi un approfondimento. La risposta che ha formulato, e che pubblichiamo qui di seguito, è particolarmente utile in quanto dimostra che il dogma dell’infallibilità -come tutti i dogmi, in generale-, è sì una verità ufficializzata “recentemente” ma si è stabilita come tale fin dall’origine della Chiesa. Questo rende valida e legittima la formulazione del dogma, impossibile da abolire.

 

di Stefano Biavaschi*
*assistente alla Cattedra di Teologia presso l’Università Cattolica di Milano

 

Prima di entrare nel tema dell’infallibilità papale, che alcuni teologi modernisti oggi contestano, occorre fare una premessa generale sul concetto di Magistero. La parola “magistero” viene da “maestro”: quest’ultimo è uno degli attributi che il Vangelo riconosce a Gesù. In che modo Gesù continua ad ammaestrarci, dopo il suo ritorno al Padre? Tramite il Magistero. In forza di che il Magistero attinge a questa promessa? In forza della Successione Apostolica e della Tradizione.

La possibilità di una permanenza della Verità sulla terra è desiderio di Gesù stesso: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre: lo Spirito di Verità (GV 14,16-17). E aggiunge: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (GV 14,26). L’assistenza di Gesù ai suoi apostoli è dunque confermata nel tempo, e non solo perché la Chiesa da lui fondata potesse ricordare, ma anche testimoniare (“mi renderete testimonianza” GV 15,27). Del resto, se questa permanenza della Verità sulla terra non fosse stata garantita, in conformità a che cosa saremmo stati giudicati? E chi avrebbe potuto salvarsi? La sola ragione è fallibile; il Magistero è invece infallibile perché, illuminato da una continua pentecoste, gode “per sempre” della promessa di Gesù: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla Verità tutta intera” (GV 16,12-13).

Respingere il Magistero significa respingere lo stesso Gesù, perché “Chi ascolta voi ascolta Me, chi disprezza voi disprezza Me” (LC 10,16). L’Islam e il Protestantesimo hanno cercato di costruire una religione senza magistero, ma non ci sono riusciti, finendo per ricorrere lo stesso a forme d’autorità costruite dal basso. Invece, la Chiesa dei primi secoli, ha subito riconosciuto i vescovi come successori degli apostoli, anche nell’esercizio dell’insegnamento. Quest’autorità costruita dall’alto“non è però al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso” (Conc. Vat. II, DV,10). All’interno del Magistero siamo soliti distinguere tra episcopato (i vescovi, successori degli apostoli) e primato (il Papa, come successore di Pietro), entrambi di diritto divino e strettamente connessi. Distinguiamo anche tra magistero particolare (per esempio quello di un Vescovo verso la sua diocesi) e magistero universale (cioè quello di tutti i vescovi verso tutti i cristiani); il Concilio Vaticano I ha definito l’infallibilità di quest’ultimo. Lo stesso ha fatto il Concilio Vaticano II, confermando: “L’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale, quando questi esercita il supremo Magistero col successore di Pietro” (LG 25). E questo avviene, per esempio, in occasione di un Concilio Ecumenico: in tal caso si parla di magistero straordinario.

Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità. Essa si estende tanto quanto il deposito della divina Rivelazione; essa si estende anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale” (CCC 2035). E ancora: “Per mantenere la Chiesa nella purezza della fede trasmessa dagli Apostoli, Cristo, che è la Verità, ha voluto rendere la sua chiesa partecipe della propria infallibilità. […] Di questa infallibilità il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli, proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale” (CCC 889-891).  Ad essere dunque coperto da infallibilità è anche il magistero straordinario del Papa, e questo avviene “quando parla dalla cattedra, cioè quando adempiendo al suo ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani, per la sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardo alla fede e ai costumi deve essere tenuta da tutta la Chiesa, per l’assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro” (Vat II, PA 4). Naturalmente il senso di tutto questo non va colto considerando gli uomini in sé ma l’infallibilità della verità di Dio.

Queste verità, sebbene non ancora formulate dogmaticamente, erano credute anche nel cristianesimo antico, tanto che venivano conservati con cura gli elenchi dei vescovi di Roma fin dalla successione di Pietro. Per esempio Egesippo (160 ca) e Ireneo di Lione (180 ca) tramandano che il primo a succedere sul seggio di Pietro fu San Lino (originario del Lazio settentrionale, eletto nel 66 ca, e morto nel 78, poi sepolto accanto a S. Pietro). Anche Eusebio di Cesarea lo conferma: “Primo ad essere nominato vescovo della Chiesa di Roma, dopo il martirio di Paolo e Pietro, fu Lino, citato da Paolo nel saluto che chiude la lettera da lui inviata da Roma a Timoteo” (Historia Ecclesiastica, III,2). Eusebio ricorda anche chi gli succedette: “A Lino, che fu vescovo della Chiesa di Roma per dodici anni, succedette Anacleto” (op cit, III,13). E di nuovo aggiunge: “Ad Anacleto, che aveva retto l’episcopato della Chiesa di Roma per dodici anni, succedette Clemente, che l’apostolo [Paolo], nella Lettera ai Filippesi, definisce suo aiutante dicendo: ‘Con Clemente e gli altri miei aiutanti, i cui nomi sono nel libro della vita’.” (op cit, III,15). Questo stesso Clemente I, che fu il primo dei Padri Apostolici, ci fa capire l’importanza delle successioni apostoliche quando, verso l’anno 96, scrive: “Cristo proviene da Dio, gli apostoli da Cristo, e i vescovi discendono dagli apostoli, e pertanto non possono essere allontanati” (Clemente Romano, Lettera ai Corinti, 1,42). Verso il 200 Sant’Ireneo aggiungeva: “Mediante la successione apostolica è giunta a noi la verità, e la tradizione apostolica è stata resa nota in tutto il mondo. Basta attenersi a loro [i vescovi], in tutto il mondo, se si vuole vedere la verità. Noi infatti possiamo elencare i vescovi che sono stati istituiti dagli apostoli e dai loro successori fino ai giorni nostri” (Adversus Haereses, III,3,1).

Fra tutte le successioni, quella petrina, era però vista con un ruolo di rilievo, questo a causa del “mandato delle chiavi” istituito da Gesù in Matteo 16,17-19 (per ben 114 volte nei vangeli Pietro è inoltre nominato con particolare riguardo prima degli altri apostoli). Sant’Ignazio nella sua Lettera ai Romani definisce perciò la Chiesa di Roma “colei che presiede l’alleanza d’amore”. Policarpo di Smirne la considera maestra delle altre, e Tertulliano “norma della verità”, arbitro della comunione. Nessuno, infatti, considerava un’ingerenza il fatto che il vescovo di Roma si occupasse anche delle controversie presenti in terre lontane, per esempio a Corinto, chiedendo “ubbidienza a quanto Gesù ha detto tramite nostro”. Anche in campo liturgico, le disposizioni provenienti da Roma erano accolte universalmente. Un importante esempio è quello della festa di Pasqua, che veniva inizialmente celebrata in date diverse nelle rispettive comunità cristiane presenti dalla Gallia alla Mesopotamia: fu il vescovo di Roma, San Vittore, a imporre un’unica data liturgica, questo mostra che, ancora nel secondo secolo, in piena epoca di persecuzioni, il papa aveva consapevolezza della propria superiore responsabilità. Anzi, spesso erano le diverse chiese del mediterraneo a rivolgersi a Roma per dirimere le questioni.

A fugare ogni dubbio sulla preminenza del mandato petrino già a quei tempi, basterebbe quanto scrisse Sant’Ireneo, vescovo di Lione tra il 160 ed il 202: “Per stabilire ciò, non è necessario un confronto fra tutte le chiese: basta essere in comunione con quella romana, la chiesa più grande e la più antica, a tutti nota, fondata e istituita dai due gloriosi apostoli Pietro e Paolo. Su questa infatti, per la sua alta posizione di preminenza, devono necessariamente essere in comunione tutte le altre chiese esistenti in ogni parte del mondo, perché in essa è sempre stata conservata la tradizione degli apostoli” (Adversus Haereses, III,3,2; quasi a sottolineare quanto detto S. Ireneo fa seguire l’elencazione dei papi dall’inizio fino al suo tempo, terminando con queste parole: “In questo ordine
e attraverso questa successione sono pervenute fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli, e la predicazione della verità).

Per tutto questo la cattedra di Roma, fin dall’inizio, viene guardata come principio di unità nella Chiesa. San Cipriano, vescovo di Cartagine (200-258), relativamente all’autorità di Roma, faceva già uso dell’espressione “cattedra di Pietro”. Per esempio, riferendosi agli eretici, scrive: “Essi osano pure andare alla cattedra di Pietro ed alla Chiesa principale, da cui deriva l’unità del sacerdozio”. Ben prima dell’era di Costantino, la Chiesa di Roma era dunque già definita (peraltro da un’altra diocesi ben distante) “Chiesa principale” e cattedra episcopale “da cui deriva l’unità del sacerdozio”. E perfino (già a quel tempo!) “principio di unità ed infallibilità”.

 
Altri articoli dell’autore:
Quale fondamento ha la “morale laica”? (aprile 2012)
Etica laica: un’occasione perduta (marzo 2012)
 

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Bob Marley ed Andy Warhol, due talenti toccati dalla Luce della conversione

marley warholE’ una Leggenda. Parliamo di Bob Marley (1945-1981), un genio della musica. È cool, così com’è cool parlare di lui. Insomma tutto, di lui, fa tendenza. Eppure, pochi sanno che una tale icona mondiale, simbolo per milioni di persone (oltre che marchio a uso e consumo di chi voglia sentirsi alternativo e politicamente corretto), ad un certo punto della sua vita si è convertito.

Marley era cristiano, e non perché fosse stato cresciuto così e quindi per abitudine acquisita, ma per sua propria scelta. Robert Nesta Marley, detto Bob, è nato a Nine Mile in Giamaica il 6 febbraio 1945, figlio di padre bianco e ragazza nera. Ha trasformato il proprio essere emarginato in forza per divenire un leader spirituale, un simbolo d’orgoglio per la Giamaica, la prima popstar del terzo mondo, oltre che il primo grande diffusore del reggae: su questo genere ha avuto la stessa portata dei Beatles sul pop. Scegliendo di sfruttare la capacità trascendente propria del concerto musicale per il bene e non per il male, Marley ha reso la sua arte un modo per trasmettere un messaggio universale di pace e fratellanza.

La storia della sua conversione però non è un inedito: è nota dal 25 novembre 1984, tre anni e mezzo dopo la sua morte. A parlarne sul “Gleaner’s Sunday Magazine” fu Abunda Yesehaq, missionario ortodosso etiope arrivato in Giamaica negli anni ’60 e amico di Marley, oltre che strumento della sua conversione. Marley divenne ortodosso e si fece battezzare col nome di Berhane Selassie (“la Luce della Trinità”). «Aveva il desiderio di essere battezzato da tempo», ha raccontato il missionario, amico di Marley. «Ma c’erano persone a lui vicine che lo hanno controllato e lo trattenevano. Ma è venuto in chiesa regolarmente. Mi ricordo che una volta mentre stavo celebrando la Messa, ho guardato Bob e le lacrime gli rigavano il volto». Ne abbiamo parlato su UCCR in un articolo del 2011.

 

Un’altra Leggenda dalla luminosa e sorprendente fede cattolica è Andy Warhol (1928-1987). Aleteia e IlSussidiario hanno svelato aspetti sbalorditivi della vita di un artista associato (anche a causa di lui medesimo) agli eccessi del glamour, della ricchezza e della mondanità. Sospettato di un’omosessualità non provata, egli stesso si circondava di omosessuali, transgender e altri artisti eccentrici, ma chi gli è stato vicino sostiene sia rimasto vergine fino alla morte, celibe e senza eccessi nel suo stile di vita. Padrino e mentore di una rock band trasgressiva, i Velvet Underground (il cui leader Lou Reed, guarda caso, si convertirà al cattolicesimo anni dopo), Andy Warhol, di famiglia cecoslovacca, era un cattolico di rito ruteno, ossia un rito orientale in comunione con Roma.

Era dedito tanto alla filantropia quanto alla pietà personale: oltre alla beneficenza praticata in segreto, in cui dedicava un po’ del suo tempo alla mensa servendo i poveri, andava quasi ogni giorno alla chiesa di San Vincenzo Ferrer nell’Upper East Side di Manhattan, per accendere un cero e pregare un quarto d’ora o per la messa, anche se sedeva vicino l’uscita per evitare di essere notato e, a causa di questa sua paura, spesso perdeva la Comunione. Accanto al letto, sul comodino, Andy aveva una chiesetta di gesso con un crocifisso e un libro di preghiere logoro. Sotto la maglietta bianca indossava una catenina con una croce, e in tasca portava un rosario. Inoltre, ed è forse l’opera di cui è andato più fiero in assoluto, ha pagato gli studi in seminario del nipote divenuto poi sacerdote. Sappiamo che Andy non ha mai fatto pubblici discorsi di fede, eppure lo storico dell’arte John Richardson, all’elogio funebre, assicurò che l’Artista sapeva essere un evangelizzatore efficace e contribuì ad “almeno una conversione”. Non mi stupirei se, dalla Casa del Padre, abbia vegliato anche sulla conversione di Lou Reed.

Cosa potremmo ritrovare, della spiritualità così intima di Andy Warhol, nelle sue opere? Un grande, eccelso merito, che la storia gli ha già riconosciuto e consegnato per sempre: ci ha mostrato noi stessi. Nel pieno del XX Secolo, èra di ossessioni e nevrosi, èra di euforie e depressioni, èra di conquiste ed ebbrezze, l’Artista così schivo e riservato ci ha mostrato da cosa eravamo avvinti ancor prima che lo fossimo davvero, ancor prima che gli ultimi scorci del Secolo XX e i primi del XXI fossero saturi di quel misto di delirio di onnipotenza e mania di grandezza che la fama dà. Ci ha vaticinato che a tutti, prima o poi, spetta un quarto d’ora di celebrità, profetizzando che tutti, prima o poi, questo quarto d’ora lo avremmo cercato.

 

Bob Marley ed Andy Warhol due talenti toccati dalla Luce, quindi. Marley in età adulta e Warhol dalla giovinezza probabilmente, ma entrambi due icone di un Secolo sofferto e travagliato, entrambi sfiorati da quella Luce che, essa sola, può dare senso e significato a tutti i nostri sforzi, senso e significato a tutto ciò che noi cerchiamo di dare al mondo, sia che siamo artisti oppure no.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato al tema delle conversioni)

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Papa Francesco amato dagli anticlericali? Anche Gesù, molto più di lui

«Ha fatto in modo che non credenti, ebrei, protestanti guardassero alla Chiesa cattolica in modo nuovo, con interesse. Papa Francesco ha colto con precisione quanto secolare sia il mondo di oggi e quanto poco la gente sappia della cristianità. Il Papa è stato geniale nell’andare diretto al cuore del messaggio di Cristo: la misericordia, che solo Dio può dare». A parlare è il principale filosofo conservatore americano, Michael Novak, da sempre molto legato a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

Non sfugge che i più entusiasti verso il pontificato del Papa siano proprio le persone più vicine ai suoi predecessori. Abbiamo riportato, ad esempio, i numerosi interventi del segretario personale di Benedetto XVI, padre Georg Gaenswein e quello del card. Camillo Ruini, nel quale ha definito «ciechi» gli attuali critici di Francesco. Sempre il noto filosofo cattolico, in un’altra intervista, ha elogiato (come ha fatto in precedenza anche Vittorio Messori), l’approccio del Pontefice in questi anni al tema dell’Islam: «non ha parlato del Medio Oriente in termini politici, per evitare la percezione di uno scontro fra la Chiesa cattolica e l’Islam, ma ha affrontato il problema delle persecuzioni dei cristiani in maniera molto forte, attraverso lo strumento della difesa dei diritti umani». Con poche parole, Novak, ha dunque risposto alle due principali accuse che in questi tre anni si è dovuto sorbire Papa Francesco. Abbiamo già risposto a quella legata all’Islam, oggi vorremmo replicare a chi fa notare che Francesco viene ampiamente elogiato dal mondo laicista e anticlericale.

L’accusa è ben sintetizzata in questa frase trovata sul web: «Come mai laici, atei, omosessuali, massoni, politici comunisti sono tutti dalla parte di papa Francesco? Si sono convertiti gli scalfari, i pannella, le bonino, le madonna, gli Elton John, i Fidel Castro, gli Obama ecc.?». La profondità delle obiezioni è quella che è, tuttavia contiene un aspetto di verità: verso Francesco esiste un insolito apprezzamento dal mondo anticlericale, un fenomeno di mitizzazione del suo pontificato, tuttavia, come abbiamo scritto nel nostro dossierin molti casi si tratta di una precisa strategia mediatica che tenta di onorarlo e incensarlo indipendentemente dal contenuto dei suoi pronunciamenti, censurando quelli scomodi, enfatizzando ogni suo intervento come “apertura” per porlo così in contrasto con i suoi predecessori e con la Chiesa stessa (secondo la logica: Francesco si, la Chiesa no). Lui stesso se ne è accorto: «Non mi piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa Francesco. Quando si dice per esempio che esce di notte dal Vaticano per andare a dar da mangiare ai barboni in via Ottaviano. Non mi è mai venuto in mente. Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione. Dipingere il Papa come una sorta di superman, una specie di star, mi pare offensivo».

Una piccola parte di cattolici è effettivamente caduta nella trappola, credendo davvero che il Papa stia, abbia o voglia cambiare la dottrina cattolica, celebrare i matrimoni gay, eliminare la confessione, istituire le donne prete e far sposare i sacerdoti. Sono persone disinformate, che si lasciano trarre in inganno dai giornalisti tradizionalisti (Sandro Magister, su tutti). «Francesco è anche chiaramente un “conservatore”», ha commentato ieri il principale vaticanista estero, John L. Allen, «nel senso che in questi tre anni non ha contraddetto un singolo comma del catechismo. Ha detto “no” al sacerdozio femminile, “no” al matrimonio gay, ha definito l’aborto come il “più orribile” dei delitti, ha difeso il divieto del controllo delle nascite e su ogni altra questione controversa si è dichiarato un fedele “figlio della Chiesa.” In nessun modo ha ammorbidito il concetto di peccato. La sua rivoluzione è a livello della prassi pastorale, non della dottrina».

Tuttavia il Papa non rinuncia contemporaneamente a tendere continuamente la mano verso i più noti esponenti del mondo laico, sopratutto italiano, da Eugenio Scalfari a Emma Bonino. Come ha ben spiegato il vaticanista progressista Luigi Accattoli: «al Papa interessa interloquire con chi ha un ruolo dominante nella comunicazione di massa e nel dibattito culturale. Non si identifica con Scalfari, Pannella, Bonino, o con gli operatori dei media con i quali dialoga in aereo. Ma vuole mostrare alla comunità cattolica che è possibile parlare con loro. Anzi, che è necessario. Le interviste di Scalfari a Martini, la Cattedra dei non credenti, il dialogo di Benedetto con Pera o con Odifreddi, il Cortile dei Gentili avevano in fondo lo stesso segno». Eppure questo scatena le urla dei farisei odierni: «Bergoglio, dopo aver amorevolmente telefonato a Pannella, l’ha rifatto pure con Benigni e ieri è intervenuto anche sulla guarigione del medico Gino Strada»scrive scandalizzato Antonio Socci. La stessa tattica usata dai farisei per denigrare l’autorità di Gesù quando lo sorpresero mangiare a casa di Zaccheo: «Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33-34).

Il giornalista di Libero anche questa mattina ha riciclato il suo zibaldone di critiche catastrofiste: il Papa provocherà «un tragico scisma», la «situazione sembra precipitare ogni giorno di più», per colpa sua «l’umanità finisce nel baratro», «ha picconato la dottrina cattolica», Francesco «è il nuovo Lutero» e amenità varie. Socci si è anche inventato un metodo per valutare l’autenticità dei papi: «negli anni scorsi i pontefici (uomini santi), oltre alle opposizioni interne, hanno dovuto sopportare la durissima ostilità del mondo», ha scritto. «Hanno vissuto una vera Via Crucis. E questa è la prova dell’autenticità». Se le cose stanno così, occorre osservare che l’esistenza stessa del quotidiano stalking mediatico ai danni di Francesco da parte del mondo tradizionalista-lefebvriano -inesistente nei confronti dei suoi predecessori-, dimostrerebbe automaticamente la sua autenticità. Forti sono anche le opposizioni “esterne”, se pensiamo alle critiche dei vari Donal Trump e affini. Quindi sì, secondo i bislacchi parametri di Socci, Papa Francesco è autentico.

Ma lo stesso avviene da sempre anche per Gesù Cristo, per San Francesco d’Assisi, per Madre Teresa di Calcutta, note icone anche del mondo anticlericale. Gesù, in particolare, è diventato nei secoli il pupillo di atei, laicisti e anticlericali, ammirato da Nietzsche a Schopenhauer, mitizzato dai rinascimentali e dagli illuministi, strumentalizzato dai comunisti (“il primo comunista della storia”, dissero), esaltato dal mondo femminista (“il primo femminista fu Gesù Cristo”, dicono), strattonato dalla comunità Lgbt (“Gesù era inequivocabilmente e apertamente omosessuale”). Quante volte leggiamo e sentiamo accuse alla Chiesa e ai cattolici da parte dei loro feroci nemici, criticati per aver tradito il messaggio evangelico e sbiadito la luminosa figura di Gesù Cristo? Non è forse il leitmovie dei tanti Corrado Augias? E si sono mai convertiti tutti loro?

Prendiamo come esempio l’anticlericale Dacia Maraini che, sul Corriere della Sera, ha commentato gli attentati di Parigi accusato le religioni e il monoteismo di tutti i mali della storia. Salvo poi aggiungere: «Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza?». Gesù, quindi, adulato da chi combatte le religioni e non ha alcuna intenzione di convertirsi: anche il Messia allora non era autentico? Anche lui ambiguo? Oppure sono strumentalizzazioni, esattamente come avviene per Papa Francesco (e per san Francesco d’Assisi ecc.)? Gesù vanta uno stuolo di adulatori e cortigiani immensamente più vasto, servile e soffocante non solo di Papa Francesco, ma anche di Maometto, accusato di pedofilia per aver avuto una sposa bambina di 8 anni, per non parlare di Lutero, fondatore del protestantesimo, considerato un razzista e un antisemita. Se tutto si misura in termini di audience, i socciani dovrebbero quindi negare l’autenticità non solo al Papa, a causa dell’apprezzamento ricevuto dal mondo laicista, ma sopratutto a Gesù Cristo che subisce una imparagonabile ammirazione dai più grandi persecutori dei cristiani. Così come dovrebbero esaltare l’autenticità dei criticatissimi Maometto e Lutero.

Il vaticanista John L. Allen ha scritto pochi giorni fa: «C’è una convinzione profondamente radicata che Papa Francesco sia ostacolato dai vescovi conservatori arrabbiati con lui, sia in Vaticano che in tutto il mondo, e che alcuni di questi presunti nemici manovrerebbero contro di lui. In verità la stessa resistenza interna si è verificata anche nel pontificato di San Giovanni Paolo II e il contraccolpo interno subìto da Papa Benedetto XVI è stato molto più cattivo di quello oggi affrontato da Francesco: due autorevoli giornalisti italiani hanno pubblicato un libro intitolato “Attacco a Ratzinger” in cui sono state documentate le varie forze nella Chiesa, tra cui alcuni funzionari del Vaticano e vescovi di tutto il mondo, che non solo hanno criticato Benedetto, ma hanno sovvertito attivamente la sua agenda». Lo stesso, ha proseguito Allen, è accaduto a Papa Giovanni XXIII e Paolo VI. «Non esiste alcuna reale indicazione che il contraccolpo vissuto da Francesco sia superiore a quello dei suoi immediati predecessori».

Bisogna dunque decisamente ridimensionare le critiche interne a Papa Francesco, inferiori a quelle vissute da Benedetto XVI, e sottolineare che nemmeno l’obiezione sui suoi adulatori anticlericali ha alcun senso, poiché sono gli stessi che contemporaneamente ritengono “uno di loro” anche Gesù Cristo, strumentalizzandolo e mitizzandolo. Per quanto ci riguarda, ringraziamo devotamente il Pontefice per il bene che sta facendo, per questi tre anni di autentica guida della nostra Chiesa, custode della tradizione e àncora dell’unità dei cattolici. Ci auguriamo un lungo pontificato e auspichiamo la conversione dei pochi e confusi critici, che ogni Papa è evidentemente destinato ad avere al suo seguito.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato a Papa Francesco)

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Caso Varani, «la comunità Lgbt ora teme che emerga lo stile di vita gay»

marco prato«Marco Prato era “uno di noi”. Nel senso che faceva la vita che molti gay facevano, al netto di certi eccessi: penso a quello della droga. La comunità Lgbt ha paura che si raccontino cose che tutti conoscono. Che si scoperchi il vaso di Pandora. Tutti sanno, ma è meglio non parlarne». A dirlo è Marco Pasqua, attivista omosessuale e giornalista presso Il Messaggero. Marco Prato (nella foto) è uno dei due killer del 23enne Luca Varani, barbaramente massacrato e ucciso il 4 marzo scorso in un quartiere romano.

La morte è avvenuta durante un festino gay a base di cocaina e alcol e si sta rivelando uno dei casi più terribili degli ultimi anni. Gli agghiaccianti particolari che emergono, ora dopo ora, descrivono uno scenario fuori da ogni immaginazione, tanto che c’è già chi afferma che il delitto consumatosi è ben peggiore del massacro del Circeo, poiché non c’è più nemmeno l’elemento politico come movente, ma soltanto la pura violenza e il vuoto esistenziale vissuto dai protagonisti.

E’ stata rilevata molta iniziale reticenza mediatica nel raccontare che l’omicidio è avvenuto all’interno di un’orgia omosessuale, pochi hanno raccontato che Marco Prato -assieme all’altro omicida, Manuel Foffo- è un noto attivista Lgbt della movida romana: «Nella Romanella frociona e godona Marco Prato era noto come “la lesbica con la parrucca”», si legge su Dagospia. «Assai noto nella Roma gaya e benestante». Organizzava serate al «primo e unico club transgender d’Italia» e su Twitter ritwittava chi sbeffeggia i credenti, i fedeli di Padre Pio e i difensori della famiglia. E’ effettivamente significativo che l’ultimo post pubblicato su Facebook dalla vittima, Luca Varani, sia stato contro i matrimoni omosessuali. Lo ha fatto notare Mario Adinolfi, anche se per ora non sembra che gli inquirenti abbiano indicato questo come movente. Tuttavia, rimane valida la sua riflessione: se la vittima fosse stato un difensore del Gay Pride, ucciso da due Sentinelle in Piedi dopo aver scritto un post a favore delle nozze omosessuali, allora si sarebbe scatenato il finimondo. E’ invece accaduto il contrario e, come è stato osservato, i cronisti sorvolano.

La stampa è stata tuttavia costretta a parlarne poiché lo stesso Marco Prato ha rivelato di aver accolto Varani nell’appartamento, travestito da donna, con parrucca, smalto e tacchi a spillo. Vestiva così da giorni perché il complice, Manuel Foffo, «voleva che fossi la sua bambolina». Il giovane è stato invitato, dicono, perché Foffo «voleva simulare uno stupro con un prostituto-maschio». Dopo un rapporto a tre, condito da pesanti dosi di cocaina, qualcuno ha versato un farmaco nel bicchiere di Varani, tanto da provocargli un malore. Foffo e Prato si sono accaniti sul 23enne «in preda a un improvviso e insensato odio e repulsione», colpendo la vittima alla testa con un martello, almeno trenta volte, accoltellandolo più volte fino a devastargli il collo e il volto, tentando di strozzarlo, sgozzandolo per non farlo urlare. E poi lasciandolo morire per dissanguamento. La tortura è durata dalla notte di giovedì alla mattina di venerdì, «gli abbiamo messo una coperta sul volto, respirava ancora», hanno detto i due. Quando i carabinieri sono entrati nell’appartamento il corpo aveva ancora la lama conficcata, i due killer, invece, dopo essersi addormentati sul corpo martoriato di Varani, sono usciti, si sono sbarazzati del cellulare e dei vestiti della vittima e si sono recati a bere in alcuni locali. Il gip di Roma ha spiegato che l’omicidio è arrivato in seguito ad una «fredda ideazione, pianificazione ed esecuzione. L’azione omicida presenta modalità raccapriccianti. Il fatto è tanto efferato e preceduto da sevizie e torture, senza altro movente se non quello di appagare un crudele desiderio di malvagità».

Il sito web Dagospia, contattato da una fonte attendibile, ha raccontato che l’attivista Lgbt Marco Prato «amava fare sesso alla presenza di sangue. A volte usava anche delle lamette per fare o farsi dei piccoli tagli, succhiava il suo sangue e quello del compagno del momento. Quello che tutti ricordano è anche un rapporto conflittuale con la figura paterna. E una relazione ossessiva con quella materna». Quello di Prato ricorda molto il profilo di Mario Mieli, icona gay italiana a cui è dedicato il principale circolo omosessuale d’Italia, anche lui vestiva abiti femminili ed era protagonista di pratiche orribili, come la coprofagia (mangiare i propri escrementi).

La mattina dopo l’omicidio, Prato ha tentato il suicidio rivelando in alcune lettere il desiderio sempre nutrito di operarsi e “diventare” donna. Lo psichiatra Massimo Di Giannantonio, docente presso l’Università di Chieti, ha spiegato che «in questi casi ci troviamo di fronte ad un disturbo grave dell’identità di genere unito a una omosessualità egodistonica, elementi che incidono sull’equilibrio psicopatologico e possono portare l’individuo a un tentativo di ‘automedicazione’ con sostanze psicoattive come la cocaina». Sempre su Dagospia, si legge: «A Prato piacevano assai le “notti sbagliate”. Quelle in cui all’alcol e al sesso si univano abbondanti dosi di coca e di GHB. Quest’ultima è la droga “frocia” che in questo periodo va per la maggiore tra l’upper-class gaya meneghina e capitolina». Non va meglio a Milano, al noto locale gay Muccassassina: «al primo piano esiste una vasta e accogliente dark room, dove si consumano rapporti sessuali fugaci e anonimi, squallidi e sudati, ma che sono parte integrante, almeno per alcuni, di un rito settimanale che ha la sua liturgia», rivela Il Fatto Quotidiano.

Quello che è arrivato alle cronache nazionali è uno spaccato reale di vita gay, dello stile di vita di molti omosessuali militanti. Lo ha ammesso il già citato Marco Pasqua, omosessuale dichiarato e vice capo della cronaca de Il Messaggero: «Sono preoccupato, così come lo è la comunità LGBT romana. Marco era “uno di noi”. Nel senso che faceva la vita che molti gay facevano, al netto di certi eccessi: penso a quello della droga». E’ stato Pasqua a legare il caso alle folli serate arcobaleno: «Racconto un mondo che  tutti i gay conoscono. Un mondo in cui navigano anche gli etero (repressi), quelli a caccia di transessuali, ma che potrebbero anche passare una notte con dei ragazzi gay. E’ una realtà borderline. La comunità ha paura che si raccontino cose che tutti conoscono. Che si scoperchi il vaso di Pandora. Tutti sanno, ma è meglio non parlarne».

Non sembra essere soltanto una caratteristica italiana. Simon Fanshawe, importante scrittore omosessuale e inglese, ha affermato: «noi uomini gay viviamo la vita da adolescenti, ancora ossessionati dal sesso, dai corpi, dalle droghe, dalla gioventù, e dall’essere “gay”. Abbiamo combattuto discriminazione e pregiudizio, ma solo per arrivare distruggere noi stessi con droghe e sesso selvaggio. Abbiamo normalizzato la prostituzione. E’ praticamente un percorso obbligato per qualsiasi ragazzo. Siamo assetati di vanità, abbiamo organizzato la nostra identità intorno al sesso e questo è deleterio. Così la promiscuità e la droga sono diventate la norma». Lo stesso ha rivelato Matthew Todd, drammaturgo e redattore della rivista gay inglese “Attitude”: «C’è questo luogo comune che passiamo tanto tempo a fare festa, ma in realtà noi lo sappiamo bene e le ricerche ora lo dimostrano: c’è un inferno di gay infelici, un alto numero di depressi, ansiosi e con istinti suicidi, che abusano di droghe e alcol e che soffrono di dipendenza sessuale, tassi molto più elevati di comportamento auto-distruttivi. La vita gay è incredibilmente sessualizzata. I ragazzi entrano in questo mondo sessualizzato dove c’è un sacco di alcol e un sacco di droga, non c’è nulla di sano, dolce o rilassato». Pochi giorni fa, altro esempio, il più noto attivista Lgbt in Germania, il politico Volker Beck (leader dei Verdi), è stato arrestato mentre lasciava l’appartamento di uno spacciatore, con addosso 0,6 g di Crystal Meth, droga usata nel “chemsex”, una sorta di sesso estremo e compulsivo praticato sopratutto in ambito omosessuale (lo stesso che praticava Marco Prato). Beck è anche noto per aver inneggiato alla depenalizzazione dei contatti sessuali con i bambini.

Queste persone, al di sopra di ogni sospetto, parlano ed accusano esplicitamente la “vita gay”, la “comunità gay”, mentre sappiamo bene che non esiste una vita o una comunità etero. Possono farlo perché quella omosessuale è una realtà numericamente piccola, dove pochi casi diventano statisticamente rilevanti, sopratutto se accade quello che questi attivisti Lgbt raccontano. In ogni caso, tornando all’omicidio del giovane Varani, seppur nella cronaca degli ultimi dieci anni esistano pochi casi di tale efferatezza psicopatica, ha comunque ragione chi chiede di non generalizzare, di non colpevolizzare tutti gli omosessuali per quanto avvenuto (anche se poi chi lo chiede è il primo a colpevolizzare tutti i sacerdoti quando qualcuno di essi commette il crimine della pedofilia). Sarebbe ingiusto e irragionevole.

Ma è evidente che il tema qui è lo stile di vita di molti attivisti Lgbt, quello di chi si trova per picchiare le Sentinelle in Piedi, per impedire i convegni sulla famiglia, di coloro che diffondono odio sui Twitter (e che poi magari pretendono pure l’adozione dei bambini). Se non fosse così, la comunità gay non sarebbe preoccupata «che si raccontino cose che tutti i gay conoscono», come affermato dal giornalista omosessuale de Il Messaggero. Uno stile di vita, leggiamo, che solitamente crea «un inferno di gay infelici» ma che in questo caso ha prodotto anche due mostri umani. Anzi, l’inferno vero e proprio, colorato dalle gioiose tinte della bandiera arcobaleno.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alle tematiche Lgbt)

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Il paesino di Siroki Brijeg dovrebbe essere il centro del mondo

sirokibrijegConoscete la città di Siroki Brijeg in Bosnia ed Erzegovina? Si trova a 40 minuti da Medjugorje, ma non è questa la sua caratteristica principale.

La piccola città, dal nome impronunciabile, vanta uno straordinario primato in tutta l’Europa: non è mai stato registrato un solo divorzio a memoria d’uomo tra i suoi 20mila parrocchiani (su 30mila abitanti), nessuna famiglia si è mai divisa.

Il segreto è un forte cattolicesimo popolare unito alla serietà con cui si vive la tradizione croata -che coinvolge moltissimi paesi bosniaci- verso il matrimonio (dove la difesa della famiglia, come unione tra uomo e donna, è stata scritta nella Costituzione per volontà popolare). C’è anche una grande storia di dolore alle spalle della gente di Siroki Brijeg, la cui fede è stata a lungo tempo minacciata dai musulmani turchi, prima, e dal comunismo poi. Il 7 febbraio 1945 divenne la sede della terribile strage di 66 frati francescani, ad opera di partigiani comunisti durante la Seconda Guerra Mondiale. L’essere costretti a richiamare i motivi della propria fede porta sempre ad una saggezza ed una certezza personale che permette anche di non essere “ingannati” dalla menzogna del progresso.

Le fonti che parlano di questa cittadina spiegano che il matrimonio viene vissuto come indissolubilmente unito alla croce di Cristo ed infatti, secondo la tradizione croata, alla coppia che si prepara al matrimonio non viene insegnato a guardare al partner come alla persona perfetta, come colui/colei che compie il destino dell’altro, in senso platonico. No! Il sacerdote dice loro: «Hai trovato la tua croce! Una croce da amare, da portare con te per sempre». La croce, nel cristianesimo, è la condizione per la salvezza personale, così il marito non ha la capacità di compiere la moglie, o viceversa, ma entrambi sono la condizione reciproca che permette la realizzazione della propria vocazione. Se uno abbandona l’altro, abbandona Cristo. Tradisce il compito da Lui affidatogli. Questa è la visione cristiana del matrimonio, che viene ancora autenticamente vissuta e insegnata a Siroki Brijeg.

Per la semplice gente di quel sperduto paesino bosniaco non esistono avvocati, psicologi di coppia, maghi o astrologi. Se c’è un problema, tra i due sposi c’è solo la preghiera comune, in ginocchio entrambi davanti al crocifisso si trova la forza di perdonarsi, di superare l’orgoglio, di piangere, di gridare le proprie sofferenze e di tornare ad abbracciarsi. Di sentirsi perdonati da un Altro per la propria piccolezza. Per farlo seriamente serve, chiaramente, la viva coscienza di Chi è che tiene assieme nel sacramento i due sposi. Perché la vera unità è impossibile all’uomo.

Gli abitanti di Siroki Brijeg educano così, da decenni, i loro figli, a loro danno questa testimonianza di amore. Il mistero di Dio è anche questo, la scelta dei piccoli come testimoni ai grandi. Il figlio di un umile falegname di Nazareth sconvolge la storia divenendo la via, la verità e la vita. I poveri e ignoranti pastorelli di Lourdes e Fatima diventano strumento per la conversione di milioni di persone, sapienti ed intellettuali. Allo stesso modo, un piccolo e sconosciuto paesino europeo diviene silenzioso testimone dell’amore indissolubile, realtà ormai sconosciuta alle grandi città occidentali, i cui abitanti sono sempre più lontani gli uni agli altri. Schiacciati dalle macerie e da quel che rimane dei loro progetti matrimoniali.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato al tema della famiglia)

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Crescono i cattolici nel mondo, ma è davvero importante?

francesco san pietroL’anno scorso è stato il Pew Research Center a pubblicare una proiezione, fino all’anno 2050, sull’espansione della religione, rilevando che il cristianesimo resterà il più grande gruppo religioso del mondo (crescita del 35%), mentre per quanto riguarda atei, agnostici e non affiliati si assisterà in generale ad un loro progressivo «declino nella quota della popolazione totale del mondo», passando dal 16% attuale al 13% nel 2050.

Pochi giorni fa è uscita invece la pubblicazione dell’Annuario Pontificio 2016 e dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2014, confermando che nel corso degli ultimi nove anni il numero dei cattolici battezzati nel mondo è cresciuto ad un ritmo superiore (14,1%) a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (10,8%). Certo, il conteggio viene fatto sui battezzati adulti ma, sopratutto, sui neonati, il cui battesimo però, non va dimenticato, è stato scelto dai loro genitori in percentuale statisticamente superiore rispetto al passato. Sono perciò dati comunque significativi. Se nel 2005 i battezzati cattolici erano il 17,3% della popolazione mondiale, infatti, nel 2014 sono saliti al 17,8%. In termini assoluti si contano circa 1 miliardo e 272 milioni di cattolici distribuiti eterogeneamente nelle varie aree geografiche.

Eterogeneamente, quindi sbaglia chi obietta dicendo “sei cattolico perché sei nato in Italia”, come se la fede fosse solo questione di cultura e tradizione. E’ l’Africa a veder lievitare il numero dei battezzati (215 milioni nel 2014), dove aumentano ad un ritmo pari a più del doppio di quello dei Paesi asiatici (quasi il 41%) e di gran lunga superiore alla crescita della popolazione (23,8%). L’Europa si conferma l’area meno dinamica in assoluto, con una crescita del numero dei cattolici, nell’intero periodo di poco superiore al 2% cento. La presenza dei cattolici sul territorio europeo si stabilizza attorno al 40%, con una correzione trascurabile rispetto al 2005. In Oceania, in riferimento all’intero periodo 2005-2014, i cattolici battezzati crescono meno della popolazione (15,9 per cento e 18,2 per cento, rispettivamente).

Il numero dei sacerdoti diocesani e religiosi è passato da 406.411 nel 2005 a 415.792 nel 2014 ma, leggendo tra le righe, si scopre che il ritmo di crescita è stato più sostenuto nei primi sei anni e in lenta decrescita negli ultimi tre. L’Africa (+32,6%) e l’Asia (+27,1%) guidano la classifica, mentre l’Europa (-8%) chiude la coda. Le defezioni si sono progressivamente ridotte ma i decessi salgono. I sacerdoti diocesani presentano andamenti nel complesso crescenti – fatta eccezione per il Vecchio continente – al contrario di quelli religiosi che sono in declino nelle Americhe, in Europa e in Oceania. A farsi spazio è la figura del diacono permanente, che è il gruppo in più forte evoluzione: da circa 33mila nel 2005 hanno raggiunto quasi le 45mila unità nel 2014 (+33,5%).

Le religiose professe hanno raggiunto nel 2014 una popolazione di 682.729 unità, per circa il 38% presente in Europa, seguita dall’America che conta oltre 177mila consacrate e dall’Asia che annovera 170mila unità. Il gruppo è in flessione del 10,2%, benché il calo si concentri soprattutto in America, Europa e Oceania. La frazione delle religiose in Africa e in Asia sul totale mondiale, infatti, passa dal 27,8% al 35,3% a discapito dell’Europa e dell’America la cui incidenza nell’insieme si riduce dal 70,8% al 63,5%. Il numero dei seminaristi maggiori (diocesani e religiosi) passa da 114.439 nel 2005 a 120.616 nel 2011, ma torna a scendere a 116.939 nel 2014. La diminuzione degli ultimi tre anni ha interessato tutti i continenti, con l’eccezione dell’Africa (+3,8%).

Per quanto riguarda in particolare la Spagna, la Conferenza Episcopale Spagnola (CEE) ha riferito che nel 2015 sono stati ordinati 150 sacerdoti, 33 in più rispetto al 2014. Nel 2013 erano stati 131; nel 2012 erano 130 e 122 nel 2011. Una crescita costante, quindi. I seminaristi minori sono 1.203, 1.300 invece quelli maggiori.

 

Facendo un discorso più globale, si è verificato un chiaro mutamento geografico, come rilevato tre anni fa dal Pew Research Center. Se nel 1910 l’Europa era la patria di circa due terzi dei cattolici, nel 2010 solo un quarto di essi cattolici (24%) viveva lì, la popolazione europea è così passata ad essere cattolica dal 44% al 35%.

pew-distribuzione cattolici

 

Rispetto alla popolazione generale, invece, dal 1910 al 2010 quella dei cattolici è diminuita in Europa e Africa del Nord, è invece cresciuta in Nord America, in Africa sub-sahariana e in piccola parte anche in Asia.

pew-percentuale cattolici

 

Il Brasile è lo Stato che detiene la percentuale più alta di cattolici nel mondo, seguito da Messico, Filippine e Stati Uniti, la popolazioni che invece si dichiara percentualmente più cattolica è quella polacca, seguita dai messicani, dai colombiani, dagli italiani e dai filippini. Nel 1910 il primato spettava invece alla Francia e tra i primi posti figurava anche la Germania. Rispetto alla percentuale di popolazione che si dichiarava cattolica, notiamo che la secolarizzazione si è verificata prevalentemente in Francia, Spagna e Repubblica Ceca mentre, al contrario, è aumentata la percentualmente la popolazione cattolica nelle Filippine, negli Stati Uniti, in Colombia, in Polonia e nel Congo.

pew-paesi cattolici

 

La situazione a livello statistico non è certo rosea ma, nonostante le persecuzioni in molte regioni del mondo e la pesante secolarizzazione in altre, il popolo cattolico non ha subìto quel disastroso affondamento in termini statistici che tutti credono, rilevante invece nelle altre confessioni cristiane. Ma è l’ingrossare le file ciò che davvero interessa? Assolutamente no, la gioia o il dispiacere rispetto a dati del genere si motiva esclusivamente dal desiderio di condividere con più fratelli uomini possibili quel che davvero salva e libera l’esistenza, cioè Colui che si è proclamato via, verità e vita. 

 

MA E’ DAVVERO QUESTO QUELLO CHE CONTA?
Bisogna tuttavia aggiungere che i numeri dicono poco, anzi forse nulla. Quello che conta è l’autenticità della fedeParadigmatica è la situazione italiana, dove l’80% si dichiara cattolico ma meno del 30% frequenta i sacramenti e vive la sua vita in coerenza con il Magistero della Chiesa (e lo stesso accade in gran parte dei Paesi occidentali). Al contrario, le comunità più vive, unite ed autentiche sono spesso quelle più piccole, frequentemente discriminate, perché costrette ogni giorno a rendere ragione di ciò in cui credono, fortificando in tal modo la loro posizione. Per questo, la secolarizzazione, va vista anche come un’importante occasione per purificare ed autenticare la fede di coloro che rimangono. Tanti o pochi che siano.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato al tema della diffusione della religione).

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Il Vaticano non aiutò la fuga dei nazisti, è un’altra leggenda nera

Oltre la leggenda neraNiente di più di una “leggenda nera”, adattissima alla fantasia dei romanzieri, ma priva di riscontro nelle fonti storiche. E’ la tesi, diffusa nell’immediato dopoguerra e radicatasi nel tempo, di un coinvolgimento diretto della Chiesa – da papa Pio XII ai suoi più diretti collaboratori, dagli organismi umanitari alle diocesi e alle associazioni ecclesiali – nell’agevolare vie di fuga per i criminali nazisti dall’Europa liberata dagli Alleati.

Si intitola Oltre la leggenda nera. Il Vaticano e la fuga dei criminali nazisti (Mursia) il libro di Pierluigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa presso il Centro diocesano di teologia per i laici “Ecclesia Mater” della Pontificia Università del Laterano, frutto di dieci anni di lavoro negli archivi di 14 Paesi diversi. La c.d. Rete Odessa avrebbe dovuto aiutare i nazisti a lasciare Germania, Francia, Croazia, Europa dell’est per imbarcarsi verso l’America latina, in particolare Argentina, Bolivia e Paraguay. Punto di snodo di questi itinerari erano i porti italiani di Genova e Napoli ed è qui che nasce l’ipotesi del coinvolgimento delle strutture ecclesiali impegnate nell’assistenza umanitaria alle centinaia di migliaia di profughi che si erano riversati in Italia dalle stesse zone.

«Occorre fare una distinzione», afferma Guiducci, «tra la fuga dei criminali e quella dei profughi». Questi erano privi di tutto: vestiti, cibo, denaro, documenti. Molti di loro erano apolidi, perché il territorio dal quale provenivano era passato sotto una diversa nazionalità. Verso questi uomini, donne, bambini segnati da vicende terribili e bisognosi di aiuto si profuse l’impegno delle organizzazioni umanitarie ecclesiali e non solo. «I criminali nazisti», prosegue Guiducci, «avevano sia soldi che conoscenze. Non va dimenticato che fino al 1943 e all’armistizio con gli anglo-americani, l’Italia era stata alleata del Terzo Reich e quindi i nazisti potevano muoversi con relativa facilità sul territorio». Le SS, inoltre, disponevano di una sezione specializzata per la preparazione di documenti: «Non avevano problemi ad assumere l’identità di un’altra persona, magari morta in un campo di concentramento. I criminali nazisti riuscirono a farla franca in molti casi, sia pure non sempre, perché si mescolarono ai profughi». Senza più divisa, con documenti falsi, in compagnia magari di moglie e figli piccoli, sfuggirono ai controlli.

Controlli – e questo è un altro punto rilevante della ricostruzione storica – furono poco severi per un mix di ragioni, pratiche e politiche. Guiducci ha lavorato sui testi delle direttive indirizzate in quel periodo ai prefetti italiani a proposito dei profughi: «L’idea centrale era: mandarli via il più presto possibile. L’Italia bombardata del dopoguerra non ha le risorse per accoglierli e mantenerli».

La “leggenda nera” dell’aiuto della Chiesa nella fuga dei criminali nazisti è servita anche a tenere in ombra le responsabilità degli Alleati in questa vicenda: «Gli Stati Uniti accolsero più di 2 mila nazisti utilizzandone l’intellighentia, tra l’altro, nel settore dellamissilistica e dell’intelligence». Era mutato, infatti, il quadro politico: «La nascita della Cortina di ferro e l’inizio della Guerra fredda resero necessario l’impiego di spie da inviare in Unione Sovietica: chi meglio degli ex nazisti che conoscevano quei territori e ne parlavano la lingua? Ci fu un silenzio complice: da un lato si portava in luce la Shoah, dall’altro si nascondevano i fascicoli degli eccidi nazisti negli ‘armadi della vergogna‘, girati verso il muro perché i resoconti non fossero trovati».

Da fonti quali gli archivi dell’intelligence inglese, che aveva messo a punto una macchina per decrittare i messaggi segreti dei nazisti, non risulta nulla a proposito di una “strada dei monasteri”, cioè rifugi costituiti da parrocchie, conventi e istituti religiosi che avrebbero ospitato i criminali in fuga: «I criminali nazisti» – afferma Guiducci – «furono aiutati dai loro complici che non erano strutture cattoliche. Nei report dell’intelligence non emerge la citazione di nessun convento o monastero. Non si può escludere che qualche criminale vi abbia transitato, ma questo è diverso dal sostenere che siano stati luoghi che abbiamo protetto la fuga con la volontà di coprire dei criminali. Questo non risulta da nessuna parte».

 

Qui sotto ne parla il prof. Guiducci

 

Chiara Santomiero, tratto da Aleteia 26/02/16.
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla tematica Chiesa e nazismo).

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“God’s not dead”, film curioso ed originale. Visione consigliata!

Gods-not-DeadUn film che merita di essere visto al cinema in questi giorni si chiama God’s not dead (“Dio non è morto”). Un film insolito che non può che destare curiosità sotto molti aspetti.

Innanzitutto per un oggettivo e pragmatico motivo economico: costato 2 milioni di dollari, al momento ne ha incassati ben 60, pur non annoverando nel cast attori particolarmente noti. Un risultato che, per molti produttori e distributori di pellicole, è un miraggio, tanto da portare in lavorazione un sequel che verrà distribuito a pochi mesi dall’uscita del primo. Fotografia e musiche sono ben calibrate e capaci di suscitare emozioni, in certe scene è anche facile scoprirsi con gli occhi lustri o col sorriso sulle labbra.

Il dato rilevante, però, è soprattutto per quanto riguarda i contenuti e per l’efficace tratteggio delle dinamiche psicologiche e antropologiche, oltre che spirituali, dei personaggi. In estrema sintesi, la trama ruota attorno allo scontro tra un docente universitario di filosofia ateo e un suo alunno cristiano. Alla prima lezione, il professore chiede agli alunni di sottoscrivere e firmare l’affermazione “Dio è morto” ricevendo il consenso della classe ma anche il rifiuto del giovane protagonista, che viene così sfidato dal docente a dimostrare pubblicamente l’esistenza di Dio. Accanto a questi personaggi ne sono presenti altri, le cui storie si incroceranno in vario modo: un agnostico cinese, un’islamica criptocristiana, una blogger non credente ecc.

Può essere utile sottolineare alcuni elementi che potrebbero non essere colti dopo una visione superficiale del film. Innanzitutto il titolo e la locandina del film: God’s not dead, dove il “not” appare come una modifica correttiva. Il richiamo implicito è all’opera del filosofo Anthony Flew, morto nel 2010, il quale negli ultimi anni di vita, dopo una brillante carriera da “ateo più famoso del mondo”, arrivò ad ammettere per via razionale l’esistenza di Dio, pubblicando nel 2007 un testo con l’iconografico titolo “There is no a God”, con la negazione corretta, esattamente come il titolo del film oggi nelle sale. Interessante nel film anche la relazione tra una giovane protagonista e un rampante uomo d’affari. Quando lei gli annuncia di avere un cancro, lui cinicamente dichiara che questo comporta l’annullamento del contratto. Suggerendo implicitamente un contratto stile Grey-Anastasia (cfr. Cinquanta sfumature di grigio), e portando a chiedersi: cosa succederebbe in una relazione malata e carnale come quella, se irrompesse un male incontrollato? Parole come amore, affetto, aiuto, vicinanza, avrebbero un senso?

Nella pellicola compare anche una fuggevole intervista ad un personaggio che richiama Phil Robertson, il protagonista di un noto reality americano, che nel film definisce eterna solo la gloria di Dio ed effimera quella del mondo. Robertson è stato oggetto di un caso mediatico nel dicembre 2013 quando in un’intervista disse (tra le altre cose) di non capire come gli uomini omosessuali non riescano ad essere attratti dalla figura femminile (usando termini più espliciti). Fu accusato di omofobia e inizialmente estromesso dalla serie di cui era protagonista. Una enorme mobilitazione mediatica, e il richiamo da più parti alla libertà di espressione, portò poi l’emittente a reintegrarlo con pubbliche scuse e il giorno di Natale furono mandate in onda repliche delle puntate per 12 ore.

Da un punto di vista teologico, nel film è possibile scorgere alcuni indizi che indicano un target originale rivolto ai protestanti moderati, la cosiddetta “mainstream”, distinta sia dal cristianesimo cattolico, sia soprattutto dal calvinismo e dal luteranesimo fondamentalista, di cui per esempio fanno parte i Testimoni di Geova. Tra gli argomenti di controversia tra il giovane cristiano e il docente di filosofia c’è anche il tema evolutivo, che fortunatamente non viene affatto negato nel messaggio lanciato dal film, nessun creazionismo proprio del protestantesimo fondamentalista. Parlando dell’origine del male, il giovane protagonista cita il principio cattolico del libero arbitrio, distante dal principio del servo arbitrio e dell’insondabilità della volontà di Dio, più propri della tradizione luterana. Infine, la maturazione spirituale di alcuni protagonisti si scontra col ferreo principio della predestinazione di stampo calvinista. Il film si distingue anche (in misura minore) dal cattolicesimo. Oltre a ricondurre l’ipotesi del Big Bang ad un vago “teista” come Georges Lemaître, evitando di ricordare che si trattava di un prete cattolico belga, le maturazioni dei protagonisti avvengono ad un livello interiore prettamente personale e fideistico, mentre manca l’incontro personale con una realtà umana (parrocchia, esperienza caritativa, sacramenti), caratteristica propria della spiritualità e agiografia cattolica.

Non sveliamo il finale del film, lasciamo aperte le domande circa i percorsi finali dei protagonisti: la classe decreterà la vittoria del giovane apologeta cristiano o dell’accademico ateo? La ragazza musulmana arriverà a confessare la sua fede cristiana al padre? Il giovane cinese, cresciuto in una cultura laicissima, si lascerà affascinare dalla figura di Gesù? La giovane atea aprirà uno spiraglio alla speranza di fronte alla morte imminente? Ma, sopratutto, lo scettico e razionalista professore di filosofia, arriverà alla conversione e al pentimento? Buona visione!

 

Qui sotto il trailer del film

 

Roberto Reggi
(articolo inserito nell’archivio dedicato alle tematiche su cinema e televisione)

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La comprensibilità dell’universo e l’esistenza di Dio

Diversi scienziati contemporanei hanno riconosciuto la necessità di Dio partendo dallo studio della natura, dall’ordine delle leggi fisiche e dalla comprensibilità ed intelligibilità dell’Universo. Eccone alcuni.

 
 
 

Uno dei motivi che spinge diversi scienziati verso l’idea di Dio è la comprensibilità dell’Universo.

«Se l’intero universo materiale può essere descritto dalla matematica», ha scritto ad esempio John David Barrow, uno dei principali matematici e cosmologi al mondo, «deve esistere una logica immateriale più vasta dell’universo materiale […]. Convinzioni di questo tipo sembrano implicare che Dio sia un matematico»1J.D. Barrow, Perché il mondo è matematico?, Laterza 1992, p. 69.

E’ quindi direttamente dallo sviluppo dello studio scientifico dell’Universo che si deduce una sua origine non casuale, ma voluta.

Ovviamente si può parlare di deismo, in questo caso, posizione non allineabile dal cristianesimo, al quale si approda sempre tramite un incontro personale e mai per un ragionamento o uno studio scientifico.

Di questo vale comunque la pena riflettere poiché offre notevoli spunti anche a chi ha avuto il dono della fede. Argomenti a favore, i deisti ne hanno tanti, dal fine-tuning alla teleologia (teleonomia) dell’evoluzione biologica e cosmologica.

 

La matematica, l’Universo e l’esistenza di Dio.

Un altro argomento, per l’appunto, è l’‘intelligibilità dell’universo.

Ma cosa significa intelligibilità? Lo spiega bene il filosofo Roger Trigg, professore emerito di Filosofia presso l’Università di Warwick:

«Quando si prende parte alla ricerca scientifica, si studia un mondo che si assume ordinato. Si dà per scontato che esistano delle regolarità da osservare. Di certo, se non fosse possibile scoprire l’ordine, non potremmo fare della scienza. E’ solo questione di caso? Secondo me no, l’ordine che la scienza scopre nella natura riflette in qualche modo la mente del creatore dietro le cose. In altre parole, l’ordine ha una base religiosa. In qualche modo, Dio, ha creato un mondo che ci mostra qualcosa della sua mente e della sua razionalità. La cosa più affascinante, è che tale ordine naturale si esprime in forma matematica, un linguaggio che l’uomo è capace di leggere e codificare e che rende l’universo, per l’appunto, comprensibile, intelligibile alla ragione umana. Una risposta potrebbe essere che noi in quanto creature fatte a immagine di Dio, riflettiamo, seppur in modo assolutamente attenuato, la razionalità del Dio che creò il mondo; la razionalità che noi possediamo rifletterebbe quindi in qualche modo la ragione incorporata nello schema stesso delle cose»2R. Trigg, in R. Stannard, La scienza e i miracoli, Tea 1998, p. 230, 231.

 

Questa corrispondenza tra la ragioen dell’uomo ed il linguaggio con cui è scritta la natura è un’altra incredibile e fortuita coincidenza?

C’è chi risponde di sì, chiudendo preventivamente l’uso della ragione, come ha fatto il matematico Bertrand Russell o il suo collega John Allen Paulos. C’è chi invece risponde di no, lasciandosi provocare dalla sfida all’intelligenza che la realtà fisica offre all’uomo.

 

Il doppio miracolo: l’ordine e l’intelligibilità.

«Per quanto mi riguarda», ha riflettuto ad esempio Owen Gingerich, professore emerito di Astronomia e Storia della scienza presso l’Università di Harvard, «piuttosto che credere che tutto ciò che ci circonda sia semplicemente un non senso, o una sorta di macabro scherzo, preferisco pensare che l’universo sia stato creato intenzionalmente e per un determinato scopo da un Dio amorevole»3O. Gingerich, Cercando Dio nell’Universo, Lindau 2007, p. 101.

La ricerca scientifica è possibile solo perché noi comprendiamo la realtà naturale, dalle particelle subatomiche ai processi avvenuti nell’universo appena nato. E’ un regalo all’uomo, «qualcosa di “non dovuto”, una circostanza che sembra gratuitamente offrirsi a noi come una eccedenza, quasi un “lusso” concesso all’essere umano», ha commentato a sua volta Marco Bersanelli, ordinario di Astrofisica all’Università statale di Milano.

«E’ tutt’altro che scontato che la natura sia così ben descritta da un particolare linguaggio, quello della matematica, il quale si dimostra straordinariamente efficace per la formulazione delle leggi fisiche. E’ un fatto sorprendente che la realtà si lasci conoscere, cioè che l’impresa scientifica nel suo complesso sia possibile»4M. Bersanelli, Solo lo stupore conosce, Bur 2003, p. 212.

D’altra parte lo stesso Albert Einstein riconobbe che «il fatto che il mondo sia comprensibile è davvero un miracolo». «E’ questione di convinzione che la natura, quale risulta percepibile dai nostri cinque sensi, abbia il carattere di un cruciverba ben congegnato. I successi ottenuti finora dalla scienza danno, in verità, un certo sostegno a questa convinzione. La cosa più incomprensibile dell’universo è il fatto che esso sia comprensibile»5A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri 1974, p.36-42.

Effettivamente i “miracoli”, in realtà, sono due: da una parte l’affascinante ordine e la razionalità della realtà, elemento impossibile se all’origine vi fosse solamente il caso o il caos, e che tale ordine sia scritto con lo stesso linguaggio scientifico usato dall’uomo, che con un tale ordine può in qualche modo stabilire un rapporto.

Proprio di questo “doppio miracolo” parla infatti anche il premio Nobel per la fisica, Eugene Paul Wigner: «E’ difficile evitare l’impressione di trovarci qui di fronte a un miracolo, o al doppio miracolo dell’esistenza delle leggi di natura e della capacità della mente umana di divinarle. Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo né meritiamo»6E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Science, in “Communications in Pure and Applied Mathematics”, vol.13, 1960, pp.1-14.

 

La scienza costringe ad alzare lo sguardo al cielo.

E’ dalla riflessione sul perché la scienza è in grado di essere efficace che si può giungere all’ipotesi di Dio, come ricordato anche da Benedetto XVI.

Lo afferma ad esempio Antonio Marino, ordinario di Analisi matema­tica all’Università di Pisa: «La matematica ci costringe ad alzare lo sguardo […]. Perché è possibile organizzare parti della nostra conoscenza in formule logiche senza le quali gli oggetti stessi non sono nemmeno concepibili? Direi che in questo universo logico sembra di scorgere un aspetto del Logos che pervade il creato, qualcosa dell’intelligenza del linguaggio, del Verbo: quell’ar­monia logica che si scopre nello studio di un problema e conduce poi essa stessa a fare nuove congetture e nuove scoperte».

Molto sintetico è stato invece Alexander Markovich Polyakov, docente presso l’Università di Princeton e forse il principale fisico russo vivente: «Noi sappiamo che la natura è descritta nel migliore dei modi matematici perché è Dio che l’ha creata»7A.M. Polyakov, Probing the Forces of the Universe Fortune, vol.114, number 8, 1986, p. 57.

Anche agli uomini più profondamente impegnati e noti nel campo scientifico non è risparmiata la scelta se limitarsi a descrivere i particolari del mondo che la scienza aiuta a decifrare o andare oltre, aprire la ragione lasciandosi stupire dal fatto che possiamo decifrare la realtà fisica e che questo è un “miracolo”, ovvero un segno che rimanda inevitabilmente ad Altro, ad un oggetto ultimo. A Colui che è l’autore.

La redazione

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