Il giurista Zagrebelsky: «Il suicidio assistito? Una mostruosità»

dj fabo fatto quotidiano«Non esiste il “diritto a morire”, sarebbe una contraddizione». Ad affermarlo è stato Gustavo Zagrebelsky, importante giurista italiano, ex presidente della Corte costituzionale e guru di Repubblica e della sinistra progressista. Intervenne nel 2011 in seguito al suicidio di Lucio Magri, recatosi in Svizzera per ottenere il suicidio assistito, lo stesso luogo di morte scelto recentemente da Dj Fabo.

A dargli voce fu l’attuale direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, anche lui fortemente contrario all’eutanasia. C’è chi parla di «“suicidio assistito” come un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’“esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo», scrisse Travaglio. «Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?».

Ma in ambito giuridico è bene ascoltare sopratutto chi ne ha le competenze, per questo restano d’attualità le parole del costituzionalista Zagrebelsky. «Quello che sto per dire è in una prospettiva laica», è la sua premessa. Giustamente nel dibattito pubblico occorre utilizzare «argomenti non dico condivisibili, ma almeno comprensibili per chiunque. Se si parte da una prospettiva religiosa, si escludono a priori tutti coloro che non l’accettano».

Innanzitutto il suicidio non è affatto un gesto di libertà, ma «la tragedia più grande». Il nostro diritto penale, di fronte alla volontà di morire, «non punisce il suicidio. Lo considera un mero fatto, non c’è sanzione se tu cerchi di ucciderti da solo. In questi confini estremi dell’esistenza individuale il diritto non può far nulla, ed è bene che taccia. Lasciando che ciascuno gestisca i suoi drammi ultimi da solo». Tuttavia, sempre nel codice penale gli articoli 579 e 580 puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio: «Questi sono delitti. Se tu ti uccidi da solo questo è considerato un fatto, che resta entro la tua personale sfera giuridica. Ma se entra in gioco qualcun altro, diventa un fatto sociale. Anche solo se sono due: chi chiede di morire e chi l’aiuta. E ancor più se c’è un’organizzazione, pubblica o privata che sia, come in Svizzera o in Olanda. La distinzione ha una ragione morale».

Ovvero, chi chiede l’eutanasia non vuole legittimare tanto la possibilità di suicidarsi ma, necessariamente, che lo Stato e i medici diventino complici e partecipino attivamente al suicidio/omicidio di un cittadino. E’ il primo punto delle dieci ragioni laiche contro l’eutanasia che abbiamo recentemente stilato. Perché, ha proseguito Zagrebelsky, «una cosa è il suicidio come fatto individuale; un’altra, il suicidio socialmente organizzato».

Gran parte dei casi di suicidio, ha proseguito il giurista, ha motivazioni assolutamente risolvibili: «derivano da ingiustizie, depressione o solitudine». Davanti a questo, «può la società dire: va bene, togliti di mezzo, e io pure ti aiuto a farlo? Non è troppo facile? Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare almeno, se non è possibile».

E per quanto riguarda il “diritto a morire”, slogan propagandato dall’Associazione Luca Coscioni e da Marco Cappato, Zagrebelsky ne smentisce l’esistenza: «C’è la morte che ci si dà, come dato di fatto. Ma l’espressione “diritto a morire” contiene una contraddizione. Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’affidabilità storica dei Vangeli, risposta alle obiezioni più comuni

nuovo testamento attendibilitàDurante il 2016 l’associazione americana The Best Schools ha messo a confronto per diversi mesi due importanti studiosi del Nuovo Testamento, Bart D. Ehrman, docente di Religious Studies presso l’University of North Carolina, e Michael R. Licona, docente di Teologia presso la Houston Baptist University.

Ehrman è forse il principale studioso di livello con un punto di vista scettico sull’attendibilità storica del Nuovo Testamento, grazie a questo confronto abbiamo anche scoperto che è stato tra gli allievi preferiti di Bruce Metzger, uno dei più importanti biblisti cristiani del secolo scorso. Licona, invece, anch’egli molto noto e apprezzato nell’ambito accademico, sostiene il punto di vista contrario. In questo articolo abbiamo raccolto ampie sintesi dei loro interventi.

Innanzitutto andremo a smontare un mito su B.D. Ehrman: leggenda vuole che si sia allontanato dalla fede cristiana evangelica a causa dei suoi studi biblici. Lui stesso tuttavia ha chiarito le cose nella sua intervista iniziale: «Quando ho iniziato ad insegnare alla Rutgers University a metà degli anni 1980 mi è stato chiesto di preparare una lezione sul problema della sofferenza, così come presentata in diverse parti della Bibbia […]. Allora ero un cristiano profondamente impegnato. E ho continuato ad esserlo per anni dopo. Ma ho cominciato a lottare a fondo con il problema della sofferenza […] e sono arrivato ad un punto in cui non credevo avesse più senso. Non potevo più credere che ci fosse un Dio che si preoccupava del suo popolo ed era attivo nel mondo, intervenendo e rispondendo alle preghiere, e contemporaneamente l’esistenza di un bambino innocente che muore di fame ogni cinque secondi. Ad un certo punto ho smesso di credere».

Per quanto riguarda M. Licona, nella sua intervista iniziale appare chiaro l’opposizione all‘infallibilità delle Scritture, ovvero all’errato convincimento (sostenuto da diversi evangelici, protestanti e dai Testimoni di Geova) che tutto ciò che afferma la Bibbia sia privo di errore. Non è così, «l’infallibilità biblica non è il fondamento della fede cristiana; Gesù lo è. Se Gesù è risorto, il cristianesimo è vero, anche se dovesse risultare che la Bibbia non è accurata in ogni dettaglio».

 

Entriamo ora nel merito delle tre grandi obiezioni avanzate da B.D. Ehrman e dalle tre risposte date da M. Licona.

1) OBIEZIONE: DISCREPANZE TRA I QUATTRO EVANGELISTI.
Prima di affrontare la prima obiezione, Ehrman ha tenuto a premettere che «i Vangeli, le loro storie e le azioni di Gesù sono sempre state e sempre saranno a me cari. Tra le altre cose, ho sempre cercato di rendere i valori che promuovono e l’etica che insegnano il centro della mia vita morale, e io incoraggio a fare altrettanto. Senza dubbio sono i libri più importanti che siano mai stati scritti, per me sono i libri più importanti della nostra civiltà e per la mia vita. Ciò non significa però li ritenga sempre storicamente accurati. Al contrario, anche se contengono preziose informazioni storiche sulla vita e la morte di Gesù, essi contengono anche una buona dose di materiale che non è storico». Rispetto a questo materiale non storico, Ehrman ha comunque precisato che «solo perché non è accaduto nella storia, non significa che non possa essere “vero” in qualche altro senso. Potrebbe essere un tentativo da parte dell’autore di trasmettere una “verità” su Gesù che è importante per la sua comprensione di lui».

«I Vangeli certamente contengono informazioni di importanza storica su Gesù», ha proseguito lo studioso scettico americano, citando come esempio le «ottime ragione storiche sul suo arrivo a Gerusalemme per celebrare la cena pasquale, sull’aver fatto arrabbiare i leader ebraici e romani, sull’essere stato arrestato e processato da Ponzio Pilato, essere stato trovato colpevole di tradimento contro lo Stato, ed essere stato crocefisso». Ma, «molti dettagli dei racconti evangelici non possono essere corretti». In particolare, Ehrman cita le contraddizioni sull’ultima cena contenute nel racconto di Marco (per il quale era la cena pasquale) e nel vangelo di Giovanni (per il quale il pasto si è svolto a mezzogiorno ed era il giorno di preparazione alla Pasqua). «Giovanni ha cambiato un dato storico per trasmettere una verità», è stato il commento dello studioso. «E’ l’unico che parla di Gesù come “l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, cioè come l’agnello pasquale tanto che nel vangelo di Giovanni egli muore lo stesso giorno in cui gli agnelli pasquali vengono massacrati nel tempio, nel giorno di preparazione per la Pasqua». Il problema, secondo Ehrman, è che «questo genere di cose succede dappertutto nei Vangeli», creando il materiale non storico di cui parlava.

Ehrman elenca quelle che ritiene essere le discrepanze tra i diversi vangeli, anche rispettive ai racconti della resurrezione (quante donne c’erano al sepolcro? La pietra era già rotolata via o la fanno spostare loro? Gesù appare ai discepoli a Gerusalemme come si legge nel vangelo di Luca, o in Galilea, come scrive Matteo? ecc.), concludendo così: «se i testimoni sono in contrasto gli uni con gli altri di volta in volta, non possono essere ritenuti affidabili». Forse la discrepanza più significativa riguarda la cacciata dei mercanti dal Tempio che avviene, per Marco alla fine della vita di Gesù, per Giovanni all’inizio. Ma lui stesso precisa che si tratta in gran parte di dettagli, «piccole, piccole differenze […]. So che alcuni di voi stanno leggendo queste istanze di discrepanze e non sono affatto impressionati».

RISPOSTA: DETTAGLI CHE NON ALTERANO L’ATTENDIBILITA’ STORICA.
Prima di entrare nel dettaglio della risposta, Licona ha premesso che «se consideriamo “storicamente affidabile” un documento solo se è privo di errori, allora dobbiamo considerare inaffidabile tutta la letteratura antica». Gli storici romani Sallustio e Tacito, ad esempio, hanno «spostato gli eventi dal loro contesto originario, trapiantandoli in un altro al fine di evidenziare un particolare aspetto», ma senza «distorcere intenzionalmente “verità”». Licona è d’accordo sul fatto che Giovanni abbia modificato la data e l’ora della crocifissione per enfatizzare il punto teologico che Gesù è il nostro agnello pasquale, definendolo un espediente letterario «utilizzato anche da storici greci, romani ed ebrei», aggiungendo che solo perché un testo utilizza dei dispositivi letterari «non significa che deve essere automaticamente classificato come letteratura piuttosto che come storia». Non è solo il genere biografico di quel tempo che permetteva queste piccole modifiche per comunicare meglio la verità, anche nel film Apollo 13 (1995), ad esempio, elogiato per la sua accuratezza storica, il regista ha reso molto più difficile la vita degli astronauti di quanto realmente accaduto, mettendo in bocca ai protagonisti parole mai dette realmente (come la famosa frase: “Il fallimento non è contemplato!”).

Inoltre, ha proseguito lo studioso cristiano, dato che «tra 1000 anni ci sarà un diverso modo di scrivere e raccontare, sarebbe ingiusto se gli storici del futuro considerassero inaffidabile la storia dei primi anni del ventunesimo secolo, solo perché oggi non abbiamo gli stessi standard di scrittura che avranno loro». Per questo occorre «pensare all’attendibilità storica alla luce delle convenzioni letterarie appartenenti al genere storico dell’epoca in cui è stato scritto», e non attraverso «le moderne convenzioni che richiedono una precisione quasi forense». Ovviamente, questo non significa «che l’autore non avrebbe potuto includere un piccolo numero di storie leggendarie, ma che una larga maggioranza di ciò che viene riportato è vero. Ad esempio, Svetonio è considerato uno dei migliori storici di Roma e consideriamo la sua “Vita dei Cesari” storicamente affidabile nonostante abbia usato in modo a volte indiscriminato le fonti e inserito, di tanto in tanto, storie leggendarie». Naturalmente, ha voluto precisare, «la “licenza artistica” ha i suoi limiti e alcuni autori sono andati così lontani che riteniamo inaffidabile ciò che hanno scritto».

Secondo Licona, «se leggiamo i Vangeli dal punto di vista dei dispositivi compositivi utilizzati da alcuni dei più fini biografi storici di quel periodo, la maggior parte delle contraddizioni tra i vangeli si scioglie, tra cui la maggior parte di quelle citate da Ehrman». Si, «ci sono alcune differenze che rimangono per le quali non ho alcuna spiegazione, ma anche queste non alterano la sostanza complessiva delle storie in cui appaiono». Tutti sanno, ad esempio, che il Titanic è affondato, ma i sopravvissuti si sono contraddetti l’un l’altro: alcuni hanno detto di aver visto la nave rompersi in due prima di affondare, altri giurarono che è affondata intatta. «Come avrebbero potuto sbagliarsi?», si è chiesto lo studioso. «E’ stata la notte più terrificante della loro vita, guardavano intensamente una nave lunga 800 piedi e sentivano le urla di chi era ancora a bordo, amici, familiari e colleghi. Non so come hanno fatto a sbagliarsi, ma nessuno ha citato le testimonianze contraddittorie concludendo che il Titanic non è affondato! La differenza riguardava un dettaglio periferico che non cambia l’essenza della storia e coloro che hanno ascoltato le loro testimonianze apprendevano il nocciolo accurato di ciò che era accaduto nel suo complesso. Allo stesso modo, praticamente tutte le differenze nei Vangeli riguardano dettagli periferici. Non ci sono vangeli che riferiscono che Gesù non è stato crocifisso o che la tomba era occupata dal cadavere di Gesù o che non è risorto».

Se andiamo oltre ai dettagli controversi, ha spiegato il prof. Licona, e considerando che gran parte di quanto descrivono riceve conferma dalle fonti non cristiane e dalle lettere di Paolo, «abbiamo ragione di credere che gli evangelisti non erano né troppo indiscriminati nell’uso delle loro fonti né troppo creduloni». Certo, «non possiamo escludere che alcune storie dei Vangeli contengono leggende o abbellimenti», ma certamente tutti e quattro «presentano un ritratto simile di Gesù come Figlio unico e divino di Dio, che è venuto a portare il regno di Dio, offrire la salvezza, che fu crocifisso, e sconfisse la morte». Infatti, chi è abituato a studiare «come gli storici più antichi riportano gli stessi eventi e li confronta a come vengono riportate le storie su Gesù, osserva chiaramente che le somiglianze tra i quattro vangeli sono a dir poco notevoli rispetto a come altri storici antichi riportano gli stessi eventi». Eppure «Ehrman vorrebbe che i racconti siano privi di qualsiasi licenza compositiva che alteri i dettagli. Questo requisito esclude non solo i Vangeli, ma tutta l’antica letteratura storica e rende il termine “storicamente affidabile” privo di significato». Perciò, concludendo, «la domanda non è se i Vangeli sono di “ispirazione divina”, “infallibili” o “senza alcun errore.”, ma se risultano storicamente affidabili sulla vita, gli insegnamenti e la risurrezione di Gesù. L’attendibilità storica ​​non richiede che tutto quanto riportato dagli autori si è verificato esattamente come descritto, né che gli autori non debbano aver incluso un piccolo numero di storie leggendarie, abbellimenti, o errori. “Attendibilità storica” ​​significa che una grande maggioranza di ciò che viene riportato è vero nella misura in cui i lettori ottengono il nocciolo accurato di ciò che si è verificato. I Vangeli, essendo conformi a questo, sono storicamente affidabili».

 

2) OBIEZIONE: TRADIZIONE ORALE POCO ATTENDIBILE, SI MODIFICA NEL TEMPO.
Nella seconda grande obiezione, il prof. Ehrman ha sostenuto che «i Vangeli sono stati scritti da cristiani altamente alfabetizzati, di lingua greca e che vissero 40-65 anni dopo la morte di Gesù. Non erano testimoni oculari degli eventi, perché essi appartenevano per la maggior parte alle classi inferiori, erano analfabeti e contadini della Galilea rurale di lingua aramaica» e «gli studiosi si sono resi conto che gli autori evangelici hanno acquisito le loro storie di Gesù dalla “tradizione orale”, cioè, dai racconti su Gesù che erano entrati in circolazione con il passaparola dal momento della sua morte. I Vangeli sono stati scritti tra il 70-95 d.C., da 40 a 65 anni dopo gli eventi che raccontano, e ciò significa che gli scrittori evangelici stanno riportando storie che sono state raccontate mese dopo mese, anno dopo anno, decennio dopo decennio, tra i cristiani di tutto l’impero romano, in luoghi diversi, in tempi diversi, anche in lingue diverse. Le storie quasi certamente sono cambiate nel corso del tempo. Ecco perché ci sono così tante differenze tra di loro».

RISPOSTA: LE FONTI DEGLI EVANGELISTI ERANO DIRETTE.
Secondo Licona, la tradizione orale era in realtà ben sottoposta al vaglio della chiesa primitiva. Infatti, ha spiegato, «un numero significativo di studiosi moderni del Nuovo Testamento, forse anche una maggioranza risicata, afferma che la fonte utilizzata da Marco è stato uno dei discepoli più vicini a Gesù, Pietro, mentre Luca si è rifatto a Paolo (con il quale aveva viaggiato) e la fonte primaria di Giovanni era un testimone oculare, uno dei discepoli di Gesù». Quindi, ha avvertito, «non è affatto vero che Marco, Luca e Giovanni sono i destinatari di storie su Gesù che erano state tramandate da qualche centinaio di persone prima di arrivare a loro». Inoltre, mentre Plutarco scrisse le sue Vite parallele (raccolta di biografie) a circa 150-200 anni dalla morte dei protagonisti, «con le date più ampiamente accettate dagli studiosi moderni, i Vangeli sono stati scritti nel giro di soli 35-65 anni dagli eventi che pretendono di descrivere. Quando i Vangeli sono stati scritti, in particolare i Sinottici, la gente che sapeva cosa era realmente accaduto era ancora in vita».

Inoltre, anche accettando l’analfabetismo di gran parte dei dodici apostoli, «gli autori evangelici avrebbero potuto essere aiutati da uno scriba che scriveva sotto la loro supervisione. Paolo ne ha fatto spesso uso, così come hanno fatto Cicerone e Bruto, anche se erano altamente istruiti». Bisogna anche considerare, aggiungiamo noi, che il substrato aramaico è «riflesso nei quattro Vangeli», tanto che diversi detti «sono proprio estranei all’ebraico e al greco» (cfr. J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol. 1, Queriniana 2006, p. 261-263): bisogna quindi ricontestualizzare l’obiezione di Ehrman sulla lingua utilizzata e parlata dagli autori degli scritti evangelici, che sembra essere la stessa utilizzata da Gesù e dai testimoni oculari degli eventi.

Per quanto riguarda la tradizione orale, essa è risultata essere abbastanza affidabile dai lavori sulla conservazione delle antiche tradizioni su Gesù trovate nei Vangeli, realizzati da diversi studiosi: Birger Gerhardsson, Samuel Byrskog, Kenneth Bailey, James DG Dunn, Werner Kelber ed Eric Eve. Noi stessi, ha aggiunto Licona, ricordiamo perfettamente eventi accaduti decine di anni fa, «sopratutto quando quei fatti si sono svolti in un contesto ricco di emozione e/o importanza personale, venendo fissati nella memoria in modo vivido». I primi cristiani, che oltretutto appartenevano ad una cultura orale, vennero sconvolti dall’insegnamento inedito di Gesù (ne siamo stupiti noi ancora oggi), lo osservarono «guarire i paralitici, i ciechi, i lebbrosi, gli indemoniati, lo videro camminare sull’acqua, confrontarsi con i leader ebrei, essendo crocifisso e poi risorgere. Una tale esperienza con Gesù avrebbe influenzato chiunque, tanto da rimanere fissata nella memoria per tutta la vita». Essi, inoltre, viaggiarono con lui di città in città, sentendolo predicare quotidianamente e, ovviamente, «non ci si aspetta che Gesù predicasse un sermone inedito in ogni villaggio, ma che utilizzasse una decide di prediche da adattare al tipo di pubblico, esponendo i suoi insegnamenti attraverso parabole e linguaggio iperbolico, facile da ricordare. I discepoli avranno ascoltato questi insegnamenti molte volte, correggendosi tra loro quando vennero inviati a predicare da Gesù. Si può capire come tale processo potrebbe aver facilitato la capacità dei discepoli di Gesù di ricordare ciò che egli insegnava, anche a distanza di molti anni».

 

3) OBIEZIONE: GESU’ NON HA MAI DETTO DI ESSERE DIO.
La terza obiezione di Ehrman si è basata sull’identità di Gesù, ha infatti affermato«Se il Gesù storico davvero non predicò dicendo di essere Dio in terra, c’è qualcos’altro che poteva forse dire di più significativo? Questa sarebbe la cosa più sorprendente che, concettualmente, avrebbe potuto dire. Eppure, come si spiega il fatto che tali parole non si trovano in nessuna delle nostre fonti precedenti a Giovanni? La spiegazione più probabile è che Gesù in realtà non ha detto queste cose. Si può certamente pensare che le parole di Gesù riportate da Giovanni siano teologicamente vere, cioè che in realtà Gesù era Dio in terra. Ma, storicamente, queste non sono probabilmente le cose che Gesù ha effettivamente detto di se stesso».

Inoltre, Ehrman ha accennato ad una tesi che ripete spesso nei suoi libri: «La mia opinione è che i primi seguaci di Gesù lo ritenevano un uomo, venendo poi a credere che era stato risuscitato dai morti. Col passare del tempo, altri cristiani cominciarono a pensare che Gesù non era originariamente un essere umano, ma che era stato un essere divino per tutta la vita, e hanno quindi sviluppato una teologia dell’incarnazione. Sto dicendo che il cristianesimo è iniziato con un’esaltazione cristologia e poi ha sviluppato una incarnazione cristologia».

RISPOSTA: GESU’ HA SCELTO DI RIVELARSI IN MODO PROGRESSIVO.
L’errore di Ehrman, secondo Licona, è non aver considerato che «la prima letteratura cristiana conosciuta è stata scritta da Paolo, il quale certamente ha creduto che Gesù era Dio in modo non diverso da quanto lo si attesta nel Vangelo di Giovanni». I racconti evangelici mostrano che Gesù svela la sua divinità in modo lento e progressivo, quasi pedagogico ed enigmatico. Un caso è esemplificativo: «In Marco 2,1-12, i capi ebrei accusano Gesù di blasfemia per aver perdonato i peccati di un paralitico, poiché solo Dio può perdonare i peccati. La risposta di Gesù si può riassumere in questo modo: “Questo è corretto. Solo Dio può perdonare i peccati!”». Allo stesso modo, Gesù compie miracoli che tutti sapevano essere possibili solo a Dio, «quando viene riconosciuto il genere biografico del Vangelo di Marco, è del tutto evidente che il ritratto che fa Marco di Gesù è quello di un essere che è, in un certo senso, Dio. E questo è il punto di vista anche di Paolo, che scrisse prima di Marco e di Giovanni».

Tornando a ciò che scrive Paolo e confrontandolo con Giovanni, Licona ha sintetizzato così: «Paolo predicò che Gesù preesisteva in forma di Dio, ancor prima di assumere un corpo umano (Fil 2, 6-11; cfr Gv 1, 1-2, 9,14); Paolo predicò che Gesù è il creatore dell’universo (1 Corinzi 8,6; Col 1,16 cfr. Giovanni 1,3,10). Paolo predicò che Gesù ha ricevuto lo stesso titolo e l’onore di Dio, il quale ha condiviso con il Figlio la gloria (Fil 2,9-11; cfr Is 45,23; Gv 17,5)». Concludendo, «si nota che questi insegnamenti sono chiari paralleli nel vangelo di Giovanni. E quando si aggiunge che allo stesso modo Marco ha a sua volta presentato Gesù come Dio in un certo senso, si osserva un ritratto coerente di Gesù, presentato da tutti loro, anche se con differente enfasi».

 

Sia il prof. Ehrman che il prof. Licona hanno parlato di molte altre cose nel loro confronto, ma per un maggior ordine abbiamo estratto soltanto gli argomenti più importanti di entrambi. Un dibattito ad alto livello, come ci auguriamo possa accadere prima o poi anche in Italia.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La fossa comune nell’orfanotrofio cattolico? Occhio alla bufala…

fake news bufala mediaNon c’è quotidiano online che ancora non ne abbia parlato: vicino ad un ex istituto gestito da suore in Irlanda, la Mother and Baby Homes, è stato trovato un “significativo numero di resti umani”. Le ossa appartengono a circa 800 bambini (796 per la precisione), di età tra le 35 settimane e i tre anni.

Lo si sapeva già nel 2014, oggi semplicemente sono stati effettuati gli scavi ed è stato confermato quanto già venne detto in passato. La Mother and Baby Homes fu una casa di accoglienza per madri non sposate e i loro figli che ha operato tra il 1925 e il 1961 in Tuam, nella contea di Galway in Irlanda. Venne gestito dalle suore francesi Bon Secours sister. 

I media sono incredibilmente interessati alla vicenda, probabilmente perché coinvolge un’istituzione cattolica. Purtroppo la notizia è infarcita da dati falsi e i giornalisti si stanno copiando a vicenda, ognuno aggiungendo macabri particolari inesistenti. Già nel 2014, quando la notizia uscì la prima volta, diversi quotidiani si avventarono sulla vicenda inventando orrori e crimini che sarebbero avvenuti in questi istituti cattolici, salvo poi dover chiedere scusa per le falsità scritte, come fece l’Associated Press. Qui sotto le principali bufale apparse sui media.

 

NON E’ UNA FOSSA COMUNE E I BAMBINI HANNO CERTIFICATO DI MORTE.
Si legge ovunque il termine “fossa comune”, ma le autorità di Dublino non hanno affatto parlato in questi termini. La stessa storica locale che ha portato avanti l’inchiesta, Caterina Corless, è intervenuta sull’Irish times dicendo: «Non ho mai usato la parola “scaricati”, non ho mai detto a nessuno che 800 corpi sono stati gettati in una fossa settica. Non sono le mie parole». La fossa comune è una buca in cui vengono gettati sbrigativamente cadaveri di più persone, senza alcuna segnalazione della loro morte. Nel caso dell’istituto irlandese, invece, per tutti i bambini deceduti è stato compilato un certificato di morte ed è grazie ad esso che Catherine Corless ha potuto segnalare anni fa la presenza di 800 bambini seppelliti. La storica ha spiegato che nei certificati compilati dalle religiose, compaiono i nomi dei bambini, la loro età, il luogo di nascita e le cause di morte. I documenti, inoltre, mostrano che molti bambini dell’orfanotrofio sono stati battezzati. Il numero medio annuale di morti nei 36 anni è stato poco più di 22 all’anno.

Inoltre, occorre ricordare che anche diversi ospedali governativi utilizzavano questo tipo di sepoltura in quel periodo, segnato da una pesantissima carestia e un’altissima incidenza di mortalità infantile. Il prof. Finbar McCormick, docente di Archeologia e Paleontologia presso la Queens University di Belfast ha rimproverato i media per l’utilizzo del termine “fossa comune” per descrivere il tipo di sepoltura: «Si tratta in realtà di un metodo comune di sepoltura utilizzato nel recente passato e utilizzato ancora oggi in molte parti d’Europa. Molti ospedali materni in Irlanda hanno utilizzato questo tipo di sepoltura comune per i bambini nati morti o per coloro che sono morti subito dopo la nascita. Questi venivano sepolti assieme in un cimitero vicino, ma più spesso in una zona speciale all’interno dell’ospedale».

 

NON SONO MORTI PER MALNUTRIZIONE.
Tutti i media inglesi e quelli italiani, a partire da Repubblica, stanno individuando nella malnutrizione la causa della morte dei neonati e dei bambini, incolpando di questo le religiose. In realtà il gruppo interdipartimentale istituito dal governo irlandese per studiare gli eventi (la Mother and baby homes commission of investigation) ha concluso che solo 10 bambini (l’1%) in circa 40 anni sono morti per questo. Gran parte degli 800 bambini sono invece periti per malattie presenti fin dalla nascita, problemi respiratori, tubercolosi, influenza, epilessia e meningite. C’è tuttavia da segnalare che in quello specifico istituto si è riscontrato quasi il doppio del tasso di mortalità rispetto ad altri istituti del Paese. Il tasso di mortalità complessivo del Paese era del 17%.

morti orfanotrofio

Un ex dirigente sanitario irlandese, Jacky Jones, è intervenuta scrivendo: «Perché siamo così scioccati dei 796 neonati e bambini che sono morti nella St Mary’s mother-and-baby home di Tuam? Alti tassi di mortalità infantile erano normali in Irlanda fino al 1970. Questo non era giusto, ma non c’è nulla di oscuro. Le indignazioni implicano che ci fosse qualcosa di sinistro circa le morti dei bambini ma non è di aiuto a nessuno, soprattutto alle donne i cui bambini sono morti in queste istituzioni. I bambini sono morti nella Casa di maternità per le stesse ragioni per cui sono morti nella baraccopoli di Dublino: la povertà e il basso stato di salute. Il tasso di mortalità infantile tra gli orfani è stato di circa cinque volte la media nazionale e i bambini provenienti da famiglie povere avevano quattro volte più probabilità di morire prima del loro primo compleanno. Per questo i tassi di mortalità neonatale e infantile nelle Case materne erano probabilmente circa 10 volte superiori la media nazionale».

 

CONTESTUALIZZARE GLI EVENTI AL PERIODO STORICO.
Il giornalista di Forbes, Eamonn Fingleton, cresciuto in Irlanda, ha spiegato che «per chiunque abbia familiarità con l’Irlanda (sono cresciuto lì negli anni 1950 e 1960), la storia che le suore hanno gettato coscientemente i bambini in una fossa settica non ha mai avuto senso. Un fatto sembra fuori discussione: le condizioni degli orfanotrofi irlandesi fino al 1960 (quando l’istituto al centro dell’attenzione è stato chiuso) sono note. Certamente il tasso di mortalità in molti di essi era incredibilmente alto. Ma chi dovrebbe essere incolpato? Una parte importante del problema sembra essere stata la dilagante povertà dell’epoca perché gli orfanotrofi irlandesi erano così disperatamente sottofinanziati e vergognosamente sovraffollati, il che significava che quando un bambino prendeva un’infezione contagiava tutti. Non ultimo dei pericoli era la tubercolosi, una malattia allora incurabile che si diffuse a macchia d’olio in condizioni di sovraffollamento». Le suore che gestivano la Mother and Baby Homes di Tuam «sono morte da tempo, ma se potessero parlare sicuramente direbbero che stavano facendo del loro meglio in condizioni spaventose. Oggi viviamo un’epoca di disinformazione».

La storica Caterina Corless ha spiegato sull’Irish Time che a volte, durante i 36 anni di attività, l’istituto di Tuam ha ospitato contemporaneamente più di 200 bambini e 100 madri. Ha anche ricordato che i bambini sono stati sepolti in un cimitero non ufficiale sul retro dell’ex istituto e questo piccolo spazio erboso è stato assistito per decenni dalla popolazione locale, che ha piantato fiori e ha costruito una grotta in un angolo (ben visibile in tutte le fotografie).

La Conferenza Episcopale irlandese è intervenuta già nel 2014 a sostegno dell’indagine governativa sui fatti di Tuam, esprimendo dispiacere del fatto che «i residenti di queste case hanno sofferto alti livelli di mortalità e malnutrizione, malattie e povertà». I vescovi irlandesi hanno anche ricordato che «purtroppo in quel tempo le ragazze madri erano spesso giudicate, stigmatizzate e rifiutate dalla società, e lo fece anche la Chiesa». Tuttavia il sociologo Bill Donohue ha pubblicato un lungo resoconto dei fatti, spiegando che le religiose Bon Secours erano «infermiere addestrate venute da Dublino per farsi carico di una casa per poveri, anziani, malati, bambini orfani e donne non sposate. Queste case erano sorte per iniziativa della Irish Poor Laws del 1840, emanata dal governo irlandese, ma dopo il 1921 il sistema venne rivisto, separando gli orfani dalle donne non sposate. E’ importante notare qual era l’alternativa per queste donne e i loro bambini: la strada, per questo ricercavano rifugio nelle istituzioni cattoliche. Questo è raramente riconosciuto. Nel 1961 l’edificio stava cadendo a pezzi e aveva bisogno di essere ristrutturato ma i fondi non erano disponibili, quindi è stato chiuso. Le suore hanno consegnato tutti i documenti alle autorità».

David Quinn dell’Irish Independent è intervenuto a proposito della stigmatizzazione sociale patita dalle ragazze madri, ricordando che non si tratta affatto di un “costume cattolico”, né tanto meno di una caratteristica irlandese. Ha fatto notare infatti che era la norma ovunque, in società cattoliche o non. Nella laica Svezia, ha scritto come esempio, le ragazze madri venivano addirittura sterilizzate, oppure costrette ad abortire. Il sociologo Bill Donohue ha fatto presente che la “stigmatizzazione” è «una dura realtà, ma si tratta di una sanzione sociale impiegata in ogni società conosciuta. Serve come correttivo, come mezzo per scoraggiare comportamenti indesiderati. Al cambiamento della società, l’uso dello stigma può aumentare o diminuire. Oggi c’è uno stigma sociale, ad esempio, verso i fumatori e non più verso i responsabili di figli nati fuori dal matrimonio». Occorre tuttavia accogliere l’indicazione che i vescovi irlandesi hanno rivolto pubblicamente ai cristiani, indicando l’errore nel comportarsi “come il mondo”, poiché «il Vangelo ci chiama a trattare tutti, in particolare i bambini e le persone più vulnerabili, con dignità, amore, compassione e misericordia. Ci scusiamo per la ferita causata dalla Chiesa, come parte di questo sistema».

 

I TRATTAMENTI RICEVUTI DALLE MADRI E DAI BAMBINI DELL’ISTITUTO.
Nel 2012, la responsabile delle ricerche, Caterina Corless, ha raccolto diverse fonti che descrivono la situazione dell’istituto oggi al centro della polemica. Ad esempio il viaggiatore Halliday Sutherland, scrive la Corless, «ha descritto l’istituto come un edificio a due piani su un terreno di proprietà». Sutherland, che visitò la Casa durante il periodo di attività, annota: «L’edificio è ben tenuto, fresco e pulito. La Casa è gestita dalle Suore di Bon Secours di Parigi e la reverenda Madre mi ha mostrato l’interno. Ognuna delle suore è infermiera professionale e ostetrica. Alcune sono anche esperte di infermieristica per bambini. Una ragazza non sposata può venire qui per far nascere il suo bambino. Se lei è d’accordo può rimanere nella casa per un anno, assistendo il suo bambino assieme alle suore, le quali non vengono retribuite per questo. Alla fine dell’anno può andare via, può prendere il suo bambino con lei oppure lasciare il bambino nella Casa, con la speranza che possa essere adottato. Le suore mantengono il bambino fino all’età di sette anni, quando viene inviato ad una scuola industriale» (Sutherland Halliday, Irish Journey, Wyman & Sons Ltd, Fakenham, UK 1956). Si tratta di una testimonianza oculare, una fonte di prima mano.

In articolo dell’ottobre 1953 del quotidiano locale The Tuam Herald, si criticano i metodi di adozione adottati dalle suore, in quanto «non è stato sempre fatto il miglior sforzo per trovare la casa più adatta al bambino e l’assegno dato dai genitori per la crescita non è stato sempre speso per il benessere del bambino». In un altro articolo, risalente al 25/06/1949, si legge di un’ispezione avvenuta nell’istituto condotto da ispettori del consiglio della contea di Galway, riferendo questo: «tutto nella Casa è in buon ordine e gli ispettori si sono congratulati con le sorelle Bon Secour per le ottime condizioni della loro istituzione». Molti collegano questi eventi alle Case Magdalene irlandesi, anch’esse oggetto di fake news anticlericali: per approfondimenti segnaliamo il nostro dossier e l’ottimo articolo di Massimo Micaletti.

 

Dove sono finite dunque le suore violente che gettano nelle fosse comuni i bambini che hanno ucciso tramite malnutrizione e cure inadatte, come stanno raccontando i giornali? Se si ricostruiscono gli eventi, come abbiamo fatto, seppur sommariamente, rimane ben poco della bufala che sta girando sui media. Ovviamente non si vuole sostenere che nell’Irlanda della prima metà del ‘900 tutto era perfetto, tanto meno negare i limiti delle istituzioni cattoliche e/o statali della società irlandese di quel periodo storico. Di certo, ha scritto il sociologo Bill Donohue, «i giornalisti obiettivi ed indipendenti dovrebbero raccontare correttamente i fatti, purtroppo ci sono troppi giornalisti pigri e incompetenti pronti a ingoiare l’ultimo chiaro di luna sulla Chiesa cattolica. Se ci fosse un Pulitzer per le fake news, la concorrenza sarebbe agguerrita».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Ora anche i poligami vogliono le nozze e usano la retorica gay

nozze poligami gayEra già tutto previsto. I gruppi poligami, assieme ai loro sostenitori, stanno manifestando negli USA invocando la fine della discriminazione e la rivendicazione del diritto legale del matrimonio, così come è stato concesso agli omosessuali.

Era il 22 aprile 2013 e le nozze gay erano ancora proibite nell’America di Barack Obama, eppure su questo sito web appariva un articolo in cui avvertivamo che aprendo al matrimonio tra persone dello stesso sesso, minando così alle fondamenta dell’istituto matrimoniale, sarebbe crollato il suo stesso significato. Sarebbe stato poi impossibile negare il “diritto” del matrimonio a qualunque altra formazione umana, dagli incestuosi agli amici che intendono avvalersi dei benefici del matrimonio, fino ai gruppi poligamici. Se il matrimonio viene concepito come un contratto privato tra soggetti consenzienti legati da una relazione romantica, ci domandavamo nel 2015, con quali argomenti si potrà vietare di riconoscere la poligamia?

«Amo tutte le mie mamme», si legge in questi giorni sui cartelli dei figli dei poligami che stanno manifestando davanti al Campidoglio di Salt Lake City, nello Utah. «Se fossimo gay, saremmo OK», recita un altro, protestando verso il trattamento di favore riservato dallo Stato alle persone omosessuali. «Che male vi facciamo se ci sposiamo?», domanda un uomo con tre donne, usando la stessa retorica vittimistica delle associazioni Lgbt.

D’altra parte, lo diceva già il compianto laico Indro Montanelli: «la nostra società è basata, ci piaccia o no, sulla famiglia, e la famiglia è per definizione formata da un uomo e da una donna. E’ un postulato, lo riconosco, ma è basato sulla natura, sulla tradizione e sul buon senso. Se ammettiamo il “matrimonio gay” non avremo più argomenti per opporci al matrimonio a tre, o ad altre variazioni sul tema. Sulla possibilità di crescere figli adottivi, poi, non ho dubbi: le due figure – materna e paterna – rimangono fondamentali (nonostante certi padri e certe madri). Nessuno può arrogarsi il diritto di imporre a un bambino regole diverse» (I. Montanelli, Gli omosessuali non vanno discriminati, da “La stanza di Montanelli”, Corriere della Sera 15/01/1999).

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il comunismo uccise 20 milioni di cristiani, altro che Inquisizione!

ateismo di stato Secondo uno studio del matematico russo Nikolay Yemelyanov, docente alla Università Ortodossa San Tichon, nei sette anni di potere leninista -dalla rivoluzione russa del 1917 fino alla morte di Lenin nel 1924-, circa 25mila sacerdoti ortodossi furono imprigionati e 16mila vennero uccisi, in quanto cristiani.

Lo stesso è accaduto ai preti cattolici, molto meno numerosi e il cui caso è meno studiato. Lo ha citato nel suo libro lo scrittore laico britannico Martin Louis Amis, che ha anche raccolto alcune frasi significative del dittatore Vladimir Lenin: «Ogni idea religiosa, ogni idea di Dio è un’abiezione indescrivibile delle specie più pericolose, un’epidemia delle specie più abominevoli. Ci sono milioni di peccati, atti di violenza e contagi fisici che sono meno pericolosi della sottile e spirituale idea di Dio» (citato in M. Amis, Koba il terribile, Einaudi 2003).

Proprio in questi giorni si ricorda la Rivoluzione russa, l’evento che portò i bolscevici al potere nell’Unione Sovietica (23-27 febbraio 1917, Lenin prenderà il potere nell’ottobre dello stesso anno). Lo sterminio dei credenti proseguì anche dopo la morte di Lenin: secondo il prof. Todd M. Johnson, docente di Global Christianity e direttore del Center for the Study of Global Christianity presso il Gordon-Conwell Theological Seminary, il numero delle vittime cristiane che trovarono la morte sotto al regime ateo-marxista furono 20 milioni (15 milioni tra il 1921 e il 1950 e 5 milioni tra il 1950 e il 1980). Dati che trovano conferma anche in altri studi. Senza contare, ovviamente, i numeri dei torturati e degli incarcerati per il solo fatto di professare la fede in Dio ed essere, dunque, automaticamente nemici dello Stato.

Anche per questo lo storico Fulvio De Giorgi, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha dichiarato: «Il comunismo era una religione secolare, senza senza Dio: una tragica religione atea. Ha avuto una “fede religiosa” (rovesciata), politica e intra- umana, con un’escatologia profana: un millenarismo storico. Purtroppo questa fede nella possibile perfezione terrena era in realtà disumana e, mancando della vera speranza escatologica trascendente, doveva vedere come nemici e odiare tutti coloro che non si adeguavano ai suoi schemi para-teologici. Così, quello che doveva essere il paradiso in terra fu, nella realtà, un inferno orribile, una dittatura fatta di gulag, deportazioni, soppressioni di massa, inquadramento da caserma». Giorgio La Pira, ha continuato lo storico italiano, «diceva ai sovietici: tagliate dal grande albero del socialismo il ramo secco dell’ateismo (marxista). Non fu ascoltato e parve un ingenuo utopista. Ma poi il comunismo sovietico è crollato, con infamia. Mentre di La Pira si parla ancora, con rispetto e positivo interesse».

Purtroppo anche Antonio Gramsci continua ad essere guardato con assoluto rispetto, seppur si sappia che -come è stato scritto giustamente pochi giorni fa- «fu a lungo fan dei bolscevichi, della violenza rivoluzionaria, dei campi di lavoro e del repulisti sociale. Lenin era un Grand’Uomo, il Padre dei Popoli e il Grande Timoniere che aveva forzato gli eventi storici con un colpo di mano».

Davanti a tutto questo stupisce che lo scrittore belga Pieter Aspe abbia recentemente paragonato il terrorismo islamico a «quanto accadeva nel Medioevo, quando erano i cristiani con l’Inquisizione ad uccidere donne e infedeli, imporre la loro fede. Oggi sono gli estremisti musulmani a farlo». A parte l’ignoranza storica, dato che l’Inquisizione fu prettamente rinascimentale e promossa particolarmente dalla confessione protestante e non cattolica -come spiegato dalla storica Marina Montesano e dallo storico Franco Cardini-, la prof.ssa Anne J. Schutte, docente all’University of Virginia ha inoltre spiegato con validi argomenti che il sistema inquisitoriale «ha offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna» (A.J. Schutte, Aspiring Saints, Johns Hopkins University Press 2001), il tutto confermato dallo studio di Christopher Black dell’Università di Glasgow, autore di Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci 2013). Rispetto ai numeri dei condannati dall’Inquisizione, tutti gli storici parlano di poche migliaia di casi, tra essi stupratori, pedofili e rei di omicidio.

Il paragone tra terrorismo moderno (e antico) islamico e l’Inquisizione è dunque storicamente insostenibile e folle, seppur questo non significhi negare che spesso nella storia della Chiesa vi siano stati tragici errori che, seppur contestualizzati e ridimensionati per correttezza storica, rimangono grosse colpe umane. Ma, come ha spiegato Benedetto XVI, «è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura».

Michael R. Licona, teologo dell’Houston Baptist University, ha scritto«Vale la pena notare che c’è una grande differenza tra Stalin e un criminale cristiano. Quest’ultimo ha agito in contrasto con gli insegnamenti di Gesù, mentre non si può dire che Stalin abbia agito in contrasto con gli insegnamenti dell’ateismo dal momento che l’ateismo non ha intrinseci insegnamenti morali. Stalin non ha agito in modo incompatibile con le credenze atee, mentre un criminale cristiano agisce sempre in contrasto con gli insegnamenti di Gesù»L’imbarazzo con cui il mondo ateista e anticlericale dimentica puntualmente l’inquisizione atea sovietica -che ha causato morti e sofferenze immensamente superiori a quelli attribuiti all’Inquisizione-, sembra forse suggerire che il prof. Licona non abbia tutti i torti.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’Islanda ha sconfitto la droga con proibizione ed educazione

probizionismo islandaIl tema della liberalizzazione della cannabis è tornato d’attualità dopo il suicidio di un giovane di Lavagna (Liguria) durante una perquisizione della Guardia di Finanza.

Roberto Saviano ha sfruttato la sua morte per perorare la battaglia pro-legalizzazione, sostenendo che «uno Stato che vieta potenzialmente criminale». Il sindacato di polizia (Coisp) ha definito «un delirio» le sue «considerazioni, che rasentano il criminale e risultano diffamatorie».

Uno degli Stati europei che Saviano considera «criminali» è certamente l’Islanda, in cui il consumo di cannabis non solo è completamente illegale anche per piccole quantità, ma è punito con il carcere il possesso, la vendita, il trasporto e la coltivazione. «La polizia locale», si legge su Iceland Magazine, «può diventare estremamente aggressiva quando c’è da far rispettare la legge se si tratta di cannabis». D’altra parte, lo ha dimostrato un sondaggio dello scarso anno, il 76% della popolazione irlandese è contraria alla liberalizzazione della marijuana.

Non fatichiamo a comprendere questi dati poiché oggi l’Islanda è diventato un modello internazionale nella guerra alla droga e alle dipendenze, comprese quelle al tabacco e all’alcool. Dal 1998 al 2016, infatti, la percentuale di giovani che fa uso di cannabis è calata dal 17% al 7%, facendoli diventare i più salutisti d’Europa (lo ha dimostrato uno studio su Addiction Journal dell’aprile 2016). Ne ha parlato recentemente l’Huffington Post, citando un’importante inchiesta apparsa su mosaicscience.com. Un anno fa aveva trattato la questione anche lo psicologo americano Harvey B. Milkman, del Metropolitan State College di Denver.

Da queste tre importanti fonti si scopre che il successo islandese deriva da un mix di duro intervento repressivo da parte dello Stato, accompagnato all’invito ai genitori a trascorrere più tempo con i loro figli, «a parlare con loro della vita, sulla loro vita, conoscere i loro amici e mantenerli a casa durante la sera». L’Islanda si è anche impegnata in questi vent’anni a finanziare diverse attività extrascolastiche, culturali e sportive. Questo perché, è spiegato, «il legame con la famiglia, il rapporto con i coetanei e il coinvolgimento in attività ricreative sono i più forti» deterrenti al consumo di droghe.

Più tempo in famiglia, più educazione, più tempo dedicato allo sport e alla cultura, controlli ferrei e dure leggi contro il consumo di droga. Questo è il segreto dell’Islanda, oggi definito dal prof. Milkman «il paese più progressista del mondo nel ridurre l’abuso di sostanze negli adolescenti. In più di 4 decenni di studio sull’abuso di sostanze, non ho mai visto un approccio più promettente». Esattamente l’opposto di quanto avvenuto invece in Colorado dopo la liberalizzazione della marijuana.

D’altra parte il sistema islandese rispecchia le parole che il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha dichiarato recentemente: «le leggi da sole non bastano. Bisogna saper educare». Saviano prenda nota.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Una risposta al libretto antibergogliano di Aldo Maria Valli

antipapismo aldo maria valliPubblichiamo la lettera che il vaticanista del Corriere della Sera, Luigi Accattoli, ha scritto al collega Aldo Maria Valli, uno dei giornalisti antibergogliani. Non concordiamo con diverse affermazioni di Accattoli, né con i convincimenti di Valli, ma ci sembra un bel dialogo e, dopo aver dato spazio alle tesi del secondo, proponiamo la risposta del primo.

 
di Luigi Accattoli
da Il blog di Luigi Accattoli, 02/2017
 

Aldo Maria Valli scrivo a te per il conflitto su Francesco: è da un anno che ti tengo d’occhio zitto zitto perché diffido – come sai – dei dibattiti sulle opinioni. Ma seguendo il tuo blog Duc in altum e leggendo il tuo libretto 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P. (Liberilibri 2016) sono arrivato alla conclusione che le tue forzature documentali e interpretative non potevo più tollerarle. Farò tante citazioni: tutte sono da cercare in quel volumetto che indicherò come Libretto 266: essendo quello il numero d’ordine di papa Bergoglio nella successione dei vescovi di Roma.

Voglio dire Aldo Maria che qui – e anche in futuro – non starò a contestare i tuoi convincimenti ma farò dei segnacci sugli elementi informativi inappropriati che vai accumulando per accusare Francesco di non rendere il giusto “servizio alla verità” (Libretto 266, pagina 116), di muoversi con un pragmatismo che “rasenta il cinismo” (ivi 137), di portare la barca di Pietro a infrangersi “sugli scogli della modernità” (143), di “iscrivere la Chiesa al partito del relativismo” (172), di “mettere a rischio il munus docendi” (194).

Ho riletto con impegno di schedatore i tuoi quattro libretti su Francesco: i tre a favore [I giorni della rivoluzione di Francesco e Con Francesco a Santa Marta, pubblicati da Ancora nel 2013 e nel 2014; Viva il Papa? che hai scritto in dialogo con Rodolfo Lorenzoni, per Cantagalli 2014] e quello, già citato, che rovescia gli argomenti a favore già lungamente covati. Leggevo dunque con leggera vertigine le tante “perplessità” che rovesci sul povero papa nel Libretto 266, dove ne qualifichi l’insegnamento come reticente (pagina 27), incompleto, parziale, generico (pp. 39 e 83), riduttivo (41 e 122), problematico (43), vago (54), confuso (84), ingarbugliato (100), esagerato e avventato (118), spregiudicato (131), disorientante (144), superficiale (153 e 179), indeterminato (163), sconcertante (170).

Ero ammirato da tanti aggettivi squalificativi, quando ho letto il 6 gennaio nel tuo blog la stroncatura di due parlate papali riguardanti il dolore innocente: una del 15 dicembre 2016 e l’altra del 4 gennaio 2017, accomunate dall’affermazione che “la risposta [alla domanda su quel dolore] non c’è”, soltanto puoi stringerti al Crocifisso: “Il pianto, il dolore come Gesù in croce”. Parole per le quali io ero pieno di gratitudine mentre tu ne facevi strame, sostenendo che le risposte ci sono e che il papa tradiva il suo ruolo non facendole valere e parlando come parlano gli atei.

Ti iscrivevi con entusiasmo tra gli “amici di Giobbe”, che spiegano al poveretto la ragione dei suoi malanni, e le elencavi, le risposte, quelle del catechismo: che il male non viene da Dio ma dall’avversario e dal peccato e così via. E non c’era verso di farti intendere che quegli elementi di catechesi non costituivano in alcun modo una risposta al grido della creatura dolorante. Ero due volte arrabbiato con te perché in una circostanza simile Benedetto XVI aveva detto le stesse parole di Francesco: e cioè che “le risposte non le abbiamo” (22 aprile 2011). E di Benedetto avevo nel cuore le dolenti confessioni sullo stesso argomento fatte ad Auschwitz il 28 maggio 2006, e tu ed io eravamo là: “In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio”.

Ti ho interpellato dal mio blog rifacendomi all’autorità del papa teologo e tu replicavi che sì, non c’era dubbio, anche lui con quella risposta aveva tradito il “deposito”. La prontezza con cui insegnavi il credo agli apostoli mi ha aperto gli occhi: tu non sei perplesso, sconcertato, confuso per quello che dice e fa il papa attuale, ma anche per quello che dicevano e facevano i predecessori conciliari e in più occasioni li stronchi tutti insieme, o a due, o a tre per volta, a seconda delle materie, sempre con mirabile garbo, neanche avvertendo che le riserve che fai valere sull’argentino non possono non valere per il tedesco, o il polacco, o il bresciano, o il bergamasco, tutte le volte che hanno detto o fatto lo stesso.

Poniamo sul no al proselitismo, per il quale ti chiedi “che male c’è?” e che interpreti come rinuncia alla missione, che non è (pp. 96-98). Come se tu non sapessi che esistono una decina di documenti del dialogo ecumenico che dicono no al proselitismo, sottoscritti o autorizzati dai papi Wojtyla e Ratzinger, testi ai quali Francesco correttamente si attiene (per esempio La sfida del proselitismo e la vocazione alla testimonianza comune approvato nel 1995 dal Gruppo misto di lavoro del Consiglio ecumenico delle chiese e della Chiesa cattolica romana). Sulla giornata di Lund: ti chiedi supercilioso “che cosa ci sia da commemorare per la Chiesa Cattolica” (p. 50) e di nuovo stronchi insieme Francesco e Benedetto: Francesco infatti è andato in Svezia a commemorare i 500 anni della Riforma perché il predecessore aveva accolto l’invito della Federazione Luterana mondiale a quel ricordo condiviso e aveva comandato al cardinale Kurt Koch di avviarne la preparazione.

“Uno schiaffo per Asia Bibi è il titolo di un paragrafo della tua invettiva (pp. 119ss), come tu non sapessi che una sola parola del papa porterebbe all’esecuzione di quella condanna a morte. Ricordi Shahbaz Bhatti che difendeva Asia e che fu ucciso? Ricordi il fratello Paul? “Faccio appello ai mass-media perché, d’ora in poi, adottino un silenzio-stampa sul caso di Asia Bibi. E’ necessario per poter agire realmente per la salvezza della donna, lontano dai riflettori e dalle attenzioni dei gruppi fondamentalisti”: questo appello di Paul è dell’ottobre 2011 e Benedetto l’accolse e non nominò più Asia.

Lamenti che negli appelli dopo gli attentati islamisti Francesco non nomina mai la loro matrice religiosa: ed è esattamente quello che facevano i predecessori. E sai quanto me come si espresse Giovanni Paolo II dopo l’11 settembre 2001, o Benedetto dopo la strage del capodanno 2011 in una chiesa copta di Alessandria d’Egitto. “Pechino val bene un silenzio” (pp. 135ss) è un altro paragrafo che accusa di cinismo l’argentino perché non parla delle persecuzioni della Cina comunista contro i cristiani e i tibetani. Ma ben sai che con lo stesso sguardo incoraggiante al domani si erano espressi verso la Cina, nei decenni, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in analoghi appelli ai governanti di Pechino.

Alle volte l’urgenza di accusare Francesco si fa così impellente per te che arrivi ad artifici inimmaginabili nell’Aldo Maria che conoscevo prima della curva. Parlando nel tuo Blog di Francesco e Kirill il 14 febbraio 2016 lamenti che i “prezzi” dell’abbraccio li abbia pagati solo Francesco e vedi malissimo il fatto che l’incontro sia avvenuto nel “triste aeroporto dell’Avana, senza alcun simbolo religioso”. Non trovasti interesse al fatto che nella dichiarazione comune il patriarca di Mosca riconoscesse il diritto a esistere delle comunità greco cattoliche inserite in popoli ortodossi e non vedesti che il colloquio dei due era avvenuto sotto a un maestoso Crocifisso e che il tavolo della firma era illuminato da una Vergine di Kazan in posizione principe.

Sull’Amoris laetitia, tu sei figli e io cinque, non finiremmo di discutere. Ma qui mi fermo a un’affermazione di quadro: prima – e più volte a partire da pagina 63, con appello a Spaemann e Caffarra – drammatizzi sulle pericolose novità dell’esortazione, che comporterebbero inaccettabili cedimenti al relativismo; ma alla fine, e come per sovraccarico, concludi che “la montagna ha partorito il topolino” (pagina 83ss) e che le stesse “novità” di indirizzo per l’integrazione dei divorziati risposati e per l’accompagnamento delle coppie in situazioni problematiche sono solo apparenti, perché “tutto ciò avviene già da molto tempo” e dunque non c’era bisogno “di due Sinodi e di tante discussioni”. Forse Aldo Maria si deve accordare con Valli? Se Francesco non dice nulla di nuovo come farà tanti danni?

Concludo con i valori non negoziabili, motto che Francesco con tuo scandalo non rivendica più. Ma tu ed io, già tranquilli elettori del Pd, non eravamo contrari a quel motto che fu del cardinale Ruini e di Papa Benedetto e nel quale vedevamo troppa intenzione politica? Tu eri più contrario di me e anche ne parlammo presentando a Milano il tuo libretto Scritti cattolici (Messaggero 2010), dove i “valori non negoziabili” sono criticati a pagina 260. In Viva il Papa? addirittura lodavi due volte Francesco per aver messo quel motto “nel cassetto”: alle pagine 90 e 110. Ma non è questo tuo scavalco che m’interessa bensì il lunare argomento con cui ti stracci le vesti.

Riferisci l’affermazione di Bergoglio intervistato dal “Corriere della Sera” il 5 marzo 2014: «Non ho mai compreso l’espressione valori non negoziabili. I valori sono valori e basta, non posso dire che tra le dita di una mano ve ne sia una meno utile di un’altra. Per cui non capisco in che senso vi possano essere valori negoziabili». Riferisci quelle parole e accusi il povero papa di “affermare che i valori sono sempre e comunque negoziabili” e di proclamare “la negoziabilità totale” (libretto 266, pp. 53-55). Cioè l’accusi del contrario di ciò che afferma: Aldo Maria, ho sempre ammirato la leggerezza argomentativa. Continuerò a seguire la tua produzione antibergogliana. Quest’uscita la concludo con un riconoscimento: il libretto in cui stronchi Francesco è più interessante di quelli nei quali lo lodavi.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Maria era sposata con Giuseppe quando partorì Gesù?

maria e giuseppeI genitori di Gesù, Maria e Giuseppe, erano sposati o soltanto fidanzati? Una questione sorta a causa di un’errata traduzione dall’aramaico al greco.

 
 
 

Fin dai tempi del filosofo Reimarus, all’interno dell’orbe protestante (e illuminista) è sempre sorta una qual volontà misteriosa nello smontare le verità della Scrittura, trovando sempre gusto nel disfare le verità di fede.

Quello che stiamo per trattare è tuttavia un caso di errata traduzione del testo originale che ha generato molta confusione.

Davvero Maria e Giuseppe non erano sposati come se ne deduce dalla traduzione operata dalla New Living Translation?

Prima di rispondere, occorre ricordare che l’Antico ed il Nuovo Testamento sono un insieme di libri scritti in lingue antiche, ed ogni traduzione è sempre un piccolo tradimento.

Non è mai possibile rendere perfettamente espressioni e modi di dire di una lingua in un’altra: né tra lingue derivanti da uno stesso ceppo linguistico, né tra lingue moderne e antiche. Il confronto con queste ultime, inoltre, è reso ancora più complicato dai tanti secoli che separano le nostre mentalità e culture dalle loro.

La traduzione inglese del Nuovo Testamento ci presenta proprio un problema di questo tipo, come segnalato dallo storico Mark Wilson dell’University of North Carolina, sul sito Biblical Archeology.

 

Maria e Giuseppe erano fidanzati o sposati?

Sembrerebbe infatti che la nuova versione dei primi capitoli del Vangelo di Luca non faccia particolare attenzione alla traduzione del verbo greco μνηστευομαι, dal significato non univoco, presente più volte in questi capitoli e anche nell’Antico Testamento. Tale vocabolo è inserito due volte nel giro di pochi versetti: al 1,27 e al 2,5.

Essi rispecchiano però due momenti ben distinti della vita di Maria e di Giuseppe, nel primo siamo al momento dell’Annunciazione, mentre nel secondo si parla del parto di Maria a Betlemme. In  mezzo, evidentemente, passano almeno nove mesi, non poco dal punto di vista cronologico.

La traduzione inglese, New International Version (NIV), traduce tuttavia in entrambi i casi il verbo con “promessa sposa”.

La cosa è piuttosto problematica: Maria, nel fare il viaggio con Giuseppe verso Betlemme per il censimento, non sarebbe ancora legittima sposa di Giuseppe, ma semplicemente fidanzata con lui.

La cosa oggi, per la mentalità laica, potrebbe non creare molti problemi, ma all’epoca permettere a due fidanzati di andarsene lontani centinaia di chilometri da soli, aspettando un bambino per giunta, sarebbe stato uno scandalo, soprattutto nella Palestina di quel tempo.

 

Il dilemma si risolve correggendo l’errata traduzione.

In quei nove mesi invece qualcosa è accaduto: dal fidanzamento si era passati ad un vero e proprio matrimonio, come era prassi nel popolo ebraico. Questo lo testimonia il Vangelo di Matteo che, spiegando gli avvenimenti dal punto di vista di Giuseppe, mette più luce su come si svolsero i fatti parlando di “marito di Maria” o “lo sposo di Maria” (Mt 1,16).

Il problema nasce dalla traduzione fallace del verbo μνηστευομαι.

Secondo il Dizionario del greco del Nuovo Testamento (dizione EDB), curato da don Carlo Rusconi, questo termine può avere due significati ben distinti: può significare “sono fidanzata a” ma anche “sono stata presa in moglie da”. Due concetti distinti, due condizioni di vita ben identificate.

Questo non deve sorprendere: la lingua greca, nel corso dei secoli, ha visto arricchirsi il suo vocabolario di nuovi termini, di nuovi nozioni, dovendo inventare o “improvvisare” parole che corrispondessero alle nuove situazioni, alle culture con cui la koinè (il greco ellenistico) impattava.

Per di più, sappiamo anche che nel campo biblico, il greco si è dovuto adattare alla lingua degli agiografi, l’aramaico, molto più povera rispetto a quella ellenica. E’ chiara qui la svista del traduttore che ha troppo velocemente assimilato le situazioni, rischiando di creare non poco scandalo.

Il lavoro di traduzione è forse una delle responsabilità più grandi, perché tradurre i testi sacri, così delicati ma soprattutto così importanti per la vita della Chiesa, significa comprendere e interpretare la Parola di Dio, affinché i fedeli possano trarre alimento dalla “letteratura” più importante che il mondo abbia.

 

Anche per questo, la Chiesa cattolica è sempre stata lontana dall’affermare la totale perfezione di una qualsiasi traduzione (a parte la Vulgata di San Girolamo per il valore teologico che essa trasmette).

E’ opportuno conoscere la Sacra Scrittura e prestare attenzione perché, come l’esempio ha dimostrato, non sempre ogni traduzione riesce a rendere in modo corretto il significato del testo originale.

Luca Bernardi

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Eutanasia, dieci grandi ragioni contro il suicidio di Stato

dj fabo eutanasiaAlla fine Dj Fabo si è fatto uccidere. I Radicali hanno sapientemente sfruttato la sua vita e la sua morte per i loro miseri scopi, selezionandolo tra tanti proprio in corrispondenza di una legge sul testamento biologico alla Camera. Marco Cappato si è autodenunciato, puntando alla gloria personale del martire per poter resistere sulla scena mediatica qualche giorno di più, campando sulle spalle dell’ex dj.

E’ triste anche leggere chi accusa Fabiano Antoniani di essere un “vigliacco”, mostrando incapacità di mettersi cristianamente nei panni di quest’uomo e di provarne umana compassione. L’eutanasia, come ha sempre spiegato Livio Melina, è una «risposta sbagliata, umanamente e moralmente sbagliata, ad un problema vero, reale e drammatico» (L. Melina, Corso di bioetica, Piemme 1996, p. 210). Fabiano, che ha chiesto la presenza di un sacerdote prima di partire per la Svizzera, immerso nella cultura laicista, ossessionata dalla morte e dal suicidio, che non riconosce alcun senso profondo della vita -se non un mero e realativistico “bene” finché le cose vanno, appunto, bene-, si era convinto che l’eutanasia fosse l’unica strada percorribile. E sembra essere oggi la convinzione di tutti, conservatori e liberali, di destra e sinistra (da Il Giornale e da Matteo Salvini fino al Gruppo l’Espresso e a Roberto Saviano, uniti dalla stessa battaglia per l’eutanasia legale).

In tanti casi, purtroppo, le obiezioni all’eutanasia risultano sentimentalistiche e poco strutturate, ed è comprensibile data la difficoltà della tematica: molto più facile diffondere facili slogan sulla dolce morte che affrontare le complesse argomentazioni contrarie. Non è nemmeno immediata la convergenza tra credenti e non credenti, sopratutto quando i primi avanzano solo argomenti -seppur legittimi- come l’indisponibilità della vita in quanto dono di Dio. Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia della Vita, ha giustamente ricordato che si tratta di una «sconfitta per tutti». Riteniamo perciò doveroso richiamare le ragioni della nostra posizione, di ordine sociale, morale, giuridico, politico e medico. Sono argomentazioni umane contro il suicidio di Stato, perché l’affermazione del valore incondizionato e della dignità ontologica di ogni vita umana non ha un carattere più confessionale dell’affermazione secondo cui essa non possiede un valore intrinseco. Abbiamo cercato di uscire dal tecnicismo per renderle accessibili a tutti (semplificando necessariamente una realtà più complessa), qui sotto le nostre dieci ragioni.

 

1) NESSUN DIRITTO A RENDERE LO STATO COMPLICE DEL PROPRIO SUICIDIO.
Certamente ognuno ha il diritto di vivere e morire con dignità, di ricevere trattamenti antidolorifici adeguati, rifiutare l’accanimento terapeutico e trattamenti sproporzionati e di accedere a cure palliative. Tuttavia non esiste alcun diritto di pretendere che la classe medica e lo Stato siano complici della propria morte, che pratichino intenzionalmente l’omicidio e commettano il reato di “omicidio del consenziente”. Inoltre, ciascuno ha la “facoltà” di sopprimersi ma da qui a sostenere l’esistenza del diritto a disporre della propria vita, c’è un passo che il nostro umanesimo giuridico vieta di compiere. Il suicidio, infatti, non è mai stato riconosciuto come diritto e non figura nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo. Non può esistere in una società civile il diritto di disporre di un altro, o di sé mediante l’aiuto di un altro. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha dichiarato: «non esiste un diritto costituzionale alla morte. La Costituzione indica che la salute di ciascun cittadino è anche “interesse della collettività”, ma la salute presuppone la vita».

Il prof. Etienne Montero, docente di Diritto civile all’Università di Namur (Belgio), ha giustamente sottolineato: «E’ falso presentare il “diritto all’eutanasia” come corollario del diritto di disporre di se stessi. L’eutanasia, infatti, non riguarda solo il diritto rivendicato da alcuni di disporre della propria vita, ma anche quello concesso alla categoria dei medici di procurare la morte di altri uomini. Ora, una società non può appropriarsi di un tale diritto senza ledere gravemente il valore sociale della persona» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 194). Il fondamento dell’ordinamento giuridico, secondo il quale nessun uomo può disporre della vita di un altro -nemmeno se consenziente- verrebbe completamente stravolto. E’ cruciale che il divieto di uccidere rimanga alla base della società democratica, come garanzia di comprensione, di apertura e di tolleranza, in particolare verso i più deboli. Lo stato di necessità del paziente non può mai giustificare la violazione di tale divieto in quanto «alla preoccupazione di alleviare la sofferenza corrisponde l’omicidio. Come potrebbe lo stato di necessità discolpare il medico che, per eliminare la sofferenza, toglie la vita, quando, cioè, il valore sacrificato è il bene supremo, condizione e supporto di tutti gli altri beni?» (p. 196).

 

2) NON ESISTE L’AUTODETERMINAZIONE TOTALE DELLA PROPRIA VITA.
E’ persistente l’errata convinzione che il singolo sia il solo arbitrio della propria esistenza, invece, ha spiegato Ste­lio Mangiameli, docente di Dirit­to costituzionale all’Università di Teramo, «non c’è un diritto all’autodetermina­zione nella Costi­tuzione che discenda, in particolare, dall’articolo 32, la norma che riguarda la tutela della salute». Lo Stato, infatti, è chiamato a proteggere la vita e la salute dei propri cittadini, anche contro la loro stessa volontà: non esiste alcuna autodeterminazione radicale poiché la vita non è a disposizione del cittadino. A dimostrarlo è la legge che rende obbligatorie le cinture di sicurezza in automobile, avente come unico scopo quello di salvaguardare la vita del guidatore, anche se lui non è d’accordo. Allo stesso modo è da intendersi l’obbligo di indossare il casco protettivo in moto o in un cantiere. Non esiste alcuna autodeterminazione assoluta tale tanto da pretendere che un chirurgo ci amputi un braccio solo sulla base della nostra libera volontà ed esplicita richiesta, nessun ospedale avvierebbe terapie specifiche (una cura antitumorale, ad esempio) semplicemente perché lo richiede la libera coscienza del paziente, allo stesso modo il principio del rispetto alla vita impedisce al paziente di chiedere, in nome dell’autonomia assoluta, cure inutilmente aggressive o senza alcuna efficacia prevaricando la coscienza e la decisione del medico. Senza contare che accettare questa presunta totale autonomia del paziente, lasciandogli la schiacciante responsabilità di ogni iniziativa, vorrebbe dire negare l’esigenza di competenza legata alle decisioni mediche. Gli interessi in gioco sono quindi talmente grandi che la volontà del malato non può esserne il criterio determinante: l’autonomia del paziente esiste, ma non è assoluta ed è controbilanciata dalla responsabilità di curarsi, poiché la salute rappresenta anche un bene sociale.

Occorre inoltre sottolineare l’illusione che la richiesta di eutanasia sia davvero manifestazione di un atto libero di autonomia: quando il paziente arriva a chiedere la morte è sempre in una fase di poca lucidità che compromette la reale autonomia della sua richiesta. La legge belga del 2002, ad esempio, garantiva l’accesso all’eutanasia se si fosse dimostrata «sofferenza fisica o psichica costante e insopportabile che non può essere alleviata». E’ una contraddizione dare tanto peso alla libera volontà di una persona che si trova smarrita ed in preda a indicibili sofferenze, è errato pensare che il malato in un tale stato psicofisico possa prendere una decisione veramente libera. I tentativi di suicidio sono segnali di disagio, di sconforto e una persona in tale stato non ha alcuna lucidità per essere consapevolmente autonoma. Come ha spiegato ancora il giurista belga Etienne Montero, docente di Diritto civile all’Università di Namur, «la tesi dell’autonomia è quantomeno un po’ ingenua. Si suppone che gli ospedali siano pieni di pazienti perfettamente lucidi, al riparto da ogni manipolazione da parte dell’equipe sanitaria, da ogni pressione cosciente o incosciente dei familiari; che siano perfettamente informati sul loro stato di salute» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 192).

 

3) LA DIGNITA’ DELLA VITA E’ INTRINSECA ED INDIPENDENTE DALLA MALATTIA.
Preso atto dei primi due punti, uno degli argomenti più usati a sostegno dell’eutanasia è che ciascuno sarebbe giudice della propria dignità, dando una nozione squisitamente soggettiva e relativa di essa, misurabile secondo metri diversi: concedere la morte sarebbe così un favore a colui che ritiene la sua vita priva di dignità. Al contrario, invece, la dignità del vivere ha una nozione oggettiva, sulla quale si basano le nostre tradizioni filosofiche e giuridiche. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ad esempio riconosce la «dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana» e considera come oggettivo che «i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana». La dignità ontologica è a prescindere da quanto un singolo uomo percepisca, in un tal momento, degna o meno la sua vita: la sola appartenenza al genere umano, si evince dalla Dichiarazione universale appena citata, rende degna la sua vita. Se lo Stato ed il medico danno seguito alla richiesta di morte assistita, invece, è perché arbitrariamente ritengono e concordano sul fatto che la vita del tale paziente non valga più la pena di essere vissuta: la decisione di praticare l’eutanasia fa sempre seguito ad un arbitrario giudizio di valore sulla qualità della vita e attribuire questo potere al medico e allo Stato è riconoscere, nella legge, che alcune vite sono effettivamente indegne e senza valore.

Ne consegue una indebita discriminazione statale verso le migliaia di persone che vivono nelle stesse, se non peggiori, condizioni di chi chiede l’eutanasia e che non ritengono affatto indegna la propria vita. A vivere come Dj Fabo, infatti, c’è Matteo Nassigh, che ha addirittura chiesto all’ex dj di ripensarci. Un’altra è Rita Coruzzi, tetraplegica, che è a sua volta intervenuta recentemente. Non esistono criteri oggettivi per definire quale vita non sia dignitosa, non è la gravità a determinarlo e nemmeno la consapevolezza della propria condizione. C’è un valore intrinseco della vita che resiste anche se viene meno il valore attribuito alla vita da noi stessi o dagli altri: «L’attacco che la malattia porta al valore attribuito di una persona non riesce mai a distruggere completamente la sua dignità», ha spiegato il bioeticista Daniel Sulmasy, direttore del MacLean Center for Clinical Medical Ethics dell’Università di Chicago. «Se un paziente è in coma e noi diciamo che ha perso la razionalità, e quindi il fondamento della propria dignità ed il proprio valore, diciamo una cosa sbagliata. Quando consentiamo ai medici di uccidere un paziente, ancorché con il suo consenso, stiamo dicendo che esistono persone a proposito delle quali possiamo a buon diritto affermare che non hanno valore. E se è così, il fondamento etico della medicina viene minato irreparabilmente, insieme a quello di tutta la morale».

 

4) POCHISSIMI PAESI HANNO LEGALIZZATO L’EUTANASIA.
A nostro avviso la verità non è mai dettata dai numeri e continueremmo a sostenere una tal convinzione anche rimanessimo soli. Tuttavia, da un punto di vista esclusivamente laico (dunque relativista), non può essere ininfluente il consenso sociale tanto che, per creare pressione verso l’approvazione di una legge, sempre si utilizza l’argomento del “tutti gli altri Paesi ecc.”. Sul tema della morte assistita nessuno avanza questa affermazione in quanto soltanto Olanda, Belgio (anche sui minori), Svizzera e Oregon hanno approvato l’eutanasia attiva (Lussemburgo ha una legislazione particolare). Nel resto del mondo, ad accettarla sono stati solo Cina, Colombia e Giappone. Quasi tutti i paesi mondiali, quindi, non ritengono civile e dignitoso il suicidio di Stato e non hanno alcuna intenzione di diventare complici della morte dei loro cittadini. In Italia, va precisato rispetto al dibattito odierno, l’eutanasia attiva continuerebbe ad essere vietata anche se fosse già vigente la legge sul testamento biologico discussa alla Camera.

 

5) LE PRINCIPALI ASSOCIAZIONI MEDICHE SONO CONTRARIE.
Un altro dato frequentemente dimenticato è che il rispetto e la protezione della vita, mediante le sue azioni terapeutiche, costituisce il fondamento dell’etica medica: è ciò su cui si basa il rapporto di fiducia medico-paziente, il quale verrebbe a mancare -assieme al vincolo di solidarietà sociale- non appena la classe medica venisse investita dal potere inedito di procurare la morte. Il principio medico basilare (ippocratico) è la salvaguardia della vita (senza ovviamente sconfinare nell’accanimento terapeutico): dare la morte è violazione del fondamento della medicina. Per questo tutte le principali associazioni mediche si sono schierate contro all’eutanasia e al suicidio assistito, tra esse: la World Medical Association, la American Psychiatric Association, la British Medical Association, la Association for Palliative Medicine, la British Geriatric Society, l’American Medical Association, la German Medical Association, l’Australian Medical Association, la New Zealand Medical Association, la Organización Médica Colegial de España, la Società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, la Massachusetts Medical Society, l’American Nurses Association ecc.

Il bioeticista Daniel Sulmasy dell’Università di Chicago, ha spiegato che «l’opinione pubblica non si rende conto che questa pratica mina le basi stesse della medicina». Lucien Israel, specialista in Neurologia e attuale vice-presidente dell’Union nationale inter-universitaire (UNI), ha aggiunto: «Non si può offrire questa immagine del medico agli studenti di medicina o la medicina diventerà qualcosa di terribile. È assolutamente indispensabile manifestare il rispetto totale della vita umana».

 

6) PIANO INCLINATO.
Una volta accettata la legittimità dell’eutanasia volontaria in nome dell’autonomia, ha spiegato il prof. Francesco D’Agostino, docente di Filosofia del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, «si giunge facilmente e rapidamente ad accettarla anche se involontaria, in nome di principi ritenuti all’inizio troppo fragili, come quello della compassione o del consenso presunto da parte del paziente alla sua soppressione» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 8). L’approvazione di una legge sull’eutanasia libera, infatti, porta inevitabilmente a conseguenze incontrollabili: il fenomeno del piano inclinato (o slippery slope). Per fare accettare la legge, ha riflettuto Etienne Montero, docente di Diritto civile all’Università di Namur (Belgio), «si giura che sarà applicata esclusivamente su esplicita richiesta e in casi “limite”. Ma, una volta eliminato il divieto, l’atto eutanasiaco si banalizzerà, il senso della trasgressione svanirà, e ciò che una volta era proibito rischierà di apparire a poco a poco come normale» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 190).

La dimostrazione nei fatti è ciò che è accaduto nei Paesi Bassi, dove l’eutanasia era illegale ma non perseguita, poi è diventata legale solo per chi era in grado di esprimersi e scegliere liberamente. Oggi subiscono l’eutanasia anche persone che non sono in grado di intendere e di volere, perché la famiglia decide al posto loro: il 32% delle morti per suicidio assistito sono non-volontarie. Senza contare la legalizzazione, prima per i malati terminali, poi per gli anziani, dei depressi ed infine dei bambini. Dopo dieci anni la legge belga sull’eutanasia è stata dichiarata “fuori controllo” dall’Istituto europeo di bioetica, mentre 1 su 30 decessi in Olanda avviene oggi per eutanasia (compresi anziani, depressi, persone scontente della vita ecc.). Secondo uno studio ad un paziente su cinque l’eutanasia viene somministrata senza che questi abbia dato il suo esplicito consenso. Nel 2012 diversi medici e scienziati belgi hanno firmato un articolo scrivendo: «Per depenalizzare l’eutanasia, il Belgio ha aperto un vaso di Pandora. Come previsto, una volta tolto il divieto, si cammina rapidamente verso una banalizzazione dell’eutanasia. Dieci anni dopo la depenalizzazione dell’eutanasia in Belgio, l’esperienza dimostra che una società che sostiene l’eutanasia rompe i legami di solidarietà, fiducia e sincera compassione che sono alla base del “vivere insieme”, arrivando ad auto-distruggersi». Nell’Oregon, invece, dopo cinque anni dalla legge Measure 16, al suicidio assistito ha avuto accesso non chi sperimentava un’agonia insopportabile, ma chi viveva una perdita di autonomia (85%), l’incapacità di svolgere attività che rendono la vita attraente (77%), la perdita di funzioni organiche (63%), il fatto di pesare su famiglia e amici (34%).

 

7) CONSEGUENZE SOCIALI PER TUTTI.
Alcuni ritengono che la richiesta di eutanasia esprima una scelta privata e che in una democrazia laica e pluralista nessuno possa opporvisi in nome delle proprie convinzioni morali o religiose. Tale convinzione è sempre contraddetta dal motto latino “Lex creat mores” (la legge crea costume): ogni legge crea una mentalità e ha un profondo impatto sul tessuto sociale e sulla vita di chi è a favore e di chi è contrario. Nessuna “scelta privata”, dunque, il suicidio di Stato è inoltre un atto tutt’altro che neutrale: il permesso statale di togliere la vita equivarrebbe a consacrare una visione ben precisa, e di parte, della persona umana, veicolando valori sociali, morali e culturali che di necessità influenzano tutti. Verrebbe iscritta nella legge una visione antropologica ben precisa, imponendola a tutti gli uomini. Per questo si può rifiutare l’eutanasia senza urtare il pluralismo caratteristico delle democrazie moderne ed in nome della salvaguardia di interessi generali ritenuti superiori, tra cui l’integrità della professione medica, i fondamenti dell’ordinamento giuridico, la protezione di tutti i malati della società ecc.

Ad esempio, la sola possibilità di accedere legalmente all’eutanasia creerebbe indebite pressioni mentali sui disabili e malati, facendoli sentire ancora di più un peso sociale. «Il messaggio diffuso che è una scelta dignitosa abbandonare la vita quando vengono meno determinate condizioni è molto pericoloso, e rischia inoltre di colpevolizzare chi invece accetti di affidarsi al sostegno di altri convincendolo che sarebbe meglio liberarli del proprio peso», ha detto Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano. Un paziente, tutt’altro che pienamente libero e autonomo nelle sue decisioni, sarà ancor di più fragile e incline a cedere alla pressione esercitata dalla sola esistenza della legge sull’eutanasia, si sentirebbe egoista a non accettare di alleggerire l’esistenza delle persone che si prendono cura di lui, convincendosi di essere solo uno sperpero economico. Se anche lo Stato riconosce l’esigenza di dare la morte a persone come lui, allora davvero la sua vita è in una condizione realmente priva di dignità. Si sentirebbe un mostro ad ostinarsi nel rifiutare di esercitare il suo “diritto” all’eutanasia. «Una volta che l’eutanasia sarà legalizzata, la norma si ribalterà e la domanda da porre alla persona vulnerabile diventerà: perché non ti sei ancora suicidata?», ha spiegato il bioeticista americano Daniel Sulmasy. Credendo di dover assecondare le richieste di eutanasia, la società corre il rischio di suscitarle, con varie pressioni più o meno inconsce. Un sondaggio del 2011 ha rilevato che ben il 70% di oltre 500 disabili intervistati teme che l’apertura al suicidio assistito possa esercitare pressione sui pazienti vulnerabili spingendoli a “porre fine alle loro vite in modo prematuro”. Iona Heath, presidente del Royal College of General Practitioners, ha scritto sul British Medical Journal: «L’influenza che una legislazione sulla morte assistita può avere sul paziente è intrinsecamente rischiosa. E’ fin troppo facile per le persone malate e disabili credere di stare diventando un fardello intollerabile per le persone più vicine a loro. In tali circostanze una richiesta di morte assistita diventa una sorta di sacrificio da parte della persona morente, con la complicità interessata dei parenti, professionisti e tutori».

 

8) EFFICACI ALTERNATIVE ALL’EUTANASIA.
Oltre ai pochi casi mediatici sfruttati dagli avvoltoi radicali, esiste una realtà di migliaia di disabili che non ha alcuna intenzione di porre fine alla sua vita. Questo dimostra che le alternative ci sono e uno Stato civile dovrebbe investire sulle risorse che permettono il sostegno a queste persone, non togliere il problema uccidendo i disabili. Le alternative sono il sostegno psicologico, la cura affettiva, le cure palliative e, nei casi terminali, anche la sedazione profonda (o il coma farmacologico). Proprio il progresso nelle cure palliative ha superato la necessità di chiedere la morte assistita in caso di dolore, il principale testimone di questo è stato l’oncologo Umberto Veronesi, che ha affermato: «Nessuno mi ha mai chiesto di agevolare la sua morte. Ho posto da sempre un’attenzione estrema al controllo del dolore e, per mia fortuna, nessuno dei miei pazienti si è mai trovato in una condizione di sofferenza tale da chiedere di accelerare la sua fine». Sul British Medical Journal si legge: «adeguate cure mediche, consulenza e una presenza amorevole accanto al malato spesso rimuovono la richiesta di eutanasia».

Solitamente alcuni sostengono che tali alternative non sarebbero efficaci in quanto esisterebbe una presunta eutanasia clandestina, quindi tanto varrebbe depenalizzarla. Tale argomento nasce da una confusione tra il diritto ed i fatti: il diritto non indica ciò che è, ma ciò che deve essere. Se dovesse limitarsi a ratificare il fatto compiuto, non avrebbe più alcuna funzione normativa e perderebbe la sua ragion d’essere. L’adeguamento del diritto ai fatti è un mito duro a morire, senza contare che l’esistenza di una eutanasia clandestina è tutta da dimostrare. Non esistono studi in merito, solo dichiarazioni di qualche militante pro-eutanasia come l’Associazione Luca Coscioni, smentita dal prestigioso Istituto di ricerche farmacologiche di Milano. Infine, la legalizzazione dell’eutanasia in Olanda, ad esempio, non ha affatto contribuito a far emergere il fenomeno della clandestinità: il rapporto Van der Wal e Van der Maas (La Aia, 1996) ha certificato che quasi un migliaio di eutanasie è stato praticato senza il consenso del paziente ed oltre il 50% dei medici non ha compilato il modulo da inviare al pubblico ministero in caso di eutanasia.

 

9) L’EUTANASIA E’ FALSA COMPASSIONE.
Il malato che chiede la morte in realtà invoca una compagnia che lo assista, gli stia vicino e lo aiuti a trovare un senso al suo soffrire. «La vera radice del dolore», ha scritto Johan Menten, oncologo e primario del reparto di Radioterapia e cure palliative di Lovanio (Belgio), «è la perdita del senso della vita, che espone l’essere umano alla peggiore sofferenza possibile» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 61). La richiesta di eutanasia non è la manifestazione di un autonomo esercizio di disponibilità in merito alla propria vita, ma la dichiarazione di essere caduti in stato di abbandono. Perché l’uomo può portare qualunque dolore ma se non ne afferra il significato del motivo per cui lo fa allora cede alla minima sofferenza, non è un caso che Dj Fabo abbia scritto nel suo testamento: «Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora». Il suo fisiatra, che lo ha seguito negli ultimi anni, Angelo Mainini, ha dichiarato: «nessuno è stato in grado di dare a Fabo la motivazione sufficiente a continuare ad amare la sua. In decenni a contatto diretto con pazienti come Fabo vediamo che il problema è avere o non avere qualcosa per cui valga la pena vivere. Penso a tante persone come lui, anche più sofferenti, che a un certo punto trovano la spinta per voler proseguire sulla strada della vita». Al contrario, la tetraplegica Rita Coruzzi è riuscita ad accettare felicemente la stessa disabilità di Fabiano proprio quando, ha scritto, «ho riscoperto la vita e ne ho trovato il lato positivo. Ho imparato per esperienza diretta che non è mai troppo tardi, anche nelle condizioni più improbabili, per sentirsi vivi e avere un motivo per dire alla vita il tuo personale “grazie”».

Negare al disabile o al malato la compagnia che chiede, l’aiuto a trovare il significato della sua vita che lo aiuterebbe ad accettare la sua condizione, è un tradimento morale della sua reale richiesta. Il card. Carlo Maria Martini ha detto che «mostruoso è l’amore che uccide, la compassione che cancella colui del quale non può sopportare il dolore, una filantropia che non sa se intenda liberare l’altro da una vita divenuta di peso o liberare sé dal peso dell’altro» (C.M. Martini, citato in D. Tettamanzi, Eutanasia. L’illusione della buona morte, Piemme 1995, p. 27-28). E’ “falsa compassione” quella a favore dell’eutanasia, ne ha parlato più volte anche Papa Francesco. Il compianto Salvatore Crisafulli, paralizzato a letto dal 2003 a causa di un incidente automobilistico, ha scritto con le palpebre queste parole: «Ma cos’è l’eutanasia, questa morte brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana solidarietà se coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità? Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato, anche da intubato, anche da febbricitante e piagato. Sì, la vita, quel dono originale, irripetibile e divino che non basta la legge o un camice bianco a togliercela, addirittura, chissà come, a fin di bene, con empietà travestita da finta dolcezza».

 

10) L’EUTANASIA NON E’ CIO’ CHE CHIEDE LA MAGGIORANZA DEI MALATI.
Che vi sia un consenso comune tra le persone sane verso l’eutanasia non stupisce, d’altra parte la disinformazione mediatica è a livelli estremi. Chiunque preferirebbe morire in fretta e senza sofferenze piuttosto che sommersi dai tubi e tormentati da atroci dolori. Ma si omette di dire ai futuri pazienti che è vietato ogni accanimento terapeutico, che rimarranno responsabili delle decisioni che li riguardano e che non esistono più dolori che la medicina palliativa non può controllare. Inoltre il soggetto, divenuto disabile, cambia radicalmente idea sulla vita rispetto a quando immaginava la sua condizione da sano. Lo sa bene chi lavora quotidianamente con i malati gravi, come Bernardette Wouters, vicepresidente dell’Associazione europea di cure palliative: «Tutti gli operatori sanitari sanno che il parere di una persona sana e quello di un malato sono due cose totalmente diverse. Molti pazienti ricoverati in unità di cure palliative per terminarvi la loro vita avevano giurato che non avrebbero mai sopportato di non essere autosufficienti, che si sarebbero suicidati in quel caso…e invece non tornano più sull’argomento. Se l’eutanasia fosse davvero ciò che i pazienti desiderano, l’Inami (Institut national d’assurance maladie invalidité) non avrebbe più problemi finanziari da molto tempo, le case di riposo e di cura sarebbero vuote, deserte le corsie dei reparti ospedalieri per malattie croniche…». E ancora: «La maggior parte di richieste sono indotte dal dolore, dalla paura di soffrire, dalla disperazione, dall’accanimento terapeutico, dall’abbandono della famiglia o degli operatori sanitari o dalla mancanza di senso» (in Eutanasia, Ares 2005, p. 74,75). Tutte situazioni risolvibili.

Il fisiatra di Dj Fabo, dott. Mainini, direttore sanitario della fondazione “Maddalena Grassi”, ha detto: «Fare una legge su situazioni così mutevoli significherebbe voler dare confini netti e cose che non possono averli. Un caso come quello di Fabo, tra centinaia di disabili, non ci è mai capitato prima: la stragrande maggioranza chiede di ricevere tutte le cure possibili per una vita pienamente degna, e purtroppo non le hanno. Questo è il grande diritto inascoltato, vivere, ma non viene difeso con la forza con cui si reclama un diritto di morire. All’inizio molti pensano di voler morire, ma con il tempo il giudizio nel 99% dei casi muta, strada facendo cambiano le priorità e, con il giusto accompagnamento, riescono ad apprezzare ciò che quella loro nuova vita può offrire. Se attorno hanno persone che amano e scadenze attese con gioia, come la nascita di un nipotino o la laurea di un figlio, anche solo riuscire a fare quel sorriso o muovere la testa li appaga pienamente». Lo stesso ha detto Piero Morino, direttore dell’unità di Cure palliative della Asl Toscana centro.

La più vasta indagine su questo tema ha mostrato che solo il 7% dei pazienti affetti da sindrome locked-in ha manifestato pensieri o intenzioni di morte. Inoltre, ha proseguito la Wouters, «l’esperienza dimostra che alcuni pazienti vogliono sentirsi dire “no!”. Perché “no!” significa che si è ancora pronti a spendersi in un rapporto». Sappiamo, inoltre, che chi arriva a chiedere l’eutanasia molto spesso soffre di disturbi depressivi e dunque si è soventemente privati della possibilità di una richiesta davvero autocosciente. L’agnostico Lucien Israel, luminare francese dell’oncologia, ha detto: «I rarissimi malati che, spontaneamente, mi hanno chiesto di aiutarli a morire se le cose si fossero complicate, non hanno rinnovato la loro richiesta nel momento in cui questa poteva essere soddisfatta. Altro che autodeterminazione: per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di una malato grave o in fase terminale»Il caso straordinario di un paziente che richiede lucidamente l’eutanasia, quindi, non può legittimare una legislazione: è sbagliato, infatti, costruire una norma generale sulla base di un caso eccezionale o marginale. Esiste il divieto, infatti, ad adottare “leggi per casi specifici”.

 

dj fabo eutanasia

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Furono 9600 gli ebrei protetti in Vaticano, lo rivela l’archivista di Stato

archivio vaticano ebreiNel 1943/44 migliaia di ebrei trovarono protezione grazie all’impegno sistematico del Vaticano. Se finora i numeri esatti non era noti a tutti, è stato il responsabile dell’Archivio Storico della segreteria di Stato Vaticano, Johan Ickx, a rivelarli con precisione.

Quasi 5.000 ebrei vennero ospitati e nascosti nei monasteri cattolici, 3000 trovarono rifugio nella residenza pontificia di Castel Gandolfo, 1460 nelle case cattoliche, 60 in edifici italiani in terreno extraterritoriale e 40 direttamente in Vaticano. Queste cifre sono emerse dai documenti degli archivi vaticani, ha spiegato il prof. Ickx durante una recente conferenza dal titolo “Politica dei rifugiati dal 1933 fino ad oggi: sfide e responsabilità“.

Un’operazione silenziosa quella del Vaticano, ne ha parlato anche Papa Francesco: «Al povero Pio XII è stato buttato addosso di tutto. Ma bisogna ricordare che prima era visto come il grande difensore degli ebrei. Ne nascose molti nei conventi di Roma e di altre città italiane, e anche nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Lì, nella stanza del Papa, sul suo stesso letto, nacquero 42 bambini, figli di ebrei e di altri perseguitati rifugiatisi lì».

Il saggista francese Matthieu Baumier, rispondendo alle accuse dell’anticlericale Michel Onfray, ha giustamente spiegato: «Tra il 1934 e il 1937 il 35% dei preti cattolici tedeschi subì interrogatori nelle sedi della Gestapo. In Baviera si registrò la chiusura di 150 scuole cattoliche tra il gennaio e l’aprile del 1937. Le persecuzioni e gli omicidi spiegano bene la prudenza del cardinale Pacelli, il quale, una volta eletto papa, imparerà a non mettere in pericolo i cattolici con dichiarazioni troppo forti o impulsive. Pio XII era stato testimone diretto delle persecuzioni, e proprio per questo conosceva l’importanza della discrezione quando si trattava di salvare esseri umani che si trovavano a vivere in un regime totalitario» (M. Baumier, Antitrattato di ateologia, Lindau 2006, p. 203-208).

La dimostrazione la si ebbe con la pubblicazione dell’enciclica di Pio XI Mit brennender Sorge, il 21 marzo 1937. Una denuncia pubblica del nazismo, scritta appositamente in tedesco. La Gestapo impedì la diffusione del testo, la Gioventù Hitleriana «saccheggiò molte sedi vescovili tedesche, i preti vennero aggrediti, il vescovo di Rottenburg fu cacciato dalla sua diocesi. Hitler proibì ai vescovi di diffondere l’enciclica e fu letta come un atto politico antinazista». Il card. Pacelli fu il principale estensore della Mit brennender Sorge e si accorse della controproducente iniziativa, per cattolici ed ebrei, il denunciare pubblicamente il nazismo.

Sono tanti gli storici e religiosi ebrei a riconoscere tutto questo. Pinchas Lapide, ex console d’Israele a Milano, ha scritto: «La Chiesa cattolica, sotto il pontificato di Pio XII, ha salvato 700.000 ebrei da morte sicura. Secondo alcuni addirittura 860.000» (P. Lapide, Roma e gli ebrei, Mondadori 1967). L’ex rabbino conservatore di New York, David Dalin, oggi professore di Storia e Scienza Politica nella Ave Maria University in Florida, ha a sua volta affermato: «Tutti i sopravvissuti dell’Olocausto testimoniano che Pio XII è stato autenticamente e profondamente un Giusto» (D. Dalin, La leggenda nera del Papa di Hitler, Piemme 2007). L’ebreo Gary Krupp, fondatore della “Pave the Way Fondation”, ha dichiarato: «Sono cresciuto odiando Pio XII, poi ho scoperto che era un eroe».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace