Il mistero della Trinità: tre risposte alle domande più comuni

mistero trinità cristianesimo“Agostino, è più facile mettere tutta l’acqua del mare dentro a una buca che riuscire a mettere nella tua testa il Mistero della Santissima Trinità!”. Questo si sentì dire Sant’Agostino mentre meditava sul mistero del Dio uno e trino.

Se una mente così eccelsa ricevette un tale rimprovero dal Divin Maestro, non stupisce quanto poco possa essere compreso da noi contemporanei uno dei misteri più grandi della fede cristiana. Agli occhi del mondo la teologia cristiana appare talvolta complicata, meno semplice rispetto al monoteismo islamico. Eppure, a mio parere, è proprio questa sua inconcepibilità a dimostrarne la verità.

Nonostante vari tentativi, alcuni migliori di altri, la Trinità rimane tuttavia mistero. Ciononostante, la teologia non è rimasta muta: da Ireneo di Lione ad Agostino, da Scoto Eriugena a Tommaso d’Aquino, tutti i principali pensatori cristiani si sono confrontati con esso, dando ognuno un contributo decisivo e insuperabile. Alcuni dubbi si possono chiarire, prendendo spunto da quanto scrive il noto filosofo William Lane Craig rispondendo alle domande di un musulmano.

 

1) Come si può conciliare filosoficamente la Trinità con il monoteismo?
La risposta fu cercata già durante i primi secoli dell’epoca cristiana, durante i grandi concili della Chiesa. Tenendo presente che le persone della Trinità non erano tre divinità diverse, si affermò fin dal primo concilio che Padre, Figlio e Spirito Santo erano tre persone divine nella stessa essenza divina. L’essenza divina, cioè la sua natura, è ritenuta unica e indivisibile, ma “in” essa vi sono tre persone, di pari dignità, in tutto uguali, consustanziali (omoousioj in greco), diverse solo per quanto riguarda la relazione tra di loro. Come da una fiamma può rimediare tre diverse fiammelle divise tra loro, ma provenienti dalla stessa sorgente, così la Trinità. Solo l’uso dell’analogia può sfiorare il Mistero divino, poiché la sua essenza ci supera come il cielo supera il mare, e ancora di più.

2) Gli argomenti su cui si basa la dottrina trinitaria sono filosofici o scritturistici (cioè basati sulla Sacra Scrittura)?
A questa domanda la risposta è univoca: ogni argomento sulla Trinità è preso dalla Sacra Scrittura, e tutti i tentativi di dimostrare la Trinità razionalmente, come quello di Sant’Anselmo, non riescono a rendere adeguata ragione. Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo le parole evangeliche sono innumerevoli, tanto quanto le profezie veterotestamentari. Non solo nel Battesimo di Gesù abbiamo una manifestazione straordinaria della stessa Trinità, con lo Spirito che discende sul Figlio, ma lo stesso Cristo ne parla in diversi discorsi (durante il dialogo dell’Ultima cena, ad esempio, riportato da Giovanni). La Scrittura esprime l’unità inscindibile del Figlio, del Padre e dello Spirito Santo, quest’ultimo è sigillo della profonda comunione sussistente tra le persone divine. Se l’intero Nuovo Testamento non dovesse bastare, allora forse la trattazione dei Padri della Chiesa potrà soddisfare ogni domanda.

3) Se sono scritturistici, perché non dubitare dell’infallibilità della Sacra Bibbia come per altre nozioni, tipo date, numerici ecc.?
In questo caso è necessario fare delle distinzioni ben precise. Il Concilio Vaticano II insegna che l’autore della Sacra Bibbia è Dio stesso e che Egli stesso ispirò alcuni uomini (cfr. DV n.11). Questi autori non furono pennelli in mano all’Altissimo ma, nel pieno possesso delle loro facoltà, scrissero come uomini del loro tempo, con la mentalità e comprensione della realtà a loro contemporanea. Per questo all’interno dell’Antico Testamento troviamo affermazioni, resoconti e descrizioni che provocano oggi non poco scandalo. Per il Nuovo Testamento il discorso cambia: gli autori descrivono la vita del Messia, riportando ciò che gli apostoli hanno sentito dalle sue stesse labbra, sono resoconti fedeli di ciò che Gesù stesso insegnò, come ritengono i principali studiosi che ne hanno indagato l’autenticità storica.

 

Per chi considera la Trinità un’invenzione del primo cristianesimo propongo una riflessione. L’obbiettivo di tutte le religioni e dei loro testi sacri, compresi quelli cristiani, è quello di dare una risposta soddisfacente alla domanda di divino che si sprigiona dal cuore umano. Tuttavia nei testi cristiani, i Vangeli, troviamo un fattore inedito: il “fondatore” della religione e i capi della prima comunità vengono messi in cattiva luce. Non solo gli apostoli fuggono delusi al momento dell’arresto del Cristo, rinnegandolo, ma lo stesso Gesù Cristo, il Messia annunciato da tutti i profeti, il discendente di Davide, il futuro Re dei Re, viene condannato e messo a morte! Pessima pubblicità, diremmo noi. Eppure questa fu la Rivelazione che Dio decise di consegnare agli uomini.

Perché mai, allora, gli apostoli e i discepoli avrebbero dovuto inserire all’interno dei testi sacri una complicazione teologica enorme, come un Dio sussistente in tre persone? Non erano già tanti i problemi che incontravano? Ed infine, come avrebbero potuto questi pescatori ignari di ogni nozione teologica, inventarsi una cosa del genere, se già per noi, uomini contemporanei tracotanti di ogni sapienza teologica, è difficile concepire una verità tale? La miglior spiegazione è che il mistero della Trinità, per chi crede, è uno degli insegnamenti che Dio stesso ha voluto offrire agli uomini per aiutarli a comprendere meglio la Sua persona.

Luca Bernardi

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Darwin Day 2017, il biologo Bizzarri: «creazionisti e post-darwiniani, identici errori»

evoluzione creazioneOggi, 12 febbraio, si festeggia l’anniversario di Charles Darwin, padre della teoria evolutiva. Pubblichiamo qui sotto il contributo che ci ha inviato il dott. Mariano Bizzarri, docente di Patologia e direttore del Systems Biology Group dell’Università La Sapienza di Roma.

 
di Mariano Bizzarri*
*docente del Dipartimento Medicina Sperimentale – Università Sapienza Systems Biology Group Lab

 

È alquanto paradossale che la Chiesa Cattolica – nei suoi documenti e tramite le affermazioni dei suoi più alti esponenti, inclusi numerosi pontefici – abbia da sempre sostenuto la conciliabilità della fede Cattolica con la teoria dell’evoluzione, mentre il mondo Protestante, pur con differenze nelle sue plurime manifestazioni, ha da subito ferocemente avversato l’evoluzionismo.

 

Gli errori del creazionismo biologico.

Questo rilievo non è peregrino se solo si considerano alcune peculiarità dell’ideologia protestante che, in modo del tutto contraddittorio, da un lato proclama il diritto alla autonoma e libera interpretazione delle Scritture da parte di ciascun fedele, e dall’altro, a seconda dei casi, impone invece una lettura strettamente letterale. Il sottolineare la centralità della “lettera” assume in questo contesto un significato critico. È proprio l’adesione alla “lettera” della scrittura biblica che ha portato il mondo protestante anglosassone in un duplice cul de sac. Per i credenti affiliati ad una delle tante confessioni protestanti, l’adesione alla “lettera” ha necessariamente imposto il doversi conformare ad una vulgata della creazione che inevitabilmente assume i contorni del racconto magico e favolistico (“In sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, il mare, e tutto ciò che è in essi”, Esodo, 20,11). Per coloro che non credono, l’adesione alla medesima “lettera” ha fatalmente ispirato le ridicolizzazioni e le critiche più triviali, considerato quanto facile è stato argomentare come il racconto della creazione sia insostenibile dal punto di vista scientifico.

Invero questo atteggiamento – noto come “creazionismo biblico” – è tipico di alcune confessioni cristiane protestanti ed evangeliche che professano l’inerranza biblica, diffuse specialmente negli Stati Uniti d’America. Il mondo cattolico è essenzialmente estraneo a questa diatriba alimentata dal nulla, se non altro perché da sempre educato alla lezione paolina, per la quale “la lettera uccide, lo spirito vivifica” (2Cor, 3,6). Un richiamo analogo è quello che fa Dante quando, a proposito di scritture sacre, ricorda come sia necessaria una loro “interpretazione”, articolata su quattro livelli di significato possibili (Dante Alighieri, Convivio, Libro II, cap. primo, 2-15). Peraltro, la necessità di collocare lo sforzo ermeneutico in un contesto adeguato, individuando preliminarmente il “genere letterario” della Scrittura, sarà poi affermato da Pio XII nell’Enciclica Divino Afflante Spiritu (1943). In ultima istanza, la Bibbia non è un trattato scientifico, ma un libro sapienziale e come tale andrebbe rispettato.

Credo che proprio da questa confusione tra “spirito” e “lettera” nascano la maggior parte dei fraintendimenti moderni che, vogliamo sottolinearlo, sono venuti emergendo solo in tempi relativamente recenti. È infatti solo a partire dall’età dei Lumi che ci si è affannati a cercare tra le righe dei testi sacri la conferma e la legittimazione di quel corpus di conoscenze che andava costituendosi come “scienza”, cercando nei primi una impossibile concordanza con quanto veniva emergendo a valle della sperimentazione. Lo stesso caso di Galilei è stato tramandato in modo artatamente falsato, e con il chiaro intento di mostrare la inconciliabilità tra fede e scienza[1].

Tutto ciò è particolarmente vero nel contesto del dibattito sull’evoluzionismo, dove la posizione prevalente – riassunta in modo estremamente chiaro da Richard Dawkins (L’Orologiaio cieco, Mondadori 2003) – fa leva sulla teoria evoluzionistica per demolire qualunque ipotesi antropocentrica, e affermare l’inesistenza di Dio sulla base del fatto che l’emergere della Vita e dell’Uomo discendono da processi “ciechi”, assolutamente casuali. È alquanto paradossale, notiamolo en passant, come questi risoluti credenti nelle verità assolute della Scienza finiscano con il supportare teorie altrettanto inverosimili – sul piano dell’evidenza empirica – nel momento stesso in cui tanto si affannano a proclamare la loro assoluta adesione al manifesto ateo. È il caso, per esempio, di Francis Crick (Life itself, Simon & Schuster 1981), che, per spiegare la vita sulla Terra, ha elaborato la teoria della Panspermia (per la quale i “semi” vitali sarebbero stati diffusi da intelligenze extraterrestri).

 

Decostruzione del termine “evoluzione”.

Un primo problema si pone inevitabilmente quando ci si confronta con la necessità di assegnare un preciso significato al termine ‘evoluzione’, la cui decodificazione è oggi gravata dalla sovrapposizione di diversi livelli di analisi e dall’esigenza di coniugare la teoria evoluzionistica con sovrastrutture ideologiche meta-scientifiche. Per evoluzione si intende “il progressivo ed ininterrotto accumularsi di modificazioni successive, fino a manifestare, in un arco di tempo sufficientemente ampio, significativi cambiamenti morfologici, strutturali e funzionali negli organismi viventi” (Wikipedia). In questa ampia accezione si ritrovano un po’ tutti – con la significativa esclusione dei creazionisti, un movimento ambiguo attualmente prosperante pressoché esclusivamente nei paesi di cultura protestante.

La Chiesa Cattolica ha da sempre considerato verosimile che la vita sulla Terra sia riconducibile ad un “processo”, e non sia uno stato emerso improvvisamente dalle brume del caos. Già Sant’Agostino riteneva che, pur avendo Dio creato il mondo secondo un abbozzo rudimentale, gli avesse conferito delle “proprietà seminali”, principi per i quali la Natura avrebbe potuto svilupparsi ed evolversi nei modi in cui oggi lo conosciamo[2]. Questo è quanto, in modo più articolato, ripropone Papa Francesco quando sottolinea che “L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di Creazione, perché l’evoluzione presuppone la creazione degli esseri che si evolvono” (Discorso del Santo Padre Francesco in occasione dell’inaugurazione di un busto in onore di Papa Benedetto XVI, casina Pio IV, 27 ottobre 2014).

Sant’Agostino non manca inoltre di sottolineare che: “Supporre che Dio creò l’uomo dalla polvere con le mani è molto infantile … Dio non plasmò l’uomo con le mani né soffiò su di lui con la gola e le labbra”[3]. Nel solco di queste prime anticipazioni si sono mossi San Tommaso e innumerevoli altri autori di fede cattolica. Il tema è stato recentemente affrontato anche da alcuni pontefici, tra cui Papa Benedetto XVI, per il quale “La dottrina dell’evoluzione è per certo un’ipotesi importante, che però presenta decisamente molti problemi, i quali necessitano ancora di un’ampia discussione”. La chiosa di Papa Francesco prima ricordata si colloca pertanto in modo perfettamente coerente all’interno di una tradizione che, senza soluzione di continuità, può essere fatta risalire fino a Sant’Agostino.

Non si comprende quindi il livore con cui queste parole sono state stigmatizzate in ambito protestante, soprattutto grazie alla lettura distorta operata dal pastore Ken Harn, e successivamente auto-alimentatasi grazie alla diffusione via internet. Non vogliamo inseguire il Sig. Harn sul suo terreno – cominciando per esempio contestandogli l’equiparazione del Papa ad un ‘mago’ – ma riteniamo preferibile rimarcare le criticità evidenziate dal Santo Padre. Perché, infatti, il punto è precisamente questo. L’evoluzione è una teoria – parte di complessiva teoria della Biologia ancora di là da venire – di cui dobbiamo ancora capire quale sia il “motore”. Le “novità” sono realmente tali o sono variazioni su alcuni temi formali, discreti? Sono dovute a modifiche genetiche o intervengono altri fattori, come il condizionamento biofisico imposto dall’ambiente? Sono imposte dal “caso” o si dipanano lungo un percorso predefinito?

 

I limiti dell’Evoluzionismo.

Quello che la dottrina cattolica rifiuta è che il processo dell’evoluzione dipenda esclusivamente da mutazioni genetiche, emerse per caso e selezionate in base al fatto che queste, determinando un diverso fenotipo, gli conferiscano maggiori probabilità di adattamento e sopravvivenza. In sintesi, l’evoluzione non può essere guidata dal caso, definizione che in se è già un ossimoro dato che in linea di principio non si capisce come la stocasticità, da sola, possa conferire ordine e direzione ad un processo.

Questa è la critica di fondo che viene rivolta oggi, non tanto a Darwin (che era ben consapevole dei limiti della sua teoria), quanto ai suoi zelanti epigoni che, come spesso accade, si rivelano essere più “realisti del re”. Di fatto, la teoria evoluzionistica così come ci viene consegnata dai post-darwiniani viene oggi estesamente criticata e discussa in ambito scientifico – basti pensare ai contributi apportati in tale direzione da Steven Jay Gould, Stuart Kauffman o Carl Woese, tanto per citarne alcuni. La riscoperta di una eredità di tipo Lamarkiano, del trasferimento orizzontale dei geni o delle modificazioni ereditate per via epigenetica materna, hanno inoltre contribuito a modificare in modo sensibile l’impianto della teoria di Darwin e ne impongono una profonda rivisitazione.

 

Considerazioni di uno biologo credente.

È veramente curioso che le posizioni più estreme ed intransigenti oggi sul tappeto – il post-darwinismo alla Dawkins e il creazionismo dei tanti predicatori di intolleranza, come il Sig. Ken Harn – militino entrambe nel campo anglosassone protestante. In entrambi i casi si riafferma la fede in un principio deterministico assoluto, centrato sul caso o su un “dio” meccanico, responsabile di ogni sia pur infinitesimale dettaglio. Si comprende subito come l’impostazione filosofica soggiacente sia la medesima. In entrambi i casi viene negata alla Vita quella Libertà che, seppur vincolata alle leggi del creato, costituisce il messaggio primo della Sacra Scrittura. Sia per Dawkins quanto per Harn, la Vita e l’Uomo sono regolati da un “orologiaio”: comunque cieco, perché sia esso il Caso o Dio, procede indifferente al decorso della Storia dell’Uomo. L’intuizione di Sant’Agostino è oggi invece più feconda che mai: perché preserva la libertà dell’Uomo nel contesto di un processo evolutivo che si dipana in accordo alle leggi della Natura che, in se stesse, non hanno nulla di arbitrario.

Il mio lavoro quotidiano è propriamente centrato sulla ricerca e la comprensione di quelle leggi che riescono a coniugare la “libertà” con la “necessità”. Non c’è nulla di arbitrario e casuale – ed aveva quindi ragione Einstein nel ricordare come “a Dio non piaccia giocare ai dadi” – ma neanche nulla di “preordinato”: l’organismo vivente ‘esplora’ uno spazio di possibilità, ristretto ad un numero ‘discreto’ di potenzialità ammesse dalle leggi di Natura. Entro questi limiti si svolge l’evoluzione e gli stessi processi che ricapitolando la filogenesi, portano alla ontogenesi. Questa evidenza è per me constatazione quotidiana, emergendo dal vivo della stessa sperimentazione scientifica. Come tale non solo mi riconferma nella bontà dell’impianto teorico che permette di riconciliare aspetti apparentemente contrapposti in Biologia – come si fa a coniugare evoluzione e permanenza di alcune forme ‘fondamentali’? Come conciliare cambiamento e omeostasi? Come fa un organismo a rimanere se stesso pur cambiando continuamente? – ma mi ribadisce nella sapienza delle Scritture, quando correttamente interpretate nel rispetto della loro complessità ermeneutica. Soprattutto mi aiuta a riscoprire, ogni giorno, dietro ogni fenomeno quella mano invisibile che ci fa sentire vicino Dio. Anche nel mio laboratorio.

 

Note
[1]^ Galilei non si limita a rivendicare l’autonomia della scienza dalla religione, afferma anche che essa è infallibile, se rettamente intesa (secondo criteri da lui stesso definiti); e che, mentre gli scienziati, se applicano fedelmente il metodo sperimentale, non possono sbagliare, possono invece sbagliare quei teologi che pretendono di leggere le Scritture prendendole alla lettera, laddove esse parlano un linguaggio figurato, specialmente riguardo alle verità naturali. In altri termini Galilei sembrerebbe voler mettere la Teologia sotto tutela della Scienza. Non solo, ma il ragionamento galileiano implica che la matematica permetta agli uomini di raggiungere la verità con la medesima grado di certezza di Dio, proprio perché Dio conosce in modo “matematico” e pone all’origine del mondo leggi conoscibili grazie alla matematica.
[2]^ Alcune citazioni di Sant’Agostino sono particolarmente illuminanti al riguardo: “Nel granello dunque erano già presenti invisibilmente tutti insieme gli elementi che nel corso del tempo si sarebbero sviluppati per formare l’albero; allo stesso modo dobbiamo immaginare il mondo, quando Dio creò simultaneamente tutte le cose, conteneva simultaneamente tutti gli elementi creati in esso e con esso quando fu fatto il giorno […]. Conteneva inoltre gli esseri che l’acqua e la terra produssero virtualmente e causalmente, prima che comparissero nel corso dei tempi e che noi ora conosciamo come opere che Dio continua a compiere fino al presente” (De Genesi ad litteram, V, 23,44. “[…] un’altra cosa sono i [semi] misteriosi con i quali, al comando del Creatore, l’acqua ha prodotto i primi pesci e i primi volatili, la terra i primi suoi germogli ed i suoi primi animali secondo la loro specie. E nella realizzazione di queste prime nascite non si esaurì la forza vitale di quei semi […]”. De Trinitate, III, 8, 13. [Le creature] acquistano e perdono perfezioni, secondo l’esigenza e il movimento delle realtà, […] perché per Divina Provvidenza tendono a quel risultato che il razionale ordinamento dell’Universo implica”. Ibidem, XII, 5.
[3]^ De Genesis contra Manicheos, cit. in Andrew Dickson White, Project Gutenberg A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom, vol. 1, New York, Londra, D. Appleton & Companyc, 1922 [1896].
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«La medicina moderna nasce nel cattolicesimo», parola di ricercatore

«La Chiesa ha un ruolo importante nella storia della medicina. I primi ospedali sono nati come rifugi dei pellegrini, dei poveri e dei malati (qualcosa mai esistito prima), seguendo il comando cristiano dell’amore del prossimo». A dirlo è il dott. José Alberto Palma, laureatosi in Neuroscienze all’Università di Navarra e attualmente professore di Neurologia presso la New York University.

Il dott. Palma è anche recente autore del libro Historia negra de la Medicina (Ciudadela 2016), nel quale ha raccolto i più assurdi, spiacevoli e terrificanti trattamenti medici applicati nel corso dei secoli dai suoi colleghi medici. Non mancando, comunque, di produrre un buon testo divulgativo e storico.

L’inizio della medicina moderna è dovuta alle «scoperte del francese Louis Pasteur, del tedesco Robert Koch, dell’ungherese Ignaz Semmelweis, dell’inglese Joseph Lister e dello scozzese Alexander Fleming», ha spiegato in un’intervista il ricercatore spagnolo. «Fino a quando questi eroi della medicina non sono entrati nel mondo, era vivamente consigliato di rimanere ben lontano dai medici». A patto, però, di essere curati in ambienti cattolici. Infatti, ha proseguito, «in questi ospedali o rifugi, gestiti da ordini religiosi o dalle diocesi, sono state effettuate cure di base. I pazienti sono stati curati da monaci o monache e raramente dai medici, era un’assistenza abbastanza semplice e, allo stesso tempo, più sicura di quella che ricevono i pazienti nelle mani di ricchi medici famosi».

Ma la storia ha anche visto un’abbondanza di prestigiosi medici cattolici, «i cui risultati sono stati essenziali per il progresso della medicina». L’elenco è lungo: il gesuita Athanasius Kircher (il primo ad usare un microscopio per indagare le cause delle malattie), padre Kircher (primo a teorizzare i microorganismi come causa di malattie trasmissibili), il gesuita Christoph Scheiner (primo a dimostrare la formazione dell’immagine capovolta nella retina dell’occhio), il monaco Gregor Mendel (padre della genetica), Louis Pasteur e Alexander Fleming (le cui scoperte hanno permesso il trattamento delle malattie infettive). Arrivando a tempi più moderni, il dott. Palma ha citato come esempio il neuroscienziato cattolico John Eccles (premio Nobel 1963) e l’americano Joseph Murray (premio Nobel 1990).

Per chi volesse approfondire il ruolo della Chiesa nell’invenzione dell’ospedale moderno, può riferirsi agli studi di Giorgio Cosmacini, ritenuto il maggior storico della medicina italiano, docente di Storia della medicina presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e presso l’Università degli Studi di Milano. Cosmacini è autore di “L’Arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi” (Editori Laterza 2001), in cui si legge che la medicina araba, lungi dall’aver inventato qualcosa, ha «il principale, se non unico, merito di aver trasmesso la medicina antica e bizantina» (p.144), ed infatti, ha proseguito lo storico italiano, «bastano le dita di una mano per numerare i maggiori protagonisti della medicina araba» (p.147).

Il cristianesimo, invece, ha assimilato le conoscenze mediche greche e bizantini, fondando i lebbrosari, ovvero «un aspetto dell’esordio generale dell’assistenza ospedaliera» (p.113). E ancora: «E’ dal Medioevo non pagano, ma cristiano, che vennero emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina» (p.117), sopratutto per quanto riguarda l’innovativo valore dell’accoglienza, dell’assistenza, dell’ospitalità (“ospedale”). Infatti, «fu il Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas», da cui appunto presero il nome gli ospedali, inizialmente chiamate “case ospitali” o domus episcopi poiché «sorgevano accanto alle residenze vescovili, erano gli archetipi delle istituzioni ospitaliere» (p.118).

La redazione

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Padre Lombardi: «testimonio la vicinanza di Ratzinger a Francesco»

ratzinger continuità francescoHa servito fedelmente gli ultimi tre Papi, ne ha preso le difese davanti al mondo ed ha fatto loro da portavoce. E’ stato Benedetto XVI nel 2006 a scegliere padre Federico Lombardi come direttore della sala stampa vaticana e suo stretto collaboratore.

Oggi, anniversario della rinuncia al ministero petrino del Papa emerito, Lombardi ha voluto raccontare lo straordinario rapporto di fratellanza tra Francesco e il suo predecessore.

Con il Papa emerito ha stretto un legame molto intenso, padre Lombardi ne ha parlato in occasione della sua nomina -non a caso-, a presidente della Fondazione Ratzinger. Per tre anni ha proseguito il suo ruolo con Bergoglio, che ha rivoluzionato lo stile comunicativo: «Francesco lo fa con una fisicità e una spontaneità straordinarie. E poi elimina papamobili e blindati, e questo la gente lo capisce. Come qualità individuale non penso sia molto diverso dagli altri papi, ma come efficacia di manifestazione per un popolo Francesco è straordinario».

In un’altra intervista, pubblicata ieri, padre Lombardi ha raccontato di aver avuto modo di incontrare più volte Benedetto XVI negli ultimi mesi, sopratutto dopo la responsabilità di guida della Fondazione Ratzinger. «L’ho trovato perfetto dal punto di vista della lucidità, della presenza spirituale, mentale, e quindi è un vero piacere stare con lui», seppur le forze fisiche diminuiscano con la vecchiaia. «Credo che sia veramente molto bello avere il Papa emerito che prega per la Chiesa, per il suo successore. È una presenza che noi sentiamo, sappiamo che egli c’è e anche se non lo vediamo spesso, quando lo vediamo siamo tutti molti contenti perché gli vogliamo bene».

Il rapporto con Francesco è di aperta stima reciproca e si realizza in una «discreta e serena vicinanza spirituale al suo successore che sente certamente – come ci ha detto molto volte – anche il sostegno di questa presenza e di questa preghiera e che coltiva questo rapporto, a volte con delle visite, a volte con delle chiamate telefoniche, certamente con molti segni di familiarità, di rispetto e di attesa del sostegno spirituale. Quindi sì, stiamo vivendo questa realtà inedita, ma è bella, è consolante; direi che tutte le volte che vediamo delle immagini di Papa Francesco e il suo predecessore insieme, è una grande gioia per tutti ed è un bell’esempio di unione nella Chiesa, nella varietà delle condizioni».

Ricordiamo -i riferimenti alle fonti è possibile trovarli nel nostro dossier– che nel 2014 Benedetto XVI ha scritto di «essere legato da una grande identità di vedute e da un’amicizia di cuore a Papa Francesco», mentre nel 2016 ha condiviso totalmente il cuore del magistero del suo successore: «la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea». Nel giugno 2016, intervenendo pubblicamente per la prima volta da Papa emerito, si è rivolto a Francesco con queste parole: «Grazie soprattutto a lei, Santo Padre! La sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. La sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto. Grazie anche della parola di ringraziamento, di tutto. E speriamo che lei potrà andare avanti con noi tutti su questa via della Misericordia Divina, mostrando la strada di Gesù, verso Gesù, verso Dio».

Nell’intervista concessa a Elio Guerriero, nel 2016, Ratzinger ha aggiunto: «vi è il sentimento di comunione profonda e di amicizia con il mio successore. Rimasi profondamente toccato fin dal primo momento dalla straordinaria disponibilità umana di papa Francesco nei miei confronti. Da allora mi ha fatto dono di un rapporto meravigliosamente paterno-fraterno. Spesso mi giungono quassù piccoli doni, lettere scritte personalmente. Prima di intraprendere grandi viaggi, il Papa non manca mai dal farmi visita. La benevolenza umana con la quale mi tratta, è per me una grazia particolare di quest’ultima fase della mia vita della quale posso solamente essere grato. Quello che dice della disponibilità verso gli altri uomini, non sono solamente parole. La mette in pratica con me». Infine, nel libro Ultime conversazioni (Garzanti 2016), Papa Benedetto sottolinea la continuità con il successore: «Francesco è l’uomo della riforma pratica. Naturalmente si possono fraintendere alcuni punti per poi dire che adesso le cose vanno in modo del tutto diverso. Se si prendono singoli episodi e li si isolano, si possono costruire contrapposizioni, ma ciò non accade quando si considera tutto l’insieme. Forse si pone l’accento su altri aspetti, ma non c’è alcuna contrapposizione». Con lui, ha aggiunto Ratzinger, «c’è una nuova freschezza in seno alla Chiesa, una nuova allegria, un nuovo carisma che si rivolge agli uomini, è già una bella cosa».

Ricordiamo che nessuna di queste parole di Benedetto XVI ha mai trovato spazio nelle pagine web dei giornalisti, sedicenti ratzingeriani, che dicono di amare la verità e l’informazione corretta, mentre denunciano ossessivamente una presunta (quanto falsa e smentita dallo stesso Ratzinger) discontinuità tra il pontificato del Papa emerito e quello del suo successore.

 

Qui sotto una delle interviste a padre Federico Lombardi

 

La redazione

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Religiosità attiva migliora benessere e matrimonio: la ricerca conferma

Uno dei nostri numerosi dossier si occupa del rapporto tra religiosità e benessere psicofisico, legame confermato in modo ormai indubitabile dalla letteratura scientifica.

Proprio nel luglio 2016 uno ennesimo studio ha concluso che «ci sono prove per le donne degli Stati Uniti che una maggiore frequenza alla partecipazione religiosa ha diminuito il rischio di depressione». L’ultima ricerca ad affrontare il tema è stata quella realizzata dal prof. Tyler J. VanderWeele, docente di Epidemiologia presso la Harvard School of Public Health, pubblicata nel libro “Spirituality and Religion within the Culture of Medicine: From Evidence to Practice”, edito dalla Oxford University Press.

Sintetizzando i risultati, l’analisi ha messo in correlazione causale la presenza alle funzioni religiose con tutta una serie di risultati di buona salute, fisica e mentale, tra cui una maggiore durata della vita, una minore incidenza della depressione e un minor tasso di suicidio. Inoltre, i risultati correlano la religiosità ad un miglior rapporto coniugale e un minor tasso di divorzio: per la precisione i fedeli cristiani impegnati nella loro parrocchia hanno sperimentato il 47% in meno di probabilità di divorziare.

Il prof. VanderWeele ha spiegato che «la religione, naturalmente, non ha come scopo principale quello di promuovere la salute fisica o diminuire la probabilità di divorzio, ma di entrare in comunione con Dio. Tuttavia, si scopre che il perseguimento di questo obiettivo ha anche profonde implicazioni per molti altri aspetti della vita, compresa la salute e il matrimonio. La religione può essere infatti intesa come il perseguimento di completo benessere umano: fisico, mentale, sociale e spirituale. La religione è sia la comunione con Dio che il ripristino di una completa integrità e benessere. L’evidenza suggerisce che può effettivamente può realizzare entrambe le cose».

L’epidemiologo di Harvard ha precisato, tuttavia, che questi benefici non si verificano in chi coltiva una spiritualità intimista, staccata dalla comunità religiosa, poiché «nel caso della stabilità del matrimonio, infatti, le comunità religiose possono fornire importanti insegnamenti sulla natura sacra del matrimonio e diventare un sostegno supplementare per famiglie e bambini, nonché offrire un senso di comunità con valori condivisi. Queste cose non necessariamente nascono nella spiritualità solitaria».

«Così», ha concluso il ricercatore, «per coloro che già si considerano religiosi, sia la frequenza al servizio religioso che la preghiera comune possono essere risorse vitali per rafforzare il matrimonio e la fiducia, e per promuovere una vita più felice, più sana e più piena».

La redazione

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I “bambini transgender”? No psicologo, «sopprimiamo la pubertà»

trans bambiniHa fatto notizia l’inchiesta del quotidiano Avvenire, firmata da Luciano Moia, sulla scelta della rivista National Geographic di piazzare nella copertina dell’ultimo numero un bambino vestito e acconciato da bambina, Avery Jackson.

Il piccolo ha nove anni ed è già una star di Youtube a causa dei video pubblicati dalla madre, Debi Jackson, orgogliosa di avere un figlio con problemi di identità e al colmo della felicità per l’iniziativa della rivista: #transisbeautiful, ha scritto freneticamente su Twitter. Gender revolution è il titolo scelto dal National Geographic e, tra gli articoli pubblicati, si sostiene che gli stereotipi di genere (trattare i bambini come bambini, e le bambine come bambine) danneggerebbero i figli. L’American College of Pediatricians ha definito l’iniziativa un «abuso sui minori istituzionalizzato».

Marco Cattaneo, direttore del National Geographic Italia, ha tentato di giustificarsi assicurando il punto di vista imparziale della rivista sul tema. Nessuno ci crede, ovviamente. Basterebbe osservare il comportamento della giornalista che ha condotto l’inchiesta, Susan Goldberg, platealmente schierata a favore dell’ideologia gender. Il suo profilo Twitter è un proliferare di interviste a “testimonial” che invitano a «superare le limitazioni del sesso», scrivendo che «XX e XY, blu e rosa, non dicono la storia completa, è il momento di scrivere un nuovo capitolo per assicurare che tutti possano prosperare in questo mondo, non importa ciò che è il nostro genere o la decisione di non identificarsi in un genere». La Goldberg invita a «superare la “binarietà” maschile e femminile» per «rivolgere uno sguardo nuovo al problema del genere». Questo sguardo nuovo, ha replicato Luciano Moia al direttore Cattaneo, è «quello che pretende di dissolvere la bellezza e la verità del genere femminile e di quello maschile in un indistinto “middle sex” o “gender fluid” (uso ancora termini che leggo nel vostro dossier)?». Davvero hanno fatto il suo bene «gli adulti che hanno trasformato la piccola Avery Jackson in una testimonial dell’ideologia transgender, inducendola a riferire concetti del tutto incredibili per una bambina di nove anni?». Domande a cui Cattaneo non risponderà.

La ricercatrice Sofia Bisogni dell’Università degli Studi di Firenze si è occupata dei disturbi dell’identità di genere (DIG) in età pediatrica, constatando che «secondo alcune stime tra l’80% ed il 95% dei bambini con DIG in età prepuberale risolve il disturbo di identità prima dell’adolescenza». Dati che non vengono riportati sul dossier del National Geographic. La Bisogni ha anche ricordato che «secondo gli standard olandesi, i bambini affetti in maniera stabile da un DIG possono essere sottoposti a terapia ormonale per la soppressione della pubertà». Il percorso di transizione, con lo scopo di sviluppare «i caratteri sessuali relativi al sesso desiderato», viene ultimato attraverso la «la chirurgia demolitiva e ricostruttiva». Le ha fatto eco sull’Espresso Chiara Simoncelli, che ritiene la soppressione della pubertà, per permettere loro di avere tempo per decidere se cambiare o meno il sesso, «un valido contributo nella gestione clinica della disforia di genere negli adolescenti, un primo passo verso un percorso che prevede ancora diverse altre tappe e verifiche per poter raggiungere l’identità a cui si aspira». E cosa dire a chi ritiene, come il meccanico di 46 anni Paul Wolschtt, che la sua vera identità è essere una bambina di 4 anni? Oppure chi aspira essere un gatto, come la giovane norvegese di nome Nano? Assecondiamo anche le loro aspirazioni?

Al posto di riconoscere che si tratta semplicemente di bambini confusi, probabilmente mal influenzati da pessimi genitori e da un pessimo ambiente di crescita, piuttosto che accompagnarli all’accettazione di sé, avvalendosi degli esperti della salute mentale, si diventa complici della confusione. Si assecondano le loro fantasie, si offre loro l’illusione di poter davvero “decidere di che sesso essere”, sottoponendoli a bombardamenti ormonali, blocco della pubertà e chirurgia demolitrice per nascondere e modificare le parti anatomiche indesiderate (senza risolvere il problema, ma aggravandolo come dimostrano gli studi più recenti). Come se l’essere uomo o donna si risolvesse nell’avere un seno finto o una ricostruzione dell’apparato riproduttore.

«Il bambino o l’adolescente che hanno dubbi sulla propria identità non vanno incentivati a coltivare questi dubbi e ciò vale anche per i loro genitori», ha spiegato Furio Pesci, docente di Storia della pedagogia all’Università La Sapienza di Roma. «In certe fasi dello sviluppo, insistere per presentare alcune tendenze come non soltanto normali ma persino preferibili, secondo me è innanzitutto un errore psicologico e pedagogico. Che un quattordicenne possa sentirsi a disagio nei panni del suo sesso non è assolutamente sintomo di omosessualità. Lasciando agli psicologi indicazioni più specifiche, nell’età evolutiva, è opportuno non inculcare alcun dubbio, perché è in atto un percorso evolutivo che ha solo bisogno di tempo»«Travestirsi anche fisicamente da donna è un bell’insulto alle donne nate donne. Scimmiottare le sembianze femminili degrada il valore dell’essere donna», ha dichiarato la femminista Germaine Greer. «L’intervento chirurgico non trasforma un uomo in una donna. Il messaggio è che un uomo che si impegna così tanto per diventarlo, sarà una donna tanto quanto chi è nata come donna».

Lo psichiatra americano Paul R. McHugh, professore Emerito di Psicologia presso la prestigiosa Johns Hopkins University School of Medicine, dove è stato presidente del Dipartimento di Psichiatria, ha scritto: «il “cambiamento di sesso” è biologicamente impossibile. Le persone che si sottopongono ad un intervento chirurgico per cambiare sesso non cambiano da uomini in donne o viceversa. Piuttosto, essi diventano semplicemente uomini o donne femminizzati o mascolinizzati. Affermare che questa è materia per i diritti civili e incoraggiare l’intervento chirurgico è, in realtà, collaborare e promuovere un disturbo mentale». Per quanto riguarda i giovani, ha proseguito il celebre psichiatra, «i trattamenti devono iniziare con la rimozione del giovane dall’ambiente suggestivo che lo confonde, offrendo a lui un contro-messaggio in terapia familiare». Inoltre, «dobbiamo sfidare il concetto solipsistico che ciò che è nella mente non può essere messo in discussione. I disturbi della coscienza, dopotutto, rappresentano il dominio della psichiatria. La maggior parte dei pazienti trattati chirurgicamente hanno descritto se stessi come “soddisfatti” dai risultati, ma i loro adattamenti psico-sociali successivi non erano migliori di quelli precedenti l’intervento chirurgico. Per questo alla Johns Hopkins abbiamo interrotto gli interventi chirurgici per cambiare sesso».

Anche tutto ciò non compare nella “imparziale” inchiesta del National Geographic.

La redazione

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Salomone Leclercq, uno dei tanti “Giordano Bruno” dell’ateismo

Perché ricordare le migliaia di cristiani, cattolici, protestanti ma sopratutto ortodossi, uccisi in nome dei vari ateismi di Stato instaurati nelle principali dittature comuniste: da quella sovietica a quella albanese, da quella cambogiana a quella nordcoreana?

Lo abbiamo fatto tante volte, è una risposta a chi inneggia ossessivamente ai “crimini del cristianesimo”, incolpando la religione cristiana in quanto tale per i tremendi errori commessi da singoli (sedicenti) cristiani o uomini di Chiesa. Se le cose stanno così e se si vuole restare coerenti, allora bisognerebbe incolpare l’ateismo in quanto tale come causa delle tremende stragi commesse dai dittatori atei, oltretutto non migliaia di anni fa, ma nel secolo scorso.

Un altro must dell’anticlericalismo è citare la morte sul rogo di Giordano Bruno come esempio di tirannia della Chiesa cattolica verso il libero pensiero. Seppur il caso di Bruno vada decisamente ridimensionato rispetto alla “leggenda” divulgata, come abbiamo fatto avvalendoci del lavoro dello storico non credente Luigi Firpo, non si può evitare di ribadire la più totale disapprovazione verso questo episodio e verso le concezioni e gli usi dei tempi.

Sulla stessa linea, tuttavia, vorremmo ricordare anche uno dei tanti “Giordano Bruno” martirizzati dall’intolleranza laicista. Salomone Leclercq era un religioso cattolico francese, ucciso dai rivoluzionari francesi il 2 settembre 1792 nel giardino di un convento carmelitano, trasformato in una prigione, assieme ad altri 200 sacerdoti cattolici. Un sacerdote francese, insegnante ed economo di una scuola, conosciuto per il suo grande amore alla gente e al suo lavoro.

Nel 1790, in piena Rivoluzione francese, lo Stato prese il completo controllo sulla Chiesa di Francia, vendendo le sue proprietà, chiudendo tutte le scuole cattoliche di Parigi e mettendo al bando le funzioni, le abitudini religiose e i paramenti in pubblico. Il clero e i religiosi vennero inoltre obbligati a giurare fedeltà al nuovo governo, pena l’allontanamento dalla Francia. Gran parte di essi, tuttavia, si rifiutò e in 25mila vennero espatriati. Molti rimasero in clandestinità, Salomone fu uno di questi ma il 15 agosto 1792 venne arrestato e imprigionato nel monastero di Hôtel des Carmes di Parigi. Come detto, venne in seguito ucciso dagli illuministi nel successivo settembre assieme a centinaia di altri preti, rei di aver rifiutato la sottomissione agli “ideali democratici” della rivoluzione francese..

Il 17 ottobre 1926 Papa Pio XI lo ha beatificato assieme a 188 martiri cattolici uccisi nel massacro di settembre. Il 16 ottobre 2016 Papa Francesco lo ha dichiarato santo, dopo la constatazione di un miracolo a lui attribuito di una ragazza venezuelana morsa da un serpente velenoso.

Come ha scritto lo storico tedesco Michael Hesemann, «nel nome della gloriosa rivoluzione francese, che portava sui suoi stendardi il motto “libertà, uguaglianza e fraternità”, nel giro di un anno furono uccise più persone di quante erano morte nella crociata contro i catari, nei “secoli bui” del Medioevo, e di quante erano state le vittime dell’Inquisizione nei suoi cinquecento anni di storia in Europa. Questi morti furono uomini e donne che facevano parte della Chiesa: vescovi e preti, monaci e suore. Il loro unico “crimine” fu la fedeltà alla loro fede» (M. Hesemann, Contro la Chiesa, San Paolo 2009, p. 276).

Abbiamo sempre trovato sciocco accusare di complicità chi ha una visione diversa dalla propria ricordando gli errori commessi nella storia da chi abbracciava le sue stesse convinzioni. Se però qualche antireligioso non può proprio farne a meno, almeno ricordi che il gioco potrebbe risultargli controproducente.

La redazione

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Il mea culpa di Socci. Grazie Antonio, ora ti riconosciamo

antonio socci«D’ora in poi, se mi occuperò della situazione della Chiesa, eviterò accuratamente di usare espressioni che possano involontariamente alimentare animosità e rancori». Un imprevedibile colpo di scena: Antonio Socci depone le armi.

Dopo quattro anni di viscerale istintività, ieri abbiamo riconosciuto l’intellettuale cattolico che conoscevamo. «Non sono uno a cui non piaccia il confronto, anche vigoroso e polemico», ha scritto sul suo sito web il giornalista, il più seguito animatore dell’odierno antipapismo. «Ma quella a cui stiamo assistendo è ormai una sorta di guerra civile tra cattolici, una criminalizzazione reciproca in cui non si ravvisa più molto di cristiano. E non va bene. Non si può andare avanti così».  Un bel gesto, gli fa onore. Forse una lettura un po’ esagerata della situazione, lo storico Enrico Galavotti parla più correttamente di “microcosmo antibergogliano” rumoroso e militante, al quale si sta opponendo un numero sempre maggiore di cattolici che finora hanno sopportato silenti.

Ma i toni sono troppo alti, è da mesi che lo diciamo cercando anche di correggere le infamanti strumentalizzazioni e falsificazioni del pensiero di Francesco, a costo di entrare nell’arena inimicandoci alcuni nostri stessi lettori. Socci però ha sorpreso tutti, annunciando il cambio di registro per non voler più «contribuire a questo clima da “guerra civile fra cattolici”». Perché, lo ammette, «ho dovuto constatare che nei confronti di papa Bergoglio, in particolare nei social, vengono usate da alcuni delle espressioni che sono del tutto inaccettabili». E, ha proseguito, non bisogna «usare parole o giudizi che travalicano la normale e corretta critica». Le pesanti offese, aggiungiamo noi, sono purtroppo rivolte anche ai cardinali Burke e Caffarra, come abbiamo dovuto constatare prendendo le loro difese.

Crediamo alle sue buone intenzioni ma, per restare fedele alla sua promessa, dovrebbe riconoscere che gran parte di queste inaccettabili espressioni contro Francesco sono uscite prima di tutto dalla sua stessa bocca. Solo tre giorni prima, ad esempio, parlava di «regime dispotico bergogliano», di un Papa amante dei «leccacalze che va su tutte le furie quando qualcuno osa confrontare il suo spietato dispotismo con la proclamata misericordia!». Questa non è una normale e corretta critica. In questi anni il giornalista di Libero ha accusato Papa Bergoglio di qualunque cosa: complicità ai dittatori anticristiani, di voler distruggere la Chiesa, di favorire l’aborto e la distruzione della famiglia, di odiare i cattolici, di sfruttare i poveri per farsi bello ecc. Francesco è stato indicato come responsabile diretto di ogni evento negativo: dai preti pedofili all’abbandono delle vocazioni, dai discorsi controversi di un prete in periferia ai titoli sbagliati di una testata cattolica, dagli attentati terroristici al calo demografico. Contro il Papa ha usato estrapolazioni di frasi dei suoi predecessori, di santi e mistici, accompagnate da sgradevoli fotomontaggi. Senza parlare della guerra civile che il giornalista ha mosso contro i colleghi cattolici di Avvenire e di Vatican Insider.

 

libri socci bergoglio

 

Da questo piccolo estratto, si capisce l’importanza dell’annuncio di Socci di voler intraprendere un comportamento cristiano: «Ho deciso di tirarmi fuori da questa mischia, eviterò accuratamente di usare espressioni che possano involontariamente alimentare animosità e rancori, cercando le espressioni che più invitino al dialogo fraterno. E vorrei che questo “codice” fosse condiviso, così da riportare il confronto dentro i binari cristiani».

Rilanciamo il suo invito a pregare per il Santo Padre, perché possa essere più chiaro possibile nei suoi pronunciamenti, evitando qualunque incomprensione o ambiguità. Una preghiera anche ai “confusi”, perché affrontino la loro confusione non rivolgendosi a Facebook, ma ai riferimenti spirituali predisposti dalla loro diocesi locale, senza scaricare pubblicamente colpe su colpe al Pontefice. La perplessità su certi discorsi del Papa o su alcune scelte di governo è legittima se rispettosa, sappiamo tutti però che si è andati ben oltre alle “fraterne critiche” nella foga di voler correggere e redarguire il Vicario di Cristo dalla propria cameretta, in nome delle proprie effimere opinioni sulla dottrina cattolica e su cosa la Chiesa dovrebbe dire o fare. Il compito del cattolico è l’umiltà della figliolanza, non il relativistico ribellismo che conduce -questo sì-, alla confusione personale e altrui (sopratutto se si ha un certo seguito).

Chi non riesce a trattenere il livore, segua l’indicazione di Socci ad imitare lo stile rispettoso dei cardinali Burke e Caffarra. Proprio quest’ultimo, arcivescovo emerito di Bologna, ci ha lasciato un insegnamento magistrale (qui sotto).

 

Qui sotto le parole del card. Caffarra, uno dei firmatari dei Dubia (pubblicato anche sul nostro canale Youtube)

 

AGGIORNAMENTO 09/02/17
Purtroppo dopo solo poche ore, Antonio Socci si è già rimangiato la parola e ha ripreso a falsificare le parole del Papa, estrapolando una sua frase dal contesto per poterlo presentare in modo negativo. La diffamazione, quindi, prosegue e con essa la “confusione” dei suoi lettori.

bugie antonio socci

 
La redazione

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Scuola paritaria, come rispondere ai rossi statalisti

 
 
di Dario Antiseri*
*ordinario di Metodologia delle scienze sociali presso l’Università Luiss

da Il Giornale, 19/07/16

 

La scuola di Stato è un patrimonio grande e prezioso che va protetto, salvato; solo che quanti difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalle difficoltà in cui versa.

Esistono buone ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale. Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento. Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte – per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla scuola non statale.

Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi come introdurre linee di competizione nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.

Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al monopolio statale nella gestione della scuola. E questa non è un’idea di bacchettoni cattolici o di biechi e ricchi conservatori di destra. È la giusta terapia per i mali che necessariamente affliggono un sistema formativo intossicato dallo statalismo. Scriveva Gaetano Salvemini sull’Unità del 17 ottobre 1913: “Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere”. Nell’ambito del sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola privata – è ancora Salvemini a parlare – “rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica. Obbligandola a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta”. Di conseguenza: “Se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se i miei figli saranno educati male”.

“È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse”. E ancora: “Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio”. Questa una coraggiosa e lungimirante dichiarazione fatta tempo addietro da Luigi Berlinguer, al quale è legata la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” al “Sistema nazionale di istruzione” costituito dalla “Scuola pubblica statale” e la “Scuola pubblica paritaria”. Solo che dichiarare giuridicamente uguali Scuola statale e Scuola paritaria finanziando solo la prima e lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e irresponsabile.

Nei Paesi post-comunisti entrati nell’Unione Europea come nel caso di Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceka, Polonia la parità tra scuole statali e scuole non statali è stata introdotta in modo pieno. Ecco, per scuola non statale, la situazione nei Paesi europei: in Belgio gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato; in Spagna sono a carico dello Stato tutte le spese; in Portogallo è erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale; in Lussemburgo sono a carico dello Stato tutte le spese; in Inghilterra nelle maintained schools sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di funzionamento, oltre all’85% delle spese di costruzione; in Irlanda le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato, in misura completa per le scuole dell’obbligo e dell’88% per le scuole superiori; in Germania sono a carico dello Stato e delle Regioni (Länder) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%); in Francia sono possibili quattro alternative: a) integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato; b) contratto di assunzione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali; c) contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato; d) contratto di massima libertà che non prevede alcun contributo.

Dove il diritto alla parità tra scuola statale e scuola non statale è stato e viene tradito è in Grecia e in Italia. Qualche dato sulla situazione italiana. Nel 2012-13 il totale degli studenti iscritti era di 8.943.701, di cui 7.763.964 iscritti alla scuola statale e 1.036.403 iscritti alla scuola paritaria. Nell’anno 2013-14 gli studenti frequentanti la scuola in Italia ammontavano a 8.882.905, con 7.746.270 iscritti alla Scuola statale e con 993.544 iscritti alla scuola paritaria (di questi iscritti alla scuola paritaria 667.487 sono alunni delle scuole cattoliche). Nei due anni scolastici 2012-13 e 2013-14 la spesa per ogni allievo della scuola statale è stata rispettivamente di 6.411,16 e 6.414,57 euro; mentre il contributo medio dello Stato per ogni alunno della scuola paritaria è stato rispettivamente di 481,47 e di 497,21 euro: una autentica elemosina. E nel frattempo, in questi anni di crisi economica, molte famiglie, non potendo permettersi di pagare la retta, sono state costrette a ritirare il proprio figlio dalla scuola paritaria e iscriverlo alla scuola statale, con la conseguente chiusura di scuole non statali, anche di grande prestigio. Tra il 2012-13 e il 2014-15 si sono perse 349 scuole e 75.146 alunni delle scuole paritarie e 423 scuole e 48.066 alunni delle scuole cattoliche.

In Italia la scuola libera è solo libera di morire. E mentre non ci sono manifestazioni sindacali, occupazioni di scuole o convegni sulla scuola in cui non si lanciano slogan contro la scuola paritaria che succhierebbe risorse a scapito delle scuole statali, non ci si rende conto che le rette pagate dalle famiglie che iscrivono i loro figli alla scuola paritaria fanno risparmiare allo Stato circa sei miliardi di euro ogni anno. E, dunque, è la scuola paritaria a danneggiare la scuola statale, oppure è una politica cieca e irresponsabile di destra e di sinistra intossicata di statalismo – a danneggiare sia la Scuola statale che quella non statale?

Da più parti, e sino al fastidio, si è ripetuto e si ripete che le scuole private e segnatamente quelle cattoliche sarebbero luoghi di indottrinamento, a differenza delle scuole statali viste sempre come centri di costruzione di menti critiche. È chiaro che siamo di fronte a un’accusa generica e genericamente infamante. Insegnanti critici si trovano in scuole statali e in scuole non statali; così come guarnigioni di insegnanti dogmatici si trovano in scuole statali e non statali. Solo che dagli insegnanti dogmatici delle scuole statali, le famiglie, che non hanno la possibilità di mandare i propri figli in altre scuole, non possono facilmente difendersi. E che il dogmatismo abbia costituito una malattia grave di tanti docenti, soprattutto negli anni passati, è testimoniato dall’estesa diffusione di non pochi libri di testo per esempio, di filosofia, di letteratura, di storia non costruite di certo da menti scientifiche, aperte, capaci di dubbi e problematiche, libri di testo che non hanno sicuramente contribuito a formare menti critiche.

Altra obiezione, questa volta da parte di un noto giurista italiano: la Scuola deve rimanere saldamente e totalmente nelle mani dello Stato a motivo del fatto che sarebbe soltanto la scuola pubblica in grado di garantire la formazione del cittadino. Ed ecco la replica di Angelo M. Petroni: «La tesi è semplicemente falsa sul piano descrittivo (qualcuno può pensare che il cittadino inglese formato ad Eton sia peggiore del cittadino italiano formato nel migliore liceo statale italiano?). Ma evidentemente è ancora più inaccettabile sul piano dei valori liberali. Dietro di essa vi è l’eterna idea dello stato etico, di uno Stato che ha il diritto di formare le menti dei propri cittadini/sudditi, sottraendo i giovani alle comunità naturali e volontarie, prime tra le quali quella della famiglia».

Ma a difesa del monopolio statale nella gestione della scuola si trova schierato un battaglione di laici statalisti anticlericali convinti che le scuole a orientamento confessionale costituirebbero un pericolo per la democrazia in quanto centri di formazione di menti acritiche, dogmatiche. Quindi: via le scuole dei preti dal territorio della Repubblica! Aveva ragione Albert Einstein a dire che è più difficile distruggere un pregiudizio che disintegrare l’atomo.

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L’abiogenesi e la debole tesi sull’origine casuale della vita

giulio dante guerra Il nuovo libro di Giulio Dante Guerra, chimico dei biomateriali e ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), intitolato L’origine della vita (D’ettoris Editori 2016), risulta essere una sintesi ben documentata della debolezza delle ipotesi che asseriscono la nascita della vita come dovuta al “caso”.

Nell’introduzione, Guerra afferma che «per quanto riguarda l’origine della vita, si può dire che con certezza si sa che essa è stata assente dal nostro pianeta per lunghe ere geologiche, e che a un certo momento ha cominciato ad esistere. Qui cercherò di dimostrare che ciò non è avvenuto per puro caso». Inizialmente l’autore prende in considerazione le diverse teorie che hanno sostenuto la nascita della vita dalla “non vita” e che sono alla base della teoria dell’evoluzione. Mentre quelle più antiche ritenevano causa di questa nascita le “influenze astrali”, quelle più moderne non adducono ad essa alcuna causa. Queste ultime sono sorte nell’Ottocento illuminista e considerate una necessità alla base del materialismo.

L’autore si interessa del pensiero di Jacques Monod, espresso nel famoso Il Caso e la Necessità, evidenziando il fatto che il biologo francese parte da un assioma, come tale non dimostrato e non dimostrabile, secondo il quale “non esiste un progetto”, mettendone in luce così il carattere non scientifico e non filosofico. Il pensiero contemporaneo è permeato dalla stessa impostazione e l’assioma è diventato automaticamente certezza scientifica.

Il chimico Dante Guerra spiega che per quanto riguarda la nascita spontanea della vita, «l’atteggiamento moderno non è cambiato, è stata variata solo la semantica usando parole più sofisticate tipo “abiogenesi” e si è retrodatata questa “nascita” a lontanissime ere geologiche con supposte condizioni ambientali non verificate e non verificabili ma “ricostruibili in laboratorio” in cui sarebbe potuto avvenire quello che oggi è impossibile». E’ così che l’autore passa ad una analisi del famoso esperimento di Miller e di quelli seguenti che ad esso si sono ispirati, mettendone in evidenza il punto debole, cioè l’ipotesi non provata della composizione dell’atmosfera primordiale e il fatto che i prodotti ottenuti sono solo degli aminoacidi i quali, essendo solamente parti di complesse strutture chiamate proteine, tutto si possono ritenere fuorché “vita”. «Il passaggio dagli aminoacidi, che avrebbero dovuto interagire tra loro per formare polisaccaridi, polipeptidi, poi proteine, poi polinucleotidi e poi acidi nucleici, che messi assieme avrebbero dovuto formare i primi organismi, appare talmente complicato e improbabile che il sostenere che sia avvenuto per “caso” sembra più un atto di fede che una seria supposizione scientifica».

Una delle più grandi difficoltà nella costruzione di queste strutture organiche è la “chiralità” della maggior parte delle sostanze di origine biologica, dovuta alla dissimmetria sferica delle molecole. Parecchie di queste molecole possono cioè esistere in due versioni simili ma non non equivalenti, come lo sono la mano destra e la mano sinistra. L’origine di questa asimmetria è ancora avvolta nel mistero e visto che la composizione dell’atmosfera terrestre primitiva non poteva portare a ciò,  alcuni hanno proposto l’origine extraterrestre della vita, spostando il problema sugli altri pianeti dove si sarebbero potute avere condizioni diverse da quelle presenti sulla Terra.

Un altro problema evidenziato dal chimico italiano è che la sequenza degli aminoacidi per formare le proteine, come pure la sequenza delle basi negli acidi nucleici, è tutt’altro che casuale. Infatti, è evidente un contenuto di informazione in tali sequenze e -sostengo io-, il caso per definizione non può creare informazione. Inoltre, anche la sequenza del codice genetico «non può essere casuale perché deve rispondere a precise funzioni biologiche». Tale codice è pressoché universale e il problema consiste proprio nella sua origine e quella del suo codice di traduzione, con un meccanismo attuato solo dai composti codificati dallo stesso DNA: ciò appare come una clamorosa autoasserzione del detto “omne vivum ex ovo”, come ammise lo stesso Monod definendolo un “enigma”.

Prendendo in considerazione le teorie dell’origine della vita alternative rispetto a quelle che postulano il “brodo primordiale”, viene citata quella del biologo italiano Marcello Barbieri, detta “la teoria semantica dell’evoluzione” e criticata da molti perché evocherebbe «un fantasma di Progetto». Barbieri ha individuato una terza realtà presente nei sistemi biologici oltre alle due comunemente accettate: oltre alla chimica, tipica delle proteine, e l’informazione, tipica del DNA, anche “il significato”, tipico del codice genetico. Soltanto questo permetterebbe di trasferire alle proteine l’informazione del DNA. Tale teoria, seppur anch’essa abiogenetica, invoca come “causa” dei processi non il caso di Monod ma la necessità, cioè una struttura matematica anteriore e lo sviluppo della vita come conseguenza necessaria dalle leggi di questa struttura.

Dante Guerra non manca di analizzare i molteplici tentativi di creare in laboratorio la vita artificiale, sottolineando che, per quanto sofisticate potessero essere le procedure, non si mai riusciti a non usare parti vitali già esistenti, inoltre con risultati abbastanza deludenti. Si è finora trattato, quando c’è stato un minimo successo, di creazione di OGM, ben lontani quindi dalle caratteristiche che dovrebbe possedere una vera “vita artificiale”.  L’ultimo capitolo si apre con l’affermazione di San Tommaso, per il quale “l’ordine non può nascere dal caos”. Se nella fisica dei sistemi caotici si è visto che possono nascere degli stati di ordine, in biologia -spiega l’autore- “ordine” va inteso «non come una semplice aggregazione di molecole e macromolecole ma l’esistenza di una forma organizzatrice, l’essere vivente, che costruisce e ordina queste molecole secondo un progetto strutturale; è un sistema cibernetico dotato di un grado di informazione superiore a quello delle singole parti che lo compongono». Il biofisico Michael Polanyi aveva un concetto chiaro di questo problema nel momento in cui diceva: «quando affermo che la vita trascende la fisica e la chimica intendo dire che la biologia non può spiegare la vita in termini di semplici azioni di leggi fisiche e chimiche. Un libro o qualunque altro oggetto recante un modello che comunica informazione, è irriducibile nella sua essenza alla fisica o alla chimica. Ne segue che dobbiamo rifiutarci di considerare lo schema attraverso il quale il DNA diffonde informazione come parte delle sue proprietà chimiche».

Dante Guerra critica comunque anche le teorie creazioniste in quanto troppo legate ad una interpretazione letterale della Bibbia. L’Intelligent Design, concetto elaborato dal biochimico statunitense Michael Behe, non fa queste considerazioni temporali anche se riceve le stesse critiche da parte degli antisoprannaturalisti. In ogni caso la complessità degli organismi viventi è così evidente che ultimamente anche alcuni “abiogenisti” stanno attuando lo stesso cambiamento nella semantica, parlando di “teleonomia” e reintroducendo con un altro termine la ‘finalità’, oppure di “informazione funzionale” invece di complessità irriducibile.  L’autore ritiene che il dibattito sull’origine della vita è uscito dall’ambito scientifico per entrare in quello filosofico, sostenendo che il preconcetto antisoprannaturalistico del mondo accademico ha in più casi tagliato le gambe a valenti ricercatori che si sono discostati anche se di poco da tale impostazione.

La conclusione del chimico Dante Guerra è questa: «Le condizioni postulate dagli stessi abiogenisti, per un qualsiasi meccanismo ‘plausibile’ di passaggio dall’inorganico al biologico, sono talmente specifiche, che invocare il puro “caso” come “causa”, o meglio “non-causa” del loro verificarsi, è una offesa al buon senso e alla logica più elementare». Il libro risulta interessante anche se per poterlo apprezzare pienamente richiede alcune conoscenze di chimica organica e di biologia. A mio avviso risulta una sintesi molto valida ed esaustiva dei risultati finora ottenuti, dei dubbi non risolti e delle difficoltà in cui si trova la teoria dell’origine casuale della vita. L’autore riesce a destreggiarsi con sicurezza tra numerosissimi articoli scientifici, manifesta spirito critico, una buona preparazione e fornisce, fra l’altro, una notevole bibliografia.

Salvatore Canto

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