«I cristiani sono “di parte”? Lo ero anche io, quando credevo nell’ateismo»

warner wallace 
 
di J. Warner Wallace*
*detective di polizia e docente di Apologetica presso la Biola University di Los Angeles

 
da coldcasechristianity.com“, 19/02/16
 

I cristiani sono spesso accusati di essere “di parte”, semplicemente perché crediamo nel soprannaturale, un’accusa che ha un certo potere nella nostra cultura pluralistica. Persone di parte sono viste come pregiudizievole e ingiuste, arroganti e troppo fiduciose verso la loro posizione. Nessuno vuole essere identificato come qualcuno che è prevenuto o supponente.

Ma non cadiamo nell’errore, tutti noi abbiamo un punto di vista; tutti noi abbiamo delle opinioni e idee che colorano il nostro modo di vedere il mondo. Chiunque ti dice che lui (o lei) è completamente oggettivo e privo di pregiudizi ha un altro problema, ancora più importante: è una persona bugiarda.

La questione non è avere o meno delle idee, opinioni o punti di vista preesistenti, ma riuscire comunque a guardare le cose in modo oggettivo. E’ infatti possibile avere un parere preventivo e lasciare esso alla porta, così da esaminare la realtà in modo equo. In California, ad esempio, i giurati sono ripetutamente istruiti a “mantenere una mente aperta per tutto il processo” e non “lasciare che i pregiudizi di simpatia o dell’opinione pubblica influenzino la vostra decisione”. I tribunali quindi presuppongono giustamente che le persone hanno dei pregiudizi e sono influenzati dall’opinione pubblica. Nonostante questo, i giurati sono tenuti a “mantenere una mente aperta”. Lo stesso vale per ognuno di noi.

Quando ero scettico e ateo, non accettavo minimamente l’esistenza dei miracoli, avevo un fortissimo pregiudizio contro il cristianesimo. Il mio impegno per il naturalismo mi ha impedito di considerare la realtà in modo oggettivo, tuttavia dopo aver capito i pericoli dei pregiudizi lavorando nelle scene del crimine, ho deciso che avevo bisogno di essere onesto con le mie inclinazioni naturalistiche. Non potevo iniziare dalla conclusione e se le prove e gli argomenti mi indicavano la ragionevole esistenza di Dio, questa certamente apriva la possibilità del miracoloso. Se Dio esistesse, infatti, Egli sarebbe il creatore di tutto ciò che vediamo nell’universo e la creazione da parte di Dio sarebbe certamente a dir poco miracolosa. Per questo miracoli minori (come, per esempio, camminare sull’acqua o guarire un cieco) potrebbero non essere così impressionati se messi a confronto.

Per questo posso dire che la mia esperienza di detective mi ha aiutato a convertirmi alla fede cristiana. Certo, questo non significa che ora appena non riesco a trovare una spiegazione facile o rapida in modo “naturale” ricorro subito ad una spiegazione “soprannaturale”. Semplicemente sono aperto a seguire la ragione ovunque essa conduca, anche se indica l’esistenza di un progettista miracoloso.

Non sono diventato cristiano perché ho subito ​​una distorsione preventiva a favore del cristianesimo. Anzi, sono cresciuto con un pregiudizio contro il cristianesimo. Non sono un cristiano perché sono stato cresciuto in questo modo, sono cristiano perché riconosco questa strada come la verità.

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Le famiglie arcobaleno? Più frustrate, lo afferma uno studio Lgbt

Famiglie arcobalenoFinalmente anche il quotidiano Repubblica ha dovuto aprire gli occhi: grazie al censimento dell’Istat 2011 sono state smascherate le dichiarazioni dell’Associazione Famiglie Arcobaleno sui fantomatici 100mila (centomila!) bambini che crescerebbero in coppie gay in Italia. Falso, le “famiglie arcobaleno” sono meno di 8mila (rispetto ai 14 milioni di famiglie naturali) e i bambini cresciuti con genitori dello stesso sesso sono 500.

La diffusione di informazioni appositamente errate è una costante della campagna arcobaleno, tanto da falsificare anche diversi studi scientifici, salvo poi scusarsi e ritirarli con vergogna, come è accaduto poco tempo fa. Proprio nelle scorse settimane è stato fatto un simile tentativo attraverso uno studio olandese (in Italia ancora sconosciuto), pubblicato sul Journal of Developmental and Behavioral Pediatrics e basato sul Censimento della salute dei bambini svolto tra il 2011 e il 2012. Due dei quattro autori sono lesbiche e attiviste Lgbt dichiarate, Henny Bos e Nanette Gartrell, e, come si vede dalle loro pubblicazioni (qui quelle della Bos e qui quelle della Gartrell), tutti i loro lavori scientifici sono dedicati alla tematica omosessuale e tutti presentano conclusioni univoche: le persone omosessuali sono stigmatizzate e chi cresce in famiglie gay e lesbiche è un bambino sano e soddisfatto.

Ci si poteva aspettare qualcosa di diverso dal loro ultimo studio? Chiaramente no. Ed infatti sui (stranamente pochi) media internazionali in cui sono state riportate le conclusioni, si legge che sarebbe stata finalmente dimostrata la non differenza tra i figli delle coppie omosessuali e quelli delle coppie di sesso opposto, perché quello che conta è quanto amore ricevono. Guarda caso, un lieto fine perfettamente in linea con il mainstream obamiano. Il problema, ha tuttavia rilevato Mark Regnerus, docente di Sociologia presso l’Università del Texas, è che «lo studio in realtà non realizza nulla di simile rispetto a quello che i suoi adoranti fan sostengono». Le sue critiche sono state ben sintetizzate in Italia anche da Notizie Pro Vita.

E’ vero, gli autori corrono velocemente verso questa conclusione: «Le nostre analisi mostrano che, anche se i genitori dello stesso sesso sperimentano maggior stress in quanto genitori, i figli non mostrano differenze nella salute generale». In realtà, però, parecchie limitazioni inficiano questa tesi. Innanzitutto, nonostante avessero a disposizioni 96.000 questionari, il campione utilizzato è risultato essere irrisorio: 95 famiglie di lesbiche a confronto con 95 famiglie di genitori di sesso opposto con figli di età inferiore ai 18 anni. Quindi, come ben sa chi si occupa di indagini statistiche, è da escludersi a priori la possibilità di poter affermare che non vi siano “differenze statisticamente significative”. In ogni caso, va dato atto, si tratta di un campione due volte più grande degli ancora più irrisori campioni utilizzati da Charlotte Patterson, ricercatrice e attivista lesbica responsabile di questi argomenti per l’American Psychological Association (APA), anche lei comunque accusata di falsificazione dei dati, più precisamente dal tribunale della Florida.

Una seconda limitazione è quella di aver ignorato una miriade di indicatori disponibili dal censimento su cui hanno lavorato, concentrandosi solo sul livello di buona salute dei minori interessati. Perché? Non si sa. La terza e, forse più grande, limitazione è quella di aver valutato il benessere dei figli in base alle dichiarazioni dei genitori. Proprio il prof. Regnerus è stato autore nel 2012 del più importante studio sulla tematica, basato su un enorme campione prodotto da interviste dirette ai figli delle coppie dello stesso sesso, non ai genitori. «Invece di porre domande ai bambini stessi (come ho fatto io nel mio studio 2012), abbiamo ancora i genitori come loro portavoce. Io sono un grande fan del parlare con le fonti, cioè i bambini, liberi di esprimersi poiché coperti pubblicamente dall’anonimato».

Oltre a queste gravi limitazioni, occorre rilevare ben due autogol. Il primo, lo ammettono anche le stesse autrici dello studio, è aver scoperto che i genitori femmine dello stesso sesso riportano più “stress” rispetto ai genitori di sesso opposto. Tuttavia definiscono “stress” ciò che invece si dovrebbe piuttosto chiamare “rabbia”, “irritazione” o “frustrazione”, poiché le domande che rivolgono a queste donne sono del tipo: “Avete mai provato rabbia verso il vostro bambino?”, “Avete mai provato la sensazione che il vostro bambino faccia appositamente cose che vi danno tanto fastidio?” ecc. «Gli autori etichettano come “stress” ciò che è di gran lunga, ovviamente, un indice di irritazione e rabbia», spiega il sociologo americano. «Perché le donne genitori dello stesso sesso sono più arrabbiate con i propri figli rispetto ai genitori di sesso opposto? Confesso che non lo so, ma questo studio rivela involontariamente che è chiaramente così». Che queste “famiglie” non siano proprio una situazione idilliaca è stato dimostrato nel dicembre scorso anche dal Centers for Disease Control, quando ha rilevato che ben il 44% delle donne lesbiche ha subito violenza fisica e/o psicologia dalla propria partner.

Il secondo autogol delle ricercatici Lgbt è stato invece di aver individuato l’assenza del padre come causa per la frustrazione delle coppie lesbiche. Non parlandone apertamente (sia mai!), piuttosto discutendo la possibile influenza sul loro bambino dell’impossibilità di conoscere i suoi geni, cioè la sua vera storia e origine. «E’ possibile», scrivono infatti, «che ci possano essere differenze nei rapporti familiari, nello stress della genitorialità e nei conseguenti effetti sui figli, se il donatore di sperma è noto (ad esempio, un amico, conoscente, o un parente della madre) o uno sconosciuto». Più che autogol, in realtà, si tratta di una nota di merito a nostro avviso. Avrebbero potuto scaricare la colpa alla presunta omofobia o stigmatizzazione sociale, ed invece non lo hanno fatto, perché sarebbe stato impossibile dimostrarlo.

Uno studio importante, dunque. Non tanto per le immotivate conclusioni delle ricercatrici Lgbt, piuttosto per aver dimostrato ancora una volta quanto siano viziati e limitati gli sforzi, anche scientifici, degli attivisti arcobaleno per legittimare l’adozione a coppie dello stesso sesso. Arrivando addirittura a dimostrare, come in questo caso, le ovvie problematiche -risultate da decine di studi scientifici– che emergono dal rendere i bambini orfani di padre o di madre pur di perseguire l’ideologia omosex.

La redazione

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Robot, coscienza ed etica: l’impossibilità di eguagliare l’essere umano

robot«Lo sviluppo di una intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana», ha avvertito Stephen Hawking l’anno scorso. Non sappiamo se tale annuncio sia dettato dal riduzionismo filosofico del noto fisico, per cui ritiene l’essere umano un nient’altro che facilmente sostituibile da un robot, oppure è un lancio pubblicitario, come il suo “universo dal nulla”, mero slogan di marketing (come ha ammesso Lawrence Krauss).

Certamente, il tema dell’intelligenza artificiale è ormai all’ordine del giorno, ma gli allarmismi non sembrano giustificati. Junji Tsuda, presidente della società di robotica giapponese Yaskawa Electric, ha affermato: «Ci sono diversi robot intelligenti in via di sviluppo ma, rispetto all’uomo, non sanno fare nulla». C’è, ad esempio, l’intelligentissimo robot che vince a scacchi ma, quando lo si mette a piegare gli asciugamani (costato 400mila dollari), impiega un’ora e quaranta minuti per sistemare cinque panni, come mostra questo esilarante video. Mansione che ad una casalinga porta via meno di trenta secondi.

Certo, nel tempo li si renderà sempre più efficienti, ma la questione è se davvero noi umani pensiamo di poter subire concorrenza da un ammasso di ferraglia guidato da un algoritmo. Ci sono Robot che possono vedere di notte come i gufi o i pipistrelli, ma non sanno che cosa vedono. Giustamente Illah R. Nourbakhsh, docente di Robotica presso il Robotics Institute della Carnegie Mellon University, chiede di prendere atto di una distanza, tra cervello (e mente, sopratutto) umano e robotico, pressoché irriducibile. Non è solo un gap enorme -forse incolmabile- di prestazioni (il cervello umano possiede una rete di sinapsi in cui ognuno dei cento miliardi di neuroni può interagire con altri diecimila), ma è sopratutto la dimensione affettivo-emotivo a non poter essere “trasferita” in una non-vita e, in generale, tutto l’aspetto che riguarda la coscienza.

Non è una questione di tempo e progresso ma di impossibilità. Uno studio di ricercatori della Cornell University, ripreso su The New Scientist due anni fa, ha dimostrato che in base ad una teoria algoritmica, per loro natura i computer non sono – né saranno in futuro – capaci di elaborare quei processi che ci permettono di mettere insieme le informazioni e di dargli un significato. «Non possiamo decomporre la loro coscienza in elementi indipendenti», ha riconosciuto Phil Maguire, docente di Informatica alla National University of Ireland.

Pochi giorni fa, Patrick Lin, direttore di Eticactor of Emerging Sciences Group alla California Polytechnic State University, ha spiegato che sarà semplicemente impossibile ridurre il processo decisionale etico umano in valori numerici comprensibili per un robot: come possibile, infatti, codificare la compassione, la pietà, la consapevolezza di sé, il dolore, l’altruismo, la moralità? Basterebbe semplicemente riflettere sul fatto che la mera capacità di scelta, per un robot, non dipenderà mai dal libero arbitrio, ma sarà sempre la capacità di confrontare la situazione con i dati installati nella sua memoria artificiale. È, quindi, sempre una questione di programmazione. L’essere umano, al contrario, è una creatura eidetica e creativa, capace di preferire una alternativa che, di volta in volta, reputa la più giusta e opportuna in base ad una legge morale interna, anche in assenza di informazioni già presenti nel suo cervello.

I ricercatori del Georgia Institute of Technology stanno cercando di sviluppare macchine che garantiscano il rispetto del diritto internazionale, ha spiegato Karl Stephan, docente di Ingegneria elettrica alla Texas State University. Eppure, ha proseguito, «molti dei ricercatori che lavorano sugli aspetti morali dei robot, manifestano frustrazione per il fatto che la moralità umana non è, e non potrà mai essere, riducibile al tipo di algoritmi che i computer possono leggere ed eseguire». Questo perché «vi è una differenza fondamentale in natura tra umani e robot. Per evitare di entrare in profonde acque filosofiche profonde, mi limito a dire che è una questione di autorità. Mentre i robot e i computer potrebbe essere eccellenti consulenti morali per l’uomo, quest’ultimo avrà sempre l’autorità morale e prenderà decisioni morali». In caso di incidente in una casa di riposo, ad esempio, dove gli infermieri sono aiutati dai robot, la polizia non porterà mai i computer con le gambe in prigione. La responsabilità morale sarà sempre dei programmatori e dei proprietari del robot. «Possiamo abdicare la responsabilità morale alle macchine, ma questo non ci rende meno responsabili», ha spiegato il prof. Stephan. Robot e computer sono solo strumenti, non agenti morali.

Riflettere sull’etica dei robot, ha concluso l’ingegnere americano, è in realtà «solo uno sforzo nel tentare di riflettere i nostri atteggiamenti etici nello specchio della robotica. Il sogno di alleviare noi stessi di responsabilità etica consegnando le difficili decisioni etiche ai robot è proprio questo. Un sogno».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato al riduzionismo filosofico)

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Il tuttologo Corrado Augias, collezionista di gaffe e tragiche assurdità

augias fortunaI tuttologi sono per definizione persone incompetenti che pretendono di dimostrarsi opinionisti attendibili, collezionando gaffe e controversie.

Il giornalista Corrado Augias è forse il massimo esponente italiano, «è il nuovo Celso», lo ha definito Francesco Agnoli, «con qualche idea “nuova” e più adatta ai tempi. La sua fama da popolare presentatore televisivo lo trasforma ipso facto –per uno strano e perverso meccanismo- nel personaggio più adatto a parlare sempre di tutto e di tutti, nel tuttologo a cui in tanti sono pronti a dare un credito illimitato» (Indagine sul cristianesimo, Lindau 2014). Non a caso il celebre filosofo Costanzo Preve lo ha definito «giornalista dilettante», da qualche anno è stato messo a rispondere alla “posta del cuore” di Repubblica. Rubrica che, se non parlasse ossessivamente di religione, rimarrebbe vuota, come è stato commentato di recente.

Chiamato a commentare l’omicidio della piccola Fortuna Loffredo, di sei anni, ad opera di un uomo che, prima di ucciderla, l’ha anche stuprata, Augias ha pensato bene di puntare il dito sul modo di vestire della piccola: «la guardi bene… guardi com’è atteggiata, e com’era pettinata, e come sono i boccoli che cadono… Questa è una bambina che a 5-6 anni si atteggia come se ne avesse sedici o diciotto». Dopo le polemiche ha rincarato la dose: «Insisto nel sostenere che permettere a una bambina di atteggiarsi come una signorinetta è improprio».

Ora, parlare della sessualizzazione precoce dei bambini è una cosa doverosa e un problema serio, non c’è dubbio. E’ assurdo volerlo fare commentando l’abuso e la morte violenta di una bambina, quasi ad alludere che sia stata la piccola ad aver provocato con il suo “atteggiamento” il pedofilo. Riflettere sulla sua morte, descrivendola come una sorta di inconsapevole adescatrice sessuale è un’offesa tremenda alla memoria di Fortuna, poche ore dopo la sua tragica morte. «Questa è una bambina che a 5-6 anni si atteggia come se ne avesse sedici o diciotto», perché, sarebbe invece lecito stuprare una sedicenne o una diciottenne vestita in modo provocatorio, come gli è stato giustamente replicato? Completamente insensibile, inoltre, alla sofferenza dei genitori contro cui ha fatto piovere l’accusa di aver “sessualizzato” Fortuna, proprio nelle ore in cui bisognerebbe stringersi attorno a loro, accompagnandoli -non accusandoli- nella atroce sofferenza a causa di questa perdita.

Augias ha aggiunto dolore al dolore e i genitori di Fortuna lo hanno querelato, giustamente. Non ha ricevuto alcuna denuncia, invece, dal biologo Edward Osborne Wilson, nonostante sia stato dimostrato che il giornalista di Repubblica lo abbia ampiamente plagiato per scrivere il libro Disputa su Dio e dintorni (Vito Mancuso, coautore del libro, si è definito «amareggiato», ma ha anche lui evitato la querela). Sempre a proposito di questioni legali, ci domandiamo perché il giornalista rosso –ex spia comunista nome in codice “Donat”- non abbia invece denunciato Giuliano Soria, che un anno fa ha dichiarato: «Corrado Augias era il più vorace, addirittura assillante sui pagamenti in nero, sfiorando l’indecenza».

Queste collezioni di controversie sono l’inevitabile destino dei tuttologi, ancor di più se moralizzatori. Come ha sempre voluto esserlo Corrado Augias.

La redazione

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Morale laica, anche i non credenti ne sono diffidenti

Relativismo«Come vivere senza la grazia? Come essere santi senza Dio? È il problema che domina il ventesimo secolo». La citazione di Albert Camus risulta davvero azzeccata se si leggono i risultati di un recente e curioso studio, condotto dal dipartimento di Psicologia della Nottingham Trent University, in Inghilterra.

La ricerca, pubblicata su The International Journal for the Psychology of Religion, ha voluto valutare il “pregiudizio anti-ateo” della società inglese, testando un campione di persone sulle reazioni ad una vignetta in cui venivano descritte le azioni di un insegnante disonesto ed inaffidabile. Secondo i risultati, il 66% ha detto che l’uomo era probabilmente un insegnante ateo. La nota curiosa è che il 43% dei partecipanti si è dichiarato ateo, il 33% invece era cristiano, ed il resto apparteneva ad altre fedi. «La diffidenza anti-atea», hanno concluso, «è profondamente e culturalmente radicata indipendentemente al gruppo di appartenenza di un individuo, tant’è che anche la maggior parte degli atei si è scoperta provare la stessa istintiva diffidenza».

Probabilmente avrebbe risposto allo stesso modo anche il celebre filosofo laico Norberto Bobbio, dato che scrisse: «La morale razionale che noi laici proponiamo è l’unica che abbiamo, ma in realtà è irragionevole». La morale laica risulta irragionevole agli occhi di Bobbio perché è priva di fondamenta, se manca il chiodo a cui appendere l’etica allora tutto si gioca nelle mere e vacque opinioni personali. In una intervista, disse: «Gli uomini sono cattivi. Il male è la storia umana. È la sconfitta di Dio e la sconfitta della ragione. Questo secolo lo dimostra più di ogni altra epoca. E il cristianesimo, dov’è il cristianesimo? […]. Come diceva Croce, non possiamo non dirci cristiani. Senza l’etica cristiana non c’è convivenza. Ma il cristianesimo come fede è un’altra cosa. E io non riesco a non dubitare». Anche Jean-Paul Sartre viveva dilemmi simili: «Senza Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori, poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire» (J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia 2007).

Come ha ben spiegato il card. Carlo Maria Martini, «chi non fa riferimento» a princìpi cristiani, «dove trova la luce e la forza per operare il bene non solo in circostanze facili, ma anche in quelle che mettono alla prova fino al limite delle forze umane e soprattutto in quelle che pongono a confronto con la morte? Perché l’altruismo, la sincerità, la giustizia, il rispetto per gli altri, il perdono dei nemici sono sempre un bene e devono essere preferiti, anche a costo della vita, ad atteggiamenti contrari? E come fare per decidere con certezza nei casi concreti che cosa è altruismo e che cosa non lo è? E se non c’è una giustificazione ultima e sempre valida di tali atteggiamenti, come è praticamente possibile che essi siano sempre prevalenti, che siano sempre quelli vincenti? Se persino coloro che dispongono di argomenti forti per un comportamento etico fanno fatica a conformarvisi, che cosa sarà di coloro che dispongono di argomenti deboli, incerti è vacillanti?».

Data l’impossibilità di rispondere adeguatamente a queste domanda, l’arcivescovo di Milano concludeva: «Faccio fatica a vedere come un’esistenza ispirata da queste norme (altruismo, sincerità, giustizia, solidarietà, perdono) possa sostenersi a lungo e in ogni circostanza se il valore assoluto della norma morale non viene fondato su princìpi metafisici o su un Dio personale. Che cosa fonda infatti la dignità umana se non il fatto che ogni essere umano è persona aperta verso qualcosa di più alto e di più grande di sé? Solo così essa non può essere circoscritta in termini intramondani e gli viene garantita una indisponibilità che nulla può mettere in questione» (C.M. Martini, In cosa crede chi non crede, Liberal 1996, pp.20,21).

La redazione

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L’Islam avanza perché l’Occidente, dal 1700, odia se stesso

boldrini 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

da Libero, 04/05/16

 

Intervistato recentemente da Giulio Meotti su Il Foglio, riguardo alla decadenza dell’Occidente e sul perché del terrorismo islamico in Francia, il celebre filosofo francese Remi Brague risponde sostenendo che è nel suo paese che è iniziato, un secolo prima che altrove, il declino demografico e la decadenza dell’Europa, al punto che oggi molti musulmani «non sentono altro che disgusto per il malthusianismo francese, le famiglie che rinunciano ad avere figli e prendono un cane… La legge che nel 2013 ha consentito il matrimonio gay alla fine li ha convinti che la Francia è un paese decadente che non ha futuro».

Uno dei motivi centrali di questa decadenza, continua Brague, è il fatto che «una buona parte della produzione storica per il pubblico in generale, che i media influenzano, invita all’autocritica e al pentimento di tutto il passato. Un’altra parte esalta invece il glorioso passato di altre civiltà e giustifica tutti i loro aspetti negativi». L’analisi di Brague è interessante, e ribalta un luogo comune: il grido disperato di chi contrappone al terrorismo ulteriori iniezioni di modernità liquida, e chiama in soccorso, di fronte al nemico, che però non può essere chiamato così, la mitica tolleranza di Voltaire, avversario del «fanatismo» e apostolo, in verità soltanto a parole, del libero pensiero. E così, quella che per alcuni, come Brague, è la causa della decadenza, per altri è la cura.

Ma approfondiamo l’analisi di Brague. Per questo pensatore la visione unilaterale e demonizzante che i media danno della storia passata della Francia e in generale della civiltà cristiana, fa il paio con l’altrettanto miope esaltazione di un presente che è invece decadente, nichilista e senza prospettive. Il fondamento di una simile lettura dei fatti è evidente: da quando l’Occidente ha voluto rinnegare la sua storia, si è costruito dei miti, il primo e il più tenace dei quali è quello secondo cui saremmo diventati civili, progressisti, buoni, ragionevoli, da Voltaire in poi. L’Europa precedente, invece, avrebbe generato solo cristianesimo, buio, barbarie ed intolleranza.

Una simile lettura dei fatti ha avuto bisogno, per nascere e per prendere piede, di una duplice falsificazione della memoria storica: anzitutto attraverso l’archiviazione deliberata di tutto ciò che l’Europa cristiana pre-illuministica ha partorito di grande (dagli ospedali alle università, dalle scuole all’arte, alla stessa scienza e a un certo tipo di economia di mercato); in secondo luogo attraverso la demonizzazione sistematica e superficiale di vari momenti della storia europea (come ad esempio le crociate, rievocate ossessivamente come una colpa che non passa, e narrate omettendo sistematicamente l’analisi dei quattro secoli di storia precedenti, in cui la Cristianità fu assediata, combattuta, costretta dalla spada islamica a ritirarsi piano piano dall’Africa, dalla Spagna…).

È nella Francia dei Lumi che Voltaire definisce gli Ebrei, in quanto popolo della Bibbia, sacra all’Europa, «il più abominevole popolo della terra», «un popolo assai barbaro», mentre alla voce «Tolleranza» del suo Dizionario filosofico non si vergogna di affermare che «la Chiesa cristiana è inondata di sangue fino ai giorni nostri» e che «sin qui i cristiani sono stati i più intolleranti tra tutti gli uomini»! È sempre nello stesso spirito che Montesquieu definisce il papa «un vecchio idolo», e afferma, con il dogmatismo di un bambino arrabbiato, che «non vi è stato mai regno che sia stato teatro di tante guerre civili quanto quello di Cristo»; nelle sue Lettere persiane, poi, presenta l’Islam come immune dai mali della Cristianità. Pochi anni più tardi, un altro personaggio influente come il marchese Nicolas du Condorcet, convinto che il futuro dell’Europa sarà necessariamente radioso, senza preti, tiranni, ingiustizie e malattie, si chiede stupito come mai la scienza sia nata «sotto le superstizioni più assurde, nel mezzo della più barbara ignoranza», cioè nei paesi cristiani, e non invece nelle terre dominate dalla «religione di Maometto, la più semplice nei suoi dogmi, la meno assurda nelle sue pratiche, la più tollerante nei suoi principi».

Se Voltaire considera i cristiani «i più intolleranti tra gli uomini» (accusa che sarà ripresa, pari pari, da Hitler) e i due filosofi citati contrappongono l’Islam, buono, alla Cristianità, cattiva, altri illuministi come Denis Diderot, sulla scia di Rousseau, tessono le lodi del «buon selvaggio». Quelli che noi chiamiamo «selvaggi», ad esempio i tahitiani, spiega Diderot, sono invece i veri civili, seguaci della raison, che, nella libertà dai pregiudizi cristiani ed europei, vivono una sessualità libera, felice, aperta all’incesto e ogni altra libertà. Diderot si ricrederà presto, osservano i selvaggi della Guayana, che praticavano “l’oppressione delle donne”, superstizioni di ogni tipo, abbandoni dei vecchi e dei malati…ma intanto, con Voltaire, Montesquieu, Condorcet…ha gettato il seme dell’odio dell’Europa verso se stessa.

Un odio che vive oggi in quanti, mentre lottano per il matrimonio gay, il divorzio breve e la diffusione del femminismo più radicale (vedi Boldrini, per fare un nome italiano), sempre in prima fila contro la tradizione e i valori cristiani, nel contempo indossano il velo, tacciono sulla poligamia islamica, mentre rivendicano i diritti, veri o presunti, di Tizio e Caio, passano sotto silenzio le persecuzioni dei cristiani nel mondo. Perchè dei cristiani barbaramente trucidati, in mezzo mondo (senza mai una reazione di tipo terroristico!), non si vogliono accorgere? Perchè, se lo facessero, metterebbero in dubbio il dogma illuminista per il quale gli intolleranti sono i cristiani, mentre le altre religioni e culture, invece, sono sempre migliori.

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Stalin, il sostegno alla propaganda atea e i rapporti con la Chiesa ortodossa

StalinDal 1917 fino al crollo dell’Unione Sovietica, la Russia fu governata da un regime che cercò di combattere le religioni ed imporre l’ateismo alla sua popolazione. Vi fu tuttavia in quei decenni un breve periodo in cui le autorità comuniste cessarono la loro campagna antireligiosa per giocare invece sul buon rapporto tra Stato e Chiesa, e questo accade durante gli anni della «Grande Guerra Patriottica».

Può sembrare sorprendente il fatto che ad adottare questa politica fu nientemeno che Stalin in quanto il dittatore, una volta ottenuto il potere assoluto, si era mostrato intenzionato a continuare la politica già inaugurata dal suo predecessore Lenin, scatenando una feroce persecuzione anticristiana: durante gli anni ’30 il numero dei preti si ridusse a poche migliaia, le chiese furono distrutte, non fu più consentito dopo il 1926 avere un patriarca e la popolazione fu costretta a praticare clandestinamente la propria fede.

Anche con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il georgiano lasciò immutata la sua linea di condotta, provvedendo anzi, ad estendere i provvedimenti antireligiosi anche alle regioni conquistate grazie all’alleanza stipulata con Hitler tramite il patto Molotov-Ribbentrop. Tuttavia, il 22 giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica e questo modificò completamente la politica ecclesiastica del paese: Stalin stigmatizzò le attività anticristiane dei fanatici del partito, vennero restaurate le chiese, incoraggiate le cerimonie religiose, fu ripristinato il patriarcato, riaperti i seminari e alla Chiesa fu concesso di avere delle proprietà.

Cosa spinse il segretario del partito comunista a questa clamorosa svolta? La spiegazione va trovata nelle finalità politiche che si prefiggeva il dittatore. In primo luogo, Stalin era perfettamente cosciente che il popolo non era disposto a combattere per il comunismo, e che per mobilitare la popolazione era necessario fare leva sul patriottismo e la tradizione. L’aiuto della Chiesa ortodossa li era fondamentale in tal senso, e la sua mossa si rivelò esatta sia perché la ritrovata libertà di culto venne accolta con entusiasmo dai fedeli come provato dall’affollamento delle chiese di Mosca in occasione della Pasqua del ’43, o dal fatto che i soldati in licenza frequentarono in gran numero le cerimonie religiose (anche se Stalin non accettò mai che i cappellani potessero seguire le truppe), sia perché la Chiesa ortodossa rispose positivamente all’invito del regime al puntò che il metropolita Sergej fece appello ai fedeli affinché facessero il possibile per garantire la vittoria, e la stessa Chiesa donò alle forze armate 150 milioni di rubli, frutto della raccolta tra i fedeli.

Inoltre, con la ritrovata libertà di culto degli ortodossi, Stalin si prefiggeva l’obiettivo di impressionare favorevolmente gli Alleati. Il dittatore sapeva infatti che buona parte del sentimento antisovietico, specialmente negli Stati Uniti, era dovuto alla persecuzione contro le chiese (ancora il 23 giugno 1941, Roosevelt paragonava la mancanza della libertà di culto nella Germania nazista a quella della Russia sovietica) e per dimostrare che l’ateismo di stato era una pagina vecchia rappresentati sovietici furono inviati dalle potenze alleate per fornire assicurazioni sulla svolta comunista, religiosi stranieri furono invitati a visitare Mosca, e lo stesso Stalin riferì all’ambasciatore inglese che anche lui, a modo suo, credeva in Dio. La chiesa anglicana si mobilitò a sostegno dell’alleanza sovietica; ma in America pochi cristiani credettero alla svolta di Stalin considerata (non a torto) una mossa politica. Tra i più decisamente contrari all’alleanza con la Russia c’erano i cattolici, dato che il papa Pio XI aveva emanato nel 1937 l’enciclica Divini Redemptoris che condannava l’ideologia comunista.

Per placare l’ira dei religiosi, Roosevelt cercò di presentare ai fedeli americani uno stato tedesco ancora più ostile al cristianesimo della Russia di Stalin: nell’ottobre 1941 il presidente americano dichiarò di avere una copia di un programma di trenta punti, stilato dal filosofo del partito nazista Alfred Rosenberg, che prevedeva la creazione di una chiesa nazionale tedesca che avrebbe tra l’altro sostituito la Bibbia con il Mein Kampf, e rimpiazzato la croce con la spada e la svastica. Questo documento ebbe una grande diffusione sebbene si sarebbe successivamente rivelato un falso; ma le intenzioni di Hitler di eliminare le Chiese cristiane erano autentiche in quanto il Fuhrer considerava il cristianesimo come un «bolscevismo cordiale, sotto una facciata di metafisica», e nel Terzo Reich diversi movimenti incoraggiarono nuove forme di paganesimo come le SS di Himmler. A facilitare il lavoro di Roosevelt, fu anche una rassicurazione personale di papa Pio XII che fece sapere che l’enciclica del suo predecessore condannava sì l’ideologia comunista, ma non proibiva l’invio di aiuti all’Unione Sovietica per sostenere il popolo russo (sul cambio di politica di Stalin e sull’azione di Roosevelt cfr. R. Overy, La strada della vittoria, Bologna 2002 pp. 413-417).

Dopo quattro anni di dura lotta le forze alleate riuscirono a sconfiggere gli eserciti dell’Asse. Molteplici furono le motivazioni che decretarono la vittoria degli Alleati, ma questo risultato sarebbe stato molto probabilmente impossibile senza la svolta politica effettuata da Stalin. Nonostante ciò, la ritrovata libertà religiosa per gli ortodossi in terra russa non durerà, tuttavia, molto in quanto Stalin, a partire del 1948, deciderà di rompere la «tregua» sottoponendo la Chiesa ortodossa a nuove persecuzioni (cfr. A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, Bologna 2007 p. 532).

Può sembrare strano che il dittatore abbia deciso, una volta superato il pericolo della sconfitta in guerra, di riprendere la sua politica volta a diffondere con la forza l’ateismo sebbene questa si fosse rivelata controproducente. Ciò si spiega però con il fatto che le azioni di Stalin era motivate dalla sua ideologia, e il fine ultimo che questa si proponeva era lo sradicamento della religione dalla società.

Mattia Ferrari

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Conversioni, quando l’imprevisto cambia la vita in Cina e a Taiwan

taiwanLa direzione di un importante canale televisivo di Taiwan, il Kuangchi Program Service, ha voluto creare un format sul messaggio di Papa Francesco, così la famosa e atea conduttrice ha iniziato ad informarsi su questo sconosciuto e sulla sconosciuta Chiesa cattolica, iscrivendosi di mala voglia ad un corso di catechesi.

E’ nata in questo modo la conversione di Chou Yong-Mei (nella foto, al centro) 20 anni di lavoro in televisione alle spalle, che negli ultimi due ha lavorato in maniera ininterrotta per la creazione di una lunga serie televisiva sulla vita del Pontefice, in onda proprio da pochi giorni con il titolo “Oh my God!”.

«All’inizio sono stata contattata per stendere una bozza per una serie di video della durata di sette minuti su papa Francesco», ha spiegato la donna. «Ho cominciato a leggere i suoi messaggi, la sua biografia e ad ascoltare alcuni contenuti. Ho capito subito che non si poteva fare una cosa ridotta, così ho chiesto alla presidente di progettare un programma serio con puntate di mezz’ora ciascuna. I contenuti di papa Francesco erano troppo importanti da presentare nella loro integrità, con esempi vissuti da persone reali nella vita reale. Dovevo informarmi e aggiornarmi, non ero cattolica. Ho deciso di iscrivermi al catechismo per capire come funziona il tutto. Quando ho incontrato le persone reali, in carne e ossa, all’interno della comunità cattolica, ho visto la loro dedizione e la forza della loro fede. Sono stata impressionata dalla quantità e dalla qualità del servizio prestato da molti membri della comunità e da molte istituzioni che non sapevo nemmeno fossero cattoliche».

Ha scelto di filmare in particolare «il lavoro delle comunità cattoliche, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione ai bisognosi o all’impegno di molti fedeli e religiosi “sconosciuti” ai media. Ci siamo concentrati sulle realtà più periferiche, i villaggi e le campagne di Taiwan, quelli che non appaiono in prima pagina». Poco a poco, però, «partecipare al catechismo non è stato solo legato al fine di trovare informazioni, si è trasformato in una ragione di vita. Ho capito che la forza che veniva dalle persone che incontravo proveniva dalla scelta di fede che avevano fatto. Così mi sono convinta che dovevo chiedere il battesimo. I contenuti del programma sono rappresentati dal grande lavoro che i cattolici fanno per la società, non solo all’interno della Chiesa. Non mettiamo in onda papa Francesco per venerarlo, così come non riprendiamo fedeli, suore o preti per farne degli eroi, ma presentiamo il lavoro di un’intera comunità sostenuta da grandi ideali per la vita comune, attenta ai problemi di ogni giorno. Mi sembra questo lo spirito di papa Francesco».

Un’altra sorprendente conversione è quella di Yan Xu, un artista della Cina centrale. Triste dopo il licenziamento dal lavoro, ha vagato per la città con un album da disegno, realizzando schizzi degli edifici urbani. «E’ così che ho trovato la cattedrale di S. Giuseppe», ha raccontato. «Era magnifica, bellissima. Ci sono tornato altre volte, il terzo giorno mi si è avvicinato un sacerdote cattolico e abbiamo iniziato a parlare. Per anni avevo trascurato la religione e volevo sapere di più sulla fede. Ho iniziato a partecipare alla Messa domenicale, pregavo il Signore di mostrarmi la via anche se non ero cattolico». Dopo sette anni, nella Pasqua del 2011, Yan ha chiesto il battesimo cattolico.

«La Cina è lontano da Roma», ha spiegato, «ma i cattolici cinesi pregano sempre perché il Papa potrà visiterà la nostra terra, un giorno, in futuro. La Repubblica Popolare è un paese socialista, la maggior parte delle persone non ha preferenze religiose. Amo la mia Chiesa, ci sono tanti meravigliosi giovani cattolici». Tra le principali difficoltà nel vivere la fede in Cina c’è la mancanza dei giorni festivi, soprattutto per la vigilia del Natale, il giorno di Natale, il Venerdì Santo, la veglia pasquale e l’Assunzione della Vergine Maria. «Se si desidera partecipare alle celebrazioni si deve chiedere un giorno di ferie».

La redazione

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Alessandro Galvani, l’insultatore Lgbt che insegna “linguaggio rispettoso”

galvanniChi è Alessandro Achille Galvani? Fino a ieri, uno dei tanti attivisti Lgbt che riempiono i profili social dei difensori della famiglia con insulti, bestemmie e ingiurie, nulla di nuovo. Si auto-definisce “pedagogista gay”, ovvero uno studioso dei processi educativi e, in particolare, si occupa di famiglie con figli gay, di bullismo omofobo e discriminazione.

Dice di insegnare all’Università dello Utah, in realtà è docente di cultura italiana presso l’Osher Life Long Learning Institute, un ente sì legato a tale università, ma che offre corsi professionali su vari argomenti, dal giardinaggio alla cucina, dedicati a studenti, anziani e casalinghe. Collabora anche con l’ARCI della provincia di Lecco. Nei commenti sparsi sul web si vanta di essere «un professionista nel movimento gay».

La sorpresa è stata scoprire che il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha organizzato per il prossimo 8 giugno un seminario rivolto ai suoi iscritti, intitolato “Unioni civili, omofobia, famiglia. L’uso del linguaggio per le minoranze sessuali nei mass media”, chiamando come relatore proprio Alessandro Galvani, in qualità di esperto di «linguaggio inclusivo e rispetto della libertà di parola». Una scelta originale e abbastanza contraddittoria: il campione dell’insulto -tanto da costringere Twitter a chiudergli il profilo-, che dà lezioni di “linguaggio rispettoso”. Evidentemente qualche notizia sul relatore è arrivata anche a Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine, dato che dopo la segnalazione de La Nuova Bussola Quotidiana, il corso di indottrinamento forzato della nuova lingua gay friendly è stato cancellato (era comunque già a rischio a causa della scarsità degli iscritti).

Grazie agli amici di Nelle Note (che hanno realizzato anche un video su questo), abbiamo recuperato alcuni esempi di “linguaggio inclusivo” che l’educatore omosessuale Alessandro Galvani ha prodotto sul web, piccole lezioni di “rispetto della libertà di parola” (ci scusiamo con i lettori per le volgarità che abbiamo deciso di rendere pubbliche qui sotto, sono quelle più “leggere”).

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Luca Pavani

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L’alfabetizzazione nel primo secolo e la scrittura dei Vangeli

papiriAlcuni critici negano la tradizionale paternità dei vangeli sostenendo che difficilmente possono essere stati scritti da qualcuno vicino a Gesù, poiché l’analfabetismo sarebbe stato molto diffuso nell’antico Israele.

E’ allora importante segnalare la recente scoperta realizzata da ricercatori della Tel Aviv University e pubblicata negli atti della National Academy of Sciences, secondo cui l’alfabetizzazione in quell’area era molto più diffusa di quanto si pensi già dal 600 a.C., cioè verso la fine del primo tempio di Gerusalemme, quindi prima del periodo secondo il quale molti studiosi ritengono sia stata composta la maggior parte dei testi biblici, tra cui il Pentateuco, rifacendosi proprio ai livelli di alfabetizzazione della popolazione all’epoca. Ed invece, il team di ricerca di Tel Aviv ha suggerito che nel regno di Giuda vi potevano essere almeno 100.000 persone alfabetizzate e questo «implica la presenza di una infrastruttura educativa che potrebbe sostenere che la composizione dei testi biblici esisteva già prima della distruzione del primo Tempio».

Si potrebbe quindi estendere queste interessanti conclusioni dei ricercatori israeliani anche per quanto riguarda la composizione dei Vangeli. Se l’alfabetizzazione ebraica in quella zona era già diffusa e prolifica prima del 600 a.C., certamente lo sarà stato ancora di più nel 30 d.C. Ciò significa che le persone attorno a Gesù erano in grado di creare i loro appunti con i detti e le azioni di Gesù già durante la sua vita pubblica, ai quali hanno potuto far riferimento gli autori dei vangeli. Già oggi gran parte degli studiosi sostengono l’esistenza di fonti scritte, non soltanto orali, presinottiche chiamate fonte Q (a cui hanno fatto riferimento gli evangelisti Matteo e Luca), fonte L (a cui ha fatto riferimento il solo Luca), una fonte indipendente per Matteo, Marco e una per Giovanni. Documenti molto antichi, tanto che San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi, datata tra il 54 e il 57 d.C., riferisce di scritti esistenti prima della sua conversione, avvenuta nel 35 d.C. (ad esempio in 2 Cor 8,18-19), che la scuola esegetica di Madrid ritiene essere «gli originali semitici delle fonti di Luca, scritte nel primo decennio dopo la morte di Gesù, tra l’anno 30 e il 40» (J.M. Garcia, Los orígenes históricos del cristianismo, Ediciones Encuentro 2008, p.59).

Lo studioso agnostico Bart D. Ehrman è forse il più importante portavoce di questa critica ai vangeli, nel suo libro Did Jesus Exist? (HarperCollins Publishers 2012) infatti scrive: «è stato dimostrato quanto fosse scarso il livello di alfabetizzazione nel mondo antico», sostenendo questa affermazione attraverso due studi. Il primo è quello di William Harris, secondo il quale «nei periodi migliori solo il 10% della popolazione del mondo antico sapeva leggere e forse copiare qualche parola scritta», il secondo è di Catherine Heszer, la quale «dimostra come all’epoca di Gesù forse solo il 3% degli ebrei palestinese fosse in grado di leggere e scrivere» (p. 49). Mentre lo studio di Harris è un’analisi comparativa che sembra essere stata smentita dallo studio dell’Università di Tel Aviv citato in precedenza, sulla “dimostrazione” della Heszer bisogna rilevare una bugia da parte di Ehrman.

Infatti, il noto studioso cita il titolo dello studio della ricercatrice della London University, ma senza far riferimento alla pagina o al capitolo in cui essa dimostrerebbe quello che Ehrman le vuole far sostenere. Questo perché, se ci si reca a leggere il lavoro della Heszer –come ha fatto Jimmy Akin-, si legge: «il tasso esatto di alfabetizzazione tra gli antichi ebrei non può essere determinato». Facendo a sua volta riferimento ad un altro autore, cioè alle affermazioni del rabbino ortodosso Meir Bar-Ilan, la studiosa afferma: «se il tasso medio di alfabetizzazione tra gli ebrei palestinesi era solo il 3 per cento, come sostiene Bar-Ilan, o leggermente superiore, deve in ultima analisi rimanere senza risposta» (C. Heszer, Jewish Literacy in Roman Palestine, Mohr Siebeck 2001, p.496).

Quindi, al contrario di quanto scrive Ehrman, la Heszer non dimostra nulla, ma semplicemente si rifà ad una affermazione del rabbino Bar-Ilan e allo studio di William Harris. Entrambi, però, hanno ricevuto buona risposta dal recente studio israeliano, secondo il quale l’alfabetizzazione ebraica era già ampiamente diffusa prima del 600 a.C. e quindi, per deduzione, ancor di più nel primo secolo d.C.. Tanto che Alan Ralph Millard, professore emerito di Ebraico e di Lingue semitiche presso la School of Archaeology, Classics and Egyptology dell’Università di Liverpool, ha scritto (per leggere l’intera pubblicazione bisogna essere registrati alla rivista scientifica): «le prove che dimostrano che la lettura e la scrittura erano ampiamente praticate nell’era di Gesù cresce alla scoperta di ogni nuova iscrizione, abbiamo diverse testimonianze che ci conducono a ritenere in quel luogo e in quel tempo un maggior livello di alfabetizzazione di quanto a volte si suppone, e molte persone comuni, non soltanto l’élite, sapevano leggere e probabilmente anche scrivere». Per questo, ha concluso, «non c’è motivo di dubitare dell’esistenza di fonti e testimoni oculari di ciò che ha detto e fatto Gesù di Nazareth».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato all’Antico Testamento)

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