Papa Francesco: «mai compromessi con il peccato se vogliamo la misericordia di Dio»

Francesco“Sta venendo giù tutto”, “Bergoglio legittima il peccato”, “la Chiesa è alla deriva”. Sono alcune delle simpatiche e catastrofiche riflessioni del tradizionalismo cattolico, l’eresia che Papa Francesco ha avuto il merito di scoperchiare, speculare a quella progressista, contro la quale avevano a lungo parlato i suoi predecessori, Ratzinger e Wojtyla.

Quella sulla “legittimazione del peccato” è diventata un vero must in certi ambienti, abituati a ragionare sul bianco e nero, impauriti che l’accento che Francesco ha dato sulla misericordia sostituisca l’aspetto della giustizia o si trasformi in un relativistico buonismo in cui tutti fanno ciò che vogliono tanto Dio perdona sempre.

Eppure, Papa Francesco dice proprio l’opposto. Nell’Udienza generale di ieri ha ribadito il concetto: «Il fariseo non concepisce che Gesù si lasci “contaminare” dai peccatori. Ma la Parola di Dio ci insegna a distinguere tra il peccato e il peccatore: con il peccato non bisogna scendere a compromessi, mentre i peccatori – cioè tutti noi! – siamo come dei malati, che vanno curati, e per curarli bisogna che il medico li avvicini, li visiti, li tocchi. E naturalmente il malato, per essere guarito, deve riconoscere di avere bisogno del medico!».

Nessun compromesso con il peccato e la misericordia di Dio è possibile soltanto se ci si riconosce peccatori. Esattamente ciò che ha detto nell’intervista pubblicata nel libro “Il nome di Dio è Misericordia” (Piemme 2016): «La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio». Il teologo padre Angelo Bellon ha recentemente scritto: «la misericordia predicata da Papa Francesco è la misericordia predicata e insegnata da sempre. È la misericordia che vuole vincere il male, non quella che lascia nel male. È la misericordia che vuole vincere il peccato, non quella che lascia nel peccato».

Non c’entra nulla l’arrendevolezza, il lassismo del “sbagliato giudicare”. Misericordia, ha scritto sempre Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo che stiamo vivendo, è anche «consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti». La correzione fraterna è più che necessaria, ha ribadito in un’altra occasione, certo, «quando ti dicono la verità non è bello sentirla, ma se è detta con carità e con amore è più facile accettarla». Dunque, «si deve parlare dei difetti agli altri», ma con carità. «Tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”», ha spiegato infine nel marzo 2015. «Né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Nessuno dei due. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare. Non dire “ah, no, vai, vai!”, o la rigidità».

Bisogna diffidare seriamente degli apocalittici, dei giornalisti improvvisati teologi che vivono ormai nella delirante polemica contro il Pontefice. Poco importa se hanno avuto un passato da illuminanti testimoni. Come ci ha insegnato questa mattina Francesco, «fa bene al cuore cristiano fare memoria della sua strada, della propria strada: come il Signore mi ha condotto fino a qui, come mi ha portato per mano?». Chi non fa memoria si perde e fa perdere chi lo segue, si nega come figlio e pretende di essere padre. Come scrisse Pio XI, «ci sono, purtroppo, pseudo-cattolici che sembrano felici quando credono di scorgere una differenza, una discrepanza, a modo loro (s’intende), fra un Vescovo e l’altro, più ancora fra un Vescovo e il Papa». Sappiamo bene quanti di questi pseudo-cattolici gioiscono oggi, ad esempio, alla notizia del calo delle vocazioni, così da poter incolpare anche di questo il Papa. Magari arrivando anche a convincersi che le bastonate quotidiane al successore di Pietro siano amore alla verità.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato a Papa Francesco)

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Dorothy Murdock negava l’esistenza di Cristo, è morta il 25 dicembre

acharyaIronia del destino. Così si può definire la sorte di Dorothy Murdock, conosciuta con lo pseudonimo di Acharya S., scrittrice nota in America per essere stata una delle più note sostenitrici della teoria del “mito di Gesù”, convinta che massoni pagani ed ebrei del primo e secondo secolo avessero inventato il racconto di Gesù e dei suoi discepoli, creando un collage con tutte le altre religioni del mondo, in combinazione con l’astrologia.

La Murdock soffriva di cancro al seno ed è morta, coincidenza vuole, proprio lo scorso 25 dicembre 2015, anniversario (storico, non mitologico) della nascita di quel Gesù che ha tanto combattuto durante la sua vita. Si è battuta come un leone per affermare le sue verità, venendo ignorata dalla comunità scientifica di cui avrebbe voluto far parte. Ma non aveva né titoli, né credenziali accademiche a parte una (normale) laurea in Civilizzazione classica e greca, il suo libro più famoso si intitola The Christ Conspiracy (Adventures Unlimited Press 1999).

Forse l’unico studioso di livello che ha impiegato del tempo per risponderle è stato l’agnostico Bart D. Ehrman, che ha scritto: «il libro di Acharya S. è il sogno del cospiratore senza fiato. Tutti gli argomenti avanzati sono infatti sbagliati», il suo lavoro «è pieno di così tanti errori e affermazioni stravaganti che è difficile credere che l’autrice potesse essere seria mentre scriveva, non si dovrebbe essere sorpresi dal fatto che il suo parere non venga considerato dagli studiosi veri o citato da esperti del settore». Anche Michael K. Licona, docente di teologia presso la Houston Baptist University e noto studioso di Nuovo Testamento, ha dato attenzione alle tesi della Murdok, pubblicando un lungo articolo di confutazione dei suoi argomenti.

Tralasciamo la tesi secondo cui i dodici apostoli sarebbero stati inventati seguendo le costellazioni dello zodiaco e legate all’era dei Pesci (il simbolo del cristianesimo è il pesce), basterà citare la risposta di Noel Swerdlow, docente di Astronomia e astrofisica presso l’Università di Chicago, specialista nell’astronomia dell’antichità: «ciò che questa donna sta sostenendo è così stravagante che non vale la pena rispondere. Le moderne idee circa l’età dei Pesci o dell’Acquario sono basate sulla posizione dell’equinozio di primavera nelle regioni delle stelle di queste costellazioni, ma tali regioni, i confini tra quelle costellazioni, sono una convenzione completamente moderna dell’International Astronomical Union allo scopo di mappatura. Quando questa donna dice che il pesce cristiano era un simbolo dell’era dei Pesci sta dicendo qualcosa che nessuno avrebbe mai pensato di dire nell’antichità perché si tratta interamente di un’idea moderna, nata del ventesimo secolo» (N. Swerdlow, corrispondenza e-mail con M. Licona del 19/09/01).

Più interessante, invece, la replica del prof. Licona alla tesi di Acharya S. sul Gesù come mito preso in prestito da altre religioni pre-cristiane, in particolare il parallelismo viene fatto con Krishna, una divinità induista, che la miticista sostiene essere morto crocifisso come Gesù. Il teologo americano ha contattato Edwin Bryant, docente di Induismo presso la Rutgers University, traduttore in lingua inglese del Bhagavata-Purana, uno dei testi sacri dell’induismo dove a lungo si parla di Krishna, e autore del libro Krishna: The Beautiful Legend of God, il quale ha risposto: «E’ assolutamente senza senso. Non esiste assolutamente alcuna menzione da nessuna parte in cui si allude ad una crocifissione di Krishna», aggiungendo che le fonti parlano della morte tramite una freccia scagliata accidentalmente da un cacciatore. La divinità è morta e ascesa al cielo, ma non era una resurrezione (E. Bryant, conversazione telefonica con M. Licona del 06/09/01). Acharya S. sostiene che altri dei indù siano morti crocifissi come Gesù, ad esempio Vishnu. Il prof. Bryant ha risposto: «Questa donna non sa di cosa sta parlando! Vishnu era una forma di Krishna adorata nello stato del Maharashtra, non ci sono assolutamente dèi indiani ritratti come crocifissi. Prima di fare queste dichiarazioni dovrebbe leggere almeno un corso di religione indù!».

Ma ogni tesi complottista, lo sappiamo, si basa sempre su uno spicchio di verità. Infatti, dei 24 elementi in comune tra Krishna a Gesù che la signora Dorothy Murdock ha elencato nel corso della sua carriera da scrittrice, 14 sono sbagliati e uno è parzialmente errato. Esistono quindi almeno 9 elementi biografici che sembrano in comune: la nascita da una vergine (1) segnalata da una stella (2), celebrata da esseri celesti e vaccari (3), la persecuzione da parte di un tiranno che ha ucciso migliaia di bambini (un parallelo di Erode) (4), ha guarito molte persone tramite miracoli (5), ha insegnato (non tramite parabole)(6) e ha favorito i poveri (7), ha criticato i branhamiti che non lo hanno riconosciuto (8), ed è asceso al cielo (ma non risorto) (9). L’agnostico e razionalista indiano Benjamin Walker, nel suo libro The Hindu World: An Encyclopedic Survey of Hinduism, ha fornito la risposta, dopo aver tracciato queste analogie: «non c’è alcun dubbio sul fatto che gli indù hanno preso in prestito i racconti dal cristianesimo, tralasciando il nome di Gesù» (B. Walker, The Hindu World: An Encyclopedic Survey of Hinduism, Vol.1, Praeger 1983, pp. 240-241).

Effettivamente le notizie sulla leggendaria divinità Krishna (le cui fonti più antiche risalgono a 2500 anni dopo la sua presunta esistenza) derivano dai testi Bhagavata Purana e il Harivamsa. Rispetto al primo, gli studiosi (tra cui Bryant) lo ritengono composto nel VII secolo d.C. (altri invece parlano del IX e X secolo), in ogni caso certamente centinaia di anni dopo la stesura dei racconti evangelici. Più incertezza invece rispetto al Harivamsa, il prof. Bryant ha comunque sostenuto che la maggior parte delle fonti sembrano indicare la sua composizione tra il IV e il VI secolo d.C., mentre David Mason, direttore di Asian Studies presso l’Università del Wisconsin, ritiene possa risalire al II secolo d.C. (D. Mason, email a M. Licona del 06/11/01), lo stesso affermano Ravi M. Gupta e Kenneth R. Valpe in The Bhagavata Purana: Sacred Text and Living Tradition (Columbia University Press 2013, p.92). In ogni caso sicuramente dopo i Vangeli, quindi se non si tratta di coincidenza si tratta di plagio degli autori dei testi indù nei confronti dei testi cristiani (come d’altra parte sembra sia avvenuto anche per il Corano).

Oltre a Krishna, la signora Murdock ha sostenuto similitudini anche tra Gesù e il Buddha, accusando il cristianesimo di aver copiato anche il buddismo. Nel suo libro The Christ Conspiracy (pag. 109,110), ha elencato 18 presunte similitudini che il prof. Licona ha inviato a Chun-Fang Yu, storica del buddhismo e professore emerito di Chinese Buddhist Studies presso la Columbia University. La risposta è stata: «nessuna delle diciotto similitudini è corretta, soltanto alcune hanno qualche parvenza di correttezza ma sono gravemente distorte. Questa donna è totalmente ignorante sul Buddismo, è molto pericoloso diffondere tale disinformazione e, per quanto mi riguarda, eviterei di impegnarmi in una discussione con lei, senza che prima questa donna abbia seguito un corso base sulla religione buddhista».

La Murdock (alias Acharya S) ha avanzato tante altre tesi, come l’inesistenza di Paolo di Tarso, la datazione dei Vangeli al 150 d.C., la falsità del martirio dei primi cristiani, le convinzioni cristiane di Adolf Hitler alla base del genocidio degli ebrei ecc. Insomma, una sorta di Corrado Augias all’americana. Significativo che perfino il miticista con più titoli accademici, Robert Price (ovvero teologo e docente di critica biblica presso il Center for Inquiry Institute, una sorta di associazione di scettici americani, come il CICAP italiano), ha rifiutato tutte le sue tesi, scrivendo: «”The Christ Conspiracy” è un contenitore di eccentricità riciclate, buttate lì a casaccio, poche di esse meritano considerazione, la maggior parte sono pericolosamente traballanti, quasi tutte sono completamente folli» (R. Price, Free Inquiry, Summer 2001, pp. 66-67).

La scrittrice americana ha scritto che la ragione per cui è stata ignorata dagli studiosi è perché i suoi «argomenti sono troppo intelligenti e pericolosi, sono stati soppressi perché senza dubbio risultano inconfutabili» (The Christ Conspiracy, pag. 21). E’ quello che ripetono anche i complottisti dello sbarco sulla Luna o di coloro che “sanno” che Elvis Presely è ancora vivo. La signora Murdock ha fatto la sua vita, ha combattuto la sua insensata battaglia intellettuale ed è andata male, molto male. Il Signore l’ha chiamata a sé il 25 dicembre 2015, ora finalmente saprà qualcosa di più anche della Sua storia terrena.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla tematica della storicità di Gesù)

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La vera trasgressione è la fedeltà, non il libertinismo

coppia anziani 

di Massimo Recalcati*
*psicoanalista e neuropsichiatria dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna

da Repubblica, 03/04/16

 

Il tempo ipermoderno sputa sulla fedeltà inneggiando una libertà fatta di vuoto. Tutto ciò che ostacola il dispiegarsi della volontà di godimento del soggetto appare come un residuo moralistico destinato ad essere spazzato via da un libertinismo vacuo sempre più incapace di attribuire senso alla rinuncia. Il principio si applica tanto ai legami con le cose quanto, soprattutto, a quelli con le persone.

Non è un caso che nel nostro paese la fedeltà sia stata recentemente considerata dai legislatori come una forma arcaica del legame amoroso al punto da volerla sopprimere negli articoli del Codice che normano le unioni civili e quelle matrimoniali. Perché evocare inutilmente un fantasma anacronistico reo di aver pesato come un macigno inutile sulla libertà affettiva e sessuale delle vite umane? Meglio liberarsene come di un tabù decrepito dalle armi desolatamente spuntate, come un ferro vecchio che non serve più a niente. Oggi è il tempo del “poliamore”, della libertà senza inibizioni, della curiosità sperimentale, dell’esperienza senza vincoli, della morte dell’amore pateticamente romantico e dell’affermazione, al suo posto, dell’amore narcisistico che rende l’aspirazione degli amanti al “per sempre” una farsa o una ingenuità bigotta di qualche credulone, o, peggio ancora, una catena repressiva alla nostra libertà di amare che deve essere finalmente spezzata.

Anche l’elevazione della fedeltà ad un rango superiore a quello della mera fedeltà (sessuale) dei corpi, teorizzata, non a caso, soprattutto dagli uomini, tradisce, in realtà, la stessa difficoltà a concepire un legame capace di durare nel tempo senza essere necessariamente mutilato nella spinta del desiderio. Sembra un insegnamento fatale dell’esperienza: più una relazione dura nel tempo più il desiderio erotico si infiacchisce e necessita di nuovo carburante, o, meglio, di dopamina. Le neuroscienze lo confermano senza incertezza: il cervello per mantenere animato il desiderio deve essere dopato dall’eccitazione proveniente da un nuovo oggetto. L’anima, forse, si pensa, può restare fedele, ma non lo si può chiedere al corpo la cui spinta erotica non deve conoscere vincoli.

Il problema è che il nostro tempo non è più in grado di concepire la fedeltà come poesia ed ebbrezza, come forza che solleva, come incentivazione, potenziamento e non diminuzione del desiderio, come esperienza dell’eterno nel tempo, come ripetizione dello Stesso che rende tutto Nuovo. Il nostro tempo non sa né pensare, né vivere l’erotica del legame perché contrappone perversamente l’erotica al legame. È un assioma che deriva da una versione solo nichilistica della libertà: la libertà dell’amore – come la libertà in generale per l’uomo occidentale – deve escludere ogni forma di limite, deve porsi come assoluta. In questo senso la fedeltà diviene un tabù logoro che appartiene ad un’altra epoca e destinato ad essere sfatato.

Quello che l’ideologia neo-libertina del nostro tempo però non vede è che ogni forma di disincanto tende, come spiegarono già Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, a ribaltarsi nel suo contrario. Il culto del poliamore, della libertà narcisistica, la polverizzazione dell’ideale romantico dell’amore porta davvero verso una vita più ricca, più soddisfatta, più generativa? La clinica psicoanalitica ci consiglia di essere prudenti: la ricerca affannosa del Nuovo spesso non è altro che la ripetizione monotona della stessa insoddisfazione. Il punto è che il nostro tempo rischia di smarrire ogni possibile sguardo sulla trascendenza, sull’altrove, anche di quella che si dà nell’esperienza assolutamente immanente dei corpi. Perché non esiste amore se non del corpo, del volto, della particolarità insostituibile dell’Altro. L’ideale della fedeltà può diventare – come lo è stato per diverse generazioni – una camicia di forza che sacrifica il desiderio sull’altare dell’Ideale divenendo dannosa per la vita. Quando questo accade è bene liberarsene al più presto.

Ma l’esperienza della fedeltà, vissuta non in opposizione alla libertà, ma come la sua massima realizzazione, offre alla vita una possibilità di gioia e di apertura rare. Quella che scaturisce dall’esperienza di rendere sempre Nuovo lo Stesso: la ripetizione della fedeltà rivela infatti che giorno dopo giorno il volto di chi amo può essere, insieme, sempre lo Stesso e sempre Nuovo. Mentre il nostro tempo oppone lo Stesso al Nuovo, il miracolo dell’amore è, infatti, quando c’è, quello di rendere lo Stesso sempre Nuovo. Accade anche nella lettura dei cosiddetti classici. Lo diceva bene Italo Calvino: quando un libro diventa un classico se non quando risulta inesauribile di fronte ad ogni lettura? Quando la sua forza non si esaurisce mai, ma dura per sempre eccedendo ogni possibile interpretazione? E non è, forse, la fedeltà (ad un amore, ad un autore, ad un’idea) un nome di questa forza? Non è la fedeltà ciò che ci spinge a rileggere lo stesso libro – o un corpo che si trasforma in libro – scoprendo in esso sempre qualcosa di Nuovo? Non è il suo miracolo quello di fare Nuovo ogni cosa, soprattutto quella “cosa” che crediamo di conoscere di più? Non è questa la sua potenza: trasformare la ripetizione dello Stesso in un evento ogni volta unico e irripetibile?

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Il convertito Peter Hitchens, primo “avversario” del fratello Christopher

HtichensSessantasette anni fa nasceva Christopher Hitchens, giornalista e saggista statunitense ma filo-sovietico, diventato uno degli atei militanti più famosi al mondo dal 2001 al 2011, anno della sua morte, causata dal cancro all’esofago.

Oggi la spinta dei cosiddetti new-atheist si è decisamente infiacchita, i principali leader del movimento sono troppo vecchi per continuare le loro battaglie, stanchi dal farsi la guerra a vicenda e dagli scandali che li hanno colpiti, alcuni hanno abbracciato lo spiritualismo, mentre le generazioni più giovani preferiscono un approccio meno violento, impegnandosi con Alain de Botton a costruire mega-chiese dove ritrovarsi e simulare il culto cristiano. Chissà cosa avrebbe detto di questa imprevedibile deriva il compianto Hitchens.

Certamente sappiamo cosa pensa suo fratello, Peter Hitchens. Ne abbiamo già parlato nel 2010, raccontando che Peter è sempre stato il primo avversario di Christopher. Entrambi convertitesi all’ateismo, soltanto Peter ha sperimentato l’incontro cristiano e la conversione, iniziando a testimoniare in prima persona al fratello che sbagliava, che la religione non è il veleno che lui predicava. Dopo che Christopher ha scritto il suo celebre “Dio non è grande”, Peter ha risposto con il libro La rabbia contro Dio: come l’ateismo mi ha portato alla fede, raccontando che è stato proprio il disprezzo che gli atei militanti manifestano verso chi ha fede a convincerlo a distaccarsi da questa sterile posizione esistenziale, aprendo la ragione all’incontro con il Mistero.

In un’intervista recente, Peter ha spiegato: «Ho faticato a scrivere questo libro, non volevo sfruttare il polverone suscitato da “Dio non è grande”. Alla fine ho il sospetto che potrebbe essere il mio libro con più successo, sento quasi ogni settimana diverse persone che lo hanno trovato utile, il che è estremamente piacevole». Rispetto al fratello Christopher, ha detto: «I nostri rapporti erano complicati, lui si è seriamente seccato quando ho ricordato la sua ambiguità circa l’URSS durante la guerra fredda, proprio nel momento in cui voleva diventare un patriota americano». Christopher Hitchens, effettivamente, ha una biografia davvero controversa. Pubblicamente alcolizzato («per sopportare il peso della noia», ha dichiarato), più volte accusato di antisemitismo, ha spesso manifestato di essere un guerrafondaio (così infatti è definito sui media) con dichiarazioni come queste: «Le bombe a grappolo non sono forse buone in sé, ma quando cadono sulle truppe dei talebani hanno un effetto incoraggiante. Non credo che la guerra in Afghanistan sia stata sufficientemente combattuta senza pietà, il bilancio delle vittime non è abbastanza alto, troppi sono scappati».

Non era proprio un personaggio di cui vantarsi, nel 2013 l’ateo Curtis White ha scritto che la «disonestà intellettuale» di Hitchens è imbarazzante. Il suo libro “Dio non è grande” «è intellettualmente vergognoso, manca di decenza. Non si può ridurre la religione ad una serie di aneddoti criminali». Non a caso gli atei militanti de noaltri, Piergiorgio Odifreddi e Giulio Giorello, hanno approfittato del giorno della sua morte per riservargli durissime critiche, definendolo un «fondamentalista dell’ateismo» e «reazionario». «Era dovuto comparire con me in una intervista congiunta su Fox TV», ha raccontato il fratello Peter, «ma questo non è mai avvenuto. Mi ha chiamato dall’ospedale poco prima della trasmissione dicendomi che si era ammalato durante la notte, è stato il momento in cui ho saputo che era malato, molto prima che diventasse pubblico. Da allora quello che pensava del mio libro, e quello che io pensavo del suo, è diventato irrilevante. Sono stato determinato nell’evitare qualsiasi altra causa di conflitto con lui».

Christopher e i suoi colleghi di battaglie hanno spesso sostenuto che crescere un figlio in una tradizione religiosa è abuso di minori. «Questo atteggiamento», spiega Peter Hitchens, «contiene una minaccia implicita alla libertà di parola e di pensiero, è totalitarismo. Questo è il motivo per cui il mio confronto con gli atei moderni e totalitari del 20° secolo è stato spesso rifiutato da loro. L’edonismo moderno è molto vicino a “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, quest’utopia è per sua natura intollerante verso il suo principale rivale, vale a dire la religione».

La redazione

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Lourdes, in un giorno guarita da una grave paralisi: parola ai medici

LourdesEra in barella, non camminava da tempo, la paralisi alla gamba sinistra (a causa di una lombosciatalgia paralizzante) era totalmente invalidante. Si è immersa nella piscina di Lourdes e il giorno dopo, quando durante la processione eucaristica l’ostia consacrata le è passata vicino, ha avvertito la voglia di alzarsi in piedi e ha percorso la via Crucis camminando sulle sue gambe.

Parliamo della incredibile vicenda accaduta a suor Luigina Traverso, 68esima miracolata di Lourdes ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa cattolica. E’ tornata sui quotidiani recentemente grazie ad un’intervista al dott. Franco Balzaretti, direttore del Day Surgery dell’Asl di Vercelli e specialista in chirurgia vascolare e chirurgia d’urgenza, membro del Comitato Medico Internazionale di Lourdes e colui che ha seguito proprio il caso di suor Luigina.

Siamo nel 1965, la religiosa era affetta da lombatosciatica paralizzante in meningocele, le carte mediche realizzate poco prima la partenza per Lourdes parlano di «paziente in condizioni generali sofferenti, pallida, ipotesa: cicatrice chirurgica fresca ed asciutta, dolente alla pressione… rigidità e contrattura del tratto lombo-sacrale della colonna. Mobilità del piede ridotta per paresi dei muscoli tibiale anteriore, estensore dell’alluce, estensore comune delle dita. Ipoefficienza del tricipite surale e del tibiale posteriore. Peroni inerti, decubito prono obbligato». «Aveva già subito diversi interventi chirurgici», ha spiegato il dott. Balzaretti, «i medici le avevano sconsigliato il pellegrinaggio, non pensavano neppure che potesse arrivare viva a Lourdes».

Suor Luigina si reca comunque a Lourdes in barella, si immerge nella piscina del santuario e il 23 luglio 1965 assiste alla processione eucaristica, al momento del passaggio del celebrante con l’ostia consacrata, le accompagnatrici infermiere che le sono accanto testimoniano l’avvertimento di «un forte calore penetrare nel suo corpo e la voglia di mettersi in piedi». La suora si sente meglio e nota «l’improvvisa ripresa della motilità del piede e la scomparsa del dolore». Riportata nella propria camera, alla presenza del dottor Danilo Cebrelli e del delegato vescovile monsignor Lorenzo Ferrarazzo, si mette seduta sul letto. «La religiosa chiede di poter ricevere la benedizione da parte di mons. Ferrarazzo, che replica in modo esplicito: “Suor Luigina, se vuol ricevere la benedizione, si alzi e venga mettersi in ginocchio a pregare”. Suor Luigina prontamente ubbidisce, scende dal letto e si inginocchia».

Al ritorno del pellegrinaggio, il 27 luglio la suora si reca dal prof. Claudio Rinaldi, il quale attesta: «Buone condizioni generali, rachide in asse, indolente, cicatrice chirurgica indolente, assenza di contrattura muscolare e rigidità segmentaria. Arti inferiori completamente mobili con forza pari e simmetrica, anche i fini movimenti di estensione separata dell’alluce delle dita erano possibili. Lasègue negativo, riflessi patellari pronti, achilleo dx pronto, sx assente. Sensibilità normale». Nell’agosto 1965 ricompare anche il riflesso achilleo sinistro. Da allora suor Luigina non ha più accusato alcuna manifestazione della patologia che l’aveva resa invalida.

La vicenda è stata studiata fino al 2010, con tre riunioni all’Ufficio delle constatazioni mediche (nel 1966, 1984 e 2010) e nuovi esami medici, in attesa di verificare e certificare la guarigione permanente. Il 19 novembre 2011 il Comitato Medico Internazionale di Lourdes (C.M.I.L.), composto da venti luminari della scienza medica, ha confermato il carattere scientificamente inspiegabile della guarigione, l’11 ottobre 2012 il vescovo di Casale Monferrato, mons. Alceste Catella, lo ha dichiarato ufficialmente “miracolo”.

Si può guarire completamente da un giorno all’altro di gravissima lombatosciatica paralizzante? No, non è possibile, eppure è accadutoproprio a Lourdes, evento certificato da diversi ed autorevoli medici. Lo scettico non ha più possibilità di essere tale, se vuole rimanerlo deve prima confutare il dossier medico-scientifico di suor Luigina. Non serve nascondersi dietro al “su mille paralizzati soltanto uno”, perché quell’uno è guarito perché fosse segno per tutti, come i pochi miracolati da Gesù (che invece poteva, se avesse voluto, guarire tutti quanti). I cristiani non rimproverano al mondo di essere materialista, ma di non esserlo abbastanza. Non rimproverano al mondo di negare Dio, ma di negare la realtà. “Se non volete credere a me, credete almeno alle opere” (Gv 10,38).

 

Qui sotto la video-testimonianza di suor Luigina

La redazione

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Se Gesù è davvero morto in croce, il Corano dice il falso (e l’Islam vacilla)

CoranoDa un punto di vista prettamente storico-letterario, a partire dal 1700 il cristianesimo e le fonti cristiane, in particolare Bibbia e Vangeli, sono stati oggetto di un intenso studio da parte di ricercatori che si sono proposti di capire cosa ci fosse di effettivamente vero in queste fonti.

I principi via via elaborati sono noti come metodo storico-critico, e sono fruttuosamente applicati anche in campo non biblico (p.es. lo studio di Iliade, Odissea, altri testi dell’età classica). Oggi qualunque storico e letterato sa per esempio che, di fronte a un testo di manoscritto più antico e a un testo diverso di un manoscritto più recente, va preferito il più antico, più vicino alla fonte e meno soggetto ad alterazioni. Quanto al cristianesimo, il risultato complessivo è stato quello di una conferma della storicità sotto molti aspetti, come rimarca più volte Vittorio Messori nel suo celebre Ipotesi su Gesù, e altre convinzioni (non dogmi) sono state tranquillamente corrette o abbandonate senza conseguenze sulla fede e sul credo: p.es. il Pentateuco non è stato scritto da Mosè, alcune lettere del Nuovo Testamento non sono state scritte direttamente dagli apostoli, e via dicendo.

In definitiva, oggi nessun cristiano si turba nel sapere che la Bibbia è sì parola di Dio, ma scritta per mano di uomini. E questo profondo e proficuo lavoro intellettuale ha complessivamente contribuito a “rendere ragione della speranza” (1Pt 3,15), permettendo di coniugare fede e ragione, “le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità” (incipit della Fides et ratio, 1998). Non sembra essere ancora venuto il momento di una fruttuosa applicazione del metodo storico critico all’interno dell’Islam, per quanto ovviamente possa annoverare persone devote, buone e oneste e studiosi preparati e competenti. E un punto di riflessione prioritario, come suggerisce lo studioso cristiano Michael Licona in un contributo del 2010, riguarda la morte di Gesù.

Gesù è morto. Su questa palese ovvietà sono concordi tutti i libri di testo, le enciclopedie, gli studiosi. Questo sulla base delle fonti storiche coeve, in particolare i vangeli canonici e le lettere paoline, e sugli echi che ci sono pervenuti da altri scrittori dell’epoca (Giuseppe Flavio, Tacito, Luciano, Mara bar Serapion). Oltre al criterio di antichità, a conferma della morte di Gesù gioca il criterio di imbarazzo: mai al mondo gli evangelisti gli avrebbero attribuito una morte così umiliante e infame, e non a caso occorre aspettare l’inizio del V secolo per vedere una raffigurazione cristiana di Gesù in croce, nel portone della basilica di santa Sabina a Roma. Il problema è che la morte di Gesù non è riconosciuta dal Corano e dalla tradizione islamica. Secondo questa rivelazione, Gesù era un profeta di Dio (Corano 2,87.136.253; 3,45; 4,171; 5,75; 57,27; 61,6) e come tale non poteva fare una fine del genere: “Non l’hanno né ucciso, né crocifisso, ma così parve loro” (Corano 4,157). Chi effettivamente sarebbe stato crocifisso al posto di Gesù, il Corano non lo dice. Una risposta esplicita si trova nel Vangelo di Barnaba, apocrifo medievale di origine islamica: fu crocifisso Giuda Iscariota, miracolosamente reso simile a Gesù e crocifisso al suo posto.

Ora, nessuno storico o studioso razionalmente motivato penserebbe di poter correggere dei resoconti coevi (i vangeli) sulla base di un testo successivo di 6 secoli (il Corano) o di 13 secoli (il Vangelo di Barnaba). Ma è proprio questa l’enorme potenziale sfida che si trovano davanti i musulmani che cercano di valorizzare la ragione nel definire o ridefinire le proprie credenze. Una sfida resa estremamente ardua da due convinzioni proprie dell’Islam. La prima è la nuzul (“discesa”), concetto per il quale il Corano non è solo ispirato, ma è disceso direttamente da Dio, parola per parola, lettera per lettera, dunque assolutamente esente da qualunque errore e per il quale non sono possibili interpretazioni diverse dal testo espressamente contenuto. La seconda convinzione è la tahrif (“distorsione”) per la quale il vangelo (Ingil) sarebbe stato manomesso dai cristiani (“c’è un gruppo dei loro che ha ascoltato la Parola di Allah per poi corromperla scientemente, dopo averla compresa”, Corano 2,75). Convinzione che è in contrasto con la paleografia, dato che nessuno delle migliaia di manoscritti del Nuovo Testamento che ci sono pervenuti mostra sostanziali e significative divergenze di contenuto.

Va precisato che una risposta sensata e razionale alla domanda se Gesù è morto o no, non è una questione oziosa, banale e inutile. Come conclude il prof. Licona: “Se Gesù non è morto in una croce nel primo secolo, il Cristianesimo è falso e l’Islam ha una possibilità di essere corretto”, ma se Gesù è morto in croce, “questo è devastante per la convinzione dell’Islam di essere la vera religione di Dio, poiché il Corano sbaglia. E poiché l’ispirazione divina del Corano è quella della dettatura, se il Corano sbaglia non è divinamente ispirato, e il fondamento dell’Islam vacilla”.

Roberto Reggi

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Nuove “famiglie”: dietro l’arcobaleno, il buio

coppia 

di Giuliano Guzzo*
*sociologo e blogger

 

da Notizie Pro Vita, aprile 2016

 

È indubbio come sia in corso, ormai da anni, un tentativo su più versanti – accademico, mediatico e politico – di presentare le coppie composte da persone dello stesso sesso come modello di ‘nuova famiglia’ del tutto equivalente a quella naturale, ribattezzata non a caso come ‘tradizionale’ e posta a sua volta sullo stesso piano di altre unioni alle quali, pur non essendo ‘tradizionali’, sarebbero riservate le medesime attenzioni.

Se si guarda in particolare alle serie televisive o a come vengono confezionate molte trasmissioni non c’è dubbio come detto tentativo non solo sia in atto, ma sia sempre più insistito e non di rado giunga ad esaltare ‘nuove famiglie’ presentandole ai telespettatori come più equilibrate, più sensibili, più aperte mentalmente; quasi che le unioni gay fossero interpreti di una sensibilità nuova, rispetto alla quale la famiglia ‘tradizionale’ avrebbe solo da imparare. È proprio così? Davvero le coppie composte da persone dello stesso sesso sono un modello positivo e, comunque sia, tranquillamente paragonabile alla famiglia ‘tradizionale’? Il solo modo per farsi un’idea al di là delle diverse sensibilità e convinzioni morali di ciascuno è quello di volgere lo sguardo alla ricerca e alle statistiche. Statistiche le quali – strano ma vero – raccontano sulle unioni omosessuali una realtà molto diversa da quella catodica tutta ‘baci e abbracci’. Infatti le relazioni fisse omosessuali non sembrano paragonabili a quelle eterosessuali da nessun punto di vista: né perdurata, né per esclusività e neppure, anche se è politicamente scorretto dirlo, per i tassi di violenza interpersonale che le caratterizzano. Vediamo perché.

Si può iniziare considerando la stabilità di coppia, condizione che se da un lato non è automaticamente indice di armonia relazionale dall’altro comunque non può essere ignorata. Ebbene, la realtà è che una coppia eterosessuale viene considerata ‘duratura’ se raggiunge almeno venti-cinque anni di convivenza; una coppia omosessuale, invece, può essere considerata ‘duratura’ se si protrae almeno per cinque anni [cfr. Pediatria Preventiva & Sociale, 2014;37-39]. Un terzo delle coppie omosessuali conviventi, infatti, sta insieme meno di due anni, un terzo tra i due e i cinque anni e l’ultimo terzo più di cinque anni [cfr. Barbagli M. – Colombo A. (2007) Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, Il Mulino]. Secondo uno studio olandese, la relazione ‘fissa’ media di coppie maschili dura 1,5 anni [cfr. AIDS, 2003; Vol.17(7):1029-1038]. La situazione non è diversissima in Inghilterra dove, secondo una ricerca, rispetto alle coppie eterosessuali sposate, quelle eterosessuali solo conviventi hanno entro cinque anni un rischio di rottura 2,75 volte superiore, rischio che sale addirittura a 5,25 se il termine di paragone sono le coppie conviventi omosessuali [cfr. Journal of Marriage and Family, 2012; Vol.74(5):973–988]. È interessante osservare come neppure il riconoscimento giuridico riesca a rendere più solide le coppie composte da persone dello stesso sesso: uno studio condotto sulle unioni dello stesso sesso registrate in Norvegia e Svezia ha riscontrato per queste un rischio di divorzio superiore dal 50 fino al 167% rispetto a quello proprio dei matrimoni tra uomini e donne [cfr. Demography, 2006; Vol.43 (1):79–98].

Oltre a non essere duratura, la relazione omosessuale non risulta neppure caratterizzata da esclusività: Mcwhirter e Mattison – due studiosi omosessuali, dunque non sospettabili di parzialità – hanno esaminato 156 coppie formate da omosessuali maschi scoprendo come, di queste, solo sette avevano avuto una relazione sessualmente esclusiva, e nessuna di esse aveva avuto una durata maggiore di cinque anni [cfr. (1984) The male couple. Reward Books, Englewood Cliffs]. Con ogni probabilità ciò è il riflesso anche del fatto che molte persone omosessuali, nel corso della loro vita, tendono ad avere un numero altissimo di partner: un’ampia ricerca di alcuni anni fa svolta su un campione americano, mostrava che su 574 uomini omosessuali soltanto tre avevano avuto un unico partner, l’1% ne aveva avuti 3-4, il 2% 5-9, il 3% 10-14, l’8% 25-49, il 9% 50-99, il 15% 100-249, il 28% 1000 (mille) e più [cfr. A.P. Bell – Weinberg M.S. (1978) Homosexualities: A study of diversity among men and women, Simon & Schuster, New York]. +

Si potrebbe a questo punto obiettare che tutto questo, però, sia dovuto al mancato riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali che, una volta socialmente accettate, renderebbero i soggetti che le compongono molto più sereni, appagati e con condizioni di salute migliori. Tuttavia questa osservazione, a prima vista plausibile, non solo non ha dati che la suffragano, ma ne ha che la smentiscono. In particolare, il fatto che il riconoscimento della unione omosessuale sia associato a migliori condizioni di vita e felicità è smentito da uno studio condotto sulla popolazione della Danimarca fra il 1981 e il 2010 i cui esiti sono così sintetizzati da padre Giorgio Carbone: “Tra i maschi sposati con altri maschi la frequenza del suicidio aumenta di 4,09 volte rispetto ai maschi sposati con donne e tra i maschi conviventi con altri maschi aumenta di 3,46 volte. Tra le femmine sposate con altre femmine la frequenza aumenta di 6,40; e nel caso delle conviventi aumenta di 1,79” [(2015) Gender, Edizioni Studio Domenicano].  Siamo insomma lontanissimi dalla felice cartolina arcobaleno che viene così frequentemente mostrata sui media.

Lo dimostrano anche i dati sulla violenza domestica: le relazioni omosessuali, infatti, risultano segnate in misura superiore da violenza – spesso suscitata da gelosia e desiderio di vendetta – di quelle eterosessuali [cfr. American Journal of Public Health, 2002; Vol.92(12):1964-1969]. Questo aspetto è ben noto agli studiosi, che ritengono molto frequente la violenza domestica all’interno delle coppie omosessuali al punto da considerarla responsabile di un numero di vittime superiore di quelle di cui sarebbe responsabile l’omofobia [cfr. Temple Political & Civil Rights Law Review, 1999; Vol.8]. Perché allora non se ne parla? Anzitutto, le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e queer stentano a denunciare gli abusi subiti perché non vogliono essere visti come ‘traditori’ della comunità LGBTQ [cfr. Journal of Interpersonal Violence, 1994; Vol.9(4):469-492]. Inoltre, c’è la difficoltà, da parte di molti, a ritenerla possibile e diffusa. Fa molto riflettere, in proposito, il caso di un ragazzo di 35 anni della provincia di Bologna, il quale, dopo aver subito per quattro anni percosse ed abusi da parte del compagno, ha deciso di non tacere più, ma purtroppo non è stato preso sul serio dalle forze dell’ordine e neppure dal centro antiviolenza: “Il centro antiviolenza a cui mi sono rivolto ha deciso solo dopo una riunione straordinaria di accettare il mio caso: ho dovuto chiamare decine di volte. Poi abbiamo iniziato il percorso, ma con un grande imbarazzo. Ero il primo uomo che vedevano” [27esimaora.corriere.it, 22.3.2015].

Forse sarebbe il caso di smettere d’immaginare le ‘nuove famiglie’ stile Mulino Bianco 2.0 ed iniziare a fare i conti con il buio, finora tenuto ben nascosto sotto le bandiere arcobaleno.

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Per Umberto Veronesi «l’aborto è un male», ma l’embrione non era un grumo di cellule?

VeronesiLa mattina seguente all’attacco del Consiglio europeo all’Italia sulla presunta difficoltà di accedere all’interruzione di gravidanza a causa dei troppi ginecologi obiettori di coscienza, Papa Francesco ha difeso la categoria con parole molto nette: «vediamo tutti i giorni che le potenze fanno leggi e una nazione che non segue queste leggi moderne, colte, o almeno che non vuole averle nella sua legislazione, viene accusata, viene perseguitata educatamente. E’ la persecuzione che toglie all’uomo la libertà, anche della obiezione di coscienza! Questa è la persecuzione del mondo che toglie la libertà».

Il Pontefice non è certo uno qualunque, ma –secondo le parole di Barack Obama-, è «un leader morale nelle parole e nelle azioni». Le stesse parole usate da Vito Mancuso: «papa Francesco è un grande leader morale del mondo». Hanno ragione entrambi, solo Francesco, infatti, da grande leader morale, ha avuto il coraggio di proclamare l’aborto «un crimine, non un “male minore”. E’ fare fuori uno per salvare un altro. E’ quello che fa la mafia. E’ un crimine, è un male assoluto. L’aborto non è un problema teologico: è un problema umano, è un problema medico». E chi lo sostiene, ha dichiarato in un’altra occasione, è dominato dalla «“falsa compassione”, quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto». Insomma, Francesco distrugge moralmente i convincimenti di Obama e di Mancuso, e loro lo proclamano “leader morale”.

Dopo Francesco, non poteva non intervenire il papa laico italiano, l’oncologo Umberto Veronesi. E’ infatti ricaduto nello stesso salto logico in cui era incappato nell’ottobre 2014. «Tutti coloro che, come me, hanno votato la 194 e l’hanno difesa da ripetuti attacchi culturali e politici», ha scritto pochi giorni fa, «lo hanno fatto nella convinzione che l’aborto è un male, ma l’aborto clandestino è un male ancora peggiore, che aggiunge al dramma di un’interruzione di gravidanza, anche un rischio enorme per la vita della donna». Il quesito si ripropone: perché mai l’aborto sarebbe un male? E’ un male uccidere una persona, non un grumo di cellule. E’ un male togliere la vita ad un essere umano, non estirpare un non-essere umano. Se Veronesi definisce un “male” l’aborto è perché ritiene, giustamente, che l’embrione sia una vita umana, la cui eliminazione è configurabile come male. Dunque un omicidio, un crimine.

E’ anche la naturale conclusione che bisogna trarre dal recente pronunciamento della Corte Costituzionale, che ha difeso il divieto di sperimentazione scientifica sull’embrione umano sostenendo: «la dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente individuato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost. (sentenza n. 229 del 2015)», ovvero l’articolo che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. I magistrati, tuttavia, ritengono che tale diritto alla vita dell’embrione vada bilanciato «al fine della tutela delle esigenze della procreazione ed a quella della salute della donna». La tutela delle esigenze della procreazione varrebbe più del diritto alla vita umana e dell’articolo 2 della Costituzione, è una chiara forzatura ideologica.

Tornando a Veronesi, ha dichiarato di sostenere comunque l’interruzione di gravidanza poiché male minore rispetto all’aborto clandestino, il che sarebbe come sostenere la legalizzazione delle rapine per evitare effetti collaterali ben peggiori, come una sparatoria mortale all’interno del negozio. O promuovere la vendita gratuita di alcolici agli alcolisti, per evitare che finiscano sul lastrico a causa della loro dipendenza. Parla anche di “diritto all’aborto”,  quando, come ha ben precisato il magistrato Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, questo diritto non esiste poiché le donne hanno dei diritti sul proprio corpo, ma non sopra i corpi di altri esseri umani. Nell’esortazione Amoris Laetitia lo ha ribadito anche il leader morale Papa Francesco: «in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano».

Dall’articolo di Veronesi si salva tuttavia una frase, dove l’oncologo milanese ha invece completamente ragione: «Nella progettualità della 194, le donne dovevano essere allontanate dall’ipotesi di interrompere una gravidanza, tramite programmi di educazione e informazione che, per mezzo dei consultori, tendessero ad eliminare le cause che trascinano la donna nel baratro dell’aborto. Purtroppo questa azione preventiva non è mai stata realizzata e lo spirito della legge in questi anni è stato in parte tradito». Ma, ancora una volta, ritorna il dilemma morale: perché è necessario prevenire l’aborto? Bisogna prevenire la morte di chi? Veronesi non sottragga la sua coscienza al dovere di rispondere.

La redazione

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Dall’«ebraicità di Gesù» alla «cristicità dell’ebraismo»: il percorso della ricerca storica

gesù ebreoCon questo articolo siamo lieti di dare avvio alla collaborazione con don Silvio Barbaglia, biblista e docente di Scienze bibliche presso lo Studio teologico “San Gaudenzio” di Novara, istituto affiliato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. Da poco ha pubblicato il volume Gesù e il matrimonio (Cittadella 2016), ed è anche autore di Il digiuno di Gesù all’ultima cena. Confronto con le tesi di J. Ratzinger e di J. Meier (Cittadella 2011), è diventato noto al grande pubblico in particolare per aver ottimamente confutato le tesi di Luigi Cascioli sulla non esistenza storica di Gesù di Nazareth.

 

di don Silvio Barbaglia*
*docente di Scienze bibliche presso lo Studio teologico “San Gaudenzio” di Novara

 

Come è noto, la Terza ricerca sul Gesù storico è stata caratterizzata dalla riscoperta della cosiddetta «ebraicità di Gesù»; si è sostenuto con forza, in queste posizioni, che Gesù fosse anzitutto ebreo e che appartenesse, dalla sua nascita e per la sua provenienza, a quelle strutture culturali del mondo ebraico, anzitutto.

Invece, l’immagine di Gesù, promossa dalla tradizione credente e dalla critica, nel corso della storia della ricerca, era centrata sull’istanza dell’originalità di Gesù rispetto al suo contesto storico, funzionale a coglierne l’unicità e la peculiarità entro tale originalità; all’opposto, la linea interpretativa che volle vedere e rileggere Gesù nel suo contesto culturale ebraico – promossa in buona parte da alcuni eminenti studiosi di parte ebraica e non solo – ha condotto sempre più ad assottigliare tutti gli aspetti di originalità delle posizioni e delle azioni del Nazareno nel suo contesto, fino a rendere il paradigma dell’unicità e della peculiarità di Gesù sempre più inconsistente e frutto di operazione meramente ideologica, lontana da una presunta fedeltà storica. Questa è, in sintesi, oggi, la posta in gioco della deriva scaturita dalla riscoperta dell’«ebraicità di Gesù».

Occorre però rimarcare un elemento di novità in tutto ciò. Le ricerche pubblicate dal rabbino Daniel Boyarin e del suo seguito, in tema di «ebraicità di Gesù», hanno contribuito, in anni recenti, ad assottigliare ulteriormente le differenze tra Gesù e il suo contesto giudaico nella linea, però, di riconoscervi già in origine, una connessione stretta e connaturata tra ebraismo e cristianesimo, nel momento dell’origine (I secolo d.C.); poiché non di due religioni si trattava ma della stessa, entro distinte forme di comprensione delle identiche fonti e riferimenti istituzionali e legislativi. Diversamente, però, da come il teorema dell’«ebraicità di Gesù» era prima declinato – sostenendo che gli elementi di netta differenza tra ebraismo e cristianesimo fossero opera dell’interpretazione ecclesiale ma non certo del Gesù storico – Boyarin ritiene, in controtendenza, che questi stessi tratti (come la divinizzazione del personaggio gesuano, l’idea di una divinità sdoppiata in Padre e Figlio, di un redentore Dio e uomo insieme, soggetto agente di un processo di salvazione con la sua morte e resurrezione) sono già tutti inscritti e attestati tra i Giudaismi del Secondo Tempio, e l’esperienza storica di Gesù si sarebbe collocata in dialettica con tali aspetti.

Ciò che tradizionalmente veniva inteso come il «pacchetto teologico» della differenza e novità assoluta del cristianesimo, secondo il Boyarin, è invece già presente e preparato dallo stesso Giudaismo: l’originalità di Gesù consisterebbe, invece, nell’avere rivolto a sé e, con lui i suoi seguaci, tali caratteristiche già presenti nelle tradizioni teologiche di alcuni Giudaismi del Secondo Tempio. Il paradosso di tale esito di ricerca sull’«ebraicità di Gesù», che originariamente aveva spinto verso una radicalizzazione della differenza e della distanza tra Gesù e il Cristo, tra l’ebreo di Galilea e la Chiesa di Paolo, giunge con queste più recenti interpretazioni a ritrovare una sintesi di unità tra quelli che si ritenevano essere aspetti inconciliabili proprio in seno allo stesso ebraismo.

Questo significa riqualificare lo stesso paradigma dell’«ebraicità di Gesù»: non più teso a strappare il Gesù storico al cristianesimo, per ricollocarlo tra i suoi pari, nel contesto giudaico del primo secolo, attribuendo unicamente alla comunità primitiva la responsabilità d’avere, in qualche modo, tradito la realtà storica e l’intenzionalità originaria del proprio maestro, bensì rileggere e rieditare le stesse radici giudaiche al fine di aprirle ad interpretazioni che il cristianesimo ha fatto proprie nella storia, ma che già risiedevano presso la coscienza ebraica del I sec. della nostra era. Più che una relativizzazione del personaggio cristologico di Gesù di Nazaret, tale posizione tende ad un ampliamento di prospettive dello stesso contesto culturale e religioso dell’ebraismo di allora, troppo spesso letto in antagonismo con le idee teologiche che il cristianesimo ha fatto proprie e quindi ritenuto alieno a ciò che di più proprio appartenne al cristianesimo delle origini.

Questo tipo di apertura, dopo l’epoca della scoperta dell’«ebraicità di Gesù» vede ora, potremmo dire, una riscoperta della «cristicità dell’ebraismo», ovvero di quelle categorie storiche e teologiche che il cristianesimo delle origini è andato a rivisitare perché presenti nelle operazioni stesse della ricerca midrashica sulle Sacre Scritture, ricerca già avviata e istruita dallo stesso rabbì Gesù. La conseguenza più diretta che ne scaturisce è quella di far cadere la tradizionale frattura storica ed ermeneutica che ha caratterizzato tutta l’epoca della riscoperta dell’«ebraicità di Gesù» e, ancor prima, della ellenizzazione del cristianesimo: ovvero la rottura tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, dove al primo corrispondeva l’istanza storica, meramente ebraica e al secondo l’interpretazione di una chiesa in missione e quindi profondamente ellenizzata nei suoi contenuti e intenti; il tutto a discapito di una continuità nella fedeltà storica del dato originario. Tale prospettiva più recente offre forse più chances nel ripensare una continuità sistemica già connaturata allo stesso alveo originante dove si diffuse l’input iniziale che diede vita ad una costellazione ideologica basilare e identitaria del personaggio Gesù di Nazaret, fondata su attese e riletture convalidate da alcune linee teologiche già preparate e attestate in alcuni Giudaismi del Secondo Tempio.

La stessa istanza universalistica che ha caratterizzato la missione del Giudaismo cristiano del I sec. è possibile rintracciarla al livello del Gesù storico in dialettica con il teorema maggioritario dei gruppi giudaici, quello universalistico-gerosolimitano che vedeva il convenire di tutte le nazioni a Gerusalemme, al monte Sion, verso il Tempio (cfr. Is 2,1-5 e Mi 4,1-3), sostenuto ulteriormente dall’opera di Erode il Grande e i suoi successori per l’ampliamento dell’area templare al fine di favorire al massimo livello le feste di pellegrinaggio e la centralizzazione dell’unico luogo di culto, con evidenti ricadute economiche di profitto. La posizione di Gesù si colloca invece entro uno schema che relativizzava il principio dell’unicità del luogo di culto in Gerusalemme, in difesa della libertà di Dio Padre di entrare ed uscire dal suo Tempio, e di abbandonarlo a motivo dell’infedeltà del popolo eletto; teologia conosciuta e consacrata nel libro santo del profeta Ezechiele che, dall’esilio, vede la «gloria del Signore» lasciare ed allontanarsi dal Tempio. Posizione teologica che Gesù fa propria, in territorio critico, come la Samaria: «Né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre…» (cfr. Gv 4,21ss).

E su queste e molte altre premesse vissute e difese fino alla morte da Gesù ha avuto inizio una storia millenaria di testimonianza di fede. Tale prospettiva richiede di prendere le distanze anche rispetto ad alcune conclusioni o sollecitazioni di Daniel Boyarin ma di trattenere l’intuizione di fondo, funzionale ad ampliare le facce del poliedro dell’interpretazione giudaica della cristologia, in origine.

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Albert Einstein, dopo il nazismo ritornò alla fede biblica

Filosofia, religione e politica in Albert Einstein«Diversi autori riportano dell’allontanamento di Einstein dalla Bibbia e dalla fede ebraica, ma preferiscono tacere sul “ritorno”». Tra le tante, forse è stata questa la scoperta più interessante dell’ultimo lavoro dell’apprezzato scrittore e saggista Francesco Agnoli, intitolato Filosofia, religione e politica in Albert Einstein (Edizioni Studio Domenicano 2015).

Si spiega, dunque, la compresenza di tante riflessioni di Albert Einstein su Dio, sulla morale, sulla mente creatrice dell’universo, ma anche sul rifiuto di un Dio personale, sul definirsi panteista (salvo poi scrivere la famosa frase: «Io non sono ateo e non penso di potermi chiamare panteista…»). La sua vita, come quella di tutti, è stata un percorso, non immune da frasi, posizioni e pensieri contraddittori. Tanto che Walter Isaacson, uno dei maggiori biografi del celebre fisico tedesco, ha scritto: «Per tutta la vita respinse l’accusa di essere ateo […], anzi, tendeva piuttosto ad attaccare gli atei, ad essere più critico verso gli scettici, che sembravano privi di umiltà e di senso di meraviglia» (W. Isaacson, Einstein. La sua vita, il suo universo, Mondadori 2008, p.376).

Quel che emerge dal volume di Agnoli è un profilo inedito del padre della relatività, appassionato di violino, che amava suonare nel convento francescano di Fiesole (Toscana) assieme a padre Odorico Caramelli, con il quale mantenne un rapporto epistolare anche negli ultimi anni di vita. Era di «una umiltà naturale e spontanea», ricordò padre Caramelli. «E se pure non era cattolico, andava volentieri in chiesa perché gli piaceva stare con Dio, in cui credeva. È venuto spesso a San Francesco. Prima mi ascoltava suonare, poi si decise e portò un violino e, strimpellando come sapeva fare lui, si faceva accompagnare da me all’organo. Di notte scendeva nel bosco del convento, e, seduto sul muricciolo della cisterna etrusca, suonava alla luna. Una volta, dopo che lo ebbi accompagnato in una Sonata di Bach, si commosse tanto che mi buttò le braccia al collo, quasi in pianto». Traspare bene la sua riverenza verso la filosofia, il desiderio di «risolvere il mistero dell’Universo», «il mistero che il libro della natura racchiude» (A. Einstein, L. Infeld, L’evoluzione della fisica, Bollati Boringhieri 2014, p.13-18). Nessun relativismo, è falsa la citazione “tutto è relativo” che gli si attribuisce, sempre Isaacson ha ricordato che «Einstein si sarebbe scandalizzato, e più tardi lo fu, della sovrapposizione di relatività e relativismo. Alla base di tutte le sue teorie, e anche della relatività, c’era una ricerca di invarianti, di certezze, di assoluti. Soggiacente alle leggi dell’universo, secondo Einstein, c’era una realtà armoniosa, e lo scopo della scienza era scoprirla» (W. Isaacson, Einstein. La sua vita, il suo universo, Mondadori 2008, p.9).

L’ebreo Einstein venne perseguitato dai nazisti, accusato oltretutto di una grave e singolare colpa. Lui, assieme al sacerdote cattolico Lemaître, al fisico cristiano Heinseberg, all’astrofisico quacchero Sir Eddington e a molti altri, sarà definito dai sovietici un “oscurantista”, reo di essere influenzato da una visione religiosa e biblica del cosmo, travestita da dottrina scientifica. Questo perché la nuova fisica e la nuova cosmologia disturbavano il materialismo dialettico e il pensiero di Democrito, promuovevano l’inizio della materia e dell’universo, la sua finitezza spaziale. Tanto che nel 1934, il fisico Ettore Majorana, scriverà: «con la nuova fisica la scienza ha cessato di essere una giustificazione per il volgare materialismo» (cit. in R. Finzi, Ettore Majorana: un’indagine storica, Storia e letteratura 2002, p. 48). Molto interessante anche la descrizione dell’amicizia tra Einstein e padre Lemaître, la stima e l’aiuto reciproco, tanto che il fisico tedesco sostenne la candidatura del sacerdote belga all’importante premio Franqui.

Certamente i capitoli più intensi sono quelli sul pensiero religioso di Einstein, formatosi nelle scuole cattoliche tedesche. L’allontanamento dall’ebraismo avvenne a causa dell’insofferenza delle prescrizioni farisaiche e da esperienze personali non positive, a cui seguì l’avvicinamento al panteismo spinoziano, alla «convinzione legata al sentimento profondo dell’esistenza di una mente superiore che si manifesta nel mondo dell’esperienza», che «costituisce per me l’idea di Dio» (A. Einstein, Come io vedo il mondo, Newton, 1984, p. 35). Nasce in lui la consapevolezza che «le idee più belle della scienza nascono da un profondo sentimento religioso, in assenza del quale resterebbero infruttuose» (citato in A. Pais, Einstein è vissuto qui, Bollati Boringhieri 1995, p. 112). Quello di Einstein, influenzato da Spinoza, non è un Dio Padre, un Dio personale che ha rivelato agli uomini una legge morale. Eppure, è al contempo appassionato de I Fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, libro incentrato sul Dio cristiano. «Occorre evitare di considerare il grande scienziato un filosofo sistematico, sempre coerente, con una visione dell’esistenza statica nel corso degli anni», spiega Agnoli. «La domanda religiosa attraversa tutta la vita di Einstein, e la risposta non è sempre identica, né è sempre nitida e precisamente delineata» (p. 40). Spinoza lo conosceva superficialmente, arrivando a contraddirlo più volte come annotato dal suo amico e fisico cristiano Freeman Dyson, suo successore all’Institute for Advanced Study di Princeton: «Einstein fu una figura importante nella storia della scienza, e fu un fermo credente nella trascendenza» (F. Dyson, Lo scienziato come ribelle, Longanesi 2009, p. 30).

Il vero cambiamento avvenne nella terza fase della sua vita quando, come scrive Paolo Musso, docente di Filosofia della Scienza presso l’Università dell’Insubria, si osserva un «progressivo spostamento del baricentro della spiritualità einsteniana verso le grandi religioni storiche e in particolare verso la tradizione ebraico-cristiana» che giunge, «in alcuni momenti, addirittura a suggerire la necessità di una qualche sorta di rivelazione per fondare i valori morali e religiosi», e che convive con «l’originaria tendenza panteista» (P. Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2001, p. 263). Sono i drammatici fatti storici della sua epoca che convincono Einstein ad affermare l’uguaglianza tra gli uomini e una legge morale universale, quindi, di fatto, ad allontanarsi dal pensiero spinoziano, riappropriandosi delle sue origini ebree. Nel 1939 arriverà a scrivere: «I più alti principi su cui si fondano le nostre aspirazioni e i nostri giudizi ci vengono dalla tradizione religiosa giudaico-cristiana. Non c’è spazio in tutto ciò per la divinizzazione di una nazione, di una classe, e meno che mai di un individuo. Non siamo tutti figli di uno stesso Padre, come si dice in linguaggio religioso?». Lo scopo che ha il nazismo, «non è solo sterminare noi, ma insieme a noi distruggere anche quello spirito, espresso nella Bibbia e nel Cristianesimo, che rese possibile l’avvento della civiltà nell’Europa centrale e settentrionale» (A. Einstein, Pensieri, idee, opinioni, Newton 2004, p. 26 e 216). E’ Hitler a portarlo a riabbracciare le sue radici spirituali, rivaluta il pensiero teologico medievale e le scuole clericali, da cui nacquero le università e, commentando l’Antico Testamento e la storia del suo popolo, chiederà di «tenerci saldi a quell’atteggiamento spirituale nei confronti della vita». Perché l’«indebolimento del pensiero e del sentimento morale» odierno, causa «dell’imbarbarimento dei modi della politica del tempo nostro», è connesso all’indebolimento del «sentimento religioso dei popoli nei tempi moderni» (A. Einstein, Pensieri, idee, opinioni, Newton 2004, p. 22 e 212).

A Spinoza e Macchiavelli preferì Mosè e il libero arbitrio, elogiando la possibilità che l’uomo ha di «influenzare la propria vita e in questo processo possono avere una funzione il pensiero e la volontà coscienti». L’Einstein maturo, commenta Agnoli, alla fine di una serie di citazioni del pensiero del celebre fisico, «critica apertamente, benché implicitamente, il darwinismo sociale, l’idea secondo cui la vita morale dell’uomo si risolve, come nelle bestie, nell’obbedire all’istinto di sopravvivenza e nel partecipare alla lotta per la sopravvivenza del più forte; rinnega del tutto il determinismo tipico dell’evoluzionismo di stampo materialista e panteista ed afferma la libertà, contro il “fato crudele”, contro l’idea dell’uomo figlio dei suoi geni e della sua biologia, dell’inconscio, del determinismo materialistico, e di tutte le moderne riproposizioni del Fato e della Necessità antichi» (p. 118). Per cui, si può dire, che «certamente l’ Einstein della maturità è tornato ad assomigliare al giovane ragazzo infervorato dalla fede biblica, non senza che la passione per Spinoza, attraversata e continuamente rivista, mostri ancora la sua influenza» (p. 119).

Nel libro di Francesco Agnoli, recensito positivamente anche dall’Almanacco della Scienza del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), viene inoltre ricostruito il rapporto del celebre fisico con il pacifismo militante, che rinnegò sopratutto perché spesso strizzava l’occhio all’ideologia marxista e sovietica, portandolo dopo il 1933 ad aderire al concetto di guerra “giusta”. Il noto saggista dedica anche molto spazio ai suoi colleghi (alcuni anche amici) scienziati (da Max Planck a Thomas Mann, da Kurt Gödel a Bertrand Russell), in particolare Arthur Eddington, a cui è dedicato un intenso capitolo, nel quale si ammira la profonda fede cristiana di uno dei più importanti astrofisici degli ultimi secoli. Una fede, non cristiana ma certamente biblica, che lo stesso Einstein ribadirà pochi giorni prima di morire, scrivendo alla famiglia del defunto amico Michele Besso: «Ecco che ancora una volta mi ha preceduto, seppur di poco nell’abbandonare questo strano mondo. Tutto questo non ha nessun valore. Per noi fisici credenti (für uns glaubige Physiker) la distinzione tra passato, presente e futuro si equivale ad una illusione, per quanto essa sia ostinata» (A. Einstein, Lettera alla famiglia Besso, 21/3/ 1955). Due mesi dopo, morirà anche lui.

La redazione

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