Il fisico Zichichi: «l’esistenza della scienza prova che siamo figli di una logica, non del caos»

zichichi esistenza dioMolto interessante la recente riflessione del celebre fisico italiano Antonino Zichichi. A lungo diversi esponenti del mondo anticlericale hanno messo in dubbio la sua autorità scientifica avendo più volte affermato di credere in Dio grazie alla scienza.

Tuttavia, ancora oggi, Zichichi risulta avere un H-index (indice di impatto sul mondo scientifico) pari a 62, come Stephen Hawking (62) e ben superiore, ad esempio, a Carlo Rovelli (52) e al premio Nobel Sheldon Lee Glashow (52).

«Le scoperte scientifiche sono la prova che non siamo figli del caos, ma di una logica rigorosa. Se c’è una Logica ci deve essere un Autore», ha scritto Zichichi, professore emerito di Fisica all’Università di Bologna, vincitore del Premio Fermi ed ex presidente dell’European Physical Society (EPS) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Il fisico ha smentito che la scienza possa mai spiegare o riprodurre i miracoli, il che sarebbe equivalente a «illudersi di potere scoprire l’esistenza scientifica di Dio». E ciò è impossibile, poiché «se fosse la Scienza a scoprirlo, Dio non potrebbe essere fatto che di Scienza e basta. Se fosse la Matematica ad arrivare al “Teorema di Dio”, il Creatore del Mondo non potrebbe che essere fatto di Matematica e basta. Sarebbe poca cosa. Noi credenti vogliamo che Dio sia tutto: non soltanto una parte del tutto». Ovvero, se Dio si potesse indagare tramite la scienza (la famosa “prova scientifica” chiesta dagli antiteisti) non sarebbe più il Creatore, ma una semplice creatura.

Zichichi da sempre descrive due realtà dell’esistenza, quella trascendentale e quella immanentistica. La seconda, dice, è studiata dalle scoperte scientifiche, mentre la prima è di competenza della teologia. «È un errore pretendere che la sfera trascendentale debba essere come quella che noi studiamo nei nostri laboratori. Se le due logiche fossero identiche non potrebbero esistere i miracoli, ma solo, e soltanto, le scoperte scientifiche. Se così fosse le due sfere dell’Immanente e del Trascendente sarebbero la stessa cosa. È quello che pretendono coloro che negano l’esistenza del Trascendente, come fa la cultura atea. Non è un dettaglio da poco. I miracoli sono la prova che la nostra esistenza non si esaurisce nell’Immanente. Ma c’è di più».

Ma lo stesso Autore di ciò che la scienza scopre, ha proseguito l’eminente scienziato italiano, «è un’intelligenza di gran lunga superiore alla nostra. Ecco perché le grandi scoperte sono tutte venute, non migliorando i calcoli e le misure ma dal “totalmente inatteso“. Il più grande dei miracoli, amava dire Eugene Wigner (gigante della Scienza), è che esiste la Scienza».

Le parole di Zichichi si rifanno chiaramente alle riflessioni di Albert Einstein, il quale a sua volta scriveva: «Trovi sorprendente che io pensi alla comprensibilità del mondo come a un miracolo o a un eterno mistero? A priori, tutto sommato, ci si potrebbe aspettare un mondo caotico del tutto inafferrabile da parte del pensiero. Al contrario, il tipo d’ordine che, per esempio, è stato creato dalla teoria della gravitazione di Newton è di carattere completamente diverso: anche se gli assiomi della teoria sono posti dall’uomo, il successo di una tale impresa presuppone un alto grado d’ordine nel mondo oggettivo, che non era affatto giustificato prevedere a priori. È qui che compare il sentimento del “miracoloso”, che cresce sempre più con lo sviluppo della nostra conoscenza. E qui sta il punto debole dei positivisti e degli atei di professione, che si sentono paghi per la coscienza di avere con successo non solo liberato il mondo da Dio, ma persino di averlo privato dei miracoli» (A. Einstein, “Lettera a Maurice Solovine”, GauthierVillars, Parigi 1956 p.102).

Anche l’unico premio Nobel vivente italiano, il fisico Carlo Rubbia, si è lasciato interrogare dal “perché” la scienza possa essere così efficace: «Se contiamo le galassie del mondo o dimostriamo l’esistenza delle particelle elementari, in modo analogo probabilmente non possiamo avere prove di Dio. Ma, come ricercatore, sono profondamente colpito dall’ordine e dalla bellezza che trovo nel cosmo, così come all’interno delle cose materiali. E come un osservatore della natura, non posso fare a meno di pensare che esiste un ordine superiore. L’idea che tutto questo è il risultato del caso o della pura diversità statistica, per me è completamente inaccettabile. C’è un’Intelligenza ad un livello superiore, oltre all’esistenza dell’universo stesso» (C. Rubbia, Neue Zürcher Zeitung, märz 1993).

La redazione

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Cercava se stesso in Oriente, si è trovato nel cristianesimo

conversioni nel buddismoLa verità ci rende liberi, ma che cos’è la verità? Gli uomini di ogni tempo hanno cercato di rispondere a questo interrogativo che da sempre interroga il cuore dell’uomo. Alcuni, soprattutto negli ultimi decenni, hanno cercato la soluzione nelle filosofie e religioni orientali.

In questo articolo vogliamo partire proprio dall’itinerario spirituale di una persona –una delle tante presumibilmente– che non ha accolto la Verità di Gesù Cristo trasmessagli dalla Chiesa Cattolica ma se n’è distanziato, volgendo il suo sguardo ad Oriente e alle sue discipline religiose. Quindici anni di buddismo cinese, buddismo tibetano e induismo. Invece di diventare una persona migliore, non trovava alcuna pace.

E’ un giovane polacco che ha scritto la sua testimonianza: «ho resistito a lungo al sentimento di pregare nuovamente a Cristo nostro Signore e alla Vergine Maria. Alla fine non ho più retto, è stata la prima preghiera cristiana in trent’anni. Quello che ho ricevuto nelle settimane successive non è descrivibile se non come grazia ricevuta. Sono tornato al mio vero rifugio: la Santa Chiesa Cattolica, dove ho trovato trovato i sentimenti di amore, saggezza e compassione reale che ho inutilmente cercato altrove in tutti questi anni». Ha quindi aggiunto: «il sacramento della Confessione è molto più efficace di qualsiasi strumento di purificazione orientale. Le lacrime di pentimento scorrevano di nuovo sul mio volto».

Aveva nel cuore un desiderio insaziato di gioia e di pace, buddismo ed induismo si sono rivelate tappe infruttuose, è così cresciuta la battaglia interiore per non ritornare a testa bassa da quella casa da cui se n’era andato a testa alta. Così ha trovato pace e gioia in Colui che aveva snobbato, che pure si era proclamato come via, verità e vita (Gv 14,6). La Chiesa cattolica lo ha riaccolto a braccia aperte, come una madre con il proprio figlio, facendogli gustare il perdono e la pace del Risorto.

Tanto di cappello a quest’uomo che ha avuto il coraggio di una ricerca sincera, spregiudicata, e ostinata a volte ma almeno onesta. Non avendo timore di tornare sui suoi passi. A noi ricorda un altro giovane, un ragazzo che come lui si era allontanato dal cristianesimo perché – diceva – non poteva trovare la verità in esso: Aurelio Agostino d’Ippona, a tutti noto come S. Agostino. 

Dopo 17 secoli la dinamica è sempre la stessa che il Vangelo ci ricorda nella parabola del figliol prodigo: assuefatti ed insoddisfatti da riti obsoleti e dogmi apparentemente assurdi si cerca la verità altrove, ci si trova a pascolare in prati rigogliosi per poi rendersi conto che di lussureggiante avevano ben poco. Il ritorno – squisitamente diverso l’uno dall’altro e per vie così strane per alcuni – ha tuttavia i medesimi toni: viene riscoperto il calore che la propria casa offriva, la serenità che la relazione con il Padre offriva, la gioia di essere sempre stati accompagnati anche lontani da Lui, fino ad esclamare con le parole del Santo: «Tardi t’amai,  bellezza così antica,  così nuova,  tardi t’amai! Ed ecco, tu eri dentro di me ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo deforme sulle belle forme della tua creazione”, oppure “inquieto è il mio cuore finché non riposa in te».

Nonostante il mutamento delle variabili che la storia ha portato, il cuore dell’uomo risponde allo stesso modo quando incontra la verità di Cristo. Una riflessione sorge però spontanea: la ricerca spirituale nelle religioni orientali rileva amaramente un’incapacità nostra nel far apprezzare il tesoro che la Chiesa cattolica custodisce. Su questo -è evidente – abbiamo da lavorare ancora molto e siamo ancora…in ricerca!

Fabio Casotto

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Il card. Müller sgrida i giornalisti anti-Bergoglio: «sono fazioni ideologiche»

prefetto contro bergoglioUna grande condivisione di vedute, un’unità con il Papa. Questo emerge dall’intervista di ieri al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Gerhard Ludwig Müller.

Abbiamo atteso che il gruppetto di giornalisti dal cattolicesimo dissidente ne citasse qualche parola, magari strumentalizzandola, invece ancora niente. Forse troppo presi dalla foga di colpire Francesco e i suoi collaboratori.

Müller non ci sta ad essere dipinto come “guardiano” del Papa ed esprime una visione della Chiesa attuale priva di “disastrismo”, del “dove andremo a finire?”, tipica sconsolazione degli ambienti tradizionalisti. «Tutti i cardinali hanno studiato teologia, conoscono la dottrina del papato e dell’episcopato», ha commentato il cardinale tedesco, smentendo l’esistenza di prelati “nemici” di Francesco. «Siamo sacerdoti competenti che conoscono bene la missione del Papa, la sua importanza per tutti. Viviamo una collegialità affettiva ed effettiva con Francesco. Purtroppo alcuni media notano di più le legittime diversità di opinione e non la grande armonia. Il Papa è il 266esimo successore di Pietro, e ognuno, lui compreso, ha una sua storia. Questa individualità è la forma nella quale ognuno compie la sua missione. Francesco ha la particolarità di venire da un continente non europeo. Questa sua differenza è preziosa per noi».

Il vaticanista di Repubblica, Paolo Rodari, pone diretta la questione al card. Müller: «sul web non manca chi contrappone i suoi interventi sulla dottrina a quanto dice il Papa…». Ed il prefetto risponde: «Sono piccole fazioni di destra e di sinistra che litigano fra di loro usando me e il Papa. Sono posizioni ideologiche che non condivido in nulla. Fra l’altro, fra non molto, uscirà proprio un mio libro sul Papa e sul papato… Tutti serviamo l’opera del Papa. Lavoriamo insieme per servire la sua missione». E forse ora si capisce perché lo schieramento giornalistico dei Socci, Cascioli, Tosatti, Valli, Rusconi, De Mattei, Blondet e Magister, ha preferito il silenzio, facendo finta di nulla.

Nell’intervista c’è spazio anche per una riflessione sull’Amoris Laetitia: «Abbiamo il messaggio di Gesù e la Bibbia che dicono parole chiare sul fondamento del matrimonio nella volontà salvifica di Dio. Le condizioni sociologiche cambiano ma occorre anche tenere presente che vi sono diverse antropologie che non accettano la nostra, fondata nella Parola di Dio. Occorre annunciare il Vangelo senza tradirlo. Francesco vuole far sentire la vicinanza del Buon Pastore al popolo di Dio con la predicazione e la testimonianza della vita cristiana». Ovvero, è un’enciclica che amplifica la portata pastorale, non muta la dottrina.

Müller lo aveva già ribadito chiaramente in un’intervista televisiva durante il programma “Stanze Vaticane” di Tgcom24, quando prese le distanze dai 4 cardinali firmatari dei Dubia: «Amoris Laetitia è molto chiara nella sua dottrina e possiamo interpretare tutta la dottrina di Gesù sul matrimonio, tutta la dottrina della Chiesa in 2000 anni di storia». Francesco, ha proseguito il prefetto, «chiede di discernere la situazione di queste persone che vivono un’unione non regolare, cioè non secondo la dottrina della Chiesa su matrimonio, e di aiutarle a trovare un cammino per una nuova integrazione nella Chiesa secondo le condizioni dei sacramenti, del messaggio cristiano sul matrimonio. Ma io non vedo alcuna contrapposizione: da un lato abbiamo la dottrina chiara sul matrimonio, dall’altro l’obbligo della Chiesa di preoccuparsi di queste persone in difficoltà». Anche in quell’occasione venne silenziato dalle ribollenti fazioni antipapiste, addirittura Riccardo Cascioli scrisse che Müller si era schierato positivamente dalla parte dei firmatari dei Dubia.

Nell’intervista concessa a Il Timone (visibile solo agli abbonati), invece, il card. Müller rispose anche a chi parla di “confusione” generata dal Papa: «non è Amoris Laetitia che ha provocato una confusa interpretazione, ma alcuni confusi interpreti di essa». I due intervistatori, Riccardo Cascioli (ancora una volta) e Lorenzo Bertocchi, hanno nascosto queste importanti parole nella loro presentazione pubblica dell’intervista su La Nuova Bussola Quotidiana e su La Verità. Tutti gli altri organi di stampa, anche all’estero, hanno invece citato questa importante frase, che smentisce i critici del Papa. C’è chi replica dicendo che le parole di Müller sono però leggibili nell’intervista su Il Timone, dimenticando che ad essa hanno accesso solo gli abbonati, quindi non è affatto pubblica.

Le parole del card. Müller mostrano la grande unità di vedute tra lui e il Pontefice argentino, la “collegialità effettiva e affettiva” e la “grande armonia” che vive con il Papa. La stessa che Ratzinger ha più volte manifestato nei confronti di Francesco. Considerazioni, quelle di Müller e di Benedetto XVI, che purtroppo non hanno mai visto luce sugli spazi web dei sedicenti “correttori pubblici” di Francesco.

 
intervista muller su bergoglio
 
La redazione

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Il vangelo di Marco va retrodatato? Cosa dicono i rotoli del Mar Morto

Il dibattito sulla datazione del vangelo di Marco alla luce del 7Q5, il frammento di papiro ritrovato nelle grotte di Qumran. La tesi di José O’ Callaghan ed il sostegno di importanti papirologi, fino al simposio di Eichstatt. Tutto molto presto dimenticato.




L’Università ebraica di Gerusalemme ha annunciato la scoperta di una nuova grotta a Qumran che avrebbe ospitato i celebri testi del Mar Morto.

Rotoli che contengono i più antichi manoscritti della Bibbia.

Sono ritenuti la più grande scoperta archeologica del 20° secolo, emersero casualmente nel 1947 in una grotta a circa un miglio dalla costa occidentale del Mar Morto. L’ipotesi più accreditata è che fossero stati nascosti dalla comunità degli esseni.


Il frammento 7Q5 rivoluziona la datazione del vangelo di Marco?

La scoperta è ancora più affascinante se si considera il famosissimo frammento di papiro chiamato 7Q5, ovvero il 5° manoscritto rinvenuto nella 7° grotta di Qumran. Su di esso si è scatenata una discussione a livello globale tra papirologi e biblisti, dopo che l’eminente studioso José O’ Callaghan ha identificato nel 1972 il testo del frammento come un brano del vangelo di Marco, per la precisione Mc 6,52-53.

La redazione definitiva di tale vangelo è solitamente indicata intorno al 70 d.c. tuttavia, se O’ Callaghan avesse ragione, significherebbe di fatto retrodatare tale data attorno al 50 d.C. (una ventina d’anni dopo la morte di Cristo) in quanto tutte le ricerche archeologiche escludono che il sito di Qumran sia stato abitato o utilizzato dopo il 68 d.C.

A sostegno dell’ipotesi del papirologo spagnolo intervenne, una decina d’anni più tardi, anche Carsten Peter Thiede, suo collega tedesco di fama internazionale che confermò in modo indipendente l’identificazione di 7Q5 come parte di un rotolo contenente il vangelo di Marco. Inoltre, sostenne che un altro frammento ritrovato, il 7Q4, vada invece certamente attribuito alla Prima Lettera di Paolo a Timoteo (sostenuto, tra gli altri, dal prof. Emile Puech, uno dei cinque responsabili dell’equipe che sovraintendeva tutti i lavori su Qumran).


Favorevoli e contrari alla tesi di José O’ Callaghan

A monitorare gli sviluppi del dibattito -comprese le aspre polemiche- vi furono due settimanali cattolici italiani, Il Sabato e 30 giorni, tutti gli articoli sul “caso Qumran” che infiammò gli anni ’90 sono contenuti nell’interessante libro intitolato Vangelo e storicità (BUR 1995), curato dal teologo milanese Stefano Alberto.

Moltissimi studiosi e papirologi si opposero tuttavia a queste conclusioni, adducendo disparate motivazioni, a molte delle quali rispose lo stesso O’ Callaghan. Tra i critici della tesi del papirologo spagnolo vi furono in particolare Bruce Metzger, padre Joseph Fitzmyer, Julio Trebolle, padre Pierre Grelot, dell’Institut Catholique di Parigi, Émile Puech (a cui è stata data risposta, anche da parte di Carsten Peter Thiede) e Gianfranco Ravasi, membro della Pontificia Commissione biblica. Tutti biblisti, non papirologi.

Alcuni sferrarono incredibili attacchi, anche personali, verso O’ Callaghan e Thiede, uscendo completamente dal campo scientifico.  Se ne accorse anche il prof. Paolo Sacchi, docente di Ebraico e Aramaico all’Università di Torino, che disse: «sulla datazione dei vangeli avvengono fatti sconcertanti. Certi criteri scientifici che si usano per altri testi, quando si arriva al Nuovo Testamento non valgono più» (p. 254).

I principali papirologi si schierarono con O’ Callaghan, come riferì nel 1994 il celebre gesuita e biblista Ignace de la Potterie: «I papirologi si sono mostrati, in questi anni, unanimemente d’accordo: quel testo, di qualunque cosa parli, non può essere stato scritto dopo l’anno 50». Per quanto riguarda le poche lettere leggibili sul frammento, le ricerche tramite il computer hanno dato «ossessivamente una sola risposta: quel brano appartiene al vangelo di Marco» (I. De la Potteire, E’ una scoperta inattesa, “30 giorni” luglio-agosto 1994, citato in Vangelo e storicità, p. 217-219).

Il biblista belga si riferisce all’esame radioscopico sul 7Q5 effettuato nel 1992 dal Dipartimento nazionale di Polizia criminale di Israele, che confermò la conformità con il testo del vangelo di Marco. Un esame informativo venne svolto anche dal teologo protestante Kurt Aland, membro della “parte avversa”, il quale diede esito negativo. Tuttavia il prof. Ferdinand Rohrhirsch dell’Università di Eichstätt dimostrò che Aland usò semplicemente un programma sbagliato (lo smacco fu così forte che il teologo non si presentò al Simposio del 1991).

Infine, il matematico Albert Dou, docente all’università di Madrid e membro dell’Accademia reale di Scienze, dimostrò che la possibilità che 7Q5 non sia identico ai versetti 52-53 del cap. 6 del vangelo di Marco, è di 1 su 900 miliardi .

A sostegno dell’identificazione arrivò un’autorità della papirologia a livello internazionale, Orsolina Montevecchi, emerita all’Università Cattolica di Milano e presidente dell’Associazione Internazionale Papirologi. Intervistata nel 1994, riferì: «come papirologa posso dire che l’identificazione mi sembra sicura. Le cinque righe ancora visibili di cui consiste il frammento corrispondono a Mc 6,52-53. E’ estremamente improbabile la corrispondenza con un altro testo» (in Ricerchiamo senza pregiudizi, in “30 giorni” luglio-agosto 1994, citata in Vangelo e storicità, p. 211-214). Dello stesso giudizio anche Sergio Davis, presidente onorario dell’Associazione Internazionale Papirologi e Giuseppe Ghiberti, presidente dell’Associazione biblica. Favorevoli all’identificazione con il Vangelo di Marco si schierarono anche diversi studiosi protestanti, come il luterano Otto Betz, emerito di Giudaistica ed esegesi del Nuovo Testamento presso l’Università di Tubinga e Rainer Riesner, docente di Nuovo Testamento nella stessa università. Nel mondo ebraico forte fu la voce del prof. Shemaryahu Talmon, biblista presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e uno dei membri ebrei della redazione dei rotoli di Qumran.


Il simposio di Eichstatt su 7Q5

La schiera dei sostenitori si allargò definitivamente durante e dopo il Simposio internazionale di Eichstätt del 1991. Venne chiamata a confrontarsi anche la parte avversa alla tesi di O’ Callaghan che, tuttavia, non si presentò. Durante l’evento presero posizione favorevole Bargil Pixner di Gerusalemme, Bernhard Mayer di Eichstätt, il biblista Benedikt Schwank di Monaco, il biblista Luis Alonso Schökel e l’eminente docente di Nuovo Testamento di Princeton, James Charlesworth.

In particolare anche il papirologo laico Herbert Hunger, docente emerito di Bizantinistica all’Università di Vienna e direttore della collezione di papiri nella capitale austriaca, che affermò: «Io non sono religioso, né un biblista, io sono uno scienziato e come scienziato dico che dal punto di vista strettamente papirologico nessuna discussione è possibile: O’Callaghan è nel giusto».

La prova del papirologo O’Callaghan è andata così a sommarsi a quella dello studioso liberale J.A.T. Robinson, che propose prima di lui una retro-datazione anteriore al 70 d.C. per tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Lo stesso hanno fatto l’eminente biblista Günther Zuntz e il paleografo Colin H. Roberts, collocando a sua volta il Vangelo di Marco tra il 50 a.C. e il 50 d.C.


E’ così importante la retrodatazione del vangelo di Marco?

L’attribuzione di 7Q5 al Vangelo di Marco è importante ma non fondamentale per la storicità degli scritti evangelici, che mantengono intatta la loro attendibilità storica anche se fossero scritti non prima del 70 d.C. Occorre infatti considerare le fonti pre-sinottiche e quelle orali, sviluppatesi e messe per iscritto subito dopo la morte del Cristo (per diversi studiosi anche durante la sua stessa vita).

Come giustamente ha spiegato la già citata papirologa Orsolina Montevecchi, presidente dell’Associazione Internazionale Papirologi, «non c’è nulla da difendere: anche se quello trovato a Qumran non fosse un frammento del vangelo di Marco, il cristianesimo non perde niente. Tuttavia, dal punto di vista testuale e paleografico, che è la mia specialità, è praticamente impossibile che possa trattarsi di un altro testo, magari sconosciuto. Ci sono ben cinque righe di testo sul quale basarci! Al massimo, quindi, questo frammento del vangelo di Marco è databile 20 anni dopo la morte di Cristo» (p. 211-214).

La redazione

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Zygmunt Bauman: «Dio non è affatto sparito, sarebbe morte dell’umanità»

secolarizzazione nietzsche
 
di Zygmunt Bauman*
*sociologo e filosofo polacco

da L’Osservatore Romano, 17/02/17

 
 

«Non c’è più religione… Dio è morto». Lo sentiamo ripetere di continuo, e qualcuno di quelli che si lanciano in affermazioni del genere pretendono di avvalorarle anche con l’autorità dei fatti. Quanti sono oggi, per dire, i neonati che vengono portati in chiesa per essere battezzati, e non è forse vero che il numero delle persone che frequentano la messa domenicale è in calo — perlomeno in Gran Bretagna o nei paesi nordici?…

Questi dati vengono trascelti proprio con l’intento di appoggiare la tesi, e la loro reiterata ripetizione mira a far sì che, come accade con tutti gli altri pregiudizi, alla fine l’affermazione sia considerata ben fondata e creduta vera. Ma, svolgono essi il compito loro assegnato? Forse lo farebbero, se non fosse per l’enorme e crescente volume di altri fatti che suggeriscono — e dimostrano — la diagnosi esattamente contraria: e cioè che la religione esiste e continua ad avere forza e influenza, e che i necrologi per Dio sono, quantomeno, assolutamente prematuri.

Fu a motivo del numero inarrestabilmente crescente di quegli altri fatti, che Peter Berger, uno dei più autorevoli sociologi del Ventesimo secolo, si vide costretto a rovesciare la sua diagnosi di 180 gradi. Nel 1968 aveva pronosticato nel New York Times che, nel Ventunesimo secolo, di «credenti religiosi se ne troveranno probabilmente solo in piccole sette, stretti assieme per resistere a una cultura secolare mondiale». Ma trent’anni dopo, alle soglie del nuovo secolo cui la sua precedente predizione si riferiva, si sentì in dovere di concludere (in The Desecularization of the World, 1999) che «l’assunto secondo cui viviamo in un mondo secolarizzato è falso. Il mondo di oggi, salvo alcune eccezioni, continua a essere accanitamente religioso quanto è sempre stato, e da qualche parte anche più di quanto sia mai stato».

Berger corresse il suo errore. Ci mise del tempo, ma in fin dei conti gli venne facile; da scienziato, aveva sviluppato metodi che gli consentivano di confermare o smentire enunciati, e quindi di distinguere le false credenze da quelle vere e pertanto di spianare la strada alla verità in questione. Questa è appunto la differenza fra le credenze fondate in fatti verificabili e controllati e quelle derivate da emozioni: fra la conoscenza e la fede, il ragionamento e il dogma, la scienza e il pregiudizio. Il pregiudizio è dogmatico; quelli che li abbracciano rifiutano l’argomentazione e chiudono le orecchie ai giudizi contrari al proprio per paura di dover ammorbidire le loro convinzioni. Quando si trovano davanti a un’idea differente da quella cui sono affezionate, le persone prigioniere di pregiudizi non sottopongono l’argomentazione contraria a una verifica, ma — risparmiandosi il fastidio di ascoltare e ancor più di capire — la liquidano sulla base dell’aprioristica infallibilità di quella che per loro è la verità.

Molta acqua è passata sotto i ponti di tutti i fiumi del mondo, da quando Friedrich Nietzsche, uno dei giganti della filosofia moderna, scrisse nella Gaia scienza (1882) che «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente Il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?». Ma Dio è ancora ben vivo, come senza dubbio lo sono — e anche ben visibili — le religioni, che poggiano sulla sua immortale onnipresenza: contrariamente all’orgogliosa rivendicazione della mente moderna secondo cui noi, uomini, siamo pienamente in grado di afferrare, comprendere, descrivere, affrontare e gestire il mondo e la nostra presenza in esso in perfetta autonomia; e contrariamente alla nostra proclamata intenzione di mettere il mondo sotto l’amministrazione unica di noi, uomini, armati come siamo di ragione e dei suoi due germogli: la scienza e la tecnologia.

In netto contrasto con la loro promessa, quelle armi non sono riuscite a dotare noi, umani mortali, dell’onnipotenza — che è il tratto che definisce il Dio immortale — ed è sempre meno probabile che con tutte le loro scoperte e invenzioni terrificanti lo possano mai fare. L’impressione è che, ove mai Dio «morisse» — e cioè, esiliato dal nostro pensiero, espatriato dalle nostre vite, cessasse di essere punto di riferimento e di appello e fosse sostanzialmente dimenticato — ciò accadrebbe solo insieme con la morte dell’umanità.

(da Il pregiudizio universale. Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni, Laterza 2016)

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«Scelsi di fare il ginecologo per far nascere i figli, non per eliminarli»

Scioccante intervista all’ultimo ginecologo abortista del Molise, Michele Mariano. “Conosco la scienza, so che sto sopprimendo una vita”. Ma continua a farlo, credendo alla bufala dell’aborto clandestino.




Ogni volta che un ginecologo abortista viene intervistato diventa una testimonianza scioccante.

«Faccio 400 aborti l’anno, sono l’ultimo ginecologo non obiettore rimasto in tutto il Molise. Ma questo mestiere io l’avevo scelto per far venire al mondo i figli, non per eliminarli».

E’ amara la riflessione emersa ieri su Repubblica da parte del ginecologo Michele Mariano dell’ospedale “Antonio Cardarelli” di Campobasso.


«Conosco la scienza, non sono felice di sopprimere una vita»

Il suo intervento si inserisce nella polemica di questi giorni per l’avvio di un concorso di assunzione di due ginecologi non obiettori all’ospedale San Camillo di Roma, rimasto senza medici disposti ad uccidere.

L’Ordine dei medici di Roma è intervenuto duramente: «Prevedere un concorso soltanto per non obiettori di coscienza ha il significato di discriminazione di chi esercita un diritto sancito dalla bioetica e dalla deontologia medica».

La notizia si trova ovunque, ci hanno colpito più di tutto però le parole di Mariano. Si dichiara ateo, «ma sono un medico e conosco la scienza». E la scienza cosa dice? «Non dobbiamo avere paura della verità. Quel feto potrebbe diventare un bambino, come negarlo?».

Quel feto è già un bambino e le sue parole sono tragiche: «Non voglio che le donne tornino all’aborto clandestino e muoiano nelle mani di chissà quali macellai. Questo non vuol dire che quando sopprimo una vita sono contento». Lo spauracchio dell’aborto clandestino è una vecchia bufala, ma non vogliamo polemizzare. Ci basta l’onestà della consapevolezza di sopprimere una vita.

«Sapete qual è la mia più grande soddisfazione?», chiede il ginecologo. «Quando una donna sceglie di tenerlo il bambino. Quando lo fa nascere. Io provo sempre a capire se c’è un margine per evitare l’aborto. Se ci ripensano per me è una festa».


Come lui, anche altri ginecologi abortisti.

La stessa, drammatica, consapevolezza del ginecologo abortista Massimo Segato, vice primario di Ginecologia all’ospedale di Valdagno (Vi), di cui abbiamo parlato poco tempo fa.

Stesse parole utilizzate anche da Alessandra Kustermann, ginecologa e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano: «So benissimo che sto sopprimendo una vita. E non un feto, bensì un futuro bambino. Ogni volta provo un rammarico e un disagio indicibili».


Aborto conquista di civiltà?

Il giornalista Enrico Mentana ritiene la legge 194 una “conquista di civiltà”. Gli abbiamo risposto su Facebook che se così fosse, non esisterebbe alcun permesso legislativo a praticare l’obiezione di coscienza, il 70% dei ginecologi non obietterebbe mai verso una presunta civiltà, i ginecologi abortisti non esulterebbero quando la donna decide di non intraprendere la strada prevista da questa legge.

Nessuno, tanto meno a tali percentuali, obbietterebbe ad esempio verso la “conquista di civiltà” della libertà d’informazione e non esisterebbe alcun permesso statale che permettesse di obiettare alla “conquista di civiltà” del suffragio femminile. Eppure, ciò esiste per l’aborto e l’obiezione viene praticata in massa proprio dalla categoria professionale che è costretta a praticarlo in quanto sa benissimo che non c’è alcuna “civiltà” nell’interruzione, non di una gravidanza, ma di una vita umana.

Un’evidenza, a quanto pare, ben nota anche ai pochi ginecologi non obiettori.

 

ginecologo aborti

 

La redazione

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Genocidio armeno, il diplomatico vaticano che cercò di fermarlo

Angelo Maria Dolci diplomaticoUn libro documentato, di cui è autrice Valentina Karakhanian, “La Santa Sede e lo sterminio degli armeni nell’Impero Ottomano”, dimostra inappellabilmente che la Chiesa cattolica si adoperò in modo fattivo, per vie diplomatiche e non, per arrestare lo sterminio del popolo armeno nel 1915.

Figura emergente in quel terribile contesto fu il cardinale e arcivescovo Angelo Maria Dolci, diplomatico vaticano a Costantinopoli, descritto come «un diplomatico onesto, una persona straordinaria. Se dovessi definirlo, userei la citazione evangelica in cui Gesù raccomanda ai suoi discepoli di essere  “astuti come serpenti e semplici come colombe”», scrive l’Autrice, che ha consultato il materiale custodito nell’Archivio Segreto del Vaticano.

L’arcivescovo Dolci stesso appunta: «Pare che la persecuzione del Governo contro i cristiani non si limiti agli armeni, ma si estenda a cattolici e non cattolici». Grazie alla sua mediazione, papa Benedetto XV scrisse almeno tre missive al sultano ottomano Mehmet V, che lo stesso diplomatico si impegnò a consegnare personalmente. Il 15 gennaio 1916 il Papa ricevette la risposta del sultano: «Le notizie che pervengono dalla Santa Sede sulla sorte degli armeni nel nostro Paese non rispondono alla realtà dei fatti».

Il Pontefice, in ogni caso, si adoperò affinché la persecuzione venisse attenuata. Ma il card. Dolci fece di più, mobilitando, nello scenario intricato della Prima Guerra Mondiale, Eugenio Pacelli, al tempo delegato apostolico a Monaco, il quale cooperò concretamente con lui per soccorrere, attraverso i buoni uffici della Germania, dell’Austria e dell’Ungheria, il popolo armeno. Come evidenziò un francescano nel 1917 in merito al destino di 200 famiglie di Ankara: «Si oppongono al mutamento di nome. Non vogliono abiurare il cristianesimo, così come chiede il Governo».

Il diplomatico vaticano Dolci è come la goccia che scava la roccia, persistente nella sua azione di denuncia e di soccorso. Riuscì, grazie alle sue fini doti diplomatiche, a salvare la vita a 60 cristiani di Aleppo, condannati a morte con l’accusa di aver rubato dei datteri. Dolci scrive al Ministro della Guerra turco, rappresentandogli che l’esecuzione avrebbe posto in pessima luce l’Impero. Pur ammettendo la fondatezza delle accuse, suggerisce che una amnistia avrebbe mostrato la magnanimità dell’Impero e sarebbe stata molto gradita al Papa. I 60 di Aleppo vennero perdonati e scamparono alla morte. Benedetto XV, da parte sua, sollecitò l’adozione di un assetto politico internazionale in cui l’Armenia fosse indipendente dall’influenza dell’URSS o da quella turca. Il Papa si rivolse anche al presidente degli USA, Woodrow Wilson, in qualità di «presidente della più grande democrazia del mondo».

L’Armenia libera durò poco. Nel 1920 fu sottomessa all’URSS. La lettera di Benedetto XV all’ambasciatore statunitense terminava con l’appello ad una pace giusta. Il Santo Padre, che avvertì dei «massacri inutili» agli albori del Primo Conflitto Mondiale, si rivelò profetico: «La pace non durerà se si impongono condizioni che lasceranno profonde tracce di rancore e progetti di vendetta. Le vicende del passato sono padrone del futuro». Un futuro che si manifesterà in forme belliche, accompagnate da altro genocidio.

Il Papa della pace spirò nel 1922. Il cardinale Dolci nel 1939. Eugenio Pacelli fu proclamato Papa nello stesso anno col nome di Pio XII. Gli sforzi diplomatici dei tre salvarono molti, un numero che non si può contabilizzare. Di certo c’è che – come conclude l’Autrice – «la grandezza di un diplomatico sta nel fatto che non gli si può accreditare niente di concreto, però è indubbio che senza il suo intervento niente sarebbe stato possibile».

Salvatore Bernocco

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Pallavolista trans? La «fine dello sport» per il luminare italiano di fisiologia

tiffany rodrigoVogliono rovinare anche lo sport. La lobby Lgbt sta difendendo la presenza dei transessuali nella pallavolo femminile, ma le giocatrici avversarie sono umiliate e stanno preparando una class action. L’etica dello sport è in pericolo per il luminare Arsenio Veicsteinas, ordinario di Fisiologia Umana dell’Università statale di Milano.

Se il senatore gay Lo Giudice -che ha acquistato e tolto un bambino dalla madre biologica- vuole insegnare la maternità alle donne bolognesi, se dal mondo del Basket americano femminile arriva la scioccante testimonianza di Candice Wiggins, ritiratasi perché discriminata e bullizzata in quanto eterosessuale, se i circoli gay vietano con un cartello l’ingresso alle donne, come fossero cani…oggi si scopre che i transessuali vogliono sfidare atleticamente le pallavoliste. La guerra alle donne è a tutto campo. E le femministe? Tacciono. Il caso è sorto in questi giorni con Tiffany (Rodrigo) Pereira, un trans brasiliano che gioca con la Golem Palmi in Serie A2 femminile.

Le altre squadre si sentono danneggiate, così come le avversarie e lo sport è in pericolo poiché scatterebbe la “corsa al trans”. Lo ha spiegato il direttore generale della squadra Millenium: «Cosa succede se andiamo in Brasile, ingaggiamo tre trans e le portiamo a giocare nel campionato di A2 femminile? Vinciamo il campionato. Ma così non può andare bene»«Stanno barando: fanno giocare un uomo al posto di una donna, contro altre donne», ha scritto Teresa Moro riflettendo su un caso simile. Rodrigo sa «di avere un fisico da uomo: ha il tono muscolare, la densità ossea, la prestanza fisica e la carica agonistica di una persona con il patrimonio XY. Non ci sono operazioni od ormoni che tengano. E, detto da una donna, non è cavalleresco che un uomo schiacci (su) una donna. E’, in definitiva, un gesto da vigliacchi».

Chi difende Rodrigo sostiene che la cura ormonale l’ha indebolito, la squadra Palmi scrive di aver fatto la scelta giusta (mica stupidi!): «Non è necessario essere endocrinologi per sapere che la diminuzione della concentrazione di testosterone e l’aumento di ormoni femminili comporta una importante riduzione della massa muscolare, della forza, e conseguentemente una sensibile diminuzione dell’elevazione (circa 40 cm in meno) e della potenza della schiacciata». Ma gli avversari rispondono: «Ci sono video che testimoniano come Tifanny carichi pesi doppi rispetto alla media, il Dna resta maschile e con questo si è sviluppata. La cura ormonale l’ha indebolita del 40%, ma la potenza nei colpi resta quella di un uomo medio: il vantaggio fisico è evidente, la rete peraltro nelle donne è 19 centimetri più bassa».

La è un’altra la vera questione, che difensori e detrattori non affrontano: è sufficiente essere fisicamente più deboli per essere definiti “donna”? La donna è soltanto un uomo con capelli lunghi e con meno forza? Si riduce davvero tutto ad una mera questione ormonale? Basta indossare una maschera per essere realmente Arlecchino? La risposta a tutto questo è chiaramente “no”. In nome del rispetto della donna e anche dell’uomo, se avvenisse il contrario: ma chiaramente non succederà perché nessuna donna, nemmeno travestita e somigliante esteriormente ad uomo, si sognerebbe mai di militare nella categoria di pallavolo maschile prendendosi le schiacciate a 50km/h di Ivan Zaytsev.

A fare chiarezza è intervenuto qualche tempo fa un luminare della fisiologia umana, il prof Arsenio Veicsteinas, ordinario di Fisiologia Umana presso l’Università statale di Milano, dove è anche preside della facoltà di Scienze Motorie. «L’etica dello sport è che si gareggi ad armi pari», ha commentato. «Chi nasce uomo ha le caratteristiche anatomiche maschili. Chi decide di cambiare sesso conserva il proprio DNA, nonostante le cure ormonali. Mi sembra tutto molto superficiale e demagogico, figlio di una tendenza sbagliata che c’è oggi: aprire tutto a tutti. La lealtà della competizione è minata sopratutto per un uomo che diventa donna: come si potrà sostenere davanti alle proteste di una donna che si è giocato ad armi pari?».

Parole di una ovvietà abissale. Eppure il confuso uomo moderno -manovrato come un burattino dai poteri forti (e quello arcobaleno è tra i principali)- fatica a comprendere anche l’ovvio. «Ognuno di noi può diventare quello che vuole», ha affermato il trans Vladimiro Guadagno (alias Luxuria). «Questo va detto sin da subito, agendo sui bambini, per non ritrovarci poi degli adulti sessisti e maschilisti domani». Agire sui bambini, entrare nelle scuole, rovinare l’etica sportiva in nome di una «colonizzazione ideologica», come la chiama il Papa.

«Il “cambiamento di sesso” è biologicamente impossibile», continua a spiegare Paul R. McHugh, professore Emerito di Psicologia presso la prestigiosa Johns Hopkins University School of Medicine. «Le persone che si sottopongono ad un intervento chirurgico per cambiare sesso non cambiano da uomini in donne o viceversa. Piuttosto, essi diventano semplicemente uomini o donne femminilizzati o mascolinizzati». Nessuno nasce in un “corpo sbagliato”, nemmeno il pallavolista Rodrigo. Ci auguriamo che la class action venga portata avanti, in nome del rispetto delle sport e dell’essere donna.

La redazione

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Un mese di Trump: ottime novità ma anche scelte non cristiane

politica donald trumpUno sguardo oggettivo sul primo mese di governo di Donald Trump non può non riconoscere aspetti positivi e negativi. Non è certo l’araldo della cristianità, come imprudentemente dichiarato dai suoi ammiratori cattolici, ma condivide alcuni importanti principi con il mondo cattolico, sopratutto in campo bioetico. Sbagliano a non riconoscerlo i suoi detrattori, molti dei quali sono realmente accecati d’odio nei confronti del presidente americano.

 

I meriti di Trump. Proprio oggi ha revocato la norma di Obama che permetteva ai transgender di utilizzare i bagni pubblici “secondo identità” e non secondo il sesso biologico. Pochi giorni dopo l’elezione il neo presidente americano ha subito mantenuto un’altra promessa: tolti i finanziamenti statali a Planned Parenthood, il più grande ente di cliniche abortiste, il fatto che la femminista pioniera dell’aborto, Sarah Weddington sia terrorizzata da lui è un buon segno. Positive le promesse di tutelare la libertà di culto, «distruggendo totalmente» i limiti all’obiezione di coscienza e il Johnson Amendment che attualmente vieta ai pastori di pronunciarsi dal pulpito su tematiche politiche e partecipare direttamente o indirettamente su tematiche concernenti le campagne elettorali.

E’ stato un gesto coraggioso e importante nominare il magistrato (protestante episcopale) Neil Gorsuch come giudice della Corte Suprema (il Senato deve ancora approvare), facendo esultare il mondo pro-life. Trump ha mantenuto un’altra promessa: Gorsuch, luminare del diritto americano (laureato ad Harvard e docente alla Columbia e ad Oxford), è contrario all’eutanasia, alla violazione della libertà religiosa prevista dall’Obamacare e all’aborto. Scelta importante in quanto la Corte Suprema dovrà infatti, probabilmente, prendere importanti decisioni sui benefici alle scuole confessionali, la ridiscussione della legge Roe Vs Wade che legalizza l’interruzione di gravidanza, la libertà religiosa nei confronti dei matrimoni gay e l’obbligo per le istituzioni religiose di pagare i contraccettivi ai propri dipendenti. Purtroppo Gorsush è favorevole alla pena di morte, ed anche il primo ad essere contrariato dai continui attacchi al sistema giudiziario di Donald Trump.

 

I demeriti di Trump. Il “muslim ban”, che chiude le frontiere americane alle persone islamiche e predilige l’accoglienza ai rifugiati cristiani siriani e mediorientali piace tanto agli estremisti di Libero, ma è avversato dal mondo cattolico e dagli stessi cristiani perseguitati. Il vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo SJ, ha dichiarato: «A noi cristiani della Siria e del Medio Oriente non piace nessun discorso che fa differenze tra noi e i musulmani quando è in gioco la giustizia, la pace e l’aiuto a chi ha bisogno. Chi fa queste differenze, alimenta il fanatismo e l’estremismo. I provvedimenti e le leggi devono essere giusti e vanno applicati allo stesso modo per tutti, senza discriminazioni. E anche come cristiani, chiediamo di essere aiutati non a emigrare, ma ad avere la pace nei nostri Paesi, per poter continuare la nostra vita e la nostra testimonianza nelle terre in cui siamo nati». Parere unanime anche per Open Doors, impegnata nella denuncia delle violenze contro i cristiani: «Un processo che dà priorità a una religione sull’altra, come quello proposto dall’amministrazione Trump, potrebbe avere ripercussioni negative non solo in America, ma in tutto il mondo. Noi riteniamo cruciale che sia garantito ai profughi cristiani e alle altre minoranze in Medio Oriente un canale sicuro per ottenere rifugio negli Stati Uniti. Ma siamo fermi nel difendere un approccio che tratti ogni fede in maniera equa».

Contro Trump si sono schierate importanti voci del mondo cattolico americano, compreso quello più conservatore (come il card. Daniel di Nardo, presidente dei vescovi Usa, e l’arcivescovo ratzingeriano Charles Chaput di Philadelphia), ma anche quello anglicano (l’arcivescovo di Canterbury lo ha definito nel solco della “tradizione politica fascista”), quello evangelico e protestante in generale, che lo definisce “presidente anti-cristiano”. Il presidente Trump, inoltre -e questo non lo troverete sui siti web della destra conservatrice-, ha affermato il suo sostegno all’ordine di Obama di escludere dai contratti federali chi afferma pubblicamente, ad esempio, di opporsi alle unioni omosessuali. Il vicepresidente Mike Pence ha sostenuto e difeso la scelta pro-Lgbt del presidente.

Preoccupazione legittima anche in Vaticano, espressa dal segretario di Stato Pietro Parolin e dal sostituto della Segreteria di Stato, mons. Angelo Becciu: «Noi siamo messaggeri di un’altra cultura, quella dell’apertura». Certamente, ha scritto Massimo Franco sul Corriere, anche l’elezione di Hillary Clinton sarebbe stata vissuta male a Roma: sopratutto per le posizioni a favore dell’aborto e per l’approccio anti-russo (il Vaticano di Bergoglio è stato il primo a riconoscere a Putin un positivo ruolo internazionale).

 

Trump va giudicato sui fatti, disse Papa Francesco un mese fa. I suoi timori verso l’agenda estera del presidente americano si sono rivelati comunque fondati, oggi condivisi da gran parte del mondo cattolico. La sorpresa è che la consigliera spirituale del presidente, la pastora Paula White, ha molta stima per il Papa argentino e questo aiuterà probabilmente i rapporti con la Santa Sede. La speranza è che Trump seppellisca gli otto anni obamiani a trazione liberal, senza però instaurare a sua volta un deleterio regime trumpiano.

 

AGGIORNAMENTO 24/02/17
Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha annunciato nuove linee guida nell’implementazione di leggi federali sulla legalizzazione della cannabis, spiegando che si opporranno all’uso ricreativo.

La redazione

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Il prete con l’abito talare nei night club? Un probabile falso di Gianluigi Paragone

la7 prete night clubGira sul web il filmato che Gianluigi Paragone ha trasmesso durante il programma televisivo La Gabbia Open su La7.

Il giornalista Silvio Schembri ha ripreso con videocamera nascosta un uomo dal volto oscurato e dal linguaggio scurrile che, vestito da prete, gira per night club della pianura padana, appartandosi con delle prostitute.

L’uomo è disinvolto, non si preoccupa di come è vestito e di quel che sta facendo tanto, ripete, «poi mi confesso». E se qualcuno lo riconoscesse?, gli chiede il giornalista che finge di essere un cliente normale. «Non mi interessa – dice – Anche perché dentro trovi gente già sposata. Se vengono a saperlo gli dico: “Ti conosco e lo dico a tua moglie. Io al massimo mi confesso…”».

Perfino i commentatori dei quotidiani online che -si sa-, non sono dotati di particolare intelletto, hanno reagito in modo scettico davanti al servizio di Paragone. In gran parte anticlericali, molti fanno notare che l’uomo potrebbe essere stato chiunque: basta vestirsi da prete, avere il volto oscurato e recitare la parte. I click e le condivisioni sono assicurate. La trasmissione di La7 non rivela né il nome, né il luogo, né il locale, né mostra il volto dell’uomo. All’Espresso sono anni che confezionano servizi del genere, evidentemente hanno fatto scuola. Molti ritengono che l’uomo potrebbe tranquillamente essere un attore pagato, istruito sul cosa dire e nel toccare i temi più scabrosi: i soldi che usa per le serate, l’ipocrisia della fede e della morale sessuale cattolica ecc.

Nessuno oltretutto si è accorto di una evidente contraddizione. L’uomo, avvicinato dal giornalista, afferma: «faccio l’abbonamento, vengo sempre». Poco dopo lo si vede però vicino ad una escort e rivolgendosi al giornalista, parlando della donna, afferma: «Dice che ancora le mancava farlo con un prete!». Qualcosa non torna: non era un abitudinario? Ma, sopratutto, oggi quasi nessun sacerdote gira con l’abito talare indossato dall’uomo, nemmeno in parrocchia o in oratorio. Ad esso viene preferito il clergyman, vestito nero composto da camicia, giacca e pantalone nero, con colletto rigido bianco. Uno dei pochi che ancora lo indossa viene, guarda caso, trovato da La Gabbia in un locale del genere…

Certo, le cronache recenti ci hanno stordito con preti tutt’altro che rispettosi e coerenti verso la loro vocazione e la Chiesa che rappresentano. Non mettiamo in dubbio, purtroppo, che vi sia anche chi frequenta night club, ma che Paragone ci racconti di averne beccato casualmente uno che bazzica abitualmente questi ambienti, mostrandosi con disinvoltura e indossando spavaldamente un abito talare che più nessun religioso utilizza, che si confida al primo colpo con il giornalista come se lo conoscesse da una vita, che dice al momento giusto le battute perfette per un servizio scandalistico. Beh, ci sembra francamente davvero poco credibile.

L’ambiente di Libero, tra Feltri, Socci, Facci e Borgognovo, è ben poco attendibile, rispettoso ed oggettivo quando coinvolge la Chiesa cattolica. Che si sia aggiunto Paragone non sorprende, sorprenderebbe invece che qualcuno realmente credesse a questa probabile bufala.

la7 la gabbia

 

AGGIORNAMENTO 24/02/17
Un frate francescano ci ha scritto facendoci notare un’altra stranezza presente nel video: «La tonaca del presunto prete ha un particolare “hollywoodiano”, si vede penzolare un cordoncino con un nodo, di tipo francescano, ma scuro, non bianco come hanno i francescani. Notoriamente il cordone, “cingolo”, francescano da sempre stuzzica la fantasia cinematografica, dove si vedono le tonache più strane, di pura fantasia, mai corrispondenti a quelle reali, ma spesso con quell’elemento decorativo. Non esistono “preti” col “cingolo”. L’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola usa un cingolo marrone, non bianco, ma la tonaca è marrone, sono “frati” e non “preti” e di numero molto ridotto, dunque facilmente identificabili. Personalmente appena ho visto quel cordoncino, ho pensato fosse un attore».

 
La redazione

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