Bruxelles, il terrorismo attecchisce facilmente nel vuoto morale delle società

bruxellesGli attentati di ieri a Bruxelles sono ancora più inquietanti di quelli parigini, avvenuti nel novembre 2015, un salto di qualità del terrorismo islamico che è riuscito a colpire proprio nel luogo  -aeroporto e metropolitana- e nel periodo in cui le forze dell’ordine si aspettavano un attentato.

Al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica è tornato il rapporto tra l’Islam e il fondamentalismo, da parte nostra confermiamo quanto già scritto: esistono tantissimi musulmani di buona volontà, molti vivono in Occidente e condannano apertamente il terrorismo, tanti sono quelli che difendono i cristiani in Medio Oriente, li nascondono e proteggono, e loro stessi vengono massacrati dall’Isis (il 90% delle vittime è di fede musulmana). Ma l’Islam ha effettivamente un problema strutturale con il fondamentalismo e questo è dovuto ai contenuti stessi delle fonti su cui si basa, alle contraddizioni di queste fonti tra loro, alla mancanza di un’autorità spirituale e di una “successione apostolica” a garanzia della verità (anche di interpretazione). Ne abbiamo parlato più dettagliatamente nel dicembre 2015, qualche mese fa lo ha ribadito il parlamentare islamico Khalid Chaouki: «la violenza è purtroppo un cancro insito nella storia dell’ islam e come tale va eliminato». Ieri lo ha ribadito il sociologo Felice Dassetto, docente dell’Università di Louvain: «se non si riforma e non si rifonda il pensiero musulmano l’argomentazione teologica di Isis tiene, ha una coerenza con la tradizione musulmana».

Ma ribadiamo anche un’altra nostra posizione: il laicismo è terreno fertile per le cellule fondamentaliste. Non è certo un caso che Francia e Belgio, due dei Paesi più scristianizzati e laicisti al mondo, siano la culla dei terroristi che stanno colpendo l’Europa in questi mesi, addirittura il Belgio “vanta” il più alto numero di cittadini (occidentali) volontari partiti per combattere tra le file dell’Isis. Ad osservarlo è stato il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, direttore di ricerca dell’EHESS di Parigi e studioso dell’immigrazione islamica in Europa: la crisi che porta i giovani alla rottura con le società occidentali non deriva tanto dal rifiuto dei valori che queste offrono a loro, ma piuttosto nel vuoto morale che li accoglie. Una cosa simile l’ha riportata l’editorialista laico del Corriere della Sera, Claudio Magris, spiegando che il fondamentalismo lo si combatte innanzitutto disfandosi del politicamente corretto, quello che rifiuta gli aspetti pubblici del cristianesimo per paura di offendere chissà chi.

I terroristi dell’Isis (pensiamo a Salah e Brahim Abdeslam) sono nati e cresciuti nella società belga, non arrivano da “fuori”, si sono mischiati alla criminalità locale, agli spacciatori di droga molto tollerati dalle forze di polizia («Il Belgio è il paradiso della droga», ha titolato De Standaard). La loro ideologia si è radicata facilmente in una società svuotata di ideali, relativista, dal pensiero debole. Lo ha accennato il sociologo delle religioni Felice Dassetto, docente presso l’Università di Louvain, in Belgio: «il Belgio è una società molto liberale, sensibile ai diritti individuali e a quelli di associazione, una caratteristica che associata a uno Stato debole che ha orrore della repressione può aver favorito la lentezza con cui si sono prese le misure difensive contro questa nuova sfida. In Belgio anche la criminalità comune ha avuto a suo tempo una certa libertà di manovra e negli anni ’90 ci sono stati molti arresti legati agli algerini della seconda linea del GIA algerino». Le parole di Dassetto sono politicamente corrette ma significative, confermano che il detonatore delle bombe è da ricercare anche nel lassismo etico della società belga.

Il problema non è avere orrore per la repressione o rispettare i diritti individuali, tutti i Paesi occidentali hanno queste caratteristiche, ma proprio il liberalismo citato dal prof. Dassetto e professato dal Belgio e dalla Francia, che non è vero liberalismo, come ha più volte spiegato il filosofo laico Marcello Pera. In queste società «le misure liberali fanno apostasia del cristianesimo decidendo di scegliere le parole più nobili e generose per motivare la loro azione: inclusione, riconoscimento, accoglienza, tolleranza, apertura. Le conseguenze sono state gravi: più si procede e più si produce smarrimento, incertezza e disagio. Il liberalismo oggi è equipollente alla laicità negativa, dimentica di essere una tradizione che affonda le radici nell’Europa cristiana», ha scritto Pera. E ancora: «l’unico modo per emergere dalla crisi è difendere i fondamenti della propria tradizione. Senza una fede nell’uguaglianza degli uomini, nella loro uguale dignità, nella loro libertà e responsabilità, senza una religione dell’uomo figlio e immagine di Dio –l’essenza della religione giudaico-cristiana- il liberalismo non può sostenere i diritti fondamentali e universali degli uomini né può sperare che gli uomini coesistano in una società liberale. Il liberalismo non è autosufficiente e non può prescindere da elementi etico-religiosi cristiani, dev’essere laico -nel senso che il trono e l’altare devono restare separati- ma non laicista» (M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori 2008).

L’estremismo ha gioco facile in una società debole, debole non in senso militare ma in senso etico, esso si radica facilmente laddove è forte il vuoto ideale. E’ il messaggio che Papa Francesco ha pronunciato nel novembre 2014 proprio davanti al Parlamento europeo: «un’Europa che sia in grado di fare tesoro delle proprie radici religiose, sapendone cogliere la ricchezza e le potenzialità, può essere anche più facilmente immune dai tanti estremismi che dilagano nel mondo odierno, anche per il grande vuoto ideale a cui assistiamo nel cosiddetto Occidente, perché è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare la violenza». Perciò, l’Europa deve agire «prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; liberandosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie. Una storia bimillenaria lega l’Europa e il cristianesimo, una storia non priva di conflitti e di errori, ma sempre animata dal desiderio di costruire per il bene. Questa storia, in gran parte, è ancora da scrivere, è il nostro presente e anche il nostro futuro. Essa è la nostra identità. È giunto il momento di abbandonare l’idea di un’Europa impaurita e piegata su sé stessa per suscitare e promuovere l’Europa protagonista, portatrice di scienza, di arte, di musica, di valori umani e anche di fede. L’Europa che contempla il cielo e persegue degli ideali; l’Europa che guarda, difende e tutela l’uomo; l’Europa che cammina sulla terra sicura e salda, prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità!».

La redazione

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La fede cristiana non teme il castigo di un Dio vendicativo

Gesù giottoSecondo uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Nature, il timore delle punizione di Dio avrebbe aiutato l’espansione globale dell’umanità poiché le persone che detengono tali credenze su Dio agirebbero in modo meno egoistico.

I ricercatori hanno usato un campione di 600 persone di religioni differenti testandole tramite un esperimento, rilevando che i partecipanti che credevano in un Dio morale erano circa cinque volte più equi verso le persone di altre religioni. Il timore di Dio, hanno concluso, incoraggia l’altruismo, il quale favorisce la fiducia. Dominic Johnson dell’Università di Oxford ha commentato: «lo studio offre la prova più esplicita che la fede in una punizione soprannaturale è stata determinante nel promuovere la cooperazione nelle società umane».

Al di là della scarsa validità causale di studi del genere, la tematica offre uno spunto per parlare della fede e della paura del castigo di Dio. E’ una posizione immatura quella che concepisce il rapporto con Dio come causa-effetto o delitto-castigo, «si tratta di una religiosità spontanea e potente, ma molto distante dalla fede evangelica», ha commentato il gesuita Giovanni Cucci, docente di Filosofia e Psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. «Gesù rifiuta nettamente questa modalità di lettura così spontanea, esclude decisamente ogni interpretazione magico-causale». Paradigmatico è l’episodio del cieco nato, in cui Gesù esclude qualsiasi legame tra peccato e castigo: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3). Ma, sopratutto, «la morte di croce di Gesù, vittima innocente, sarà la contestazione più radicale dell’assioma delitto/peccato-castigo», ha aggiunto il gesuita (G. Cucci, Esperienza religiosa e psicologia, Elledici 2009, p.146).

Ben venga, da questo punto di vista, la critica di Sigmund Freud a questo tipo di religiosità primitiva, basata sul dio vendicatore che punisce chi lo disobbedisce e premia chi lo favorisce. Il gesuita André Godin, luminare nella Psicologia della religione, ha scritto: «Malgrado gli sforzi di una catechesi rinnovata, la grande massa dei genitori, per quanto siano cristiani, continuano a usare Dio in questo modo: mezzo castigamatti, mezzo babbo natale: questi ruoli, che si adattano proprio male al Dio dei Vangeli, contribuiscono a trasmettere elementi di un cristianesimo che bisogna per forza chiamare folkloristico […], raramente però denunciato, tanto esso si identifica con la fede religiosa più elementare. Da un punto di vista psicologico, l’uomo appare così come spontaneamente religioso, ma è ben lungi dall’essere spontaneamente cristiano» (A. Godin, Psicologia delle esperienze religiose, Queriniana 1983, p.27).

Il pontificato di Francesco, incentrato sul ricordare l’amore del Dio che perdona tutto, se ci si percepisce peccatori, è illuminante da questo punto di vista. Lo stesso Pontefice, parlando del “timor di Dio”, ha ricordato che si tratta di uno dei sette doni dello Spirito Santo e che «non significa avere paura di Dio: sappiamo bene che Dio è Padre, e che ci ama e vuole la nostra salvezza, e sempre perdona, sempre; per cui non c’è motivo di avere paura di Lui! Il timore di Dio, invece, è il dono dello Spirito che ci ricorda quanto siamo piccoli di fronte a Dio e al suo amore e che il nostro bene sta nell’abbandonarci con umiltà, con rispetto e fiducia nelle sue mani. Questo è il timore di Dio: l’abbandono nella bontà del nostro Padre che ci vuole tanto bene». Lo stesso ha detto Benedetto XVI: «Timore di Dio non indica paura ma sentire per Lui un profondo rispetto, il rispetto della volontà di Dio che è il vero disegno della mia vita ed è la strada attraverso la quale la vita personale e comunitaria può essere buona; e oggi, con tutte le crisi che vi sono nel mondo, vediamo come sia importante che ognuno rispetti questa volontà di Dio impressa nei nostri cuori e secondo la quale dobbiamo vivere; e così questo timore di Dio è desiderio di fare il bene, di fare la verità, di fare la volontà di Dio».

Si potrebbe anche riflettere sul fatto che chi vede i cristiani come terrorizzati dalla punizione di Dio, afferma anche che quello cristiano sarebbe un creatore inventato dagli uomini, come fonte di consolazione. Una contraddizione palese: è un consolatore o un vendicatore? Mettetevi d’accordo, verrebbe da dire. La risposta è: nessuno dei due. Non è un vendicatore, tanto meno un placebo spirituale: «Chi si balocca ancora con piccoli schemi del tipo: “Dio = invenzione consolatoria”», ha commentato Vittorio Messori, «non sa che cosa sia il dramma di chi si rende conto che quella fede che gli viene offerta porta con sé anche delle conseguenze concrete, quotidiane, che appaiono insopportabili alla nostra sete di autonomia illimitata» (V. Messori, Qualche ragione per credere, Edizioni Ares 2008, p. 199,200). Eppure il Vangelo è chiaro: “Prendete il mio giogo sopra di voi” (Mt 11,29), “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà” (Mt 16,24). Per essere cristiani, ha proseguito il noto intellettuale cattolico, «bisogna prima “rinnegarsi”, “perdersi”, “prendere la croce”. Dio non è, non può essere una proiezione per assicurarsi o per procurarsi un comodo conforto spirituale. Almeno non può esserlo un Dio etico come quello cristiano, che molto dà -anzi, che dà tutto- ma che molto chiede. Come diceva Gilbert K. Chestertn: “Se Gesù Cristo non fosse venuto, credo che sarei molto più tranquillo”».

Una relazione con Dio basata sul premio-castigo non ha nulla a che fare con una religiosità serena e matura, ma è lontanissima dal Vangelo. Allo stesso modo, il “timor di Dio” non ha niente a che vedere con quello che superficialmente pensa chi la fede non ha. Nessuna fantomatica paura di un dio vendicativo, nessun terrore della vendetta, questo non è il Dio cristiano! L’analogia, per capire meglio, è quella del rapporto tra il bambino e il padre amorevole, dove il primo cerca di comportarsi rettamente perché ha stima del padre, ha timore di deluderlo perché si sente da lui amato e ha fede in lui, sa cioè che comportarsi come il genitore chiede è un bene per la sua vita, per la sua crescita. Esattamente lo stesso fa il cristiano nei confronti di Dio: tenta di comportarsi “cristianamente” non perché chissà cosa succede altrimenti, ma perché è coinvolto in un rapporto affettivo con il Signore e desidera accettare la Sua parola come mezzo per la propria felicità, accoglie il Suo disegno come strumento per compiere sé stesso e raggiungere il proprio destino. «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42): questo riconoscimento è il “timore di Dio”. Non certo ciò a cui pensano i ricercatori di Nature.

La redazione

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Nuovo studio: il 55% di chi accede all’eutanasia legale soffre di curabile depressione

DepressioneIl tema dell’eutanasia, e in più in generale del “fine vita”, è molto delicato e dibattuto per le sofferenze personali che sono in gioco e per le possibili ideologie retrostanti.

La morale cattolica è sobria e chiara e in linea col comune buon senso: come l’uccisione di qualunque persona innocente, “il mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte” (cioè l’eutanasia o suicidio assistito) è una cosa “moralmente inaccettabile” (CCC 2276 ). D’altro canto, quando un malato in stato di sofferenza cronica è sottoposto a procedure mediche che sono “onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi” (CCC 2278, il cosiddetto “accanimento terapeutico”), può essere legittima l’interruzione delle cure, accompagnando la morte naturale con sedazione terminale.

Negli ultimi anni in alcune nazioni sono state promulgate leggi che permettono l’eutanasia, all’interno del più ampio quadro della cosiddetta “cultura dello scarto”, più volte denunciata dai papi recenti (942 ricorrenze sul sito del Vaticano). Una nazione che rappresenta un vero e proprio modello a riguardo è l’Olanda, della quale ci siamo già occupati (Ultimissima 21/03/11 e Ultimissima 31/10/11). A partire dalla legalizzazione, quello che è via via emerso in particolare in questo paese è interessante e inquietante: in larga parte dei casi la soppressione dei pazienti è avvenuta senza un loro consenso; in singole cliniche i medici hanno optato per non rianimare pazienti sopra i 70 anni; tra i criteri ammissibili per l’eutanasia sono incluse anche malattie non terminali, disturbi psichiatrici (come ansia e depressione) e fattori sociali (come mancanza di legami sociali e risorse finanziarie).

Uno studio recente permette di cogliere meglio la situazione. Pubblicato su JAMA Psychiatry (febbraio 2016 ), i ricercatori hanno esaminato 66 casi di suicidio assistito avvenuti in Olanda tra il 2011 e 2014. In 36 casi, cioè il 55%, la principale “malattia” che ha portato alla richiesta dell’eutanasia era la depressione. Cosa che, rilevano gli autori, suscita il disappunto di medici non psichiatri, i quali considerano l’eutanasia eventualmente lecita solo nel caso di malattie mediche terminali.

A questo problema si ricollega il paper pubblicato sulla rivista ammiraglia JAMA (una delle più autorevoli al mondo in campo medico) nel gennaio 2016, studio dal significativo titolo: “Perché i medici si possono opporre al suicidio assistito”, iniziando con la lapidaria frase: “Il suicidio medico assistito è sempre giustificabile? No”. Il paper cita uno studio compiuto in Oregon tra coloro che richiedono l’eutanasia e, anche in questo caso, le cause citate sono prettamente di stampo psicologico-sociale: perdita di autonomia (92% dei casi), incapacità di compiere attività (cioè sentirsi inutili, 89%), perdita di dignità (80%), mancato controllo dei proprio corpo (50%), essere un peso per i propri cari (40%). Solo nel 25% dei casi, rileva l’articolo, la causa della richiesta di morire è relativa al dolore fisico provato.

Qualche decennio fa, quando Soylent Green (1973, ambientato nel 2022) era solo un distopico film di fantascienza, nessuno avrebbe effettivamente creduto che negli anni attuali alla frase: “Mi sento depresso o solo, voglio morire”, lo sventurato si sarebbe visto proporre il modulo da firmare. Ma è una logica naturale e inumana conseguenza della strategia del piano inclinato. In pochi anni si è passati dalla comprensibile e lecita richiesta di sedazione palliativa nel caso di una dolorosa malattia terminale, alla soppressione attiva con consenso del paziente, alla soppressione a discrezione dei medici e, quindi, alla soppressione per altre malattie organiche non terminali, come la depressione, disturbo assolutamente curabile.

È significativo che da una rivista del calibro di JAMA comincino ad emergere dubbi su queste conclusioni, almeno per l’ultimo passaggio. Quale potrebbe essere una risposta complessiva alla logica della “cultura dello scarto” nel tema del fine vita? Di fronte alla prospettiva della morte, quello che spesso manca è una ricerca di senso ai dolorosi eventi che si stanno vivendo, con la conseguente depressione e richiesta di farla finita. E può mancare anche un solido sostegno familiare, amicale e sociale, che rende soli e impotenti i malati di fronte all’inevitabile futuro. È su questi due ambiti che sarebbe giusto e doveroso cercare di intervenire, cercando di attenuare il senso di vuoto e di solitudine.

Roberto Reggi

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Le cose da sapere sul Giubileo della Misericordia

porta santaL’8 dicembre 2015, in occasione della festa della Immacolata Concezione, Papa Francesco ha aperto il Giubileo straordinario della misericordia (in ricorrenza anche con il cinquantesimo della fine del Concilio Vaticano II), che durerà fino al 20 novembre 2016.

Si tratta di un Anno Santo (o “anno giubilare”), in cui la Chiesa sottolinea alcune caratteristiche della fede cristiana e invita i fedeli a maturare nella fede in relazione ad esse. La principale caratteristica di questo Anno Santo è appunto la misericordia di Dio e, di riflesso, il tentativo di misericordia a cui sono chiamati gli uomini tra loro: «Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere misericordiosi noi, gli uni verso gli altri. “Misericordiosi come il Padre”, dunque, è il “motto” dell’Anno Santo», ha spiegato Francesco.

Cerchiamo di approfondire qui sotto tutte le cose importanti da sapere sull’Anno Giubilare e su come partecipare a questo grande evento.

 

1) QUANDO NASCE L’IDEA DEL GIUBILEO NELLA TRADIZIONE CATTOLICA?
L’inizio è da identificarsi nel Medioevo, dove ci si volle riferire al Giubileo ebraico descritto nell’Antico Testamento che aveva una connotazione prettamente sociale per la riconciliazione delle ingiustizie umane, con liberazione di schiavi e prigionieri e condono dei debiti. Nel Nuovo Testamento, Gesù si presenta come Colui che porta a compimento l’antico Giubileo, essendo venuto a “predicare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,19, che cita Is 61,2). Dal primo Giubileo del 1300 si sono tenuti 30 giubilei, con indizioni (ordinarie, se legati a ricorrenze prestabilite, o straordinarie) e modalità che sono state variegate nei secoli.

 

2) PERCHE’ PAPA FRANCESCO HA POSTO L’ATTENZIONE SULLA MISERICORDIA?
Lo ha spiegato lui stesso: «Nel nostro tempo, in cui la Chiesa è impegnata nella nuova evangelizzazione, il tema della misericordia esige di essere riproposto con nuovo entusiasmo e con una rinnovata azione pastorale. È determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Forse per tanto tempo abbiamo dimenticato di indicare e di vivere la via della misericordia. La tentazione, da una parte, di pretendere sempre e solo la giustizia ha fatto dimenticare che questa è il primo passo, necessario e indispensabile, ma la Chiesa ha bisogno di andare oltre per raggiungere una meta più alta e più significativa. Dall’altra parte, è triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più diradata. È giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono. È il tempo del ritorno all’essenziale per farci carico delle debolezze e delle difficoltà dei nostri fratelli».

La misericordia «apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti».

 

3) LA MISERICORDIA E’ UN “PALLINO” DI PAPA FRANCESCO?
Chiaramente no, il tema della misericordia è da sempre al centro della predicazione della Chiesa, l’attenzione al binomio peccato-perdono è fortissima già nei primi secoli della Chiesa, negli scritti dei Padri e in particolare del santo patrono dell’arcidiocesi di Milano, Ambrogio, il vescovo che battezzò sant’Agostino.

Le parole di Giovanni Paolo II sono citate come riferimento da Papa Francesco, sopratutto quando espresse l’urgenza di riportare al centro della Chiesa questa tematica: «Il mistero di Cristo», disse Wojtyla, «mi obbliga a proclamare la misericordia quale amore misericordioso di Dio, rivelato nello stesso mistero di Cristo. Esso mi obbliga anche a richiamarmi a tale misericordia e ad implorarla in questa difficile, critica fase della storia della Chiesa e del mondo. La Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia – il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore – e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice».

Anche Benedetto XVI parlò molto spesso della misericordia: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio, il volto con il quale Egli si è rivelato nell’antica Alleanza e pienamente in Gesù Cristo, incarnazione dell’Amore creatore e redentore. Questo amore di misericordia illumina anche il volto della Chiesa, e si manifesta sia mediante i Sacramenti, in particolare quello della Riconciliazione, sia con le opere di carità, comunitarie e individuali. Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo, dunque per noi. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10, 10). Dalla misericordia divina, che pacifica i cuori, scaturisce poi l’autentica pace nel mondo, la pace tra popoli, culture e religioni diverse».

 

4) A COSA SONO CHIAMATI I FEDELI DURANTE QUESTO ANNO GIUBILARE?
La richiesta ai fedeli da parte della Chiesa è quella di far maturare la loro fede alla luce della misericordia: «Siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia», ha spiegato Papa Francesco. «Il perdono delle offese diventa l’espressione più evidente dell’amore misericordioso e per noi cristiani è un imperativo da cui non possiamo prescindere. Come sembra difficile tante volte perdonare! Eppure, il perdono è lo strumento posto nelle nostre fragili mani per raggiungere la serenità del cuore. Lasciar cadere il rancore, la rabbia, la violenza e la vendetta sono condizioni necessarie per vivere felici. Accogliamo quindi l’esortazione dell’apostolo: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira” (Ef 4,26). E soprattutto ascoltiamo la parola di Gesù che ha posto la misericordia come un ideale di vita e come criterio di credibilità per la nostra fede: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) è la beatitudine a cui ispirarsi con particolare impegno in questo Anno Santo».

«È mio vivo desiderio», ha proseguito il Papa, «che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Questo Anno Santo porta con sé la ricchezza della missione di Gesù che risuona nelle parole del Profeta: portare una parola e un gesto di consolazione ai poveri, annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati».

 

5) MA MISERICORDIA VUOL DIRE CANCELLARE L’ESISTENZA DEL PECCATO?
Non c’è peccato che Dio non possa perdonare ma il Pontefice ha chiarito che l’unica condizione è quella di sentirsi peccatori, perché la misericordia di Dio non cancella l’esistenza del peccato. «La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. La Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio».

La misericordia, ha precisato ancora, «non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere». Per questo centrale nell’Anno Giubilare è il sacramento della Riconciliazione (o Confessione) a cui tutti i pellegrini sono chiamati ad accostarsi prima di intraprendere il passaggio della Porta Santa (ne parleremo più sotto). Inoltre, la Chiesa ha predisposto dei “Missionari della Misericordia”, sacerdoti che hanno ricevuto l’autorità di perdonare anche i peccati che sono riservati alla Sede Apostolica (come l’aborto). Le Diocesi sono chiamate dal Papa a «celebrare il sacramento della Riconciliazione per il popolo, perché il tempo di grazia donato nell’Anno Giubilare permetta a tanti figli lontani di ritrovare il cammino verso la casa paterna».

 

6) CHE COS’E’ L’INDULGENZA PLENARIA?
Per spiegare l’indulgenza usiamo le parole di Papa Francesco: «Nonostante il perdono, nella nostra vita portiamo le contraddizioni che sono la conseguenza dei nostri peccati. Nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che attraverso la Sposa di Cristo raggiunge il peccatore perdonato e lo libera da ogni residuo della conseguenza del peccato, abilitandolo ad agire con carità, a crescere nell’amore piuttosto che ricadere nel peccato». E’ dunque la liberazione dal “disordine morale” che resta in noi dopo la confessione e che ci rende incapaci di aprirci totalmente alla Grazia. L’indulgenza può essere parziale (è solo un passo nel cammino di purificazione) o plenaria, totale (com’è quella giubilare).

 

7) COME SI OTTIENE L’INDULGENZA PLENARIA (GIUBILARE)?
Per ottenere l’indulgenza, è necessario essersi accostati al sacramento della Riconciliazione, avere la disposizione interiore del completo distacco dal peccato, aver ricevuto l’Eucaristia e aver pregato secondo le intenzioni del Papa. Inoltre serve compiere un'”opera” di pietà, ossia fare un pellegrinaggio in un santuario o luogo giubilare (in tutte le città sono state predisposte basiliche con la Porta Santa), oppure opere di penitenza, cioè astenersi da consumi superflui (fumo, bevande alcoliche…), digiunare e devolvere una somma ai bisognosi. O ancora ci sono le opere di misericordia, un «modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina», di cui abbiamo già parlato sopra.

 

8) PERCHE’ BISOGNA INTRAPRENDERE UN PELLEGRINAGGIO?
Il pellegrinaggio è centrale nell’Anno Giubilare perché è simbolo del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza, è anche un segno che anche la misericordia è una meta da raggiungere e che richiede impegno e sacrificio. E’ una delle opere di pietà, di cui abbiamo parlato sopra, che permetto al fedele di ottenere l’indulgenza giubilare.

Nell’Anno Santo le mete principali del pellegrinaggio sono le quattro basiliche maggiori di Roma (San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura) dove è possibile ottenere l’indulgenza, ma anche in ogni “chiesa giubilare”, presente in diocesi del mondo e in ogni principale città.

 

9) PERCHE’ BISOGNA PASSARE ATTRAVERSO UNA PORTA SANTA?
La Porta rimanda al passaggio che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia, guardando a Cristo che di sé dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo» (Gv 10,9). Questa azione è legata concretamente al pellegrinaggio che, come scritto sopra, è incoraggiato nell’Anno Giubilare, e la Porta Santa di una Basilica è la destinazione del pellegrino. Papa Francesco ha dato un simbolismo nuovo e importante a tutto questo quando ha scelto di aprire la prima Porta Santa non a Roma, ma nella Cattedrale di Bangui, in Africa, mostrando l’universalità dell’Anno Giubilare e la sua importanza sopratutto per i luoghi toccati dalla guerra: «Oggi Bangui diviene la capitale spirituale del mondo. L’Anno Santo della Misericordia viene in anticipo in questa Terra. Una terra che soffre da diversi anni la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra».

Sempre Francesco ha spiegato: «Sarà in questa occasione una Porta della Misericordia, dove chiunque entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza. Ogni Chiesa particolare, quindi, sarà direttamente coinvolta a vivere questo Anno Santo come un momento straordinario di grazia e di rinnovamento spirituale. Il Giubileo, pertanto, sarà celebrato a Roma così come nelle Chiese particolari quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa». E per quanto riguarda il simbolismo della Porta Santa: «Il Giubileo significa la grande porta della misericordia di Dio ma anche le piccole porte delle nostre chiese aperte per lasciare entrare il Signore – o tante volte uscire il Signore – prigioniero delle nostre strutture, del nostro egoismo e di tante cose».

 

10) COME CI SI PREPARA AD ATTRAVERSARE LA PORTA SANTA?
Prima di passare attraverso la Porta Santa, i fedeli devono essere in stato di grazia (essersi confessati), devono essersi accostati all’Eucarestia e devono recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria e il Gloria Padre e, infine, rivolgere una preghiera per le intenzioni al Santo Padre.

 

Buon Giubileo a tutti!

La redazione

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Gesù è una copia degli dèi pagani? Una bufala respinta dagli storici

diosole 
 
di Bart D. Ehrman*
*docente di Nuovo Testamento presso l’Università di North Carolina

 
da Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, pp. 25-35

 

Una diffusa teoria sostiene che Gesù sarebbe stato una creazione fondata sulle diffuse mitologie delle divinità soggette a morte e rinascita, note in tutto il mondo pagano. Ecco come, ad esempio, Timothy Freke e Peter Gandy, espongono la loro tesi principale in The Jesus Mysteries: Was the “Original Jesus” a Pagan God?: «La vicenda di Gesù non è la biografia di un messia storico, ma un mito fondato sulle eterne favole pagane. Il cristianesimo non fu una rivoluzione nuova e unica, ma un adattamento ebraico dell’antica religione dei misteri pagani».

Al cuore dei tanti misteri pagani, affermano Freke e Gandy, c’era il mito di un uomo-dio che sarebbe morto e risorto. A questa figura divina furono attribuiti nomi diversi nei misteri pagani: Osiride, Dioniso, Attis, Adone, Bacco e Mitra. Ma, «in buona sostanza, tutti questi uomini-dei rappresentavano il medesimo essere mitico». La ricerca per cui i due autori sostengono questa tesi va ricercata nella mitologia che accomunerebbe tutte quelle figure: Dio ne era il padre; la madre era una vergine mortale; ciascuno di loro nacque il 25 dicembre in una grotta di fronte a tre pastori e uomini sapienti; uno dei miracoli compiuti da tutti fu la trasformazione dell’acqua in vino; tutti fecero il loro ingresso in città a dorso d’asino; tutti furono crocifissi per Pasqua allo scopo di emendare i peccati del mondo; tutti discesero all’inferno e il terzo giorno risuscitarono. Poiché di Gesù si raccontano le stesse vicende, è ovvio che le storie in cui credono i cristiani sono semplici imitazioni delle religioni pagane.

Gli storici del mondo antico -quelli seri- sono scandalizzati da tali asserzioni, o meglio lo sarebbero se si prendono il disturbo di leggere il libro di Freke e Gandy. Gli autori non corredano di prove le loro affermazioni sul modello mitologico dell’uomo-dio. Non citano alcuna fonte pervenutaci dal mondo antico che sia possibile verificare. Non si può dire che abbiano fornito un’interpretazione alternativa delle testimonianze a nostra disposizione. Non le hanno neppure citate. E hanno fatto bene. Quelle testimonianze non esistono.

Quale sarebbe, per esempio, la prova che dimostra la nascita di Osiride il 25 dicembre di fronte a tre pastori? O la sua crocifissione? O il fatto che la sua morte sia servita a espiare i peccati? O che sia tornato in vita sulla terra dopo essere risorto? Il fatto è che nessuna fonte antica afferma niente del genere su Osiride (o sugli altri dei). Questi non sono seri studi storici. Sono libri sensazionalistici la cui finalità è vendere.

Secondo tali autori, il “Cristo” originario fu un uomo-dio al pari di tutti gli altri uomini-dei pagani. Solo in una seconda fase fu ripreso dagli ebrei e trasformato in un messia che venne immaginato come personaggio storico, creando in tal modo il Gesù della storia. L’apostolo Paolo, secondo questa ricostruzione, non sapeva nulla del Gesù storico e, come lui, nessun altro membro della Chiesa primitiva. Il vangelo scritto da Marco fu determinante per dar vita al personaggio storico perché fu Marco a storicizzare il mito per il bene degli ebrei a cui serviva una figura storica che li salvasse, non una divinità. Furono i cristiani delle regioni occidentali dell’Impero, il cui centro delle loro attività era a Roma, a far nascere la Chiesa cattolica romana, che interpretò in senso letterale la figura storicizzata del salvatore e finì con l’occultare le originarie interpretazioni mitologiche degli gnostici.

Questa tesi presenta una gran quantità di problemi. Basti dire che tutto ciò che sappiamo su Gesù -il Gesù storico- non proviene dagli ambienti fortemente influenzati dalle religioni misteriche pagane dell’Egitto della fine del I secolo, ma dagli ebrei vincolati alla loro religione decisamente antipagana della Palestina degli anni Trenta dell’era volgare e dei periodi seguenti. Le interpretazioni di questi autori saranno state credibili oltre un secolo fa, ma oggi nessuno studioso le sostiene.

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«Dopo 35 anni di vita gay, ora divento cattolica»

Robin Beck«Non credo proprio che Dio odi i gay. Penso invece che ami le persone che vengono coinvolte in questo peccato, perché sa di avere qualcosa di molto meglio per loro». Queste le parole che abbiamo scelto per iniziare a parlare di Robin Teresa Beck, 59 anni di cui 35 trascorsi come omosessuale e con 12 relazioni alle spalle.

La donna ha raccontato la sua drammatica storia nel libro I just came for Ashes (Dunphy Press 2012): nata da genitori alcolizzati, suo padre abusava di sua madre e lei ha vissuto l’infanzia nel terrore di subire le stesse cose. L’unico ricordo positivo che ha di sua madre è quando un giorno, improvvisamente, la coccolò tra le braccia: fu l’unica volta in cui si sentì «sicura e felice».

La religione divenne una via di fuga, cominciò a frequentare la Chiesa protestante assieme alla sorella desiderando che Dio la salvasse dalla quotidiana violenza verbale, emotiva e fisica vissuta a casa. Il padre se ne andò di casa, la madre si ammalò di una malattia debilitante: guardando indietro, oggi si rende conto di quanto aveva un disperato bisogno qualcuno – chiunque – disposto ad amarla. Cominciò a frequentare il suo insegnante di musica, trascorrendo finalmente un periodo di felicità e di amore. Ma, dopo il diploma, il rapporto sbiadì e Robin si sentì tradita da lui, promettendosi di non dare più fiducia ad un altro uomo.

Durante gli anni del college un’amicizia intima con una donna si trasformò in una relazione sessuale, durò sette mesi. Lo stesso accadde con un’insegnante di religione (di sesso femminile), vissero assieme per alcuni anni ed entrarono in una associazione di cristiani gay. Trovò diverse partner all’interno di questo club, «quando iniziava una storia ero sempre sicura che finalmente avevo trovato la donna giusta. Ma in meno di un anno mi ritrovavo nuovamente infelice», racconta. Rimbalzando da una all’altra «speravo di trovare una donna stabile, amorevole, in altre parole, stavo cercando la mamma che non ho mai avuto». Continuò così per anni.

In un’intervista recente ha spiegato: «La maggior parte delle donne lesbiche hanno un deficit nel loro rapporto con la madre. So che è vero per me. Non ho avuto il nutrimento di cui avevo bisogno da mia mamma, questo mi ha procurato delle ferite che ho cercato di guarire chiedendo ad altre donne di darmi quello che mia madre non è stata in grado darmi». All’età di 46 anni, disperata per l’ennesima relazione terminata come un fuoco di paglia, «mi sono buttata sul pavimento urlando: “Oh, Dio, ti prego, dimmi che non è la mia vita!”». Guardando a quel periodo, oggi racconta: «penso che la maggior parte delle persone che vivono uno stile di vita gay sono persone ferite. Molte persone, tra cui buoni cristiani, contestano questa mia posizione. Ma io devo ancora incontrare una persona attiva in questo stile di vita che non covi qualche dolore, qualche rifiuto, qualche mancanza, in genere fin dall’infanzia. Dalla mia esperienza, è impossibile avere una relazione gay sana perché va contro il modo in cui Dio ci ha fatto».

Fu poco prima dei cinquant’anni che entrò in una Chiesa cattolica il mercoledì delle Ceneri e si recò all’altare per ricevere le ceneri benedette: «Convertitevi e credete nel Vangelo», disse il sacerdote tracciandole la croce sulla fronte. Accadde inspiegabilmente qualcosa tanto che continuò a frequentare la messa domenicale. Si convinse che il problema era che semplicemente non riusciva a creare una «sana relazione gay», l’ennesima storia con una donna «finì in rovina quando iniziammo ad attraversare la linea e andare dove invece Dio aveva detto: “Non sconfinare!”». Quella fu l’ultima sua relazione omosessuale e continuando a frequentare i sacramenti cattolici ha trovato la forza di rinunciare alla sessualità, promettendo a Dio una fiducia totale in Lui. Questo accadde sei anni fa.

Da allora «ho camminato lontano dalla vita gay e nemmeno per un attimo ho pensato di tornare indietro», ha scritto nel suo libro. Robin ha chiesto di entrare nella Chiesa, ha seguito il percorso di catechesi ed è stata accolta ufficialmente durante la Pasqua del 2010. Oggi vive un’esistenza finalmente felice. «Alcune persone», ha spiegato, «riescono a far funzionare un rapporto omosessuale, c’è chi effettivamente resta assieme ad un altro anche per 40 anni e possono anche sentirsi felici, magari. Ma credo comunque che finiscono sempre per deviare dal progetto creato per loro da Dio per essere felici. Alla fine, prima o poi, la realtà si impone sempre».

Colpisce molto quando Robin racconta i suoi tentativi di piegare il cristianesimo per giustificare i suoi comportamenti omosessuali: «ho ​​sempre avuto una forte coscienza di Dio, ma sapevo anche di aver bisogno dell’amore, e la mia unica opzione allora era l’amore di un’altra donna. Ho quindi dovuto torcere le Scritture. Mi dicevo: “Certamente Dio è d’accordo con le mie scelte, l’importante è l’amore“. In realtà volevo solamente che Dio guardasse favorevolmente sulla mia vita immorale. Quello era il mio modo di pensare perché ero così disperatamente in ricerca di amore, tanta paura di essere sola».

Parlando del Sinodo sulla Famiglia e rivolgendosi a quei pastori ormai piegati alla morale del mondo, la donna ha ricordato loro: «Io credo che ciò che la Chiesa ha bisogno di fare è di essere amorevole e sincera. Se ci limitiamo a dare la verità senza amore è come un intervento chirurgico senza anestesia. C’è bisogno di compassione. La Chiesa ha bisogno di essere un ospedale da campo. Ma la gente non può iniziare a ricevere il bene fino a quando non c’è pentimento. E nessuno si pentirà a meno che non sentirà la verità. La verità è che Dio ci ha creati maschi e femmine, l’uno il compagno dell’altra. Andare contro questo progetto distrugge l’anima. Non ci sono compromessi su questa verità. Mi fa molta paura che i miei amici omosessuali possano sentirsi dire da un pastore cattolico: “Ok, va bene così!”».

«La Chiesa ha bisogno di dire questo con amore alle persone omosessuali: “Non è quello che sei, sei su un percorso distruttivo per te. La buona notizia è che siamo con te, anche se cadrai mille volte noi ci saremo ancora. I sacerdoti devono dire la verità con amore. Se la gente si arrabbia e se ne va, bene, così sia. Quando le loro vite si romperanno allora torneranno. E torneranno in un posto che è veramente un ospedale da campo, dove le persone possono trovare il vero conforto e la liberazione».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alle conversioni)

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Le calamità naturali e l’esistenza di Dio: la risposta del cristianesimo

catastrofeDurante un recente intervento, Papa Francesco ha toccato un tema molto sensibile: «Ogni giorno, purtroppo, le cronache riportano notizie brutte: omicidi, incidenti, catastrofi», ha detto. «Gesù conosce la mentalità superstiziosa dei suoi ascoltatori e sa che essi interpretano quel tipo di avvenimenti in modo sbagliato. Infatti pensano che, se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati per qualche colpa grave che avevano commesso; come dire: “se lo meritavano”. E invece il fatto di essere stati risparmiati dalla disgrazia equivaleva a sentirsi “a posto”. Loro “se lo meritavano”; io sono “a posto”».

Ed invece, ha proseguito il Papa, «Gesù rifiuta nettamente questa visione, perché Dio non permette le tragedie per punire le colpe, e afferma che quelle povere vittime non erano affatto peggiori degli altri. Piuttosto, Egli invita a ricavare da questi fatti dolorosi un ammonimento che riguarda tutti, perché tutti siamo peccatori; dice infatti a coloro che lo avevano interpellato: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Anche oggi, di fronte a certe disgrazie e ad eventi luttuosi, può venirci la tentazione di “scaricare” la responsabilità sulle vittime, o addirittura su Dio stesso. Ma il Vangelo ci invita a riflettere: che idea di Dio ci siamo fatti? Siamo proprio convinti che Dio sia così, o quella non è piuttosto una nostra proiezione, un dio fatto “a nostra immagine e somiglianza”?».

Non è Dio il responsabile del male del mondo, ci dicono il Papa e il Vangelo. E nemmeno è colpa dei peccati dell’uomo. Lo stesso Gesù, si potrebbe aggiungere, lo ha spiegato: «Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”» (Gv 9,1). Di chi è la responsabilità, allora? Dell’uomo, quando usa male la libertà che gli è stata donata, e lo fa quando è tentato dal Male, dal Maligno, che «ha seminato il male in mezzo al bene, così che è impossibile a noi uomini separarli nettamente», spiega il Papa. La responsabilità è anche della natura, poiché soggetta a leggi evolutive indipendenti le quali -spesso assieme al contributo umano (desertificazione, disboscamento, abusi edilizi, inquinamento ecc.)-, provoca disastri ecologici, malattie e catastrofi. Proprio un recente studio, ad esempio, ha dimostrato che la causa del 70-90% dei tumori non è la “sfortuna”, ma fattori ambientali (inquinamento, di cui l’uomo è colpevole) e scelta di stili di vita errati.

La vera domanda allora è: perché Dio, buono e onnipotente, non interviene e permette il male? Il Creatore ci ha donato una libertà e una coscienza, abbiamo quindi tutti gli strumenti per scegliere il bene, eppure spesso scegliamo il male. Quello cristiano è un Dio che non impedisce o condiziona la libertà umana, sarebbe una violenza, ma rispetta le scelte della sua creatura, anche se da esse ne segue un male verso altri uomini. Dopo Auschwitz, bisogna chiedersi dov’era l’uomo, la sua umanità, non dov’era Dio. Egli era negli uomini che lo avevano nel cuore e lo testimoniavano, come padre Massimiliano Kolbe che si offrì volontario al posto di un padre di famiglia quando i nazisti scelsero le persone da mandare nelle camere a gas.  L’intervento di Dio è sempre (o quasi, miracoli a parte) a livello personale, in chi lo accoglie. Non interviene nemmeno quando il male (terremoti, inondazioni ecc.) è dovuto totalmente alla casualità della natura.

In un bell’editoriale della Civiltà Cattolica del 2005 si legge giustamente: «le leggi che governano la natura sono state volute da Dio, certamente Egli potrebbe arrestarne o cambiarne il corso, ma non lo fa se non in casi estremamente rari, per esempio nel caso dei miracoli, per dare un segno specialissimo della sua presenza di amore nella storia umana. D’altra parte, la terra è affidata agli uomini che hanno il compito e la responsabilità di» custodirla al meglio. Potrebbero limitare i danni delle catastrofi naturali ma, purtroppo, non è in questa direzione che si muovono oggi la scienza e la tecnica, ecco perché il grande richiamo di Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato sii”. «Sta qui il peccato più grave, di cui si rende colpevole l’uomo di oggi, poiché contraddice in maniera gravissima il disegno di Dio sugli uomini, che è sempre un disegno di amore e di salvezza. Non è dunque questione di chiamare in causa Dio per i disastri naturali, mettendone in dubbio la bontà e la provvidenza. A questo proposito, possiamo osservare che generalmente si ha un’idea non esatta della “provvidenza” di Dio. Si pensa cioè che essa consista nell’evitare alle persone di incorrere in situazioni che possono danneggiarle nella vita, nella salute e nei beni. Ma Dio non è il “tappabuchi” della malvagità, dell’insipienza e della pigrizia degli uomini, e neppure degli effetti disastrosi di eventi naturali: perciò non interviene per evitare le conseguenze disastrose di eventi naturali e di comportamenti umani colpevoli o imprevidenti. La sua provvidenza consiste nel fatto che Dio sa ricavare il bene per gli uomini anche dalle più dolorose e tragiche situazioni in cui li pongono gli eventi disastrosi della natura o la loro malvagità e insipienza».

Dio permette il male -sia quando la causa è l’uomo sia quando è la natura-, non perché è indifferente ma perché da esso è capace di trarne un bene maggiore per l’uomo. Il male è una condizione necessaria dell’esistenza umana, Dio stesso si è coinvolto con l’uomo patendo l’incredibile ingiustizia della passione e della morte in croce. E da questo male ne ha tratto un bene più grande: la Resurrezione, ovvero la vittoria definitiva sulla morte che ha dato pieno senso all’esistenza dell’uomo. La croce è un mezzo per un bene maggiore, questo è il metodo di Dio. «Dio non viene a “tenere una lezione” sul dolore», ha spiegato Papa Francesco, «non viene neanche ad eliminare dal mondo la sofferenza e la morte; viene piuttosto a prendere su di sé il peso della nostra condizione umana, a portarla fino in fondo, per liberarci in modo radicale e definitivo».

Nessuna religione riesce a stare di fronte al male del mondo senza scandalizzarsi, senza imbarazzarsi. Quella atea, ancora di più, esaspera la frustrazione degli uomini perché riconduce tutto in modo superstizioso al caso, alla “fortuna” e alla “sfortuna”. Soltanto il cristiano, al contrario, può rispondere, capisce il senso del male perché la croce di Cristo è all’origine della sua fede. Spesso, paradossalmente, vede addirittura fortificata la sua posizione o, giunge alla conversione come è accaduto all’ex ateo militante Scott Coren, diventato cristiano dopo il male accaduto a sua figlia.

Le catastrofi naturali sono anche un monito alla precarietà esistenziale della vita umana, una sfida mortale allo scientismo, all’onnipotenza della tecnica e alla superba idea di autonomia dell’uomo. «Dio non ci ha tirati fuori dai guai, Dio è il gancio per tirarci fuori da essi. Questo gancio è il crocifisso», ha spiegato il filosofo Peter Kreeft. Il male nel mondo è il monito più efficace per l’uomo perché pensi alla sua salvezza e riconosca l’Unico che può permetterla e rispondere al suo bisogno. Meglio una vita santa vissuta nella malattia che un vita sana destinata a divenire polvere.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alle tematiche teologiche)

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Cesare Pavese e l’angoscia di compimento di un uomo senza Dio

Incontro con Italo CalvinoTra le più belle esperienze che un cristiano può sperimentare c’è quella di imbattersi in persone lontane dal suo cammino e, tuttavia, percepire anche in loro il desiderio di compimento dell’esistenza che rende uniti gli uomini, di qualunque latitudine, di qualunque credo.

Per questo anche autori come Giacomo Leopardi possono diventare compagni di vita, addirittura aiutandoci ad approfondire la nostra fede (come abbiamo già avuto modo di sottolineare). Un altro grande riferimento può senz’altro essere e diventare Cesare Pavese, autore del bellissimo Il mestiere di vivere, ovvero il diario in cui lo scrittore piemontese annotava pensieri e sensazioni. Un capolavoro di umanità.

«Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?» (Il mestiere di vivere, 17 agosto 1950). E qual è il cancro segreto di Pavese? E’ l’irrimediabile incompiutezza dell’esistenza. Ne parla il recente saggio di Franco Ferrarotti, Al santuario con Pavese. Storia di un’amicizia (Edizioni Dehoniane 2016), il quale descrive anche l’insofferenza di Pavese verso l’ambiente culturale in cui è cresciuto, oppresso da un soffocante e immaturo anticlericalismo. «Ciò che forse non è stato capito dai contemporanei», scrive il sociologo Ferrotti, professore emerito presso La Sapienza di Roma, «è che in Pavese era sempre presente e nel fondo, misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva invece allo studio dei grandi miti. Pavese non si capirà fin che non si vedrà che egli è definito sì dall’appartenere a quel clima, ma in opposizione ad esso».

Memorabile il suo commento quando vinse il più noto premio letterario italiano, il Premio Strega: «Hai anche ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca d’esserlo. Eppure tutto ciò finirà. Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?» (Il mestiere di vivere, p. 341). E il giorno dopo la consegna del premio: «A Roma, apoteosi. E con questo?» (p. 360). Di fronte alla mondanità, all’effimera felicità dei suoi contemporanei, lui rispondeva con l’«indicibile angoscia» di un uomo che ragiona davvero, che non si accontenta, che sa di non poter risolvere l’enigma dell’esistenza in un orizzonte soltanto umano.

Pavese, scrive il sociologo Ferrarotti, visse con «il rospo del mistero del divino, il bisogno di una trascendenza capace di dare valore alla miserabile, nuda, inerme e insignificante datità del pratico-inerte in cui gli uomini vivono immersi, disperati e nello stesso tempo anelanti verso un “totalmente altro”». Perché non c’è modo di stare di fronte, altrimenti, alla «fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate». Per questo, Cesare Pavese è un «laico che non cancella la religione come fatto sociale irrilevante, né si crede un privilegiato particolarmente “illuminato” di fronte alla questione non tanto dell’esistenza o dell’inesistenza di Dio quanto del mistero di Dio, di questo rospo in gola che non va né su né giù». Lontano da dispute teologiche e ateologiche, la questione di Dio brucia anche nei cuori degli atei più incalliti, anche loro sanno che «l’uomo non è un essere senza ragion d’essere». Pavese lo capisce bene, «e avverte nel profondo un bisogno essenziale di immortalità», spiega Ferrarotti.

«Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?», scrisse (Il mestiere di vivere, p. 276). L’attesa di compimento, vissuta radicalmente da Pavese, caratteristica unica dell’essere umano, non sfociò mai verso la fede, verso la conversione. Nell’agosto 1950, in preda ad un profondo disagio esistenziale, mise fine alla sua vita ingerendo oltre dieci bustine di sonnifero. «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità» (Il mestiere di vivere, p. 190). Eppure, possiamo dire, il celebre scrittore ad un certo punto ha rinunciato a conseguire l’infinità che da sempre cercava, gli è mancato l’incontro cristiano. Perché, l’Infinito che attendeva, si è reso incontrabile nella storia, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). «Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui», prosegue l’evangelista. «Eppure il mondo non lo riconobbe».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato ai famosi non credenti)

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Benedetto XVI sostiene Papa Francesco: «del tutto d’accordo con lui»

Benedetto e FrancescoImportante endorsement del Papa emerito, Benedetto XVI, al suo successore Papa Francesco sull’aspetto centrale dell’attuale pontificato: il concetto di misericordia, spesso ridotto dai suoi critici a banale “buonismo”. L’intervento di Papa Ratzinger è comparso oggi sui quotidiani, anche se in realtà risale all’ottobre scorso quando ha concesso un’intervista al teologo Jacques Servais.

Innanzitutto, occorre dire che non è la prima volta. Nel gennaio di due anni fa, Benedetto XVI aveva scritto: «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco. Io oggi vedo come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiere». A queste parole erano seguiti diversi interventi del suo segretario personale, mons. Georg Ganswein, il quale ha rivelato la profonda stima di Benedetto XVI verso Francesco, i loro frequenti contatti personali, lasciando spazio anche ad una critica per i «circoli tradizionalisti» che oppongono a Francesco il pontificato di Benedetto XVI. E’ tutto documentato nel nostro apposito dossier.

Nell’ottobre scorso (ma si è saputo solo oggi), dicevamo, Benedetto XVI è direttamente intervenuto a confermare il cuore del pontificato di Papa Bergoglio. Dopo ever elogiato che il tema della misericordia è sempre più centrale nella Chiesa, a partire da Suor Faustina e da Giovanni Paolo II, ha aggiunto che «la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto». Una profonda convergenza di vedute, quindi.

Mai il Papa emerito era entrato nel merito della predicazione del suo successore, ha osservato giustamente il vaticanista Luigi Accattoli (mentre l’antibergogliano Sandro Magister si è guardato bene dal riportare la notizia), stavolta invece lo ha fatto, appoggiando la linea di Francesco, lodandone l’impegno sul tema della “misericordia” e osservando che tale messaggio è in continuità con i suoi predecessori (a partire da Giovanni Paolo II), non una sua invenzione astratta. Proprio sulla misericordia il Pontefice si era visto rivolgere prese in giro e correzioni dal giornalista di Libero, Antonio Socci. Quest’ultimo, soltanto un mese fa, aveva proprio voluto contrapporre la visione della misericordia di Benedetto XVI e di Padre Pio a quella di Francesco: «La misericordia testimoniata da padre Pio – diversamente da quella di Bergoglio – era inseparabile dalla giustizia e dalla verità. Padre Pio infatti diceva di temere la misericordia perché se ne può abusare. Il suo insegnamento ricalca quello di Giovanni Paolo II (con S. Faustina) e di Benedetto XVI». Invece il “provetto teologo” è stato smentito da Benedetto XVI, il quale ha proprio scritto che Papa Francesco «si trova del tutto in accordo» con la visione della misericordia espressa proprio da Giovanni Paolo II e da Suor Faustina (entrambi citati da Papa Ratzinger). «Poche righe ma sufficienti per dimostrare l’apprezzamento di Benedetto XVI per il suo successore Francesco», è stato commentato su Zenit.it.

Anche nell’ottobre 2015, proprio pochi giorni prima che Benedetto XVI rispondesse all’intervista, sempre Socci aveva contrapposto i due Pontefici sul tema della misericordia, accusando Francesco di «estrema superficialità» e «interpretazione ideologica» nel 2014 di aver degradato il concetto di misericordia a «discutibile accondiscendenza ai costumi e alle ideologie mondane». In ogni caso, non è la prima volta che il giornalista di Libero viene smentito clamorosamente da Benedetto XVI. Nel febbraio 2014, pochi giorni dopo una sua esoterica ipotesi su un presunto “attacco occulto” che avrebbe portato alle dimissioni del Papa emerito -mettendo in dubbio la validità del suo atto, tant’è che, ha scritto, «ha voluto conservare il titolo di “papa emerito” e l’abito bianco»-, Socci ha ricevuto smentita proprio da Benedetto XVI: «Non c’è il minimo dubbio circa la validità della mia rinuncia al ministero petrino», ha scritto Ratzinger. «Unica condizione della validità è la piena libertà della decisione. Speculazioni circa la invalidità della rinuncia sono semplicemente assurde». Per quanto riguarda il mantenimento dell’abito bianco, ­«nel momento della mia rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti. Del resto porto l’abito bianco in modo chiaramente distinto da quello del Papa. Anche qui si tratta di speculazioni senza il minimo fondamento».

Sarebbe comunque sbagliato ridurre la bella intervista a Benedetto XVI alla confermata convergenza di vedute tra i due Pontefici, un’ovvietà per tutto il mondo cattolico al di fuori del piccolo ma rumoroso cerchio dei tradizionalisti che, ormai, andrebbero chiamati anti-ratzingeriani. Molto belle infatti sono anche queste parole del Papa emerito: «La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile. La Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti». E ancora: «Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti».

Ratzinger riproporne quindi l’inaccettabilità del relativismo spirituale, esattamente come ha fatto numerose volte anche Francesco: «Altrettanto inseparabili sono Cristo e la Chiesa», ha spiegato ad esempio Papa Bergoglio. «Non si può capire la salvezza operata da Gesù senza considerare la maternità della Chiesa. Separare Gesù dalla Chiesa sarebbe voler introdurre una “dicotomia assurda”, come scrisse il beato Paolo VI. Non è possibile “amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa” (Ibid.) Infatti è proprio la Chiesa, la grande famiglia di Dio, che ci porta Cristo. La nostra fede non è una dottrina astratta o una filosofia, ma è la relazione vitale e piena con una persona: Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio fattosi uomo, morto e risorto per salvarci e vivo in mezzo a noi. Dove lo possiamo incontrare? Lo incontriamo nella Chiesa, nella nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica». Oppure: «Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. Fedeltà alla Chiesa; fedeltà al suo insegnamento; fedeltà al Credo; fedeltà alla dottrina, custodire questa dottrina».

Grazie Benedetto, grazie Francesco.

 

POST SCRIPTUM
Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano ha commentato l’intervento di Benedetto XVI scrivendo: «L’intervista che Benedetto XVI ha rilasciato al teologo gesuita Jacques Servais sul tema della fede tocca temi cruciali. Non si rivela tanto come un appoggio offerto dal Papa emerito a un presunto partito della misericordia, e quindi a Francesco, come ha rilevato chi ha dato dell’intervista soprattutto un’interpretazione giornalistica: come se il tema della misericordia costituisse un’esclusiva del Papa regnante e non un tema fondativo della tradizione cristiana, anche se spesso emarginato e dimenticato». Non sappiamo a chi si sta rivolgendo la nota storica e femminista cattolica, poiché tra tutti coloro che hanno commentato queste parole -noi compresi- nessuno ha parlato di “partito della misericordia”, né tanto meno ha sostenuto che questa tematica sia un’esclusiva di Francesco, o una sua invenzione. Infatti, lo stesso Benedetto XVI ha incardinato il messaggio di Francesco sulla misericordia in una continuità tra i suoi predecessori, a partire da Giovanni Paolo II, dimostrando così l’autenticità dottrinale del Papa regnante e smentendo indirettamente le accuse che riceve dai suoi critici. Per questo Zenit.it, ad esempio, ha commentato: «Poche righe ma sufficienti per dimostrare l’apprezzamento di Benedetto XVI per il suo successore Francesco».

Basta leggere le sue parole, senza interpretarle: «Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante – a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato a Papa Francesco)

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La cultura dello scarto perde colpi, ecco le più recenti vittorie pro-life

Marcia per la vitaBisogna vincere «la sfida di contrastare la cultura dello scarto, che ha tante espressioni oggi, tra cui vi è il trattare gli embrioni umani come materiale scartabile, e così anche le persone malate e anziane che si avvicinano alla morte», ha detto Papa Francesco nel gennaio scorso. E ancora: «L’aborto non è un “male minore”. E’ un crimine. E’ fare fuori uno per salvare un altro, è un male assoluto».

La sfida del fermare la cultura dello scarto non è facile da vincere, certamente però ci sono dati incoraggianti che arrivano da ogni parte del mondo. Ci siamo impegnati a darne notizia in modo costante e oggi segnaliamo le notizie arrivate negli ultimi mesi.

 

In Repubblica Domenicana l’Alta Corte della Repubblica Dominicana ha impedito la revisione del codice penale e l’introduzione di un comma che avrebbe permesso l’aborto in caso di stupro, ripristinando il diritto costituzionale alla vita. Molto importanti, da questo punto di vista, sono le numerose voci di persone nate da uno stupro –come Kristi Hofferber- che chiedono di lasciar vivere questi bambini. Ma non solo, importante è anche il contributo delle femministe di “Feminists for Life”, come Joyce Ann McCauley-Benner, che ha dichiarato: «E’ normale voler cancellare la memoria del dolore dello stupro. Purtroppo, la dura verità è che, anche se vogliamo farlo, non possiamo. L’aborto non cancella niente. Cosa potrebbe cancellare dalla memoria quello che è successo l’11 settembre 2001? L’aborto è un secondo atto di violenza contro la donne violentata».

In Svezia un’inchiesta governativa spinta sopratutto dal mondo femminista, ha invitato in modo molto fermo ad approvare entro la fine dell’anno una legge che vieti l’utero in affitto sia su pagamento che come “donazione” di donne generose.

La Polonia e l’Ungheria si sono opposte al Consiglio dei ministri dell’Interno europei sull’accordo a riconoscere i diritti patrimoniali a tutti i tipi di unioni e matrimoni all’interno dell’Unione Europea, compresi quelli tra persone dello stesso sesso. L’opposizione dei due Stati, tuttavia, ha fatto saltare l’accordo, il quale avrebbe violato il principio fondamentale di sussidiarietà e la legittima autonomia degli Stati in materia di diritto di famiglia.

In Brasile, un sondaggio realizzato da Brazil’s Datafolha Institute ha rilevato che il 58% dei brasiliani rifiuta la pratica dell’aborto in caso di donne in gravidanza infettate con il virus Zika. Anche nei casi in cui il bambino sarebbe certamente nato con microcefalia, il 51% degli intervistati si è dichiarato contrario alla sua morte, contro il 39% che invece la approvava. Molto importanti in Brasile sono state le parole pronunciate da Papa Francesco contro l’aborto, è maturata anche la consapevolezza che non vi è reale collegamento tra il virus e la microcefalia e si tratta semplicemente di un grimaldello usato per introdurre l’aborto in America Latina. In generale, soltanto il 16% dei brasiliani è favorevole ad una legislazione abortista.

In Perù il 12 marzo 2016 si è svolta a Lima la nazionale Marcia in difesa della Vita, che ha visto la partecipazione di 750mila persone. Una folla oceanica ha inondato le strade della capitale e le immagini, pubblicate anche sulla nostra pagina Facebook, lasciano davvero senza parole. Più sotto il video dell’evento. Il card. Juan Luis Cipriani ha dichiarato che Papa Francesco ha inviato la sua benedizione all’evento. In Perù il diritto alla vita è protetto costituzionalmente dal concepimento fino alla morte naturale e soltanto l’11% approva una legislazione abortista.

In Polonia il nuovo governo, eletto nell’ottobre 2015, ha interrotto il finanziamento statale ad programma sulla fecondazione in vitro instaurato nella legislazione precedente, annullando così la sua applicazione che si sarebbe svolta per altri tre anni. Grande gioia per le associazioni polacche in difesa della vita, che hanno ricordato come la maggior parte dei feti umani prodotti tramite la fecondazione in vitro vengono scartati ed uccisi. Nel frattempo, oltre 100mila cittadini hanno già firmato per invitare il governo ad una discussione sul divieto assoluto dell’aborto aborto, “senza eccezioni”, la speranza è che con questa legislatura si potrà raggiungere una maggioranza in Parlamento per affrontare la tematica.

Nel Maryland è stata fermata anche l’ultima spinta per legalizzare il suicidio assistito per i malati terminali grazie alla sempre più forte coalizione di oppositori che si sta creando.

Negli Stati Uniti è stato verificato che dal 2011 sono state chiuse 162 cliniche abortiste, mentre ne sono state aperte 21. Un ritmo impressionante, sia in Stati guidati da Repubblicani che da Democratici, da quando nel 1973 è stato introdotta la legge sull’aborto. L’ultima clinica è stata chiusa il mese scorso subito in Kentucky, aperta soltanto a dicembre, poiché operava aborti chirurgici senza licenza medica. La notizia ha aperto nuovamente un grande dibattito sulle numerose cliniche che forniscono aborti senza rispettare la salute e la dignità delle donne, portando alla chiusura di cliniche abortiste anche in Virginia e Georgia.

In Messico è uscito il film Pink (qui il trailer) che, per la prima volta, mostra le conseguenze sociali, psicologiche e spirituali dei bambini cresciuti con coppie dello stesso sesso. Nonostante le ire e le pressioni della comunità gay, il National Council for the Prevention of Discrimination si è rifiutato di censurare il film. Il regista, Francisco del Toro, ha risposto alle critiche invitando a guardare il film piuttosto che ascoltare i detrattori, l’attore principale è l’omosessuale Pablo Cheng, che pubblicamente si è opposto all’adozione omosessuale da parte di coppie dello stesso sesso, spiegando che i bambini hanno bisogno «di un padre e una madre».

In Europa la Commissione Affari sociali del Consiglio europeo ha respinto una risoluzione che chiedevano l’avvio di una regolamentazione internazionale della pratica dell’utero in affitto. Una proposta oltretutto in contrasto con la posizione espressa dallo stesso Consiglio d’Europa nel dicembre del 2015, quando era arrivata netta e chiara la “condanna alla maternità surrogata“.

In Sierra Leone il presidente Ernest Bai Koroma ha rifiutato di firmare un disegno di legge sulla legalizzazione dell’aborto, affermando che dovrebbe essere sottoposto a referendum popolare e non sotto la pressione delle organizzazioni occidentali.

Nel North Carolina è accaduto un piccolo miracolo: un gruppo di giovani ha condotto una veglia di preghiera per la chiusura della clinica abortista di Jacksonville, il proprietario della struttura, una settimana dopo la veglia, ha deciso di chiudere la clinica per “circostanze impreviste”.

In Ungheria il governo del premier Viktor Orban ha stabilito che alla nascita del terzo figlio i genitori riceveranno 32.000 euro e potranno pure richiedere un prestito della stessa cifra. Il portavoce del governo, Zoltan Kovacs, ha dichiarato che tale benefit – fornito a chi lavora a tempo pieno – sarà erogato quando il bambino avrà compiuto sei mesi, permettendo così ai genitori di tornare al lavoro al più presto. Inoltre, d’ora in poi, nei piccoli centri abitati, se almeno cinque famiglie faranno domanda per aprire un asilo nido, le istituzioni locali dovranno attivarsi perché ciò sia possibile a partire dall’anno successivo alla richiesta.

 

Qui sotto la Marcia per la Vita peruviana di pochi giorni fa

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alle tematiche sulla politica pro-life)

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