Francesco sfida il mondo progressista: «è falsa compassione sostenere l’eutanasia»

francesco disabileNon si tira indietro e non cerca il facile applauso, ma sfida apertamente le convinzioni progressiste del mondo, riuscendo a penetrare anche in quegli ambienti che ideologicamente chiudevano la porta al suo predecessore. Papa Francesco è tornato su un grande tema, molto divisivo: «La compassione è in un certo senso l’anima stessa della medicina. La compassione non è pena, e soffrire-con. Nella nostra cultura tecnologica e individualista, la compassione non è sempre ben vista».

Addirittura, ha aggiunto incontrando i medici spagnoli, «non manca neppure chi si nasconde dietro a una supposta compassione per giustificare e approvare la morte di un malato. Ma non è così. La vera compassione non emargina nessuno, non umilia la persona, non la esclude, e tanto meno considera la sua scomparsa come qualcosa di buono». Un giudizio efficace, che colpisce proprio il cuore del tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, che probabilmente sarà all’ordine del giorno tra qualche anno in tutto l’Occidente. E i media spagnoli non si sono fatti attendere, riprendendo la sua accusa alla “dolce morte”.

Lo stesso ragionamento lo propose ai medici italiani, quando disse: «Il pensiero dominante propone a volte una “falsa compassione: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica “produrre” un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre. La compassione evangelica invece è quella che accompagna nel momento del bisogno, cioè quella del Buon Samaritano, che “vede”, “ha compassione”, si avvicina e offre aiuto concreto (cfr Lc 10,33)».

Ha parlato anche della cultura dello scarto, un suo neologismo attraverso cui indica quella società che «rifiuta e disprezza le persone che non soddisfano determinati canoni di salute, di bellezza e di utilità». Scartare è abbandonare o provocare la morte di un anziano o di un malato terminale, è impedire la nascita di un bambino, magari disabile. E un grande segno, in questo senso, è la scelta di farsi aiutare da alcuni chierichetti affetti da sindrome di Down durante la Messa del Giubileo degli Ammalati e delle Persone Disabili che si terrà domani.

Più volte, nel suo discorso, Francesco ha spiegato di voler «benedire le mani dei medici come segno di riconoscenza a questa compassione che si fa carezza di salute». Perché tale soffrire-con, «è la risposta adeguata al valore immenso della persona malata, una risposta fatta di rispetto, comprensione e tenerezza, perché il valore sacro della vita del malato non scompare né si oscura mai, bensì risplende con più forza proprio nella sua sofferenza e nella sua vulnerabilità. Non si può cedere alla tentazione funzionalista di applicare soluzioni rapide e drastiche, mossi da una falsa compassione o da meri criteri di efficienza e di risparmio economico. A essere in gioco è la dignità della vita umana; a essere in gioco è la dignità della vocazione medica». Una chiamata all’obiezione di coscienza dei medici, come infatti ha auspicato nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia: «a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

«Sono un matematico, vi spiego perché ho scelto l’assioma di Cristo»

Dio e l'ipercuboIl prof. Francesco Malaspina è docente di Geometria algebrica presso il dipartimento di Scienze Matematiche del Politecnico di Torino, qui sotto presenta in esclusiva per i lettori di UCCR il suo recente libro, intitolato Dio e l’ipercubo. Itinerario matematico del cristianesimo (Effatà Editrice 2016). L’autore si è anche reso disponibile a presentare pubblicamente il suo lavoro nelle città di Genova o Milano, per inviti e proposte è possibile contattarlo all’email: francesco.malaspina@polito.it.
 

di Francesco Malaspina*
*docente di Geometria algebrica presso il Politecnico di Torino

 

La vita è più bella se si hanno grandi passioni. Mi è capitato di appassionarmi nello stesso periodo, intorno al 1999, sia alla matematica che al cristianesimo, e da allora ho cercato dei collegamenti.

Ecco cosa mi spinge a scrivere questo libretto: lo scopo non è quello di tentare una qualche spericolata dimostrazione dell’esistenza di Dio. Non è neppure cercare di persuadere il lettore di quanto sia ragionevole il Cristianesimo presentando argomenti e spiegazioni matematiche. Ancor meno troverete un trattato di numerologia, che racconti il significato dei numeri nel testo biblico. Per quanto riguarda la ragionevolezza della fede cristiana il mio parere è che, sia l’ipotesi che Dio non esista, sia quella che Gesù di Nazaret sia realmente risorto, possano stare in piedi e abbiano una loro logica.

In questi venti secoli il Cristianesimo è passato più volte sotto il setaccio della ragione e ne è uscito indenne; sotto diversi punti di vista tutti questi attacchi hanno semmai rafforzato il pensiero cristiano e oggi molti scienziati possono dirsi credenti senza dover rinunciare alla razionalità. Ad ogni modo, anche la via della non esistenza di Dio è percorribile senza inciampo né contraddizione e ha una sua logica. Si tratta insomma di due assiomi, evidentemente in contrasto tra loro, ma entrambi plausibili. Esattamente come accade con il quinto postulato di Euclide che non è deducibile dagli altri quattro; tuttavia si possono costruire teorie matematiche valide sia considerandolo (geometria euclidea) sia non considerandolo (geometria non euclidea).

Io ho scelto l’assioma della Resurrezione di Cristo non per esserci arrivato con un ragionamento logico ma per averLo incontrato nei più poveri tra i poveri e per aver conosciuto tante persone che assumendolo, hanno poi dimostrato teoremi eleganti ed interessanti. Non cercherò dunque di smontare l’altro assioma, ma partirò dall’ipotesi che le fonti bibliche sgorghino da un’autentica Rivelazione per raccontare alcuni concetti del pensiero cristiano evocati (ma solo per analogia) da alcune nozioni matematiche. Vorrei partire dal presupposto che la matematica sia soprattutto arte e bellezza. Così come tante arti hanno cercato di descrivere e raccontare il mistero cristiano (la bellezza della pittura, della poesia e della musica infatti hanno spesso nei secoli richiamato la bellezza della fede in Cristo), allo stesso modo possono farlo gli oggetti matematici protagonisti di questa storia.

La matematica è sì il linguaggio della natura, della scienza e della tecnologia, ma possiede anche un fortissimo valore evocativo ed è su questo che vorrei puntare. La matematica è bellezza, poesia, fantasia e allora, coraggio, lasciamola parlare un po’ di Cristo! Presenterò dunque alcuni oggetti elementari della matematica moderna e farò loro raccontare qualcosa del Cristianesimo. Sulla mia tavolozza ci sono insiemi, relazioni di equipotenza, spazi metrici, funzioni continue e varietà topologiche, e la tela è il mondo astratto delle idee e dei collegamenti tra di esse. Il mestiere del matematico consiste soprattutto nel trovare legami tra oggetti apparentemente lontani e modellizzare in qualche modo la realtà che osserva. Qui vorrei collegare le due grandi passioni della mia vita, e avere un pretesto per parlare dell’amore di Cristo attraverso la matematica e viceversa. Non proporrò una particolare ermeneutica delle fonti bibliche ma racconterò semplicemente alcuni concetti basilari e condivisi del Cristianesimo attraverso alcune metafore e un linguaggio matematici. Per fare questo introdurrò alcune nozioni che generalmente non sono trattate nelle scuole superiori ma nel primo biennio di un corso di laurea in matematica o fisica.

La struttura del testo si sviluppa attraverso il dualismo generale-particolare o meglio globalelocale. Tutti e tre i capitoli iniziano in un preciso luogo geografico: Nazareth in Galilea, Elea nel Cilento e Calcutta in India. Si dipanano, poi, lungo discorsi di carattere più generale e astratto, sia presentando alcuni brani biblici, che illustrando teorie matematiche. Infine ritornano a esempi più concreti quando vengono proposti i parallelismi e le analogie. Anche nello stile spesso colloquiale si è voluto rispettare questo dualismo con scelte semantiche che hanno privilegiato termini di uso corrente per descrivere concetti astratti o di carattere biblico. Nel primo capitolo, dedicato al tema dell’Incarnazione, si affronta la teoria di Cantor sugli insiemi di cardinalità infinita. Nel secondo si accenna al Regno di Dio e alla fine dei tempi, si considerano insiemi in cui esiste una nozione di distanza tra i suoi elementi e si definiscono le funzioni continue in questo contesto. Nel terzo, infine, si parla di topologia nel senso più astratto e generale fino ad arrivare a introdurre le varietà topologiche. Qui si fa riferimento al tema centrale, ovvero un Dio-amore che trascende la nostra comprensione ma si rende tuttavia parzialmente intuibile attraverso i gesti concreti di carità verso i più piccoli e bisognosi.

Trasversalmente, i tre capitoli sono attraversati dalle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Un Dio che crea ogni cosa, eterno e infinitamente altrove, si fa prossimo, si fa bimbo in un grotta e falegname a Nazareth. Un Dio trascendente che si identifica concretamente con i piccoli e i bisognosi. Questo dualismo globale-locale è reso con grande forza della matematica. Il Cristianesimo non è un susseguirsi di idee collegate tra di loro, ma un incontro concreto con una Persona viva. D’altro canto, anche la matematica si impara soltanto immergendosi in essa, parlandone a lungo e facendo esercizi. Lo scopo di questo libretto è quello di accennare a un possibile itinerario molto parziale e incompleto, sotto l’ombrellino di carta della splendida signora che è la matematica. All’inizio e alla fine di tale itinerario troverete la prefazione scritta dal noto matematico Antonio Ambrosetti e la Postfazione di Ferruccio Ceragioli docente di teologia fondamentale e rettore del seminario maggiore di Torino.

San Paolo esorta i Tessalonicesi, e attraverso di loro ogni Cristiano, a pregare incessantemente. Io, per mestiere, passo molto tempo immerso nella matematica e l’unica possibilità di seguire l’imperativo paolino è chiedere agli oggetti astratti che utilizzo abitualmente di parlare di Cristo. E’ quasi un’esigenza il pensare a questi collegamenti.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Nascite premature e aborto, dimostrato definitivamente il legame

nascite premature«Dal maggio 2016 rifiutare il collegamento tra l’aborto e il parto prematuro è diventato impossibile», ha affermato Brent Rooney, ricercatore indipendente del British Columbia’s Reduce Preterm Risk Coalition, che si occupa del nati prematuri.

Con parto pretermine si definisce quando il travaglio avviene tra la 23esima e la 37esima settimana di gravidanza e rappresenta una delle più gravi complicazioni che possono insorgere durante la gestazione, nonché la principale causa di mortalità e morbilità prenatale. In un nostro specifico dossier abbiamo raccolto tutti gli studi offerti dalla letteratura scientifica in cui viene dimostrato come una interruzione volontaria di gravidanza aumenti il rischio di nascite premature in una successiva gravidanza.

In questi giorni è stata pubblicata sullAmerican Journal of Obstetrics & Gynecology una meta-analisi (cioè la valutazione dei risultati di molteplici studi realizzati sullo stesso argomento) di ben 36 studi internazionali, che sommariamente hanno coinvolto più di un milione di donne, concludendo, ormai definitivamente, che «nella popolazione generale, le donne con alle spalle un’interruzione volontaria di gravidanza o un aborto spontaneo, hanno un rischio significativamente più elevato di successive nascite premature». E la prematurità, come già detto, è a sua volta associata ad un rischio di morte e, sopratutto, di paralisi cerebrale del bambino, di disabilità mentale, di problemi polmonare e gastrointestinali, di perdita della vista e dell’udito.

Interrompere la gravidanza è la deliberata uccisione di un essere umano, per questo viene definita anche dai favorevoli un “male”. Non sarebbe tale se non comportasse la soppressione di una persona umana, poiché non verrebbe affatto percepita riprovevole moralmente l’eliminazione di un grumo di cellule. Ma l’aborto danneggia anche la donna, esistono infatti legami confermati tra esso e il cancro al seno, disturbi psicologici post-traumatici, infezioni all’utero e il rischio di placenta previa. Infine, come è stato definitivamente dimostrato, l’interruzione di gravidanza aumenta sensibilmente il rischio di nascite premature (quindi probabile morte o disabilità) in gravidanza successive.

Essere per la vita significa difendere non soltanto quella del bambino non ancora nato, ma anche combattere per la salute della donna (non a caso dove l’aborto è vietato è anche minore la mortalità materna, si veda la situazione in Irlanda e Cile) e anche per la vita dei fratellini o delle sorelline del bambino che si è deliberatamente deciso di condannare a morte.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Se il gorilla abbattuto è più mediatico dei cristiani sgozzati dall’Isis

critianigorilla 

di Giulio Meotti*
da *Il Foglio, 08/06/16

 

Può l’abbattimento di un gorilla in uno zoo di Cincinnati, commesso per salvare la vita di un bambino, scatenare più emozioni e più copertura mediatica della decapitazione di ventuno cristiani in una spiaggia in Libia mentre invocavano in arabo il nome di Gesù e sussurravano preghiere?

Sì. Uno studio del Media Research Center rivela che le televisioni mainstream hanno dedicato alla morte del gibbone Harambe sei volte il tempo che hanno riservato alla macabra esecuzione da parte dello Stato islamico dei cristiani copti un anno fa.

Sabato 28 maggio, i funzionari di sicurezza dello zoo hanno sparato al gorilla per proteggere un bambino di tre anni caduto nella gabbia dell’animale. Nei cinque giorni dopo la morte dello scimmione, le tre reti principali degli Stati Uniti hanno dedicato alla vicenda un’ora, ventotto minuti e diciassette secondi. Nel febbraio 2015, un gruppo di tagliagole dell’Isis vestiti di nero ha sgozzato ventuno cristiani copti su una spiaggia nei pressi di Tripoli. Il Media Research Center ha calcolato che Abc, Cbs e Nbc hanno dedicato un totale di soli quattordici minuti e trenta secondi per riferire del massacro di cristiani: meno di un sesto del tempo delle trasmissioni sul gorilla.

La tristezza per la morte di un animale bellissimo è stata trasformata in una piattaforma per i sentimenti più confusi diretti contro due genitori della classe operaia. Dalla Cnn a Msnbc, i media hanno fustigato fino all’isteria la “negligenza” dei genitori del bambino finito nella gabbia, Deonne Dickerson e Michelle Gregg. Un esemplare commento è venuto dal comico inglese Ricky Gervais: “Sembra che alcuni gorilla facciano i genitori meglio di alcune persone”. Una petizione online chiede allo stato dell’Ohio di togliere ai genitori la custodia dei figli (400 mila firme, numeri impressionanti rispetto a quelli raccolti in favore dei cristiani orientali). Un gruppo di manifestanti angosciati dalla morte del gorilla ha organizzato veglie allo zoo per piangere l’animale. Per i cristiani, silenzio. Non si ricorda neppure la stessa foga contro i genitori dei volontari europei dello Stato islamico; anzi, c’è quasi comprensione nei loro confronti.

Jack Hanna, un guardiano dello zoo, ha detto in una dichiarazione ai media: “Scommetto la mia vita su questo, quel bambino non sarebbe qui oggi”, se i funzionari dello zoo non lo avessero ucciso. A meno che non ti chiami Peter Singer, esiste una distinzione precisa tra il valore della vita di un gorilla e quella di un bambino. Quella che manca, ai media, è la stessa compassione per le vittime cristiane dei macellai dello Stato islamico. Ma forse i media passano soltanto ciò che la gente chiede, panem et circenses. Non è che l’uccisione di quel primate in gabbia tira di più del falò di venti ragazzine yazide in gabbia da parte degli stupratori islamisti incappucciati?

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Sconfitta storica del presidente messicano, punito per aver tradito la difesa della famiglia

confamiliaMentre in Italia si votava per le elezioni amministrative, in Messico i cittadini venivano chiamati alle urne per eleggere il governatore dei rispettivi trentuno stati.

Un test politico, dunque, per il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), prima forza politica del paese, e per il presidente Enrique Peña Nieto, entrato ormai nella fase finale del suo mandato, che si concluderà nel 2018. Presidente che proprio nelle ultime settimane aveva annunciato di voler introdurre il matrimonio e le adozioni omosessuali, nonostante durante la campagna presidenziale del 2012 avesse affermato più volte di non concepire altre famiglie al di fuori di quella naturale, formata da uomo e donna.

Secondo diversi opinionisti, proprio questo tradimento è costato caro al suo partito, il PRI, che ha perso 7 dei suoi 12 governatori. Una storica sconfitta secondo i commentatori politici e un risultato nettamente peggiore di quello previsto dai sondaggi. A confermarlo è stato ieri anche il candidato presidenziale PRI nel 2000, Francisco Labastida, spiegando che il disegno di legge per sancire nella Costituzione la legalità dei matrimoni egualitari è stata la causa principale della sconfitta elettorale del suo partito. Secondo Martin Orozco, il leader conservatore del partito Acción Nacional (PAN), ha a sua volta riconosciuto che la proposta del matrimonio egualitario fatta dal presidente Enrique Peña Nieto ha “aiutato” a vincere le elezioni.

In appena tre settimane più di mille associazioni in difesa della famiglia (tra cui Unión Nacional de Padres de Familia, Red Familia y ConFamilia, CitizenGO, HazteOir, Dilo Bien, México es Uno Por los Niños), composte da migliaia di attivisti, si sono riunite in un’unica coalizione civile, il “Fronte Nazionale per la Famiglia” (Frente Nacional Por la Familia, Fnf), che tra i suoi obiettivi ha anche quella di vigilare sui programmi di educazione nelle scuole. Secondo il presidente del Consiglio messicano per la famiglia (www.confamilia.mx), Juan Dabdoub Giacomán, Nieto è stato severamente punito grazie alla campagna nazionale dei difensori della famiglia, che hanno riscosso ampio sostegno in tutte le principali città. «In meno di tre settimane», ha detto Giacomán, «un’organizzazione è stata in grado di mobilitare un intero paese contro l’accatto del presidente alla famiglia, chiedendo un voto di protesta nei suoi confronti e nei confronti del suo partito».

L’attività del Fnf continuerà fino al 2018 e la sua nascita è stata ben raccontata in Italia da Luca Volontè, che ha descritto il sostegno che la popolazione messicana ha ricevuto anche nel resto del mondo: «In Argentina, Cile, Colombia, Spagna, Italia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, ma anche a Washington e Mosca, gruppi di persone hanno civilmente manifestato davanti alle ambasciate messicane». Inoltre, diversi Stati messicani hanno «contemporaneamente dichiarato il proprio sostegno alla famiglia».

Dopo la nascita della Manif Pour Tous francese si è ormai capito che la strada più promettente -indipendentemente dai risultati ottenuti-, per tentare di arrestare o rallentare la colonizzazione arcobaleno è quella di una rivoluzione civile e pacifica che parta dal basso, dai cittadini e dalle famiglie. E’ stato Papa Francesco, infatti, ad avvertire che «nel nostro tempo, Dio ci chiama a riconoscere i pericoli che minacciano le nostre famiglie e a proteggerle dal male. Stiamo attenti alle nuove colonizzazioni ideologiche, che cercano di distruggere la famiglia. Dobbiamo essere molto molto sagaci, molto abili, molto forti, per dire “no” a qualsiasi tentativo di colonizzazione ideologica della famiglia». Anche in Messico c’è chi ha iniziato ad alzarsi in piedi, manifestando la sua opposizione.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Anche sull’Islam, perfetta continuità tra Benedetto XVI e Francesco

Papi«Desidero poter dire nuovamente tutta la mia stima per i musulmani»disse nel novembre 2006 Benedetto XVI, soltanto due mesi dopo la crudele esecuzione di tre cattolici indonesiani e dopo solo tre mesi di distanza dallo sventato attacco terroristico alla città di Londra. Scandaloso? Eppure, nessuno lo criticò.

In quell’occasione, Papa Ratzinger aggiunse anche che i musulmani «appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che, secondo le rispettive tradizioni, fanno riferimento ad Abramo». Stima per i musulmani, che credono nell’unico Dio e appartengono alla nostra stessa famiglia. Questo il pensiero di Benedetto XVI, immutato anche dopo le persecuzioni dei cristiani ad opera dell’Islam fondamentalista.

E’ davvero un magistero da riscoprire il suo, volutamente dimenticato -e quindi tradito- dai sedicenti ratzingeriani che oggi condannano Papa Francesco per la sua volontà di rispetto e incessante dialogo con il mondo islamico. Ridotto soltanto al celebre discorso di Ratisbona, il rapporto tra Ratzinger e l’Islam è ben più ampio e, anche in questo caso, c’è perfetta continuità con quello di Francesco e con il magistero della Chiesa cattolica. Nell’esortazione Ecclesia in Medio Oriente del 2012, Papa Ratzinger ribadiva infatti che «fedele all’insegnamento del Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica guarda i musulmani con stima, essi che rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, l’elemosina e il digiuno, che venerano Gesù come profeta senza riconoscerne tuttavia la divinità, e che onorano Maria, la sua madre verginale».

Nel 2007, fu proprio Benedetto XVI, il primo nella storia, ad accogliere con tutti gli onori in Vaticano il monarca dell’Arabia Saudita, Abdullah II, il quale non permise mai alcuna libertà religiosa ai cristiani, contro i quali scatenava la polizia religiosa anche solo per un crocifisso al collo. E’ stato nel pontificato di Benedetto XVI che l’Osservatore Romano pubblicò per la prima volta un articolo di un musulmano, Fouad Allam, senza alcuna critica di “deriva sincretista della Chiesa cattolica” da parte degli attuali antibergoliani. E’ stato sempre Benedetto XVI a dire ad Abu Mazen che «la Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti», Francesco, nel ribadirlo, non ha rotto alcun tabù. Nel 2009, anno di frequenti attentati terroristici, Papa Ratzinger espresse il suo «profondo rispetto per la comunità Musulmana». Parole che Francesco non ha mai pronunciato in termini così espliciti.

Eppure, solo Bergoglio, è stato criticato da Magdi Allam poiché «dimentica che il Dio Padre […] non ha nulla a che fare con Allah. Quando il Papa all’interno della Moschea Blu si è messo a pregare in direzione della Mecca congiuntamente con il Gran Mufti, ha legittimato la moschea come luogo di culto dove si condividerebbe lo stesso Dio e ha legittimato l’islam come religione di pari valenza del cristianesimo». In realtà, è proprio Allam a dimenticare che Papa Gregorio VIIcitato da Benedetto XVI- invocò l’amicizia tra cristiani e musulmani proprio perché «noi crediamo e confessiamo un solo Dio, anche se in modo diverso». Ed è Allam ad aver scordato che il primo a pregare nella Moschea Blu in direzione della Mecca, dopo essersi tolto le scarpe in segno di rispetto (rimanendo con i calzini bianchi: “desacralizzazione del papato”, direbbero i tradizionalisti), è stato proprio il precedessore di Francesco: «Due minuti in silenzio, una preghiera intuita dal raccoglimento e dal movimento delle labbra di Benedetto XVI e dell’imam della Moschea blu», riporta Asianews. Addirittura, come si legge, è stato proprio Benedetto XVI a chiedere all’imam di Instanbul di pregare «per la fratellanza e per il bene dell’umanità», davanti al mirhab. «Ratzinger aveva socchiuso gli occhi, e unendo le braccia e si era raccolto in preghiera rimanendovi ben più dei trenta secondi richiesti, costringendo il mufti e tutti gli altri presenti ad attendere, in un irreale silenzio, che avesse terminato. Infine, in segno di rispetto, aveva chinato leggermente il capo in direzione della nicchia, e aveva detto al mufti: “Grazie per questo momento di preghiera”», riportano i testimoni oculari. Lo stesso, Benedetto XVI ha fatto alla Moschea di Gerusalemme, accolto dal muftì Mohammed Hussein.

Sempre Magdi Allam ha criticato Francesco perché ha rilevato elementi di comunanza con l’Islam, così facendo avrebbe «reiterato la tesi del tutto ideologica e infondata delle tre grandi religioni monoteiste, finendo per delegittimare il cristianesimo dato che l’islam si concepisce come l’unica vera religione. E lo stesso dicasi quando il pontefice argentino ha invocato il dialogo interreligioso». Ancora una volta, invece, il comportamento di Francesco è nel solco del suo predecessore: nel suo discorso del maggio 2009, infatti, nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme, Benedetto XVI volle proprio riflettere «sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune. Mentre Musulmani e Cristiani continuano il dialogo rispettoso che già hanno iniziato, prego affinché essi possano esplorare come l’Unicità di Dio sia inestricabilmente legata all’unità della famiglia umana».

Sia Francesco che Benedetto XVI, quindi, esprimono il magistero della Chiesa cattolica, il quale insegna che «il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale». Eppure, solo al pontefice argentino viene imputato di essere troppo “tenero” con l’Islam, di aver rinnegato il discorso di Ratisbona del suo predecessore. E’ proprio vero il contrario, il senso di quel famoso discorso è stato spiegato da Antonio Socci con queste parole: «il significato profondo di Ratisbona è l’essere una mano tesa, un tentativo di dialogo, e una riflessione sul senso religioso. La purificazione dell’idea di Dio, il non contaminare il sentimento religioso con la violenza umana, la violenza della storia». Chi, dunque, invoca il pugno duro verso l’Islam e la condanna dell’ideologia islamista (come fa Socci), al posto di un sincero dialogo, sta rinnegando le parole di Benedetto XVI. Al contrario, Francesco, sulle orme di Ratisbona, ha scritto che «il dialogo interreligioso è tanto più necessario quanto più difficile è la situazione. Non c’è un’altra strada». «Pensando in particolare ai musulmani», ha scritto ancora, lo scopo di tale dialogo è arrivare a «rispettare il diritto altrui alla vita, all’integrità fisica, alle libertà fondamentali, cioè libertà di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione».

Attenzione, però, «all’abbaglio ingannevole del relativismo», ha messo in guardia l’attuale Pontefice, «nell’intraprendere il cammino del dialogo con individui e culture, il nostro punto di partenza e il nostro punto di riferimento fondamentale è la nostra identità propria, la nostra identità di cristiani. Non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità».

«Un sincretismo conciliante», ha precisato ancora Papa Francesco, «sarebbe in ultima analisi un totalitarismo di quanti pretendono di conciliare prescindendo da valori che li trascendono e di cui non sono padroni. La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti “a comprendere quelle dell’altro” e “sapendo che il dialogo può arricchire ognuno”. L’evangelizzazione e il dialogo interreligioso, lungi dall’opporsi tra loro, si sostengono e si alimentano reciprocamente». In particolare, «per sostenere il dialogo con l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le preoccupazioni soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le convinzioni comuni». Benedetto XVI precisava a sua volta che «il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro».

Non è finita, chi accusa Francesco di ignorare la vera e pericolosa natura dell’Islam, facendo di tutta l’erba un fascio, ancora una volta rinnega gli insegnamenti di Benedetto XVI, il quale ricordava che «i musulmani condividono con i cristiani la convinzione che in materia religiosa nessuna costrizione è consentita, tanto meno con la forza. Tale costrizione, che può assumere forme molteplici e insidiose sul piano personale e sociale, culturale, amministrativo e politico, è contraria alla volontà di Dio». E lo stesso dice Papa Francesco, quando ricorda che «di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza». Mai, in nessun caso, Ratzinger condannò il “pericolo della natura dell’Islam”, ma semmai ribadì che la minaccia del fondamentalismo «tocca indistintamente e mortalmente i credenti di tutte le religioni».

Tutto questo non significa negare che l’Islam, più delle altre religioni, ha un problema con il fondamentalismo (proprio ieri un altro imam è stato arrestato per aver reclutato terroristi), per questo Francesco ha voluto implorare «i Paesi di tradizione islamica affinché assicurino libertà ai cristiani, affinché possano celebrare il loro culto e vivere la loro fede, tenendo conto della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali! Sarebbe bello che tutti i leader islamici – siano leader politici, leader religiosi o leader accademici – parlino chiaramente e condannino quegli atti, perché questo aiuterà la maggioranza del popolo islamico a dire “no”; ma davvero, dalla bocca dei suoi leader. Noi tutti abbiamo bisogno di una condanna mondiale, anche da parte degli islamici, che hanno quella identità e che dicano: “Noi non siamo quelli. Il Corano non è questo”»

Ci sarebbe, infine, da trattare la questione dell’immigrazione e dellaccoglienza dei profughi, altro tema sui cui Francesco è continuamente bersagliato. Eppure, è stato proprio Benedetto XVI a ricordare che «molte sono le persone che cercano rifugio in altri Paesi fuggendo da situazioni di guerra, persecuzione e calamità, e la loro accoglienza pone non poche difficoltà, ma è tuttavia doverosa». Se Bergoglio viene deriso dai tradizionalisti quando, rivolgendosi ai migranti, dice loro «siete un dono, la testimonianza di come il nostro Dio clemente e misericordioso sa trasformare il male e l’ingiustizia di cui soffrite in un bene per tutti», nessuno criticò Benedetto XVI quando rilevò che «la Chiesa non trascura di evidenziare gli aspetti positivi, le buone potenzialità e le risorse di cui le migrazioni sono portatrici». Soltanto Francesco, però, ha precisato che «non siamo in grado di aprire le porte in modo irrazionale», ma nessun tradizionalista ha riportato le sue parole.

Proprio approfondendo tutto questo si capisce perché nel 2014, Benedetto XVI scrisse (e confermò di averlo scritto): «Io sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Davvero il mondo sarebbe un posto migliore senza queste persone?

Bambini downE’ davvero insolito che un quotidiano come il Daily Mail, con più di due milioni di copie vendute al giorno e al dodicesimo posto al mondo in termini di diffusione (quindi “piace alla gente che piace”), pubblichi il drammatico articolo di Dominic Lawson, capace di provocare seriamente la coscienza delle masse.

Il National Screening Committee, si legge, ha autorizzato un nuovo esame del sangue per le future mamme (chiamato Non-Invasive Pre-natal Testing o NIPT), che ha quasi il 99% di efficacia nel rilevare se un bambino non ancora nato è affetto dalla sindrome di Down, andando a rilevare direttamente composizione del DNA del nascituro.

Lawson, padre di una figlia con sindrome di Down, ha spiegato di aver letto molto entusiasmo sui quotidiani anglosassoni, addirittura c’è chi ha espresso gioia per la definitiva «eliminazione della sindrome di Down». Lo scopo della campagna medica e mediatica, ha commentato il giornalista, «è chiara: incoraggiare le madri in attesa a subire il processo di screening, in quanto è stato reso meno rischioso. Il programma segreto può essere descritto come l’eugenetica sponsorizzata da parte dello stato». Naturalmente non si propone di risolvere il “problema” del nascituro disabile senza il pieno consenso dei genitori, come avveniva sotto al nazismo, «ma vi è una pressione insidiosa per procedere all’eliminazione in modo responsabile».

La BBC ha anche riportato diversi commenti pubblici sullo screening prenatale, uno di essi giustificava l’aborto dei bambini disabili in quanto «mettono a dura prova il sistema sanitario nazionale». Lo stesso motivo, ha spiegato Lawson, usato per giustificare gli «aborti selettivi in India, in quanto nella maggior parte degli stati indiani le femmine sono viste come un peso economico». Si potrebbe replicare che la gente soffre di sindrome di Down ma non dell’essere donna. «Veramente? Mi chiedo quando il National Screening Committee avrebbe scoperto che le persone con la sindrome di Down “soffrono’ perché hanno tre copie del cromosoma 21 invece di due». Senza contare che uno studio scientifico pubblicato sull’American Journal of Medicine nel 2011, ha concluso che «quasi il 99% delle persone con Sindrome di Down ha indicato di essere felice della propria vita, il 97% si piace di ciò che è al 96% piace il proprio aspetto».

Il commento del padre e giornalista, Dominic Lawson è da incorniciare: «Non si otterrebbe mai una visione così positiva rispetto alla vita dal resto della popolazione. Certamente nessuno tende a dire, come spesso fa mia figlia Domenica: “Io amo la mia vita”». «Eppure», ha proseguito, «i medici insistono, a torto, a parlare di sindrome di Down come se si trattasse di una malattia, come fosse il cancro, quando in realtà si tratta solo di un modo diverso di vita. Mia figlia non ha una malattia contagiosa, non è una criminale: perché è così difficile capirlo per le persone intelligenti? Forse questa è solo una parte della campagna per liberare il mondo dalle persone con la sindrome di Down, per “sradicare” tale condizione, come quel giornale allegramente ha scritto. Ma non è la condizione che verrebbe eliminata, si verificherebbe esattamente con la stessa frequenza tra i bambini non ancora nati: soltanto essi non potranno nascere per unirsi al resto dell’umanità. Il mondo sarebbe un posto migliore senza persone con la sindrome di Down? Senza persone come mia figlia?».

Lasciamo aperta la domanda, attendendo una risposta sopratutto dagli ipocriti che celebrano le Giornate per l’inclusività dei disabili e poi tacciono imbarazzati o contrariati davanti alle iniziative legali per vietare l’aborto sui bambini affetti dalla sindrome di Down, come è avvenuto recentemente nel per nulla progressista -per fortuna- stato dell’Indiana.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Tom Colucci, il capitano dei Vigili del Fuoco di New York diventa sacerdote

tomcolucciSe fino a ieri combatteva il fuoco degli incendi, oggi combatte le fiamme dell’inferno.

Le simpatiche freddure stanno accompagnando la singolare notizia che arriva dagli Stati Uniti: il capitano dei Vigili del Fuoco di New York (FDNY), Tom Colucci, è diventato da poco un sacerdote cattolico, mettendosi al servizio dell’arcidiocesi della città.

Il 21 maggio scorso, infatti, il card. Timothy Dolan, presidente della Conferenza Episcopale Americana, ha accolto ufficialmente Tom durante una speciale cerimonia nella St. Patrick. «Ho passato 20 anni a salvare la gente. Ora voglio salvare le loro anime», ha commentato l’ex vigile del fuoco, da qualche anno in pensione.

«Ho sempre pensato di farmi prete, ma poi sono entrato nei Vigili del Fuoco. Avvicinandomi al pensionamento, tuttavia, è ritornato il desiderio». Assieme a molti altri colleghi, il capitano Colucci ha partecipato e guidato le operazioni di salvataggio dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle dell’11 settembre, perdendo anche cinque compagni di lavoro. «Come vigile del fuoco ho visto tanta sofferenza e miseria. Ma come ho visto il peggio, ho anche ammirato il meglio di umanità. A volte ti chiedi: “Come può Dio permettere questo?“, eppure capita anche che le tragedie ti avvicinano a Dio. Ho capito che voglio aiutare le persone in questi percorsi spirituali».

Colucci non si è mai sposato, è entrato nei FDNY nel 1985. Si è ferito più volte, addirittura nel 2005 ricevendo l’estrema unzione. Dal primo giorno di pensione ha iniziato il percorso del seminario, il più anziano tra gli studenti seminaristi. Durante la recente ordinazione come sacerdote, sotto le vesti ha indossato una maglietta dei Vigili del Fuoco e una medaglia dedicata a San Floriano, loro patrono.

Il primo incarico importante che gli è stato affidato è celebrare la messa cittadina in occasione dell’anniversario dell’attentato terroristico a New York, l’11 settembre prossimo.

 

Qui sotto la notizia data dai telegiornali newyorkesi

 
 

Qui sotto le immagini della festa dei suoi ex colleghi dopo l’ordinazione

 

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il marchese De Sade fu coerente: senza Dio, solo l’esaltazione illimitata del proprio Io

de sade«Il solo Dio che esiste e che ha senso adorare è l’immagine esaltata del proprio Io. Non è questo il ritratto dell’uomo ipermoderno?». Interessante la riflessione odierna dello psicoanalista Massimo Recalcati, che sviluppiamo a nostra volta.

Senza Dio, l’uomo moderno inevitabilmente si concepisce come dio di se stesso e quindi, per coerenza, un essere onnipotente, privo di limiti. Ha proseguito Recalcati: «Egli agisce come un Dio del godimento che giudica ogni esperienza di rinuncia priva di senso. “Perché no?” è la sua sola massima morale, la quale scalza violentemente quella inutilmente “altruista” e sacrificale dell’amore per il prossimo».

Se esiste soltanto questa vita, la vera libertà è l’assenza di ogni limite, di ogni privazione. Recalcati chiama in causa giustamente il marchese De Sade. Non esiste alcun peccato, scriveva il “divin marchese” nel 1782 dalla prigione di Vincennes, soltanto «bisogni preordinati dalla natura o conseguenze ineluttabili» (D.A.F. de Sade, Dialogo fra un prete e un moribondo, Mondadori 1976, p.11). E oggi, il filosofo ateo Joel Marks, ripete: «Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».

Per De Sade, autore seriale di stupri e violenze (il “sadismo” è chiamato così in suo onore), non ha senso porre confini alla ricerca del piacere, perché esso è il principale impulso che proviene dalla nostra natura animale predeterminata. Le passioni e i piaceri sfrenati, scrive, «altro non sono che i mezzi di cui la natura si serve per condurre l’uomo a realizzare i disegni che essa stessa ha su di lui» (D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, Mondadori 1976, p.25). Il filosofo cattolico Roberto Timossi, giustamente commenta: «Se non c’è Dio, non ci sono sostanze spirituali, c’è solo la materia sensibile, e pertanto il piacere corporale è l’unico vero scopo dell’umana esistenza. Per De Sade, non si può essere atei e non essere immorali» (R.G. Timossi, Nel segno del nulla, Lindau 2016, p.367). L’edonismo come unico vero valore, perché senza Dio ogni limitazione al proprio soddisfacimento rappresenta una mancata autorealizzazione dell’uomo-dio.

Ci ha sempre incuriosito la posizione filosofica di De Sade perché la riteniamo, forse, la più coerente per chi vuole vivere prescindendo totalmente da Dio. Nessun bene, nessun male, nessuna inspiegabile e contraddittoria morale laica. Solamente l’Io che cerca continua soddisfazione ai suoi impulsi, ai suoi istinti e vive in funzione di essi. Ogni gesto altruistico (che guarda oltre sé, dunque), infatti, presuppone un valore nell’altro che non può ragionevolmente sussistere in una visione dell’uomo come frutto imprevisto del cieco caso della selezione naturale. Tanto che il marchese arriverà a scrivere: «Il destino di una donna è di essere come una cagna o una lupa: deve appartenere a tutti quelli che la vogliono» (D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, Mondadori 1976). L’essere umano ridotto all’animale, esattamente in linea con i tentativi del neodarwinismo riduzionista.

De Sade, seppur venga oggi celebrato a Parigi con tanto di mostre culturali, fu chiaramente un pazzo criminale. Ma ciò che è interessante è che il principio teorico della sua posizione esistenziale è espressione di un ateismo radicale e, finalmente, coerente: l’unico senso di questa vita priva di senso, può soltanto essere la ricerca sfrenata e illimitata del proprio insoddisfabile piacere. «Cosa sarebbe la vita del prossimo di fronte alla Legge assoluta del godimento?», si domanda opportunamente Recalcati. «Nulla, il solo Dio che esiste e che ha senso adorare è l’immagine esaltata del proprio Io. Non esiste nessun prossimo se non se stesso».

«Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!», scrisse De Sade in Nouvelle Justine (1797). Eppure, anche il “divin marchese”, dopo aver pienamente realizzato tutte le sue perversioni, arriverà a riconoscere qual è davvero il fondamento della sua esistenza: «quello del nulla», scriverà nel Dialogo fra un prete e un moribondo (Mondadori 1976, p.20). Il Nulla come unica alternativa a Dio, nessuna via di mezzo.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Eutanasia, la Chiesa contraria anche alla “vita a tutti i costi”

lettino 

di Maurizio Faggioni*
*docente di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale

da Toscana Oggi, 23/05/16
 

 

La vita e la salute sono un bene fondamentale della persona ed è ragionevole e, in certo senso, doveroso  per una persona prendersi cura di sé e della propria salute. La medicina previene e cura le malattie e, quando non è possibile, si prefigge di migliorare almeno al qualità della vita del paziente, come nel caso della medicina palliativa.

Non esiste, però, sempre e per ciascuno l’obbligo di usare tutti i molteplici mezzi che oggi la medicina ha a sua disposizione perché il mezzo terapeutico deve confrontarsi con la situazione concreta del paziente. Una prima valutazione, di natura strettamente biomedica, si basa sul rapporto mezzo/beneficio: si tratta di un rapporto di proporzionalità fra il mezzo terapeutico impiegato e i risultati attesi in termini di guarigione, di sopravvivenza e di miglioramento della qualità della vita.

Un mezzo è da ritenersi sproporzionato se ottiene pochi o nessun risultato e, comunque, se mezzi ingenti e sofisticati  conseguono risultati esigui. In certe situazioni una cura potrebbe risultare del tutto inefficace o, addirittura, nociva per il paziente perché ha effetti collaterali devastanti, come potrebbe essere il caso di un ciclo di chemioterapia in un fase terminale di un tumore. Non è ragionevole ed è, anzi, crudele verso la persona praticare una terapia che abbia l’unico effetto di  prolungargli la vita in un modo penoso, senza dargli speranze né di guarigione né di migliorare la qualità della sua vita. Si parla in questi casi di accanimento terapeutico ed è certo per la morale cattolica, che bisogna preservare i pazienti da inutili e dannosi accanimenti. In generale, la decisione di rinunciare a praticare un intervento terapeutico, per essere moralmente accettabile, non deve essere mossa dalla volontà di dare la morte perché sarebbe un desiderio omicida, né di darsi la morte perché non è ragionevole che un agente morale si realizzi autonegandosi.

In linea di principio una terapia proporzionata è doverosa per un paziente. Può darsi, però, il caso che una terapia, giudicata dai medici tecnicamente proporzionata e appropriata risulti, in una certa situazione, straordinaria e, quindi, non doverosa per quel particolare paziente in relazione alle sue condizioni fisiche, psicologiche, sociali ed economiche, come già insegnava Pio XII nel 1957. Si può, in buona coscienza, rinunciare o interrompere una terapia se questa è ragionevolmente percepita da un malato come insostenibile, rischiosa, gravosa o penosa. Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che talora può essere legittimo sospendere o rifiutare terapie «gravose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi» (CCC, n. 2278). Un malato con cancro al retto, per esempio, di fronte alla proposta di una terapia chirurgica estremamente demolitiva, potrebbe chiedere un intervento meno drastico e non comportante  una deviazione ( con il  famigerato «sacchetto»). L’intervento più demolitivo gli offrirebbe una prognosi migliore, ma la gestione del «sacchetto» potrebbe riuscire insopportabile per quel paziente che sarebbe, pertanto, legittimato in una scelta forse meno coraggiosa, ma più rispettosa della sua idea di qualità della vita.

Come insegna ancora il Catechismo al n. 2278, le decisioni sulle cure e sulle terapie devono essere prese dal paziente stesso, in dialogo con i medici nel contesto di una relazione fra persone, la cosiddetta alleanza terapeutica. Se il malato non è in grado di prendere queste decisioni subentrano i familiari o altri soggetti – secondo quanto previsto dalle leggi – che cercheranno di valutare oggettivamente quello che è meglio per lui.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace