Il divorzio? Per i bambini è peggiore rispetto alla morte dei genitori

separazioneTutti riconoscono che i bambini soffrono quando muore un loro genitore. Ma, negli ultimi decenni, diversi opinion maker hanno affermato che, al contrario, perdere un genitore a causa del divorzio non comporterebbe niente di così tremendo per i figli.

Posizione smentita da uno studio realizzato dal dipartimento di Psichiatria della Virginia Commonwealth University e dall’Università di Tokyo, nel quale i ricercatori hanno concluso che la separazione dei genitori è un predittore decisamente più forte di varie forme di malattia mentale, rispetto alla morte dei genitori. Basandosi sui dati di 2.605 gemelli di sesso maschile, sono stati rilevati sette disturbi principali: depressione, disturbo d’ansia generalizzato, fobia, panico, dipendenza da alcol, abuso di droghe e tossicodipendenza.

«La separazione dei genitori», si legge nella conclusione dell’indagine pubblicata su Psychiatry Research, «ha un effetto più forte e più ampio sulla psicopatologia dei bambini, rispetto alla morte dei loro genitori», in particolare dei picchi sono stati associati alla depressione e alla dipendenza dalla droga. Mentre la morte dei genitori «è stata marginalmente e unicamente associata al rischio di fobia e dipendenza da alcol (entrambi p <0,05)». E’ emerso, inoltre, che «l’effetto della morte parentali persiste per un tempo relativamente breve e ha un impatto più debole sulla psicopatologia nella fase adulta, rispetto a quanto avviene in caso di separazione dei genitori».

Se la separazione è ben peggiore della morte di uno dei due genitori, ancor di più sarà negativo per i bambini vivere con i genitori separati piuttosto che in una famiglia litigiosa. B.D. Whitehead, sociologo della Rutgers University, ha infatti dimostrato che per i bambini il divorzio e la permanenza in una “nuova famiglia” è in realtà molto peggio del vivere in una casa infelice. In molti di questi matrimoni litigiosi, infatti, capita spesso che i due adulti sacrifichino alcuni dei loro interessi al fine di preservare la stabilità della casa e la cura necessaria per la loro prole, sforzandosi di migliorare il loro matrimonio per il bene dei figli e riuscendoci in molti casi. L’amore per i figli spinge spesso i genitori a cambiare anche i pregiudizi dell’uno verso l’altro. Certo, ci sono situazioni estreme in cui anche la Chiesa cattolica riconosce l’inevitabilità della separazione, nei casi di abuso o violenza verso uno dei coniugi oppure rispetto ai figli, tuttavia, è precisato nella Familiaris Consortio, «la separazione deve essere considerata come estremo rimedio, dopo che ogni altro ragionevole tentativo si sia dimostrato vano».

Avevano pienamente ragione gli oppositori della legge sul divorzio, come Amintore Fanfani, il quale -citato e ridicolizzato, ancora oggi, da Dacia Maraini– lo indicò come elemento distruttivo dell’istituzione cardine del Paese. Per la Maraini «non successe niente di tutto questo», chi abita sul pianeta Terra, invece, è testimone dell’insanabile precarietà della famiglia iniziata negli anni ’70, la quale -essendo riconosciuta come cellula della società- ha indebolito tutti i legami sociali.

Lo psicoterapeuta Claudio Risé, tra i principali studiosi italiani della figura paterna, ha spiegato che il divorzio ha introdotto nei rapporti la precarietà nei rapporti, degenerando inevitabilmente fino alla situazione odierna nella quale il «rapporto breve viene reputato pratica normale, mentre quello di chi decide di impegnarsi per tutta la vita è valutato eccezionalmente». Dal “per sempre” si è passati al “vediamo se” e la sola esistenza del divorzio è causa di gran parte delle separazioni, proprio per il modo superficiale con cui si impostano i matrimoni. Inoltre, ha confermato il noto psicoterapeuta, «abbiamo evidenze abbastanza ampie di disagi che coinvolgono, specialmente, i bambini, ma anche gli adulti. Vi è una variegata documentazione di tipo sociologico, psichiatrico, psicologico e clinico e siamo in grado di stabilire una correlazione specifica tra legami deboli e patologie». La coppia, ormai «intesa come modello provvisorio, è indicativa, quindi, di un nuovo modello sociale che è sempre più incline all’atomizzazione degli individui».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato al divorzio)

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Ludwig Wittgenstein era cristiano, è stato strumentalizzato dal positivismo

Wittgenstein, LudwigPochi giorni fa è stato ricordato l’anniversario di morte del filosofo britannico Ludwig Wittgenstein, considerato non a torto dall’Enciclopedia Britannica il più grande filosofo del XX secolo. Si fa spesso riferimento al suo pensiero filosofico e alle sue opere, che effettivamente hanno inciso in maniera determinante la letteratura e la tradizione analitica, su tutte il celebre Tractatus logico-philosophicus (1921).

Figlio di padre protestante e madre cattolica, battezzato come cattolico, fu lui ad influenzare più di tutti i neopositivisti viennesi con la sua demarcazione tra ciò di cui si può parlare, come gli oggetti della scienza, e ciò di cui si deve tacere, come i principi della metafisica, convinzione sintetizzata nella celebre frase: «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi 1995, p. 109). Viene sbrigativamente etichettato come “agnostico”, eppure non è affatto ciò che dicono i suoi testi, i suoi amici e i suoi biografi.

Innanzitutto, occorre dire che è vero, Rudolf Carnap ammise che il suo impegno antimetafisico sulla non verificabilità delle asserzioni metafisiche emerse dalla lettura di Wittgenstein, tuttavia, negli ultimi anni della sua vita, lo stesso Carnap si accorse che la confutazione di molti al positivismo era effettivamente letale: i loro stessi enunciati non sono verificabili per via empirica e spesso sono tautologici, esattamente le critiche da loro rivolte ai metafisici e ai teologi. «Sfortunatamente», disse Carnap, «seguendo Wittgenstein, formulammo il nostro punto di vista al Circolo di Vienna in modo troppo semplificato, dicendo che certe tesi metafisiche sono prive di significato» (citato in P.A. Schlipp. La filosofia di Rudolf Carnap, Il Saggiatore 1974, pp. 45,46). Non sappiamo se Carnap si accorse mai fino in fondo della falsità nel concedere solo alle asserzioni delle scienze empiriche un valore cognitivo, mentre, al contrario, «possono a loro volta dirsi cognitive anche le proposizioni metafisiche, qualora procedano da elementi empirici o scientifici e risultino razionalmente criticabili» (R. Timossi, Nel segno del nulla, Lindau 2015, p. 291).

Wittgenstein sbagliava su questo, della metafisica si può parlare come hanno dimostrato diversi esponenti proprio della filosofia analitica, sostenitori della teologia razionale, come John Niemeyer Findlay e John Wisdom. Il paradosso è che, proprio questi filosofi analitici -lo ha fatto notare il filosofo Roberto Timossi-, «si sono inspirati a Wittgenstein e da un punto di vista strettamente logico-linguistico hanno preso molto sul serio le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, specie di quella logica per eccellenza: l’argomento ontologico» (R. Timossi, Nel segno del nulla, Lindau 2015, p. 286).

Il pensiero di Wittgenstein è comunque stato un po’ troppo estrapolato e strumentalizzato dal neopositivismo in chiave antimetafisica. Egli non sosteneva l’irrazionalità della metafisica in quanto non indagabile dal metodo empirico, ma riconosceva che l’insopprimibile richiesta di senso e di significato che trovava dentro di sé, implicita in ogni accadimento umano, non si poteva giustificare in base all’esperienza empirica. Non perché fosse “fantasiosa”, ma perché al di là dei poteri della ragione. «Il senso del mondo dev’essere fuori di esso», scrisse infatti. «Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore -né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo» (L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, Einaudi 1964, prop. 6,41,79). E lo stesso concetto lo ribadì una seconda volta: «Credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso» (L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, Einaudi 1964, prop. 6,41,174).

Addirittura, il suo amico psichiatra Maurice O’Connor Drury, ha riferito: «Per un certo periodo Wittgenstein iniziava la giornata ripetendo una preghiera al Signore. Una volta mi disse: “E’ la più straordinaria preghiera mai scritta. Nessuno ha mai composto una preghiera del genere, ricordati che la religione cristiana non consiste nel dire un sacco di preghiere, anzi, ci è stato comandato esattamente l’opposto. Se io e te viviamo una vita religiosa non parleremo molto di religione, ma in qualche modo sarà la nostra stessa vita ad essere diversa» (citato in R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, p. 109). Se qualche positivista probabilmente strizzerà gli occhi incredulo, sappia che diverse preghiere sono state trovate nei diari di Wittgenstein quando si arruolò come volontario durante la prima guerra mondiale: «Come mi comporterò quando si tratterà di sparare?», scrisse, ad esempio. «Non ho paura di essere colpito, ma di non fare il mio dovere in modo corretto. Dio, dammi la forza! Amen!». Oppure: «Se tutto ciò finisce con me, ora, io muoio di una buona morte, memore di me stesso. Non potrò mai perdere me stesso! Posso avere la possibilità di essere un essere umano decente perché mi trovo faccia a faccia con la morte. Possa lo spirito illuminarmi». Ed infine: «E’ mia convinzione che solo se si tenta di essere utile agli altri, alla fine, si troverà la strada verso Dio» (preghiere citate in N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 8-9, 20).

Il suo biografo più prolifico, nonché collega e amico personale, Norman Malcolm, ha scritto: «La vita matura di Wittgenstein è stata fortemente segnata dal pensiero e dal sentimento religioso. Sono propenso a pensare che lui era più profondamente religioso di tante persone che si considerano credenti» (N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 21-22). Dopo una fase di agnosticismo, in cui ammise di non avere fede, potremmo tranquillamente dire che recuperò attivamente il suo cristianesimo. A dirlo è un altro suo stretto amico Paul Engelmann (e con lui molti altri), il quale parla esplicitamente di un Wittgenstein religioso e cristiano, un credente nel quale viveva una «fede non espressa in parole» (citato in I. Roncaglia, Lettere di Ludwig Wittgenstein con Ricordi di Paul Engelmann, La Nuova Italia 1970, p. 107). Su questo ha riflettuto molto anche Rocco Pititto, filosofo dell’Università Federico II di Napoli, nel suo trattato “La fede come passione. Ludwig Wittgenstein e la religione” (San Paolo Edizioni 1997): «negli ultimi anni della sua vita», scrive Pititto, «il confronto con il mistero cristiano fu a tutto campo: l’interrogativo religioso divenne più radicale e più pressante, fino a investire problemi e aspetti decisivi del cristianesimo, come l’esistenza di Dio, l’idea del bene, il peccato, il problema del male, la predestinazione, il giudizio finale, il miracolo, la storicità dei Vangeli, l’Eucarestia, la resurrezione di Cristo, la vita futura» (p. 27). E’ noto, d’altra parte, il grande interesse per i Vangeli, sui quali ci lasciò interessanti riflessioni sulle differenze tra i sinottici, che amava molto (quello di Matteo, in particolare, perché «mi sembra contenere tutto», disse all’amico Maurice Drury), e le lettere paoline, che apprezzava meno. Salvo poi, fare marcia indietro: «Un tempo pensavo che le epistole di San Paolo erano una religione diversa da quella dei Vangeli. Ma ora vedo chiaramente che mi sbagliavo. Si tratta della stessa visione, sia nei Vangeli che nelle Epistole» (citato in, R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, pp. 177,178).

Ma è nella serie di inedite annotazioni che compongono il libro Pensieri diversi (Adelphi 1980) che si percepisce il ritorno del filosofo austriaco alla fede cattolica della gioventù, abbracciata questa volta con più maturità e consapevolezza. «É assai significativo, a questo riguardo, un testo wittgensteiniano del 1937, in cui il filosofo si interroga sulla resurrezione di Gesù Cristo, verità nella quale riconosce, sorprendentemente, di credere», scrive Pititto (p. 148). Quell’anno segna per lui una tappa fondamentale nella maturazione della problematica religiosa, anche grazie agli amici cattolici Yorick Smythies e, in particolare, Elizabeth Anscombe. L’adesione al cristianesimo è esplicita e chiara, «la fede nella resurrezione fa parte allora della professione religiosa del filosofo, tanto da coinvolgerlo esistenzialmente: Wittgenstein, in definitiva, recupera una sua identità, perché crede nella resurrezione di Cristo» (R. Pititto, La fede come passione. Ludwig Wittgenstein e la religione”, San Paolo Edizioni 1997, p. 149). Il cristianesimo, dice Wittgenstein citato dal suo amico Malcolm, è «per chi si sente un bisogno infinito. Per come la vedo io, la fede cristiana è il rifugio di questa angoscia presente in una sola anima, che l’intero pianeta non riuscirebbe a contenere. A chi è dato di aprire il suo cuore a questa afflizione, invece di sopprimerla, accetterà la salvezza nel suo cuore». Perché, «il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è accaduto e accadrà all’anima umana, ma una descrizione di un effettivo verificarsi nella vita umana. La “coscienza del peccato” è un evento vero e proprio, e così lo sono la disperazione e la salvezza mediante la fede». E, attenzione, «la fede religiosa e la superstizione sono completamente diverse. Una scaturisce dalla paura ed è una sorta di falsa scienza. L’altra è un confidare» (citato in N. Malcolm, Wittgenstein: A Religious Point of View?, Routledge 1993, pp. 17,18).

Il suo esecutore letterario, cioè colui al quale Wittgenstein lasciò la proprietà intellettuale delle opere pubblicate, il filosofo Rush Rhees, ha riportato che due anni prima di morire, nel 1949, Wittgenstein disse all’amico Drury: «Ho ricevuto una lettera da un vecchio amico australiano, un prete. Mi scrive che spera che il mio lavoro andrà bene, se questa deve essere la volontà di Dio. Ora, questo è tutto ciò che voglio: se deve essere la volontà di Dio. Bach ha scritto sul frontespizio del suo Orgelbuechlein: “Per la gloria del Dio altissimo, e che il mio vicino di casa possa beneficiarne”. Ecco, questo è quello che avrei voluto dire anche io sul mio lavoro» (citato in R. Rhees, Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, Rowman & Littlefield 1981, pp. 181,182). Negli ultimi mesi della sua vita vorrà incontrare a tutti i costi padre Conrad, il domenicano che aveva guidato la conversione al cattolicesimo del suo amico filosofo Smythies. Fu sepolto con una cerimonia di rito cattolico, quasi certamente per sua volontà, nel cimitero annesso alla Chiesa di St. Giles a Cambridge.

Abbiamo raccontato Wittgenstein come non compare nei libri di scuola o nei manuali di neopositivismo, ma era giusto farlo ricordando e celebrando il suo anniversario di morte.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato ai famosi credenti e cristiani)

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Convivenza prematrimoniale e la lungimirante visione della Chiesa

FidanzatiPiù volte Papa Francesco si è soffermato sul matrimonio e sui fattori che cooperano alla crisi della sua istituzione: «Sono nuove forme, totalmente distruttive e limitative della grandezza dell’amore del matrimonio. Ci sono tante convivenze e separazioni e divorzi», ha spiegato nell’ottobre scorso.

La cultura dello scarto, di cui spesso parla, coinvolge anche la famiglia la quale «è non di rado fatta oggetto di scarto, a causa di una sempre più diffusa cultura individualista ed egoista che rescinde i legami e tende a favorire il drammatico fenomeno della denatalità, nonché di legislazioni che privilegiano diverse forme di convivenza piuttosto che sostenere adeguatamente la famiglia per il bene di tutta la società», ha avvisato nel gennaio 2015.

La convivenza è per ben due volte citata dal Papa come una forma limitativa dell’amore tra due persone, non è certo un giudizio che raccoglierà molti applausi: su molti quotidiani sono comparse inchieste sulla fine del matrimonio a discapito delle convivenze (dove oltretutto si spiega che è un problema di «incertezza esistenziale»). Francesco parla giustamente di «diverse forme di convivenza», le principali sono quella tra giovani fidanzati (che hanno poi magari l’intenzione di sposarsi in futuro) e quella tra adulti che invece non hanno intenzione di sposarsi. Oggi ci concentriamo sulla prima forma di convivenza, quella definita prematrimoniale: perché la Chiesa invita a rivedere questa scelta?

Lo ha ben spiegato il teologo padre Angelo Bellon: «il motivo principale per cui la convivenza prematrimoniale è sbagliata viene dal fatto che poggia sull’esperienza sessuale, che in se stessa è falsata prima del matrimonio. Ma è proprio l’esperienza sessuale non vissuta secondo Dio che è all’origine dell’insicurezza. Infatti non vi è un vero donarsi. Nei rapporti prematrimoniali e nella convivenza prematrimoniale ci si dona “limitatamente”. Vi è anche un altro fatto: i due, consegnandosi in fretta prima del tempo e in maniera sbagliata, non mettono le loro risorse nel costruire il vero edificio che rende sicuro il loro matrimonio. Parlo dell’edificio spirituale, fatto di condivisione di esperienza di fede e di vita, l’unico all’interno del quale si trova la vera sintonia, quella che fa amare l’altro perdutamente perché lo si sente proprio come la metà di se stesso».

Il giudizio di padre Angelo è chiaro e netto, come sempre, oltretutto trova conferma nelle indagini sociologiche. Si è scoperto, infatti, che «i coniugi che convivevano prima del matrimonio hanno dimostrato comportamenti più negativi e meno positivi di problem solving e di supporto reciproco rispetto ai coniugi che non convivevano prima di sposarsi». Un altro studio ha concluso: «le coppie che convivevano prima del matrimonio hanno riferito una qualità inferiore e un impegno minore nel loro matrimonio, una visione più individualistica (solo le mogli), e una maggiore probabilità di divorzio rispetto alle coppie che non convivevano». Una ricerca sul Journal of Family Issues ha rilevato: «L’idea che la convivenza migliora la selezione del partner e le formazione coniugale dev’essere respinta. La convivenza è negativamente correlata all’interazione coniugale e positivamente correlata al disaccordo coniugale, predisposizione per il divorzio e per la probabilità di divorzio».

Sono le donne, in particolare, a percepire ripercussioni più gravi: in Svezia i ricercatori hanno concluso: «i nostri risultati indicano che le donne che sono coinvolte in rapporti prematrimoniali hanno tassi di dissoluzione coniugale quasi dell’80% più elevati rispetto a coloro che non convivono». Lo stesso è stato verificato negli Stati Uniti: «abbiamo scoperto che la convivenza negli Stati Uniti è associata ad un maggior rischio di scioglimento». Su Demography è spiegato: «I risultati sono in linea con le ipotesi precedenti che suggeriscono che la convivenza è selettive di uomini e donne che sono meno impegnati nel loro matrimonio e più inclini al divorzio. I risultati sono in linea anche con la conclusione che le esperienze di convivenza aumentano significativamente l’accettazione del divorzio dei giovani». Sul Journal of Family Psychology è stato invece rilevato che «la continenza sessuale prima del matrimonio è stata associata con migliori risultati di relazione». Proprio recentemente una ricerca ha mostrato che le «coppie che vivono insieme prima del matrimonio hanno meno probabilità di sposarsi» in seguito.

Qualche mese fa anche Papa Francesco ha parlato del periodo del fidanzamento, confermando: «Dovremo forse impegnarci di più su questo punto, perché le nostre “coordinate sentimentali” sono andate un po’ in confusione. Chi pretende di volere tutto e subito, poi cede anche su tutto – e subito – alla prima difficoltà (o alla prima occasione). Non c’è speranza per la fiducia e la fedeltà del dono di sé, se prevale l’abitudine a consumare l’amore come una specie di “integratore” del benessere psico-fisico. Il fidanzamento è un percorso di vita che deve maturare come la frutta, è una strada di maturazione nell’amore, fino al momento che diventa matrimonio. Aspettare quel momento; è un momento, è un percorso che va lentamente avanti, ma è un percorso di maturazione. Le tappe del cammino non devono essere bruciate. La maturazione si fa così, passo a passo».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla sessualità)

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Melita Cavallo, il giudice arcobaleno non scandalizza nessuno?

cavalloNel novembre 2015 si è alzato un polverone mediatico sulla sentenza del Consiglio di Stato, attraverso la quale è stata ribadita l’incostituzionalità del matrimonio omosessuale in quanto «privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio».

Gli attivisti arcobaleno si sono scagliati contro uno dei cinque magistrati che hanno firmato la sentenza, Carlo Deodato, reo di essere cattolico e aver condiviso su Twitter un articolo di giornale in cui si criticavano le nozze gay. Insulti, minacce e sberleffi gli sono stati rivolti accusandolo di pregiudizio ideologico. Il magistrato e il suo buon operato sono stati tuttavia prontamente difesi anche da colleghi laici e apertamente favorevoli alle unioni tra persone dello stesso sesso, come Vladimiro Zagrebelski, da giuristi come Mario Chiavario, professore emerito di Procedura Penale nell’Università di Torino e dall’ex procuratore generale Ennio Fortuna.

Stupisce, ma non troppo, che la stessa agitazione mediatica non si sia verificata anche nei confronti di Melita Cavallo, 70 anni, presidente del Tribunale per i minori di Roma e, possiamo ormai dirlo, attivista e paladina Lgbt (o “giudice delle coppie gay”, come la definisce Repubblica). Non si contano, infatti, i suoi continui interventi mediatici in aperto sostengo alle istanze omosessuali, dal ddl Cirinnà alla stepchild adoption, così come sono ben quindici le sentenze che ha personalmente firmato a favore dell’adozione di bambini in coppie omosessuali. Nel 2014, quando ha approvato il primo caso, ha sostenuto di essere contraria a tale pratica ma «come giurista non avevo alcun mezzo per oppormi», pochi mesi fa ha invece negato l’importanza di padre e madre, arrivando a dichiararsi favorevole all’utero in affitto in caso di fantomatiche “donne generose”, come se l’assenza di denaro bastasse a legittimare il regalo di bambini, trattati come pacchi natalizi da sfornare e donare a chi non ne ha.

La Cavallo risponde alla critiche dei colleghi, che definiscono “eversive” le sue sentenze, sostenendo che il suo agire è «convenzionalmente orientato». E’ autrice del libro “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza 2016), in cui si scaglia contro l’ipocrisia dei discorsi pubblici sulla famiglia tradizionale, volume presentato, ovviamente, al fianco di Monica Cirinnà. La Cavallo parteciperà anche al Festival del Giornalismo di Perugia a parlare, manco a dirlo, di diritti lgbt.

Il problema non è avere delle convinzioni, anche se forse manifestarle in modo così militante può risultare imprudente e inopportuno per il delicato ruolo pubblico che si ha. La vera questione è che per un semplice tweet il giudice Deodato è stato crocifisso dai media per settimane, mentre per l’intensa e pluriennale attività arcobaleno del giudice Cavallo nessuno dice nulla, nessuno si lamenta o parla di incompatibilità di ruolo, di pregiudizio ideologico o conflitto di interessi. Strano, ma vero.

La redazione

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Una famiglia che prega assieme è più unita e vive meglio, lo dicono gli studi

PreghieraNumerose ricerche sono state dedicate al rapporto tra religione e psicologia e i risultati sono pressoché identici: la fede è una forza di benessere psico-fisico personale ed un collante sociale.

Avere una vita religiosa attiva migliora la salute mentale, aumenta il successo scolastico, rende più felici, migliora l’autocontrollo, diminuisce il tasso di dipendenze e aumenta la prospettiva di vita, riduce la delinquenza, l’ansia e la depressione. Sono alcuni dei risultati di numerosi studi scientifici elencati nel nostro apposito dossier.

Ma i benefici sono anche a livello sociale, un’alta frequenza ai sacramenti è legata ad una migliore relazione di coppia, sentimentale e sessuale, nonché alla diminuzione dei tassi di divorzio, ed influisce sulla fedeltà di coppia. Un sondaggio del 2015 ha rilevato che il 50% delle coppie non prega assieme al di fuori dei pasti in famiglia, l’altro 50% lo fa almeno una volta all’anno, di cui l’11% tutti i giorni e un terzo, nel complesso, almeno una volta al mese.

Clay Routledge, professore di Psicologia presso la North Dakota State University, ha elencato i risultati della letteratura scientifica che dimostrano come la preghiera migliora l’autocontrollo, aiuta ad essere pazienti, rende più indulgenti verso le persone che ci sono vicine e porta vantaggi per quanto riguarda la salute e gli effetti dello stress. «Vi è una crescente mole di prove», ha spiegato, «che indica che la preghiera, un comportamento spesso associato con la religione, può essere utile per gli individui e la società».

Ovviamente, l’indagine scientifica non entra nel campo teologico, nel rapporto tra la persona e Dio, nei motivi della preghiera e nell’eventuale risposta di Dio, ma si limita a valutare le conseguenze che è in grado di percepire tramite i suoi metodi di ricerca. Tuttavia, chiunque comprende facilmente che il tempo che le famiglie passano pregando assieme è tempo sottratto alla televisione e agli smartphone, impiegato invece in un rapporto profondo e di qualità. Uno studio ha infatti scoperto che i bambini, figli di genitori che pregano più di una volta al giorno, vivono un migliore rapporto con i loro genitori anche se non sono coinvolti nei momenti di preghiera. Un secondo studio ha trovato una correlazione positiva tra l’aumento di fiducia reciproca e il tempo che la coppia dedica alla preghiera.

Il medico e biologo francese Alexis Carrell, premio Nobel per la medicina nel 1912, scrisse nel 1941 un bel libro intitolato, per l’appunto, La preghiera, in cui mise in guardia dal non paragonare «la preghiera con la morfina. Poiché essa determina una specie di fioritura della personalità, solleva gli uomini al di sopra della statura mentale loro propria per eredità o per educazione. La preghiera fortifica nello stesso tempo il senso sacro e il senso morale. Gli ambienti nei quali si prega sono caratterizzati da una certa persistenza del senso del dovere e della responsabilità, da una minor gelosia e malvagità, da qualche bontà nei rapporti col prossimo. Quando la preghiera è abituale e veramente fervente, la sua influenza si fa chiarissima. Si direbbe che nella profondità della coscienza s’accenda una fiamma». Insomma, conclude il Nobel per la medicina, «tutto accade come se Dio ascoltasse l’uomo e gli rispondesse. Gli effetti della preghiera non sono un’illusione. Non bisogna ridurre il senso sacro all’angoscia dell’uomo davanti ai pericoli che lo circondano e davanti al mistero dell’universo. Né bisogna fare unicamente della preghiera una pozione calmante, un rimedio contro la nostra paura della sofferenza, della malattie della morte. Il senso sacro sembra essere un impulso proveniente dal più profondo della nostra natura, un’attività fondamentale, per mezzo della preghiera l’uomo va a Dio e Dio entra in lui» (A. Carrel, La Preghiera, Morcelliana 1986, pp. 28-44).

In altre due occasioni ci siamo occupati della preghiera, nella prima rispondendo alla classica domanda: “Perché pregare se Dio conosce già i nostri pensieri?”, nella seconda, spiegando che la preghiera non serve per istruire Dio, ma semmai per disporre noi ad accogliere il Suo aiuto. Resta comunque insuperabile la riflessione di Benedetto XVI: «Nell’esperienza della preghiera la creatura umana esprime tutta la consapevolezza di sé, tutto ciò che riesce a cogliere della propria esistenza e, contemporaneamente, rivolge tutta se stessa verso l’Essere di fronte al quale sta, orienta la propria anima a quel Mistero da cui si attende il compimento dei desideri più profondi e l’aiuto per superare l’indigenza della propria vita. In questo guardare ad un Altro, in questo dirigersi “oltre” sta l’essenza della preghiera, come esperienza di una realtà che supera il sensibile e il contingente».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato al rapporto tra fede e psicologia)

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Marcia per la Vita 2016, ecco perché partecipare

marcia per la vita 2016 

di Alessandro Elia, Chiara Chiessi, Davide Longo, Dedalo Marchetti*
*Giovani Marcia per la Vita

 

A Roma, domenica 8 maggio 2016, si terrà la sesta edizione della Marcia per la Vita. Il ritrovo sarà al Colosseo alle 8.30 e la partenza sarà alle 9.30 dal medesimo luogo. Inoltre, per chi fosse interessato, sabato 7 maggio alle ore 20:00 ci sarà l’adorazione Eucaristica in riparazione per il crimine dell’aborto presso la Basilica Santa Maria sopra Minerva (Piazza della Minerva, 42 -00186 Roma).

L’iniziativa della Marcia per la Vita parte dalla costatazione di una realtà inquietante, spaventosa, raccapricciante e quanto mai attuale: in meno di quarant’anni sono stati ammazzati, con il pieno consenso della legge italiana, oltre 5 MILIONI di bambini nel grembo materno. Lo ripetiamo: 5 milioni! Si tratta dell’aborto procurato (interruzione volontaria della gravidanza), con il quale ogni anno in Italia più di centomila bimbi innocenti vengono soppressi. È stato introdotto, tutelato e disciplinato nel 1978 con la legge 194, che legittima l’aborto volontario nei primi novanta giorni (3 mesi) di gravidanza.

Data la gravità e l’universalità della nostra causa, sono ben accetti tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla propria fede e dagli orientamenti politici. La Marcia è aconfessionale e apolitica perché si appella principalmente all’imperativo morale inscritto in ciascuna persona e comune a tutti gli esseri umani: la vita è sacra e l’innocente ha il diritto di vivere.

Noi siamo un gruppo di giovani, prevalentemente di Roma, che promuovono la Marcia e più generalmente la cultura della vita. La nostra non è una militanza politica e nemmeno propagandistica ma una testimonianza, attraverso l’impegno e lo studio, della preziosissima unicità della vita umana dal concepimento sino alla morte. Crediamo fermamente che il rispetto della vita umana, sul piano personale, famigliare e sociale, sia il fondamento umano della pacifica convivenza. La nostra attività consiste nel diffondere la Marcia per la Vita e, più in generale, una cultura pro life, a partire dalle università, parlando con studenti, cappellani, scrivendo articoli, organizzando conferenze in ambito universitario, sensibilizzando tanti giovani che vogliano unirsi alla causa di “essere la voce dei senza voce”.

Le ragioni per le quali riteniamo che la 194 sia effettivamente una legge omicida e perciò del tutto illegittima, affondano le proprie radici in tre ambiti distinti ma connessi fra loro, ossia l’ambito scientifico, quello filosofico e infine giuridico. Tutta la problematica ruota attorno all’identità del feto: è una persona o no? Se infatti non si tratta di una persona, la pratica dell’aborto potrebbe essere moralmente ammissibile, ma se invece – come in realtà è – si ha a che fare con un membro del genere umano, non può in nessun caso essere tollerata una legge che ne renda lecita la soppressione.

Dal punto di vista biologico, la vita dell’essere umano incomincia precisamente al momento del concepimento, quando si forma il patrimonio genetico dell’individuo, unico e irripetibile, che sancisce definitivamente la sua appartenenza alla specie umana. È nel momento della fecondazione, ossia nella fusione tra lo spermatozoo del maschio e l’ovulo della femmina, che inizia la vita di un nuovo essere umano. L’unione di ventitré cromosomi del gamete maschile con ventitré cromosomi del gamete femminile forma una nuova cellula di quarantasei cromosomi. Questa cellula è propriamente detta “zigote” e, possedendo un nuovo codice genetico, produce un individuo umano distinto dai genitori e da qualsiasi altro. Tale non è una teoria bensì un’evidenza scientifica che è attestata chiaramente dall’embriologia moderna. Che l’embrione sia, sin dall’inizio, un essere umano vero e proprio, lo garantiscono i principali testi di embriologia e lo ammettono persino molti scienziati abortisti.

Inoltre, è scientificamente e intellettualmente scorretto parlare di “pre-embrione” nel periodo che precede l’annidamento nell’utero, poiché sostanzialmente nulla cambia nell’embrione una volta che si annida nell’utero. L’unica differenza è che entra biologicamente in relazione con la madre, ma resta lo stesso identico embrione che era prima. L’embrione è pienamente umano anche prima dell’annidamento; è semplicemente un essere umano che si sta predisponendo per istaurare una relazione biologica con la madre, cosa che avverrà poco dopo.

Siccome oramai il rigore scientifico dell’embriologia è fin troppo netto perché sia mistificato, il dibattito verte il più delle volte sull’antropologia filosofica. Secondo la tesi “separatista” o “separazionista”, bisogna distinguere il concetto di persona da quello di essere umano, che un tempo erano invece sinonimi. Su che basi si compie un simile discernimento? La vera risposta alla domanda è: sulla legge del più forte (in senso strettamente materiale). Si tratta, non a caso, di un’operazione già avvenuta in passato; lo schiavismo, il razzismo e non ultimo l’abortismo, si fondano tutti sulla teoria separatista che sceglie a proprio piacimento quali individui possono essere considerati persone e quali “soltanto” esseri umani, concepiti come totalmente privi di dignità umana, sicché non c’è alcun problema a eliminarli.

Di conseguenza si va incontro alla teoria “funzionalista”, secondo la quale un essere umano diviene propriamente una persona soltanto quando possiede le qualità necessarie per essere definito tale. La suddetta tesi non tiene in considerazione che l’essere persona non dipende dalla presenza di alcune qualità o dalla realizzazione di determinate funzioni, bensì da una posizione d’essere, cioè dalla natura ontologica o “essenza”. Le qualità proprie della persona, che appartenendo alla sfera degli “accidenti”, non la definiscono ma la presuppongono. Portando il funzionalismo alle estreme conseguenze, si potrebbe benissimo dire, com’è già avvenuto, che i neonati non siano persone perché mancano di molte qualità e funzioni proprie degli adulti, il che è sufficiente a screditare definitivamente la validità della tesi funzionalista.

Altri abortisti, dimostrando la loro ignoranza in fatto di aristotelismo, sostengono che, siccome l’embrione è una persona soltanto in potenza, allora non è affatto una persona. In realtà, si tratta di una fallacia logica e ontologica; la formulazione corretta sarebbe: l’embrione è una persona in atto (si sta sviluppando), che possiede delle qualità in potenza. In altre parole, l’embrione è potenza di qualcosa già in atto, poiché “attua” il suo naturale percorso di crescita, tant’è che se le capacità del futuro adulto non fossero già intrinseche dell’embrione, queste non si potrebbero mai sviluppare. Siccome il fondamento dell’Io è lo sviluppo della vita umana, la quale, come abbiamo visto, incomincia con la fecondazione, e l’essere vivi è la condizione prima, i diritti che spettano a ogni soggetto in quanto tale, l’embrione compreso, sono il diritto alla difesa della vita fisica, il diritto all’integrità genetica e il diritto alla salvaguardia della salute. Tali diritti umani, fondamentali e inviolabili, sono assolutamente incompatibili con la legge 194, poiché essa lede addirittura tutti e tre in un sol colpo.

Non è corretto affermare che la legge 194 abbia regolamentato soltanto l’aborto terapeutico, il quale in realtà è esteso per tutto l’arco della gravidanza. Non c’è nulla di “terapeutico” nel sopprimere volontariamente l’embrione per favorire la madre; uccidere non può costituire una terapia. L’aborto procurato, che con la 194 è stato reso lecito per i primi tre mesi di gravidanza, non è per niente terapeutico, salvo che non si consideri il bimbo come un cancro da estirpare. Il fatto che la donna abbia il diritto sul proprio corpo non è pertinente con il diritto ad abortire, perché l’aborto procurato interviene precisamente sull’embrione per ucciderlo, e l’embrione non fa parte del corpo della donna, ma è un individuo distinto da essa che risiede nel corpo della donna; in quanto individuo è soggetto e non oggetto dei diritti fondamentali, tra i quali la tutela della propria vita fisica. Quando due diritti si scontrano, il diritto più vitale ha la prevalenza. Nel caso della donna, il suo diritto ad agire sul proprio corpo non ha la precedenza sul diritto dell’embrione alla vita, poiché la difesa della vita è sempre la priorità.

Del resto, come in ogni rapporto giuridico, anche quello tra madre e figlio deve fondarsi su un’oggettiva legge comune di coesistenza, e non su sull’intenzionalità affettiva di un soggetto nei confronti dell’altro, in special modo se un tale soggetto sia contrario allo spirito del diritto, che tende per vocazione ad armonizzare l’esperienza co-esistenziale intersoggettiva. Infine, è bene ricordare che vale sempre la legge della prudenza. Nel caso puramente ipotetico e impossibile che vi sia un reale dubbio sull’effettiva umanità dell’embrione – il che non si può dire perché è sicuramente una persona – l’attitudine dev’essere quella della prudenza, ovvero di non rischiare di sopprimere la vita di una possibile persona umana. Ora, siccome qualsiasi uomo in buonafede, sceglierebbe, in una situazione così delicata, la strada della prudenza, se ne deduce necessariamente che chi ha progettato la legge 194 non poteva essere che in malafede.

Per quanto concerne la piaga degli aborti clandestini, la legalizzazione del fenomeno non ha risolto il problema, perché non si risponde a un male con un male nettamente peggiore. I dati dimostrano che in molti paesi in cui l’aborto è legale, gli aborti clandestini sussistono ancora per diverse ragioni. Finanche più grave è stato che la legittimazione dell’aborto abbia accresciuto notevolmente la cultura della morte, facendo passare l’idea che l’interruzione volontaria della gravidanza sia qualcosa di positivo. Inoltre, che sia clandestino o regolamentato, l’aborto non cambia la propria natura e resta sempre ingiustificabile; la differenza è che prima si combatteva, adesso invece si acconsente e incoraggia.

La Marcia per la Vita sta dalla parte dei bambini e delle donne, le quali più che essere colpevoli, sono anzitutto veramente vittime, assieme gli embrioni, degli aborti che commettono. È stato appurato che l’aborto può provocare gravi problemi emotivi, psicologici e psichiatrici come la perdita di autostima, il senso di colpa, rimpianto, ansia, depressione e varie altre sindromi post-abortive. È inutile partecipare a cortei e manifestazioni per chiedere diritti civili e sociali se poi si chiudono gli occhi davanti all’ingiustizia più grande di tutte, che è la negazione del diritto alla vita e di conseguenza la negazione di tutti i diritti, poiché senza il diritto principale anche tutti gli altri possono venir meno. Infatti, tutte le cose sono necessariamente contenute nel loro principio, e in realtà non possono in alcun modo esserne fuori, quindi, essendo il diritto alla vita principio degli altri, una volta eliminato, il resto dei diritti non sono che volubile contrattualismo, in pericolo di cadere da un momento all’altro.

Chiunque giovane universitario voglia aiutare la Marcia, impegnarsi con noi in attivismo pro life, e per qualsiasi informazione, può scrivere a: info@marciaperlavita.it, oppure telefonare a: 06-3233370 / 06-3220291.

 

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Filosofia vegana e vegetariana: i rischi per la salute e per l’etica

animalismoPerché occuparsi di diete alimentari? Perché non si tratta solo di questo, purtroppo. Vegetarismo e veganismo sfociano spesso in vere e proprie filosofie etiche, arrivando a parlare di “religione verde”.

Anzi, proprio alla base di queste convinzioni si intravede l’ideologia riduzionista che eleva eticamente l’animale a livello dell’uomo, rendendolo un nient’altro che, privandolo della sacralità di figlio di Dio, creato a Sua immagine e somiglianza. Come è stato giustamente sottolineato, sul sito www.eticanimalista.org si legge: «alcune religioni indicano l’uomo come immagine e somiglianza della divinità», eppure, «non credo che nell’animo umano vi siano sentimenti di generosità e di altruismo e quindi neppure che esso possa essere emanazione di volontà divina». Per cui, «molto meglio allontanarsi da quelle religioni che predicano l’antropocentrismo come discendenza divina» e avvicinarsi al «pensiero animalista, che è concreto e contestuale, libero da dogmi e da retaggi storici».

Non è un caso se i principali teorici dell’ateismo sono anche vegetariani e si battono per estendere agli animali i diritti umani, da Dawkins a Veronesi, da Luis Zapatero e Peter Singer. Proprio quest’ultimo scrive: «Lo scopo del mio argomento è di elevare lo status degli animali piuttosto che di abbassare lo status di qualsivoglia gruppo umano» (P. Singer, Etica pratica, Liguori editore 1988, p. 74), perché «chiamare “persona” un animale può sembrare strano solo perché è un segno dell’abitudine considerare la nostra specie rigidamente separata dalle altre» (p. 99). Checché ne dica il suo estimatore italiano, il filosofo vegano Leonardo Caffo, bastano poche righe perché Singer tragga le dirette conseguenze: «sono caratteristiche come la razionalità, l’autonomia e la coscienza di sé ad essere rilevanti. I neonati non hanno queste caratteristiche e ucciderli non può essere equiparato ad uccidere esseri umani normali, o qualsiasi altri esseri autocoscienti», tanto meno agli animali, che hanno capacità razionali maggiori degli umani disabili (compresi i Down). Infatti, «se per una donna l’onere di prendersi cura del bambino disabile comporta l’impossibilità di far fronte a un terzo figlio, e se la morte di un bambino disabile può portare alla nascita di un bambino con migliori prospettive di vita, allora la quantità totale di felicità sarà maggiore se il bambino disabile viene ucciso. La perdita della vita del bambino disabile è più che compensata dal guadagno di una vita più felice del bambino sano» (p. 186).

E’ l’animale che va sacralizzato, non la dignità umana. Lo stesso ragionamento era alla base della legge nazista sui diritti degli animali varata dal Führer, vegetariano militante, nel 1933 –portata recentemente alla luce da La Stampa-, in cui si legge: «E’ proibito operare o trattare animali vivi a scopo sperimentale in modo che possa essere loro provocato sensibile dolore». Un divieto che fa riflettere se si pensa all’ampio uso di cavie umane -anche bambini- usate senza scrupolo per gli esperimenti scientifici nei lager. A proposito del legame tra i “verdi” e le violente ideologie, proprio la settimana scorsa un ministro del governo svedese, Mehmet Kaplan, si è dovuto dimettere dopo che sono emersi stretti legami tra il suo partito, i Verdi, e la coalizione terroristica dei Fratelli musulmani.

Tutto questo ovviamente non significa certo avvallare la gratuita violenza contro gli animali, il sano ecologismo infatti nasce e si giustifica in ambito cristiano, ed è stato il cristianesimo ad eliminare i sacrifici animali (e umani) ampiamente promossi dalle civiltà pre-cristiane. Ancora oggi la Chiesa cattolica è la prima alleata in questo ambito, come è stato ricordato anche da noti ambientalisti: «la Chiesa sta contribuendo sensibilmente alla maturazione del concetto di responsabilità ecologica». Proprio recentemente, ad esempio, i vescovi cattolici dell’India hanno bandito l’uso dell’avorio negli oggetti di culto per scoraggiare lo sterminio degli elefanti.

Nella sua enciclica “ecologista”, la Laudato Sì, Papa Francesco ha scritto che tutto «questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità». Come spiegavamo inizialmente, anche il Papa avverte «l’ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza, e si porta avanti una lotta per le altre specie che non mettiamo in atto per difendere la pari dignità tra gli esseri umani. Certamente ci deve preoccupare che gli altri esseri viventi non siano trattati in modo irresponsabile, ma ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi disuguaglianze che esistono tra di noi. Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani». Ed infine: «è evidente l’incoerenza di chi lotta contro il traffico di animali a rischio di estinzione, ma rimane del tutto indifferente davanti alla tratta di persone, si disinteressa dei poveri, o è determinato a distruggere un altro essere umano che non gli è gradito», tramite l’aborto, ad esempio. Il Papa delinea bene l’ideologia che vive dietro all’animalismo sfrenato e all’ideologia del veganismo come scelta motivata da filosofie riduzioniste.

Bisognerebbe mettere anche in discussione il presunto effetto salutare di queste diete alimentari, poiché esse comportano l’assenza di vitamina B12 (non presente nel mondo vegetale, che abbassa i livelli di omocisteina), il ridotto apporto di Ferro e Calcio (con tutte le varie conseguenze, come l’alto rischio di osteoporosi), l’eccesso di acido fitico (che riduce l’assorbimento di zinco, calcio, magnesio e ferro), l’eccesso di ossalati (che inibiscono l’assorbimento di ferro, magnesio e calcio), la carenza di alcuni aminoacidi e grassi essenziali (ad esempio l’omega 3), fondamentali per la salute ecc. Basterebbe ricordare che la vegana più famosa al mondo, Jordan Younger, ha iniziato a mangiare pesce e carne perché rischiava la vita a causa dei bassissimi livelli nutritivi.

Non stupisce nemmeno il proliferare di studi che rilevano che vegetariani e vegani sono “meno sani” e con una minor lunghezza di vita (in particolare: maggiore incidenza di cancro, allergie e disturbi di salute mentale, maggiore necessità di assistenza sanitaria e più povertà della qualità della vita). L’ultimo è apparso pochi giorni fa, pubblicato su “Molecular Biology and Evolution” dalla Cornell University: è emerso, infatti che, l’abitudine ad un’alimentazione vegetariana ha portato, nel corso dell’evoluzione, un cambiamento del Dna di alcune popolazioni, che aumenta il rischio di infarti e cancro. Confrontando la popolazione vegetariana di Pune (India) con quella carnivora del Kansas (Stati Uniti), gli studiosi hanno osservato un aumento del rischio di malattie del cuore e dei tumori del colon nelle popolazioni in cui sono presenti variazioni genetiche legate alla dieta vegetariana. Senza considerare, afferma un terzo studio, che la dieta vegetariana potrebbe essere più dannosa per l’ambiente in termini di emissioni di gas serra, e c’è chi fa notare che anche le piante soffrono e cercano di aiutarsi, altri osservano che hanno una vita di relazione che viene brutalmente soppressa dagli animalisti: «Vi sono i vegetariani che rinunciano al rispetto della vita vegetale per proteggere quella animale», ha scritto ironicamente Umberto Eco (In cosa crede chi non crede?, Liberal 1996, p.9).

«I veri barbari», ha spiegato il filosofo laico Fernando Savater, docente presso l’Università di Madrid, «sono coloro che non distinguono uomini e animali. Caligola, che fece senatore un cavallo e uccise centinaia di persone che non apprezzava, quello era un barbaro. Perché trattava gli uomini come gli animali e gli animali come gli uomini». Claudio Magris ha ben sintetizzato: «La nostra esistenza e la nostra morale si basano su una radicale distinzione tra gli uomini e le altre creature viventi. Non è possibile applicare l’ etica kantiana agli animali né porre sullo stesso piano il genocidio di esseri umani e la distruzione di specie animali. Per l’universo, la Shoah e l’estinzione dei dinosauri sono probabilmente due fenomeni non troppo diversi, ma per noi no. Non è la religione ma sono l’etica e l’umanesimo a venir messi in crisi da un naturalismo radicale e a costringerci a separarci, nettamente e anche violentemente, dalla totalità dell’universo vivente, da tutte le altre creature».

La redazione

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Piergiorgio Odifreddi esalta solo scienziati cristiani, se ne sarà accorto?

ODIFREDDI2Avevamo lasciato il nostro amico Piergiorgio Odifreddi alla sua cacciata dal Premio letterario Campiello (oltre che dal Festival della Matematica), nonché alle sue espressioni di rispetto di un anno fa, quando scrisse: «Saremo veramente liberi solo quando potremo sputare equamente non solo su Maometto e il Corano, ma anche su Mosè e Gesù e sulla Bibbia».

Più recentemente è stato preso di mira da Il Foglio, ancora una volta per le sue affermazioni, reputate antisemite, del 2013, lui è intervenuto lamentandosi con il direttore Claudio Cerasa per essere stato «strapazzato», il quale però ha contro-replicato strapazzandolo a sua volta, stupito che il direttore di Repubblica possa ancora ospitarlo sul sito web del noto quotidiano. Soltanto noi lo avevamo difeso, sottolineando che la sua scivolata sulle camere a gas non era dettata dall’antisemitismo ma, semplicemente, dalla sua ignoranza culturale.

Sintetizzate brevemente le avventure più recenti del Piergiorgio, vincitore di ben due Asini d’Oro come peggior divulgatore scientifico italiano, veniamo alla odifreddura di oggi. Da sempre sostenitore della scienza come strumento di divulgazione dell’ateismo, ha affermato che «per uno scienziato, essere cattolico è innaturale», ampliando comunque la categoria: «mi è difficile credere che persone intellettualmente strutturate siano dei credenti» (intervista a C.S. Fioretti, Perché Dio non esiste, Aliberti 2010, p.10).

Date queste convinzioni, sorprende leggere oggi su Repubblica un suo breve articolo in cui ha elogiato gli scienziati e i premi Nobel di origine irlandese, intitolato per l’appunto: «Ma quanti premi Nobel in Irlanda!». Ha citato il cattolico-anglicano Jonathan Swift, decano della Cattedrale di San Patrizio di Dublino, nonché autore de I viaggi di Gulliver, il premio Nobel cristiano protestante William Yeats e il cattolico Seamus Heaney. Tutti scrittori, quindi inutili ai suoi occhi scientisti. In fretta è dunque passato ad elencare gli scienziati irlandesi più celebri.

Il primo della lista è il fisico Ernest Walton, vincitore del Nobel per la prima decomposizione artificiale dell’atomo, dando un incredibile contributo fisica nucleare grazie alla sperimentazione dell’accelerazione di particelle. Sicuramente un ateo, quindi? Assolutamente no, cresciuto come cristiano metodista, Walton era molto impegnato a proclamare la fede cristiana e attivo nella sua Chiesa, intervenendo più volte sul prolifico rapporto tra fede e scienza, anche dopo la vittoria del Nobel. Addirittura, per la gioia del suo estimatore italiano, Odifreddi, ha incoraggiato il progresso scientifico come un metodo per conoscere meglio Dio: «Un modo per conoscere la mente del Creatore», ha detto, «è quello di studiare la sua creazione. Dobbiamo ringraziare Dio perché possiamo studiare la sua opera d’arte, e questo dovrebbe applicarsi a tutti gli ambiti del pensiero umano. Il rifiuto di usare la nostra intelligenza con onestà è un atto di disprezzo per Colui che ci ha dato tale l’intelligenza».

Il secondo celebre scienziato irlandese citato da Odifreddi è stato William C. Campbell, vincitore del premio Nobel per la medicina nel 2015 grazie alla scoperta di una nuova terapia contro le infezioni causate da parassiti intestinali. Anch’egli una persona “intellettualmente strutturata” e, quindi, attivista dell’ateismo, secondo i criteri dell’ex matematico italiano. Neanche per sogno, nemmeno lui. Campbell, formatosi al Trinity College di Dublino, prestigioso istituto d’istruzione a livello mondiale nato per volontà della Chiesa cattolica, nell’ottobre 2015 ha dichiarato: «Io credo in Dio. Prego ogni singola notte della mia vita, anche se ho un rapporto complicato con la religione. La religione e la scienza possono coesistere, conosco diversi atei militanti e molti loro buoni argomenti, ma c’è un livello di argomentazione a cui non riescono ad arrivare. Credere in qualcosa che si sa che esiste non è una questione di fede, non richiede fede. Gabriel Rossetti, poeta inglese, era dispiaciuto per gli atei, perché non avevano nessuno a cui sentirsi grati. Questo mi ha sempre sorpreso perché abbiamo così tanto da essere grati! Io credo, e credo nella preghiera».

«A dimostrazione del suo ingegno, l’Irlanda ha addirittura avuto per 35 anni un primo ministro o un presidente matematico, nella persona di Éamon De Valera», ha concluso Odifreddi. Lo sbadato Piergiorgio, però, non sa che De Valera era sì un matematico, ma anche un devoto cattolico che riteneva il cattolicesimo il centro dell’identità irlandese, tanto che nel 1937 fece adottare una nuova costituzione, in cui riconobbe una “posizione speciale” al cattolicesimo romano (seppur garantendo la libertà di culto) e un riconoscimento del concetto di matrimonio cattolico, nel quale vietava il divorzio civile.

Se per Odifreddi è difficile credere che persone intellettualmente strutturate possano essere credenti, la realtà mostra che, dopo questi clamorosi autogol, è difficile credere che Odifreddi possa essere una persona intellettualmente strutturata. Si scherza, ovviamente!! Terribilmente seria è, invece, la usa odierna odifreddura.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato ai famosi non credenti)

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Il Gesù storico e i criteri per valutare l’autenticità del Nuovo Testamento

studio 

di Michael R. Licona*
*docente di Teologia presso la Houston Baptist University e studioso di Nuovo Testamento.

 

tratto da S. McDowell, A New Kind of Apologist, Harvest House Publishers 2016.

 

La prima questione è quella di definire cosa si intende per “Gesù storico”. Sebbene gli studiosi non siano d’accordo su una definizione, la maggior parte sembra soddisfatta della seguente: dopo che i dati sono stati setacciati, ordinati e valutati, il “Gesù storico” è il Gesù storico che si può dimostrare con ragionevole certezza, non partendo dalla fede in Lui.

E ‘importante osservare che il “Gesù storico” non è il vero Gesù, quello che camminava e insegnava in Giudea e Galilea, ma è il Gesù che si può conoscere tramite i risultati dell’indagine storica. Il vero Gesù era molto di più del “Gesù storico”, c’è inoltre il Gesù nei Vangeli. Questo terzo Gesù è anch’esso una rappresentazione parziale del vero Gesù, che aveva molti più elementi della sua personalità, disse e fece molte altre cose rispetto a quanto possa essere stato riportato in un Vangelo con una lunghezza inferiore a venticinquemila parole. Capire queste distinzioni è molto importante. Come fanno gli storici ad arrivare a conclusioni per quanto riguarda Gesù? Ci sono diversi approcci e vari strumenti utilizzati all’interno di ogni approccio, quello più comune al momento è riconoscere che Gesù era un predicatore itinerante ebreo che è vissuto nella Palestina del primo secolo, all’interno di una una cultura ebrea e greco-romana. In questo modo si assume un contesto di fondo che aiuta ad una comprensione più precisa di ciò che Gesù ha insegnato e l’impatto che può avere avuto su coloro che lo ascoltavano.

Vengono poi applicati dei criteri di autenticità alle parole e alle azioni di Gesù conservate nei Vangeli, essi riflettono principi del senso comune. Se due o più fonti indipendenti una dall’altra forniscono resoconti simili dello stesso evento, possiamo avere più fiducia che l’evento si è realmente verificato rispetto a quando ci riferiamo ad una fonte soltanto. Questo è chiamato il criterio dell’attestazione multipla. Un esempio concreto è la sepoltura di Gesù, riferita sia dal Vangelo di Marco che dalle lettere di Paolo, fonti indipendenti tra loro, evento che quindi soddisfa il criterio della attestazione multipla. Se una fonte ostile od estranea alla fede cristiana offre un resoconto che conferma le fonti cristiane, possiamo avere più fiducia che tale evento si è verificato, dal momento che la fonte ostile non dovrebbe essere influenzata dagli autori delle fonti cristiane. Questo è chiamato il criterio delle fonti indifferenti. Ad esempio, Tacito -per il quale il cristianesimo era il male e una malevole superstizione (Annali 15,44), riporta l’esecuzione di Gesù da parte di Ponzio Pilato, un resoconto del tutto compatibile con quello che troviamo nei Vangeli. Gli storici possono così avere più fiducia nel fatto che l’evento si è realmente verificato.

Se i Vangeli forniscono un episodio o un detto di Gesù che sarebbe stato imbarazzante per il movimento paleocristiano, possiamo avere più fiducia che tale elemento sia storico, dal momento che è improbabile che l’autore cristiano inventi contenuti che avrebbero potuto sminuire la causa per il quale scriveva. Questo è chiamato il criterio dell’imbarazzo. Ad esempio, Marco riporta che Pietro ha rimproverato da Gesù, il quale, a sua volta, ha rimproverato Pietro, chiamandolo “Satana” (Marco 8, 31-33). Dal momento che Pietro era il leader della chiesa di Gerusalemme, sembra davvero improbabile che i primi cristiani abbiano inventato e conservato una tradizione che lo discreditava in modo così pesante. Gli storici preferiscono avere resoconto da testimoni oculari o da una fonte scritta vicino all’evento che si propone di descrivere. Questo è chiamato il criterio dell’attestazione precoce. Ad esempio, quasi tutti gli studiosi concordano sul fatto che Paolo ha conservato una tradizione orale in 1 Corinzi 15, 3-7, che risale ai primi giorni della chiesa cristiana e il cui contenuto, anche se non necessariamente nella forma in cui è stato scritto, molto probabilmente risale agli apostoli di Gerusalemme.

Sarebbe bello se gli storici potessero salire su una macchina del tempo, tornare al passato e verificare le loro conclusioni. Dal momento che non è possibile, si può soltanto stabilire le questioni solo con diversi gradi di certezza. Ed è del tutto normale che la mancanza di dati possa portare gli storici ad una falsa conclusione, questo è vero sia per gli eventi biblici che per ogni altro evento dell’antichità. Di conseguenza, la soddisfazione di uno o più criteri di autenticità in relazione a specifici detti o azioni di Gesù, può stabilire la loro autenticità con “ragionevole”, ma non “assoluta”, certezza.  Molti scettici, dentro e fuori del mondo accademico, hanno un approccio del genere: “Fino a quando non vi è una spiegazione alternativa al racconto biblico che non possa essere assolutamente smentita, il racconto biblico non deve essere preso sul serio”. Un tale approccio suggerisce una comprensione superficiale di come funziona l’indagine storica. Uno storico competente abbraccia quello che ritiene essere la spiegazione più probabile dei dati disponibili, dal momento che c’è poco che può essere stabilito con una tale certezza del lontano passato non c’è spazio per stabilire un’alternativa estremamente improbabile.

Nel corso degli ultimi venti anni sono comparsi una serie di libri e articoli dove si sostiene che Gesù è un mito mai esistito, ma soltanto una manciata degli autori hanno qualche credenziale accademica. Purtroppo, la maggior parte dei lettori dei “miticisti” (come vengono comunemente chiamati questi autori) non sono abituati al pensiero critico e a confrontare le fonti. Per loro, Earl Doherty e Dee Murdock (aka Acharya S) sono credibili quanto John Meier e NT Wright. Eppure, né Doherty né Murdock sono mai andati oltre ad una laurea, mentre Meier e Wright vantano diversi dottorati in settori pertinenti ed insegnano studi neotestamentari presso le prestigiose università. Non sto affermando che la mancanza di credenziali accademiche vieta di avere buoni argomenti, ma che l’assenza di un’adeguata formazione ed esperienza nei campi appropriati è la causa dei loro eclatanti errori e delle inverosimili tesi “negazioniste”.  I lettori dovrebbero capire che la pubblicazione sul World Wide Web non basta a rendere studiosi di fama mondiale, dal momento che l’unica credenziale che si deve avere per pubblicare su Internet è quella di saper respirare.

E’ comunque importante riconoscere che presentare buoni argomenti ad uno scettico non ci assicura che ne uscirà convinto. Le loro obiezioni a seguire Gesù possono essere intellettuali, emotive o volitive. E’ loro responsabilità prendere una decisione corretta, è nostra responsabilità condividere il messaggio di speranza di Cristo “con dolcezza e rispetto” e “con grazia”, ​​come Pietro e Paolo ci hanno insegnato. Il messaggio del Vangelo è già offensivo per qualcuno, non abbiamo bisogno di renderlo ancora più ostile presentandolo in un modo che manca di dolcezza, rispetto e tolleranza. Quando combiniamo la conoscenza intellettuale con un cuore profondamente attento ai nostri amici non credenti, saremo piacevolmente sorpresi di trovarci impegnati in dialoghi molto più divertenti ed efficaci di quanto potremmo mai immaginare.

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Papa Francesco ringrazia il Family Day: «avanti così, avete una retta coscienza cristiana»

family day francescoIl portavoce del Family Day, Massimo Gandolfini, è stato oggi ricevuto in udienza privata da Papa Francesco, il quale ha esortato i difensori della famiglia a proseguire nell’impegno: «vi ringrazio per quello che state facendo», ha detto Francesco.

«Il Papa si è detto molto soddisfatto», ha spiegato Gandolfini a Radio Vaticana. «Era al corrente dei due “Family Day” del 20 giugno 2015 e del 30 gennaio scorso; ho chiesto proprio esplicitamente se poteva darmi una parola e sostanzialmente il Papa ha detto: “Sono molto contento; la e vi ringrazio per quello che state facendo”; e io gli ho posto proprio la domanda esplicita: “Dobbiamo andare avanti? Vuole dare qualche correzione?”. Mi ha detto: “Andate avanti così; siate un laicato forte, ben formato, con una retta coscienza cristiana“. E poi: “Agite liberamente”».

Il portavoce del Family Day ha poi raccontato di aver parlato al Papa del disegno di legge sulle unioni civili, garantendo che chi difende la famiglia non è “contro” a nessuno, ma alle «ideologie che sono anche rappresentate per legge». Gandolfini ha poi annunciato la volontà di chiedere l’incostituzionalità della legge chiedendo l’intervento del presidente della Repubblica, nonché la possibilità di indire un referendum abrogativo.

Non sarà certamente contento il “progressista” Massimo Faggioli, che aveva parlato di «grande freddo» tra il Papa e il Family Day, oggi si è rivelata una giornata di grande freddo sulla sua attendibilità come opinionista.  In realtà, che Papa Francesco fosse ben a conoscenza del Family Day lo si era capito dall’approvazione da parte della Conferenza Episcopale Italiana, nonché dal suo netto intervento pochi giorni del 30 gennaio, quando disse: «la Chiesa ha indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione […]. La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità. Per mezzo del matrimonio e della famiglia Iddio ha sapientemente unite due tra le maggiori realtà umane: la missione di trasmettere la vita e l’amore vicendevole e legittimo dell’uomo e della donna, per il quale essi sono chiamati a completarsi vicendevolmente in una donazione reciproca non soltanto fisica, ma soprattutto spirituale».

Il Pontefice era anche intervenuto pochi giorni prima del referendum sloveno sull’abrogazione del matrimonio gay, vinto dai sostenitori della famiglia, invitando i pellegrini sloveni a «sostenere la famiglia, struttura di riferimento del vivere sociale», esprimendo «apprezzamento all’intera Chiesa slovena in favore della famiglia» e incoraggiando «tutti, specialmente quanti hanno responsabilità pubbliche, a sostenere la famiglia, struttura di riferimento del vivere sociale». Il 14 novembre 2014, infine, Papa Francesco aveva anche incontrato una delegazione di responsabili della Manif Pour Tous“ italiana, l’associazione in difesa della famiglia naturale, congratulandosi con loro per l’importanza dell’attività svolta.

 

AGGIORNAMENTO 30/04/16
In una seconda intervista, Massimo Gandolfini, portavoce del Family Day, ha affermato: «Il Papa ci ha invitati a essere rispettosi nel linguaggio. Gli ho fatto presente che è esattamente quello che facciamo. E’ stato un incontro di grandissima condivisione ed empatia. Il Papa mi ha accolto come un figlio ed era quello che volevo; abbiamo potuto parlare di tante cose, alcuni temi generali e anche altri più specifici come le unioni civili e l’educazione gender nelle nostre scuole. Il Pontefice ha manifestato una totale condivisione di valori e di principi. Ci ha invitato a impegnarci nell’agone politico perché si possano trovare degli strumenti legislativi, educativi e formativi che possano tradurre in pratica i principi cristiani. Quella del Successore di Pietro è una convalida di grandissimo valore». Rispetto al disegno di legge sulle unioni civili, «si è mostrato molto amareggiato, specie sulla questione dell’utero in affitto». In un’intervista all’ANSA, Gandolfini ha aggiunto: «La linea del Papa è molto chiara: la Chiesa deve insistere sui grandi principi e valori ma deve contare su un laicato attivo, ben formato, che possa affrontare la tenzone quotidiana, il confronto e scontro politico». E ancora: «Quando ho fatto presente che rischiamo di programmare figli orfani di una padre o di una madre, la sua reazione è stata nettissima. Non mi ricordo se ha usata la parola ‘obbrobrio’ o ‘terribile’. Ricordo bene però che ha battuto il pugno sul tavolo e ha detto: “Ma i bambini devono avere un papà e una mamma!”. Gli ho parlato anche della legge italiana sulle unioni civili, una legge brutta e iniqua. Ho ribadito che il tema non sono i diritti, che sono tutelati, ma il volere diffondere modelli familiari diversi e, se vogliamo, anche ingiusti se si considera l’ottica dei bambini. E il Santo Padre si è mostrato assolutamente d’accordo con me».

All’agenzia Zenit.it, Gandolfini ha riferito anche altre parole dette dal Pontefice: «Spetta a me, in quanto Papa, ribadire i principi che sono patrimonio secolare della Chiesa. Spetta a voi, che siete laici con una coscienza ben formata, protrarre l’impegno per difendere questi principi nella società».

francesco gandolfini6

 

La redazione

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