Nicolosi, Robert Spitzer e le terapie riparative: nuovi retroscena

terapie riparativeE’ morto pochi giorni fa Joseph Nicolosi, psicologo americano co-fondatore di NARTH, associazione di terapisti clinici che accompagnano le persone con tendenze omosessuali indesiderate nella riscoperta della loro identità originale.

Non siamo tanto interessati alle cosiddette “terapie riparative”, piuttosto al sostenere la libertà delle persone omosessuali di poter chiedere anche un aiuto terapeutico se sperimentano un disagio verso le proprie inclinazioni. Tali percorsi clinici generano spesso orrore in quanto erroneamente identificati con obbligate torture psicologiche cui verrebbero sottoposti omosessuali non consenzienti. Non è così, sono loro stessi a rivolgersi agli specialisti vivendo un’egodistonia, trovando cioè in se stessi comportamenti o idee in disarmonia con i propri reali bisogni e desideri. Né Nicolosi, né i suoi colleghi di NARTH –tra cui celebri psichiatri come Robert Perloff e Nicholas Cummings, entrambi ex presidenti dell’American Psychological Association (APA)-, hanno mai subito denunce dai loro pazienti a causa dei loro trattamenti. L’unica questione che si pone, dunque -scartato l’abuso o la pericolosità-, è se queste terapie siano efficaci o no.

Le associazioni di psicologi sono contrarie all’intervento terapeutico verso le persone che tendenze omosessuali indesiderate, si tratta però notoriamente di posizioni non oggettive, altamente politicizzate. Tale giudizio si scontra infatti con il vissuto professionale dei tanti terapisti, anche di un certo calibro come quelli sopra citati, che difficilmente dedicherebbero una vita lavorativa a terapie inefficaci o inconcludenti. Oltre, ovviamente, alle testimonianze delle persone da loro aiutate, direttamente o no, molte delle quali stanno piangendo la scomparsa di Nicolosi proprio in questi giorni. Tra essi anche un ragazzo italiano, Giorgio Ponte, omosessuale, che ha parlato del «grande senso di pace quando ho letto il suo primo libro: “Omosessualità maschile, un nuovo approccio”. Il sollievo di qualcuno che trova finalmente una risposta sensata e coerente a quello che ho sempre intuito nel profondo del cuore. Oggi è morto un grande uomo che con il suo coraggio ha dato la vita per tanti».

Il giudizio di inefficacia verso l’approccio terapeutico non tiene conto anche di alcuni studi, di cui abbiamo parlato nel 2011. Tra essi anche la famosa ricerca del 2003 realizzata dal celebre psichiatra Robert Spitzer, morto nel 2015. Fu lui a depenalizzare l’omosessualità dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) eppure, dopo il suo studio a favore dell’efficacia delle terapie riparative, iniziò a ricevere insulti, delegittimazione mediatica e minacce di morte da parte della lobby Lgbt, denigrazioni ben descritte dal suo collega olandese, Gerard van den Aardweg, che ebbe modo di conversare con lui più volte.

La situazione per Spitzer divenne talmente opprimente da spingerlo ad una sorta di ritrattazione, trovando però l’inevitabile opposizione da parte di Archives of Sexual Behavior, la rivista scientifica su cui lo studio venne pubblicato. «Il problema è che il cambiamento di cuore di Spitzer circa l’interpretazione dei dati non è normalmente il genere di cosa che spinge un editor a cancellare il risultato scientifico», spiegò il direttore della rivista, Ken Zucker. «In caso di dati analizzati in modo non corretto, si pubblica solitamente un “erratum” o è possibile ritirare un articolo se i dati sono stati falsificati. A quanto mi risulta, Spitzer sta solo dicendo che dieci anni dopo vuole ritrattare la sua interpretazione dei dati. Dovremmo allora ritirare centinaia di pubblicazioni scientifiche per re-interpretarle, e noi non lo facciamo». Lo psichiatra americano optò così per una “lettera di scuse” alla comunità gay, scrivendo che nel suo studio «non c’era modo di giudicare la credibilità» degli ex-omosessuali a cui venne verificato il cambiamento di orientamento sessuale. Una precisazione sorprendente in quanto mise arbitrariamente in dubbio l’onestà del campione utilizzato, oltre ad essere una problematica comune a tutti gli studi che utilizzano lo stesso metodo (ad esempio per verificare l’efficacia delle psicoterapie volte al superamento dell’alcolismo, della tossicodipendenza ecc.), compresi quelli autodescrittivi delle “famiglie arcobaleno”.

La moglie di Joseph Nicolosi, Linda Ames, attivista in difesa degli “ex-gay”, ha pubblicato dei retroscena interessanti su Spitzer, di cui è stata amica e collaboratrice. «Spitzer è stato chiaramente preso alla sprovvista dalla brutale reazione in seguito alla pubblicazione dello studio», ha scritto. «Il suo gruppo sociale, come mi ha spiegato, erano i “lettori del New York Times”. Credeva che il supporto ad una comunità culturalmente emarginata come gli “ex gay”, sarebbe stato apprezzato dai liberali. Aveva giudicato male l’umore dei tempi». Spitzer, ha proseguito la Nicolosi, venne lentamente avvicinato da Jack Drescher, «uno psichiatra gay, attivista contro gli sforzi del cambiamento/orientamento sessuale. Anche se una volta mi scrisse: “Mi mancano i nostri scambi giornalieri di e-mail”, non l’ho più sentito molto. Devono essere stati anni difficili per lui, seppi che voleva ritrattare lo studio ma la sua richiesta non fu accolta. Dopo tutto non aveva scoperto nessun nuovo dato», semplicemente si accorse che il vento politico cambiava verso «un abbraccio pieno ed entusiasta dell’omosessualità».

Nelle conversazioni e-mail tra la Nicolosi e Spitzer, prima del 2003, lo psicologo si auto descrisse come “ateo”. «Il concetto di peccato o di scopo divino non significa niente per me», le disse. «Se avessi un figlio omosessuale spererei che cercasse una terapia per questo, mi auguro che la sua motivazione al cambiamento sarà dovuta all’intuizione che la sua vita sarebbe migliore e più appagante favorendo il suo potenziale eterosessuale». Linda Nicolosi ha aggiunto: «quando in un articolo l’ho descritto come “l’uomo che ha normalizzato l’omosessualità”, ha insistito perché correggessi. “Non ho mai normalizzato l’omosessualità”, mi disse, piuttosto “l’ho solo de-elencata dai disturbi”». «Nell’omosessualità», le scrisse Spitzer, «qualcosa non funziona».

Tali rivelazioni da parte di Linda Nicolosi non possono essere pubblicamente verificate, scritte oltretutto dopo la morte di Spitzer. Certamente lei stessa si è posta il problema ed evidentemente si sente in grado di poter fornire adeguate prove in caso di controversie legali (da parte di militanti Lgbt o familiari dello stesso psichiatra, ad esempio). E’ una conferma di quanto sia ardua la vita perfino dei terapisti, come Nicolosi e Spitzer, anch’essi vittime del fascismo arcobaleno. Per la onlus AGAPO (Associazione Genitori e Amici delle Persone Omosessuali), «è in atto una guerra civile con pochi precedenti in cui le classi dominanti cercano di imporre la propria visione sulla questione famiglia a tutto il resto del popolo. Il dibattito scientifico in tema di omosessualità si contraddistingue per il fatto che non vi è pluralità di opinioni, c’è assenza di contraddittorio». E’ considerato omofobo chiunque si discosti dal giudizio dominante e serve coraggio per farlo, quello mancato ad un certo punto al dott. Spitzer e quello invece avuto e manifestato fino alla fine dal dott. Joseph Nicolosi.

La redazione

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Ora di religione, dieci risposte ai luoghi comuni

scuole religiose 
di Nicola Rosetti*
*docente di Religione cattolica nella scuola secondaria

da Ancoraonline, 06/07/16

 

È sempre molto vivo il dibattito attorno all’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) nella scuola italiana. Sono numerose le obiezioni sollevate sull’opportunità della presenza di questa materia nel curricolo scolastico: proviamo a riportare le contestazioni più frequenti e cosa si può rispondere ad esse.

 

1) Lo studio della religione non serve a niente, andrebbe abolito
Il compito della scuola è quello di aprire gli occhi degli studenti sul mondo che li circonda. Di questo mondo fa parte a pieno titolo anche l’universo religioso: ignorarlo sarebbe una forma di oscurantismo.

2) Chi vuole conoscere il cattolicesimo vada in parrocchia
Durante l’ora di Religione Cattolica non si fa catechismo, ma si studia, nel quadro delle finalità didattiche della scuola, quella religione che ha plasmato in gran parte la cultura italiana. La Divina Commedia di Dante o I Promessi Sposi di Manzoni, gli affreschi di Giotto o i dipinti di Caravaggio, il Requiem di Mozart, solo per fare alcuni esempi, sarebbero impensabili al di fuori di un contesto cristiano. Il cristianesimo è come l’humus nel quale una simile produzione artistica ha potuto attecchire. Si tratta di riconoscere un’evidenza che è indipendente dalle proprie convinzioni religiose.

3) La Costituzione garantisce la laicità dello Stato. Perciò in uno Stato laico non si dovrebbe insegnare Religione Cattolica
È la stessa Costituzione che, all’articolo 7, regola i rapporti fra lo Stato e la Chiesa per mezzo dei Patti Lateranensi i quali, fra l’altro, contemplano l’insegnamento religioso nelle scuole statali di ogni ordine e grado.

4) Ci sono sempre più stranieri di religioni diverse dalla cattolica. Non ha senso mantenere l’insegnamento della Religione Cattolica
Poiché, come abbiamo detto, l’ora di Religione Cattolica non è catechismo, non si rivolge ai soli alunni cattolici. Per uno straniero, al fine di integrarsi, potrebbe essere molto utile conoscere (senza obbligo di aderirvi) la religione più diffusa in Italia.

5) Non si dovrebbe insegnare Religione Cattolica, ma storia delle religioni
Come a scuola sarebbe impossibile studiare la storia di tutti i paesi del mondo, tutte le lingue del mondo, ecc. così, allo stesso modo, è impensabile occuparsi di tutte le espressioni religiose della Terra! Sarebbe anche irragionevole dedicare lo stesso numero di ore per l’insegnamento del cristianesimo e di una religione che, magari molto diffusa nel mondo, non ha però avuto parte nella formazione della nostra cultura. È invece ragionevole dedicare un congruo numero di ore per conoscere le principali religioni mondiali, come infatti già avviene. A tal proposito, si noti come in Inghilterra nel 2014 il governo abbia stabilito che il 75% dell’insegnamento religioso debba vertere sul cristianesimo.

6) Non si dovrebbe studiare religione ma etica oppure educazione civica
Chi in genere sostiene questa tesi ignora l’ampiezza dell’esperienza religiosa nella storia della civiltà. La religiosità appartiene all’umanità in modo trasversale, sia rispetto al tempo, sia rispetto allo spazio. La complessità del fenomeno religioso (dottrine, visioni del mondo e della vita, riti, tradizioni, ecc.) non è riducibile al solo fattore etico. Da questo punto di vista, è interessante notare quanto accaduto recentemente in Belgio: davanti alla possibilità di scegliere un’ora di educazione civica al posto della seconda ora di religione, le famiglie hanno preferito in massa quest’ultima.

7) Si insegna religione solo in Italia perché c’è il Vaticano
Falso! Si insegna religione in quasi tutti i paesi europei e, in gran parte di essi, con modalità analoghe a quelle italiane (per un quadro completo sull’insegnamento religioso si veda il paragrafo di Wikipedia “Insegnamento della Religione nelle scuole pubbliche in Europa”).

8) Gli insegnanti di Religione Cattolica sono scelti dalla Curia e pagati dallo Stato
Prima di tutto, bisogna ricordare che gli insegnanti di Religione Cattolica sono pagati, perché, al pari dei loro colleghi, svolgono un servizio a favore degli studenti italiani. Nella propaganda contro gli insegnanti di Religione Cattolica, li si accusa di essere un peso per le casse dello Stato, ma troppo spesso si dimentica che lo Stato non ha speso un euro per la formazione di questi docenti, poiché essi si sono formati nelle università ecclesiastiche.

9) Le diocesi non dovrebbero mettere bocca nella scelta del personale che insegna religione
Uno stato autenticamente laico, si riconosce non competente in materia religiosa. È per questo motivo che richiede la collaborazione della Chiesa. Non si tratta di un’anomalia italiana. Se si allarga lo sguardo alla realtà europea, si noterà che, laddove non ci sono religioni di stato, in tutti gli stati gli insegnanti di religione hanno idoneità rilasciata dall’istituzione ecclesiastica.

10) Avremo considerazione degli insegnanti di religione quando faranno un concorso come tutti gli altri insegnanti
Questa obiezione, mossa soprattutto in ambiente scolastico, avrebbe avuto senso prima del 2004, quando fu indetto il primo concorso per insegnare religione cattolica. È incredibile come, a più di 10 anni da quella data, si continui a recriminare agli insegnanti di religione il non essersi sottoposti a un concorso statale. Da anni si attende un nuovo concorso.

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Il fisico Steven Weinberg e la sorprendente nostalgia di Dio

fisica ateiCertamente uno dei principali fisici teorici viventi è Steven Weinberg, premio Nobel (1979) e titolatissimo accademico americano. Tra i suoi meriti principali quello di aver enormemente contribuito all’elaborazione della teoria elettrodebole.

Weinberg è anche spesso citato dai critici del teismo e del cristianesimo in quanto dichiaratamente ateo, autore di questa famosissima frase: «Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo» (S. Weinberg, “The First Three Minutes: A Modern View of the Origin of the Universe”, Basic Books 1977). Ovvero, con il procedere della scoperte scientifiche, diminuirebbe sempre più la percezione di uno scopo della vita e dell’universo.

Rispettiamo questo punto di vista, ricordando soltanto però che si tratta semplicemente di una opzione filosofica da lui semplicemente scelta: nessun dato naturale e/o scientifico ci costringe o porta necessariamente ad abbracciare questo estremo nichilismo.

Ci ha colpito molto leggere poco tempo fa un chiarimento dello stesso Weinberg circa la sua celebre citazione. «Nel mio libro del 1977, “I primi tre minuti”», ha scritto, «fui tanto imprudente da osservare che “più l’universo appare comprensibile, più appare senza scopo”. Non volevo dire che la scienza c’insegna che l’universo è senza scopo, ma che l’universo stesso non ci suggerisce nessuno scopo, e subito dopo aggiungevo che noi stessi possiamo inventare uno scopo della vita, magari quello di cercare di capire l’universo. Ma ormai il guaio era fatto, e da allora quella frase mi ha sempre perseguitato. […]. La risposta che mi è piaciuta di più è stata quella dell’astronomo Gerard de Vaucouleurs, mio collega all’Università del Texas, il quale disse di trovare “nostalgica” la mia osservazione. Lo era davvero; era piena di nostalgia per un mondo nel quale i cieli narrano la gloria di Dio» (S. Weinberg, Il sogno dell’unità dell’universo, Mondadori 1993, pp. 263-264).

Perché mai, vorremmo chiedergli, il suo animo percepisce tale nostalgia verso la gloria di Dio? Come si spiega il contrasto tra la sensazione di inutilità suggeritagli dall’universo e il desiderio interno a lui, inestirpabile, di un Significato? E’ forse un fatale inganno della nostra natura, averci creato con questa inesauribile sete di un Dio? Ancora una volta la risposta è affidata ad ognuno: o la nostra natura è crudelmente menzognera oppure non lo è.

Se Weinberg ha arbitrariamente deciso che l’universo non suggerisce (a lui) alcuno scopo, occorre precisare che molti suoi colleghi, invece, la pensano diversamente: «Secondo la mia opinione e quella di un crescente numero di scienziati», ha ad esempio affermato il noto fisico Paul Davies, «la scoperta che la vita e l’intelletto siano emersi come parte dell’esecuzione naturale delle leggi dell’universo è una forte prova della presenza di uno scopo più profondo nell’esistenza fisica. Invocare un miracolo per spiegare la vita è esattamente quello di cui non c’è bisogno per avere la prova di uno scopo divino nell’universo» (P. Davies, Conferenza pronunciata a Filadelfia su invito della John Templeton Foundation e diffusa da Meta List on “Science and Religion”).

Il premio Nobel per la fisica, C.H. Townes, ha voluto rispondere direttamente al suo amico Weinberg con queste parole: «Noi dobbiamo prendere le decisioni in base ad un giudizio, certo, ma abbiamo anche qualche prova per rispondere. Credo, ad esempio, che una di queste si avvale del riconoscimento che questo universo è appositamente progettato, è un universo molto particolare e dev’esserci stato un fine, uno scopo […]. Steve Weinberg ha un giudizio facile, ha detto che tutto è accidentale e senza scopo. Io ho un diverso tipo di giudizio» (C.H. Townes, discorso durante l’assegnazione del Premio Templeton 2005).

Tornando alla nostalgia professata da Weinberg, ci è anche sembrata molto opportuna l’osservazione dell’astrofisico italiano Marco Bersanelli, docente presso l’Università di Milano: «L’interrogativo è inevitabile: non ammettere la possibilità che il mondo fisico rimandi ad altro oltre a sé equivale a negare la possibilità di un senso. E talvolta anche chi afferma che tali domande sarebbero nostre invenzioni in fondo spesso nasconde la nostalgia di un significato pieno e totale» (M. Bersanelli e M. Gargantini, Solo lo stupore conosce, Rizzoli 2003, p.270).

La redazione

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«Due anni fa le nozze gay in Irlanda, ecco lo stupro culturale che abbiamo subito»

gay irlanda referendum 
 
di John Waters*
*giornalista ed ex editorialista dell’Irish Time

da Il Foglio, 06/03/17
 
 

Quando ho iniziato a fare giornalismo, 35 anni fa, lo scopo dei media era favorire il dialogo tra persone con punti di vista differenti. Una visione differente a quella odierna, dove si vuole portare tutti a dire le stesse cose. Il dibattito è stato la linfa vitale della comunità umana, non un ostacolo al progresso.

Tutto questo sta cambiando, certamente nel mio paese, l’Irlanda, ma anche negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri paesi. Esprimere una visione non ortodossa in certi ambiti significa rischiare la vita, la serenità e la reputazione. I media sono diventati una corte suprema della correttezza politica, in cui i trasgressori vengono processati pubblicamente per aver infranto il marxismo culturale che ci governa.

Ho subito il mio processo tre anni fa, quando, prima del referendum irlandese in materia di matrimonio gay, la drag queen “Panti Bliss” mi ha chiamato omofobo in TV, aggiungendo che avevo cercato di distruggere la sua felicità, senza offrire alcuna prova a sostegno della sua tesi. “Omofobia” è una parola truffaldina, non ha un significato obiettivo chiaro ed è stata inventata dagli attivisti LGBT come strumento demonizzazione degli avversari così da emarginarli e ridurli al silenzio. E’ uno strumento di censura, viene usato per imbrattare gli oppositori creando una macchia che non può essere pulita da alcuna risposta ragionata, significa considerare le sue argomentazioni come radicate esclusivamente nell’odio o nella paura, cosa che dispensa dal rispondere ragionevolmente a quel che dice.

Quando ho capito che si trattava di una calunnia calcolata, ho chiesto tramite il mio avvocato i ritirare le accuse e scusarsi. Si è scatenato l’inferno. Per diverse settimane sono stato sottoposto al linciaggio da parte di attivisti LGBT, pagati da un’organizzazione “filantropica” americana, misteriosamente interessata alle vicende del mio Paese. Insulti, minacce a auguri di morte. Lo tsunami sui social media è stata replicato sui media, con molti dei miei “colleghi” che hanno cercato di regolare vecchi conti. Mi sono dimesso dall’Irish Times, per il quale ho lavorato per 24 anni, dopo aver scoperto che un presunto amico e collega si era unito alla festa dell’odio twittando sotto pseudonimo. Quando ho avvisato il direttore del mio giornale di questa violazione dei principi fondativi della nostra azienda, mi ha ignorato. La cosa veramente strana è che fino ad allora non avevo detto quasi niente in pubblico sul matrimonio gay.

Per due anni, fino al referendum del maggio 2015, il mio Paese è stato vittima dello stupro culturale tramite propaganda, foraggiato da fondi esteri, con l’obiettivo di condurre un raid predatorio sulla nostra definizione costituzionale del matrimonio, della famiglia e del ruolo dei genitori. Siamo stati assaliti dal bullismo emotivo e dai ricatti morali, ridotti a capri espiatorio siamo stati in parte persuasi e in parte costretti a introdurre una forma di matrimonio gay che è la più estrema di tutto il mondo. Poiché era una nazione fortemente cattolica, l’Irlanda è stata presa di mira dalla lobby gay internazionale come Paese-trofeo la cui caduta potrà essere usata nel mondo come grimaldello e leva per scardinare le altre nazioni meno devote. Chi ostacolava tale progetto è stato preso di mira per garantire che il trofeo potesse essere catturato con il minimo sforzo. Il modello irlandese del matrimonio gay è ora il gold standard con cui tutti gli altri Paesi del mondo saranno misuratati in termini di “tolleranza” e “progressismo”. Abbiamo introdotto nella nostra Costituzione una disposizione che permette non soltanto alle persone gay di sposarsi, ma afferma implicitamente che non vi è alcuna differenza fra una coppia composta da due uomini o due donne e una coppia composto da un uomo e una donna.

La vicenda di “Panti Bliss” mi ha portato ad espormi. Dopo aver osservato il modus operandi del branco LGBT, sono diventato sempre più certo che avrei dovuto oppormi in qualunque modo al tentativo di costringere l’elettorato irlandese ad adeguarsi al loro pensiero. L’emendamento è stato venduto attraverso l’uso improprio di parole come “uguaglianza” ma la Costituzione irlandese già considerava tutti i cittadini uguali davanti alla legge, lasciando la possibilità di una differenza di capacità e funzioni. Anche “uguaglianza” è una parola ricattatoria, impiegata con estremo pregiudizio per costringere le persone ad adeguarsi a distorsioni dei diritti che generazioni di irlandesi non avrebbero mai accettato.

Il matrimonio gay è solo l’ultima portata del menù dei “diritti progressisti” che hanno cercato di ribaltare la realtà. C’è una lunga storia che risale alla diffusione del “marxismo culturale” in Germania e in America, otto decenni fa: queste idee sono entrate nella cultura occidentale grazie all’ideologia dei rivoluzionari sessantottini. Matrimonio gay, maternità surrogata, cambiamento dei valori della vita familiare, sono sindromi che generano attività che vanno monetizzate e producono distrazione e anestesia, a causa della ripetizione persistente ci siamo abituati all’idea che si tratta di sinonimi di libertà. In realtà non c’è alcuna preoccupazione per i diritti umani, la compassione o la tolleranza, ma il desiderio di allinearsi ad un’agenda sociale “cool”, che separa i virtuosi dagli arretrato e dai reazionari. La rivoluzione degli anni Sessanta ci ha convinto che è possibile sfidare la natura stessa dell’uomo.

All’inizio del referendum in Irlanda eravamo una manciata dalla parte del No contro l’intero sistema parlamentare e i media irlandesi. Siamo partiti con il consenso a cifra singola ma abbiamo terminato con il 42%, e avremmo molto probabilmente vinto se avessimo avuto un’altra settimana. Agli elettori è stato detto che avevano il dovere di battersi per l'”uguaglianza”, sono state loro ricordate le intolleranze del passato verso gli omosessuali e gli è stato chiesto come si sarebbero sentiti se i loro figli fossero gay. Non sono stati invitati a giudicare l’emendamento nel contesto dell’ambiente costituzionale o a sostenere una discussione sulla sua traduzione nella pratica. L’adozione gay è l’obiettivo finale della lobby LGBT, raggiunto tramite il “metodo di salame”: procedere una fetta alla volta per ottenere tutti i guadagni incrementali possibili nella prima ondata, per poi capitalizzare chiedendo come mai i gay hanno avuto accesso ad una versione limitata del matrimonio priva dei diritti di adozione. La lobby LGBT tornerà sempre alla carica, chiedendo qualcosa in più, fino alla vittoria definitiva.

Nel sito web del gruppo “Yes, Equality” che ha coordinato la campagna in favore dell’emendamento c’è un paper del 2009 scritto da un’accademica femminista e lesbica che va ben oltre tutti i nostri peggiori timori sulle vere intenzioni della lobby. Si legge: «Il matrimonio fra persone dello stesso sesso rovescia gli assunti biologici e culturali “naturali” riguardo alla riproduzione e alla famiglia. Ha il potere di sovvertire e rovesciarne il concetto storico e le implicazioni del matrimonio. Così facendo, avrà sradicato delle sue tradizioni l’ideologia e il mito romantico del matrimonio che è stato a lungo criticato dalle femministe». E’ la conferma delle intenzioni nascoste di chi ha preso dal nulla la questione del matrimonio gay e l’ha portata al centro del dibattito pubblico. Il matrimonio gay è un cavallo di Troia che porta nel cuore della civiltà moderna un nuovo concetto di vita familiare, finge una preoccupazione per l'”uguaglianza” per ripudiare e smantellare i concetti e le strutture che avevano permesso alle società umane di essere coese da sempre. L’obiettivo è la sovversione del modello normativo della riproduzione e della vita familiare, il rovesciamento dell’ordine naturale.

Nonostante abbia letto il brano appena citato nel corso di diversi dibattiti, non una parola è stata pronunciata o scritta su di esso. I giornalisti si sono semplicemente voltati dall’altra parte, ammettendo di essere tirapiedi ideologici al servizio di un programma radicale. Quello che abbiamo visto in Irlanda nel 2015 (e che sta avvenendo in altri paesi) è che le opinioni su questioni pubbliche si sono scollegate dalla convinzione o dall’analisi, diventando etichette identitarie, la gente le usa per completare i loro vestiti e le loro automobili: «Guardami! Sono un vegetariano pro-palestinese che legge il New York Time!». Ciò spiega il successo della rivoluzione Lgbt e perché questioni mai considerate come urgenti sono balzate in cima all’agenda politica, anche grazie all’impegno dei media. Quello che osserviamo, anestetizzati, non è solo una presa di potere da parte di un movimento non rappresentativo, ma la soppressione stessa della democrazia e dei suoi pilastri principali, inclusi i parlamenti, i media e i tribunali.

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L’antispecismo? E’ razzismo verso l’essere umano

antispecismo razzismoDopo il “Manifesto per la pedofilia” in nome della «liberazione sessuale dei bambini», firmato dai filosofi Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir e Michel Focault, arriva il “Manifesto dell’antispecismo” in nome della «liberazione animale».

Sono sempre dei filosofi a firmarlo, quello antispecista è sottoscritto da Peter Singer e, in Italia, dal giovane Leonardo Caffo (in foto), docente di Ontologia al Politecnico di Torino. Sono sempre i filosofi a voler “liberare” qualcuno che non chiede di esserlo. Liberazione animale è il libro che nel 1975 il guru Singer ha usato per condannare il «pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie», definendo “specista” l’essere umano che non desidera essere equiparato alla nutria e al piccione, accusandolo di razzismo.

Caffo ha rilasciato recentemente un’intervista in cui aderisce completamente alle tesi di Singer, nella quale -citando Marx e Leonardo Di Caprio-, ha stigmatizzato la sofferenza degli animali -e su questo siamo d’accordo-, aggiungendo però che «l’antispecismo propone che l’uomo non è più antropocentrico». Ed è qui che il castello crolla, la giusta richiesta di rispetto del mondo animale diventa etica riduzionista e, in ultima analisi, necessariamente atea, in quanto disconosce l’intento divino nella creazione umana, seppur mediato dallo strumento evolutivo.

Ma è proprio il vegetariano bioeticista di Princeton, Peter Singer, ad autoconfutarsi quando afferma: «Né un neonato, né un pesce sono persone, uccidere questi esseri non è moralmente così negativo come uccidere una persona». Tutti si sono concentrati, giustamente, sul suo eugenetico sostegno all’infaticidio (e all’uccisione dei disabili), pochi si sono accorti che sta anche elevando la “persona” rispetto al “pesce”, diventando quindi “specista”: ritiene -giustamente- maggiormente riprovevole uccidere la persona rispetto all’animale. Un atteggiamento di favore verso la sua specie.

Ma anche Caffo e tutti i vegani antispecisiti sono di fatto “specisti”, lo sono nei confronti della specie vegetale di cui si nutrono voracemente. Eppure, la ricerca scientifica rivela da anni l’enorme sofferenza di piante ed ortaggi, un riferimento è il divulgatore scientifico Michael Pollan e il suo La botanica del desiderio. Il mondo visto dalle piante (Saggiatore 2009). Il famoso biologo Daniel Chamovitz ha mostrato la capacità di memoria della specie vegetale, quella di provare “emozioni”, dolore, forme di comunicazione ed istinto di sopravvivenza. Ma i membri antispecisti della specie umana ritengono di essere moralmente superiori ai membri della specie vegetale, essendo complici della loro sofferenza ed usandoli come proprio nutrimento giornaliero.

E’ ironia, certo. Ma è l’unico strumento idoneo per mostrare come dei buoni propositi (la salvaguardia del creato) possano diventare follia se ideologizzati. E’ stato osservato, inoltre, che gli stessi animalisti hanno inventato «un fenomeno (lo “specismo”) di cui nessuno aveva fornito una descrizione adeguata e questo ha retroagito sull’auto-percezione del movimento stesso, alimentando l’illusione collettiva di cui il movimento è vittima». Manifesti, battaglie e minacce di morte verso i mangiacadaveri, tanto da guadagnarsi il titolo di “nazi-animalisti”. Lo stesso Caffo ha preso le distanze da tutto ciò: «Quello vegano è un mondo pieno di ipocrisia. Basta vedere sui social con quanta violenza di linguaggio il vegano o animalista medio si confronti con gli altri. Lo chef Vissani è stato coperto di insulti, così anche Giulia Innocenzi solo per aver dialogato con lui. Certi vegani si credono perfetti. Essere animalisti è un atto di grande umiltà: rispetto per gli animali, certo, ma anche rispetto ai propri simili».

Quando l’animalista cade nell’estremismo dell’antispecismo, di fatto incappa nella fallacia dell’antropomorfismo, assegnando caratteristiche umane agli animali. Un’autoconfutazione. Clive Wynne, del dipartimento di Psicologia dell’Università dell’Arizona, ha spiegato che gli animali domestici sono «infantili e hanno atteggiamenti simili ai bambini», per questo ce ne prendiamo cura. Gli animalisti sono costretti a combattere, in quanto umani, al posto degli stessi animali e questo mostra -come ha spiegato il teologo Vito Mancuso– che «nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Gli animalisti, con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita».

L’uomo è fatto per custodire il creato, per rispettarlo e salvaguardarlo, ma anche per usare e beneficiare di esso. Lo ha ben chiarito l’oncologo laico e vegetariano Umberto Veronesi, accettando la sperimentazione animale, laddove è indispensabile, in vista di un bene per l’uomo e lo ha imparato sulla sua pelle l’ex agguerrita vegana e femminista Lierre Keith, autrice de Il mito vegetariano (Sonzogno 2015). In esso ha denunciato i danni della dieta “rispettosa per gli animali”: sottoponendosi ad un regime alimentare privo di grassi, proteine e vitamine animali -una coerenza poco rintracciabile negli stessi antispecisti-, «ho distrutto il mio corpo». A suo supporto cita studi che indicano che gran parte «delle donne anoressiche e bulimiche è vegetariana» e che «la percentuale di mortalità per tutte le cause dei maschi vegetariani (0,93%) è più alta che tra gli onnivori (0,89%), mentre per le donne vegetariane è significativamente più elevata (0,86%) che tra le donne onnivore (0,54%)».

Oggi Keith è rifiorita, è tornata a mangiare carne in modo equilibrato, controlla l’origine degli alimenti e continua, nei limiti del ragionevole, ad amare gli animali. E’ la ragione, ha spiegato Francesco nell’enciclica ecologica Laudato sii, che ci impedisce di «equiparare gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità». Sbaglia chi «nega alla persona umana qualsiasi preminenza, portando avanti una lotta per le altre specie che non mettiamo in atto per difendere la pari dignità tra gli esseri umani. Certamente ci deve preoccupare che gli altri esseri viventi non siano trattati in modo irresponsabile, ma ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi disuguaglianze che esistono tra di noi. Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani». Come disse l’anticonformista Leonardo Sciascia, «Quando c’è in giro tanta pietà per gli animali, pochissima ne resta per l’uomo» (L. Sciascia, Nero su nero, Adelphi 1979).

La redazione

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L’odio del Duce per il cristianesimo, instaurò un’ideologia pagana

mussolini ateoIl Novecento è stato definito l’“Età dei totalitarismi” in quanto vide l’avvento del fascismo, del nazismo e del comunismo. Sebbene questi movimenti professassero concetti differenti, avevano tuttavia in comune l’obiettivo di realizzare l’Uomo Nuovo attraverso il controllo dell’individuo in ogni aspetto della società.

Queste ideologie, facendosi portavoce di una visione del mondo antitetica a quella cristiana, finirono inevitabilmente per scontrasi con la Chiesa Cattolica. Ciò è particolarmente evidente nei casi della Russia Comunista e della Germania nazista dove si giunse a vere e proprie persecuzioni nei confronti delle confessioni cristiane ma lo fu, anche se in misura minore, per quanto riguarda l’Italia fascista.

La ragione di questa minore ostilità è dovuta al fatto che il fascismo non riuscì a mai a diventare completamente “totalitario” in quanto dovette fare i conti con altri poteri forti compresa la stessa Chiesa. In realtà, quando nel 23 marzo 1919 Benito Mussolini costituì a Milano il movimento dei Fasci di combattimento, non nascose la sua inclinazione anticlericale, tanto che uno dei propositi del partito prevedeva «il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione delle mense vescovili che costituiscono un’enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi». Lo stesso Duce inneggiò pubblicamente nel 1919 alla nuova modernità pagana dichiarando: «Noi, che detestiamo dal profondo tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello di Marx, guardiamo con simpatia straordinaria a questo “riprendere” della vita moderna nelle forme pagane del culto, della forza e dell’audacia». Valori che, nonostante la svolta successiva, il fascismo non rinnegherà mai.

Difatti, dopo la disastrosa sconfitta subita nelle elezioni del novembre 1919, Mussolini comprese che per raccogliere consensi era indispensabile presentarsi come difensore dell’ordine e della società contro il pericolo di una rivoluzione socialista, e per motivi politici iniziò quindi a mutare la sua posizione nei confronti del cattolicesimo, come spiegò in un discorso tenuto al terzo congresso dei Fasci di combattimento nel maggio 1920: «Quanto al Papato bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta quattrocento milioni di uomini sparsi in tutto il mondo e una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici» (Emilio Gentile, Contro Cesare, Milano 2010 p. 87-89).

Mussolini iniziò perciò una politica tesa a trovare l’appoggio della Chiesa, il cui culmine fu raggiunto nel 1929 con la soluzione della Questione Romana attraverso la stipula dei Patti Lateranensi. Nonostante la politica conciliativa, però, il fascismo non abbandonò il suo proposito di subordinare a sé gli individui in ogni aspetto della società, e il dittatore rimarcò la preminenza dell’ideologia fascista sul cattolicesimo: «Lo stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità, è cattolico, ma è fascista, anzi è sopratutto, esclusivamente, essenzialmente fascista» dichiarò nel discorso tenuto alla Camera nel maggio del 1929.

Il carattere totalitario del regime si manifestò a pieno con la questione riguardante l’educazione della gioventù dove i fascisti sciolsero le organizzazioni cattoliche ed effettuarono feroci attacchi contro l’Azione Cattolica (definita “pupilla degli occhi del papa” da Pio XI). Lo scontro per la formazione dei giovani spinse il pontefice a pubblicare nel 1931 l’enciclica “Non abbiamo Bisogno” in cui accusava il fascismo di promuovere «un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana in pieno contrasto con i diritti naturali della famiglia che coi diritti sopranaturali della Chiesa»; rimarcando che: «Una concezione dello stato che gli fa appartenere le giovani generazioni interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conciliabile per un cattolico con la dottrina cattolica, e neanche è conciliabile col diritto naturale della famiglia».

Sebbene il conflitto con l’Azione Cattolica venne risolto con un compromesso tra le due parti, stipulato il 2 settembre 1931, il dissidio tra Chiesa e fascismo sarebbe riemerso quando quest’ultimo, verso la fine degli anni ’30, iniziò ad accentuare la sua politica totalitaria arrivando al punto di introdurre in Italia nel ’38 le leggi razziali antisemite e a scatenare un nuovo conflitto contro l’Azione Cattolica (conclusosi con un compromesso ritenuto dallo stesso Duce solamente provvisorio). La minaccia totalitaria era aggravata anche dall’azione del segretario del Pnf, Achille Starace, ritenuto dagli ambienti vaticani “un pericoloso pagano”. Durante gli anni in cui quest’ultimo tenne la segreteria, l’attività religiosa presso i giovani venne infatti spesso ostacolata dalle gerarchie fasciste e l’insegnamento religioso nelle scuole spesso non fu effettuato. Era ormai chiaro a Pio XI che, dietro l’apparente politica di collaborazione, si profilava un’inevitabile scontro tra la Chiesa e il regime, dovuto alla natura stessa del fascismo (Contro Cesare p. 426-427).

L’avversione tra Chiesa e regime si sarebbe acuita negli anni successivi con l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, in particolare, durante gli anni della Repubblica di Salò. In definitiva, non è errato concludere che, nonostante accordi e compromessi, la strada tra la Santa Sede e il fascismo era destinata al conflitto in quanto quest’ultimo si faceva portavoce di un’ideologia dai valori dichiaratamente anticristiani.

Mattia Ferrari

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Dopo burqa e femminismo, grazie a te donna perché sei donna

dignità femminile
 
di Anna Paola Borrelli*
*teologa e bioeticista presso l’Istituto Teologico Salernitano di Pontecagnano-Faiano (Sa)
 
 

In un recente articolo su Il Fatto quotidiano, la scrittrice Silvia Truzzi descrive un esperimento che la collega Flavia Piccinni, vincitrice del Premio Campiello Giovani 2005, ha condotto all’aeroporto di Kuwait City. Attraverso un post su Huffington si racconta che la Piccinni, sentendosi osservata per il suo abbigliamento all’occidentale si sia sentita a disagio e vergognata. «Per gli arabi sono le prostitute a lasciare le spalle, le braccia e le gambe scoperte. Le occidentali smemorate non sono particolarmente amate», afferma la giornalista.

«Per spirito di autoconservazione, curiosità e non ultimo un sottile (sottile?) gusto della provocazione» si è recata al Souk Al-Mubaeakiya e per poco più di 30 euro ha acquistato un burqa nero. Col termine persiano purda (parda) etimologicamente si indica “cortina”, “velo” e, adattando il termine alla cultura e al mondo arabo, si è arrivati all’attuale parola “burqa” che costituisce un capo di abbigliamento indossato prevalentemente dalle donne dell’Afghanistan e del Pakistan. Il burqa completo o tipicamente afgano, blu o nero, copre sia la testa che l’intero corpo; l’altro è un velo che dal capo copre tutta la testa, facendo in modo che la donna possa vedere, grazie ad una finestrella all’altezza degli occhi.

Storicamente l’utilizzo del burqa risale al 1890 quando Habibullah, sovrano dell’Afghanistan, lo impose alle duecento donne del suo harem, perché non catturassero l’interesse di altri uomini. Successivamente venne indossato dalle donne dei ceti superiori, infine, abbandonata questa consuetudine, è stata poi resa obbligatoria dai talebani per tutte le donne. Nel Corano si parla di un obbligo solo nel portare il velo, come traspare dalla Sura XXIV, 31 An-Nûr (La Luce): “E dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare”.

Concluso l’esperimento in Kuwait, Flavia Piccinni ha dichiarato: «Per un attimo ho pensato che forse potrebbe essere giusto indossarlo ogni giorno. E guardandomi allo specchio, non ritrovando il mio viso, ma solo una nuvola nera, mi sono domandata se non sia forse questa una lezione che dobbiamo prendere dal mondo arabo: annullare la necessaria ossessione per l’immagine, annullare il giudizio delle altre attraverso la loro bellezza, imparare a mostrarci privi di ossessioni e di sovrastrutture (…). Forse, dove il femminismo ha fallito, il burka nel 2017 potrebbe riuscire». La considerazione finale della giornalista equivale ad una provocazione.

Ritenere l’abbigliamento del burqa come un mezzo di liberazione della donna da possibili sovrastrutture e giudizi altrui è senza ombra di dubbio un’iperbole concettuale contro l’ostentazione della bellezza e del corpo femminile in Occidente. Sappiamo, infatti, il contrastato concetto di libertà/schiavitù che proviene da tale abbigliamento e che vige in determinate culture. Se l’immagine femminile nel mondo occidentale ha sostanzialmente portato ad identificare l’essere donna con l’avere un corpo tonico, un abbigliamento sempre alla moda e una ricerca ossessiva della perfezione dell’immagine ciò ha minato innegabilmente la vera essenza della femminilità.

Il significato che deriva da questo esperimento provocatorio è che, al di là del vestito che si indossa o del trucco che adorna il viso, bisogna essere sempre se stessi. Ritornare all’essenziale, perché l’unico abito è ciò che si è. E Dio ci ama così come siamo. La donna, particolarmente, tiene alla cura della bellezza, all’estetica, alla ricerca dei particolari che è tipica del genere femminile. Prima di uscire si prepara, cerca l’abito più idoneo, abbina le scarpe, la borsa, si trucca, indossa monili. E questo rituale può, in alcuni casi, tramutarsi a lungo in una “schiavitù”, poiché non si esce di casa se non dopo aver fatto tutto questo, si ha quasi “paura” di essere se stesse. Altre volte, invece, si assiste ad uno sfoggio del corpo femminile, in televisione, nel mondo dello spettacolo, in certi ambienti lavorativi, come strumento per fare carriera o ottenere favori: è questa la profonda degenerazione dell’essere donna.

Credo che quello che voglia suggerire la Piccinini sia una lezione di semplicità. Forse la giornalista ha adoperato un “mezzo” non proprio idoneo, ossia uno strumento di coercizione e negazione della libertà femminile, rivelando un messaggio positivo: non apparire, ma essere! La vera bellezza è quella interiore che dura per sempre. «Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1 Sam 16,7). Significativo è anche il brano del Vangelo (Lc 21,1-4 // Mc 12,41-44): il gesto della povera vedova di gettare nel tesoro del Tempio due spiccioli è ben poca cosa rispetto a quanto versato dagli altri, eppure Gesù loda proprio quella donna, perché sa che quei soldi sono tutto ciò che possiede. Gesù legge nel nostro cuore e scruta i nostri pensieri. Dinnanzi a Lui non abbiamo bisogno di indossare maschere.

In un’opera, K. Gibran attesta: “La sua bellezza non risiedeva nei capelli d’oro, ma nella virtù e nella purezza che li circondavano; non nei grandi occhi, ma nella luce che da essi emanava; non nelle labbra rosse, ma nella dolcezza delle parole; non nel collo eburneo, ma nella sua lieve curvatura in avanti. Non risiedeva nella sua figura perfetta, ma nella nobiltà del suo spirito, che ardeva come una bianca fiaccola tra la terra e il cielo” (Le ali spezzate, 1912). Al di là delle tante differenze culturali, sociali, politiche e religiose che contraddistinguono Oriente e Occidente, l’esperimento provocatorio condotto dalla Piccinni evidenzia come sia fondamentale ritornare a ciò che davvero conta. “La bellezza non è nel viso; la bellezza è una luce nel cuore (K. Gibran, Specchi dell’anima, 1965). Infatti, “la bellezza non è qualcosa per cui si gareggia: ciascuno ha qualcosa di bello da scoprire; l’attenzione è la chiave della scoperta” (Dacia Maraini, Dolce per sé, 1997).

Anche la Sacra Scrittura ribadisce che «la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa. Beato il marito di una donna virtuosa; il numero dei suoi giorni sarà doppio. Una brava moglie è la gioia del marito, questi trascorrerà gli anni in pace. Una donna virtuosa è una buona sorte, viene assegnata a chi teme il Signore. Ricco o povero il cuore di lui ne gioisce, in ogni tempo il suo volto appare sereno. La grazia di una donna allieta il marito, la sua scienza gli rinvigorisce le ossa. E’ un dono del Signore una donna silenziosa, non c’è compenso per una donna educata. Grazia su grazia è una donna pudica, non si può valutare il peso di un’anima modesta. Il sole risplende sulle montagne del Signore, la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa» (Sir 26, 1-4.13-16).

 

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L’ex testimone di Geova racconta l’oscurità da cui si è liberato

minacce e abusi geovaÈ alquanto noto che i testimoni di Geova danno una lettura stravagante delle Sacre Scritture. I proclamatori bussano alle nostre porte e cercano di propinarci il loro verbo, privo di qualsiasi fondamento biblico-teologico, per reclutare nuovi adepti e smerciare la loro pubblicazione “Torre di Guardia, Svegliatevi!”, opuscoli, volantini, ecc.

Il quartiere generale della setta si trova a Warwick, New York. Da lì partono le direttive che raggiungono, attraverso un complesso reticolo di capi e capetti, tutto il mondo. Secondo dati forniti dal movimento, nel 2016 nel mondo i testimoni di Geova attivi nell’opera di predicazione erano 8.340.847, organizzati in 119.485 congregazioni presenti in 240 paesi o territori. Inoltre, stando ad una ricerca del CESNUR del 2002, i testimoni di Geova sono la seconda religione in Italia, se si considerano solo i cittadini italiani, o la terza, dopo i musulmani, contando anche gli immigrati.

La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 febbraio scorso ha parlato di Riccardo Maggi, ex testimone di Geova, di 34 anni, consulente turistico, che ha scelto di lasciare la setta. Questa sua decisione lo ha allontanato dai suoi genitori, convertitisi al geovismo nel 1983. Sin da bambino ha vissuto la realtà associativa dei testimoni, dall’indottrinamento alle adunanze, alle riunioni obbligatorie. Per diversi anni ha vissuto a Roma nella comunità Betel, dove lavorava come cuoco. Aveva 18 anni. «All’interno – sostiene Riccardo – ho visto di tutto, cose ben diverse da quello che si predica. Tutto tenuto nascosto». Da rapporti sessuali tra due amici, uno dei quali poi si impiccherà, all’enorme giro di denaro, dalle infiltrazioni massoniche agli scambi di coppia all’interno degli alloggi, dalla pedofilia alla circolazione di droga ed alcool. Egli stesso ricevette dal responsabile dell’organizzazione una proposta di sesso in cambio di un alloggio più confortevole. Riccardo si rifiutò.

Ora ha presentato un esposto in Procura contro tutti gli abusi di cui è stato testimone. Ovviamente i testimoni di Geova si difendono e contrattaccano. Fatto sta che Riccardo è stato ripudiato dai suoi genitori. «Io, mia moglie ed il mio bambino siamo come morti per i miei genitori», riferisce alla giornalista che lo ha intervistato.

Questa è l’ennesima vicenda dai contorni oscuri che concerne i TdG. Di certo c’è che chi finisce nella loro rete corre seri rischi o va incontro a restrizioni, perde la propria libertà ed autonomia e deve servire esclusivamente gli interessi della congregazione, spesso di natura soltanto economica. Dov’è nel caso di specie, la libertà dei figli di Dio? Dove sono la misericordia ed il perdono, attributi di Dio? Ed infine vale davvero la pena abbandonare la Chiesa cattolica per finire nelle grinfie di astuti manipolatori delle coscienze?

Salvatore Bernocco

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Le false profezie di Malachia e della Emmerich sui “due papi”

malachia e false profezie 
 
di Chrisrose D’arco
da No al Satanismo, 30/04/16
 
 

Immancabile in tante persone la smania di correre dietro alle “profezie”, tanto più gettonate quanto più possono far pensare a una prossima fine del mondo. Come se il 21 dicembre 2012 non avesse insegnato niente!

Gruppi di estremisti tradizionalisti o ai margini della Chiesa cattolica (come la setta della “veggente” Maria Divina Misericordia e la setta di Gallinaro), e altri seguaci di false o non approvate rivelazioni private cattoliche, fanno un gran polverone con la presunta “profezia dei due papi“. Un’altra molto gettonata è la “profezia dell’ultimo papa o profezia sui Sovrani Pontefici” falsamente attribuita a San Malachia.

 

PROFEZIA “DEI DUE PAPI”
La “profezia dei due papi” è tratta dagli scritti della beata Anna Caterina Emmerich. Molti tradizionalisti (ed anche la stessa falsa veggente Maria Divina Misericordia, MDM), sostengono che tale “profezia” riguarda la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II e, in particolare, il rapporto tra Papa Francesco e Benedetto XVI. Il testo dimostra chiaramente che questo è del tutto falso: innanzitutto, le parole trascritte della Emmerick non sono una profezia, ma una visione. Sappiamo inoltre che dal 1819 fino al giorno del suo trapasso, nel 1824, la Emmerick dettò le sue visioni al poeta romanticista Clemens Brentano, che trascrisse quanto diceva seduto al capezzale della beata: ciò mette ulteriormente in guardia dall’interpretare a piacimento tali rivelazioni private. Occorre cautela nel fare parallelismi pericolosi nell’ambito di un discernimento che spetta soltanto al Magistero della Chiesa!

La visione della Emmerick riguarda la situazione della Chiesa nel IXX secolo, e sono identificati i due papi: Bonifacio IV, che regnò nel 608-615 e Pio VII, regnante nel 1800-1823. I passaggi rilevanti sono questi: «Poi ho avuto una visione meravigliosa. Roma mi è apparsa improvvisamente nei primi tempi … ho visto un Papa e un imperatore il cui nome non conoscevo. Non riuscivo a trovare la mia strada nella città, anche le cerimonie sacre; eppure le ho riconosciute come cattoliche […]. Quando avevo assistito a questa visione, anche nei più piccoli dettagli, ho visto ancora una volta l’attuale Papa (Pio VII) e la chiesa buia del tempo a Roma. Sembrava essere una grande, vecchia casa come un municipio con colonne di fronte… [questa descrizione si adatta ad un tempio massonico di quel tempo, nda]. Poi ho visto la connessione tra i due papi e i due templi […]. Il quadro era favorevole ai primi tempi, perché in loro l’idolatria era in calo, mentre a nostri giorni è proprio il contrario» (da “La vita e le rivelazioni di Anna Caterina Emmerick completi”, p. 277 e segg.).

Il card José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, ha ritenuto non autentici gli scritti attribuiti alla Emmerick: «La beata (Anna Katharina Emmerick, 1774-1824) ci ha lasciato di sicuro solo tre lettere. Gli altri scritti, che le vengono erroneamente attribuiti, hanno diversa origine: le “visioni” della Passione di Cristo furono annotate, rielaborate con grande libertà e senza alcun controllo, dallo scrittore tedesco Clemens Brentano (1778-1842) e vennero pubblicate nel 1833 con il titolo: “L’acerba passione di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo”. Pertanto, le opere in discussione non possono considerarsi né scritte né dettate dalla Emmerick e neppure autentiche trascrizioni delle sue affermazioni e delle sue narrazioni, ma un’opera letteraria del Brentano e con tali ampliamenti e manipolazioni che è impossibile stabilire quale sia il nucleo vero e proprio da potersi attribuire alla beata. Ne consegue che gli scritti in questione non sono lo specchio verace del pensiero e delle esperienze mistiche della monaca agostiniana. Le singole affermazioni, sia quelle che esprimono una sana religiosità, sia quelle che presentano stranezze e sentimenti antisemiti, sono scaturite dalla creatività e dalla fantasia artistica del Brentano» (J.S. Martins, in L’Osservatore Romano, 7/10/2004).

 

PROFEZIA DI MALACHIA
Passiamo a considerare la profezia di Malachia, citando dal libro 2012. Catastrofismo e fine dei tempi (Piemme 2010). Si tratta di un elenco di 111 papi apparso, 450 anni dopo la morte di Malachia, in un’opera in lingua latina del monaco benedettino Arnoldo Wion, Lignum Vitae (1595), il quale lo ha introdotto così: «San Malachia morì il 2 novembre 1148. Noi possediamo tre lettere di San Bernardo a lui indirizzate, le epistole CCCXIII, CCCXVI e CCCXVII. Si crede che egli abbia scritto pure qualche opuscolo. Ma di lui non conosco che una certa profezia sui Sovrani Pontefici. Siccome questo scritto è breve e a quanto pare non è stato ancora stampato, lo riproduco qui per rispondere al desiderio di parecchi». L’elenco parte da Celestino II (1143-1144) e ognuno dei papi è definito da un breve motto in latino che dovrebbe metterne in evidenza il nome, il simbolo, il luogo di provenienza o comunque un elemento che lo contraddistingue. Dopo l’elenco dei 111 papi, nel manoscritto si trova questa frase: «Nella persecuzione estrema, il trono della Santa Romana Chiesa verrà occupato da Pietro il Romano, che pascerà il suo gregge fra molte sofferenze, finite le quali la città dei sette colli verrà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il proprio popolo. Fine (o Amen)».

La “profezia” era già tornata di grande attualità dopo la morte di Giovanni Paolo II, che era il 110mo nell’elenco e ovviamente lo è ancora di più da quando Benedetto XVI ha rinunciato al ministero di vescovo di Roma. L’autenticità della “profezia” è stata però ripetutamente smentita da una seria ricerca storica. San Malachia è stato una figura molto importante della Chiesa irlandese e del monachesimo cistercense, San Bernardo ne ha scritto la biografia citando tutti gli aspetti possibili, personali e di governo della Chiesa, senza mai menzionare presunte profezie o rivelazioni personali riguardo al succedersi dei Papi. Il che sarebbe davvero strano se ci fosse stato un manoscritto del genere. In secondo luogo, il riferimento ai Papi precedenti il 1590 è abbastanza preciso, con motti che richiamano lo stemma o il casato, mentre per i Papi successivi il riferimento è molto più vago e diventa possibile solo andando alla ricerca di elementi eterogenei cosa che, tra l’altro, renderebbe possibile la compatibilità con qualsiasi personaggio. Ad esempio, il primo papa della lista, Celestino II, è definito Ex castro Tiberi, con allusione al luogo di origine del Papa, che nacque a Città di Castello, sul fiume Tevere. Eugenio III (1145-1153) è definito Ex magnitudo montis, e anche qui il riferimento è al luogo di nascita: Montemagno, in provincia di Pisa.

Se invece guardiamo ai papi della nostra epoca, le interpretazioni date ai rispettivi motti sono a dir poco forzate. Giovanni XXIII sarebbe Pastor et Nauta (pastore e marinaio) con riferimento al suo mandato di Patriarca di Venezia (antica repubblica marinara) o al ruolo di “traghettatore della Chiesa nel mare della modernità” attraverso il Concilio Vaticano II. Paolo VI è indicato dal motto Flos Forum, fiore dei fiori, definizione che alcuni attribuiscono al giglio: nello stemma di Paolo VI compaiono tre gigli. Giovanni Paolo I è De Medietate lunae, che molti hanno riferito al fatto che il suo pontificato – 33 giorni – è durato “il tempo di una luna” con riferimento al mese lunare; in realtà il mese lunare è di 28 giorni e mezzo mese lunare, come indica il motto, è quindi di 14 giorni. Giovanni Paolo II sarebbe De labore solis, che alcuni vedono come riferimento alla provenienza da un Paese dell’Est (dove sorge il sole). Benedetto XVI sarebbe poi De gloria olivae, motto che fa faticare non poco gli esegeti di Malachia: l’interpretazione che va per la maggiore fa riferimento al nome Benedetto sostenendo che i benedettini sono chiamati anche olivetani, il che però non è vero in quanto gli Olivetani sono soltanto un ramo riformato del monachesimo benedettino; più recentemente ci si è riferiti al fatto che Benedetto XVI ha canonizzato il fondatore degli Olivetani, san Bernardo Tolomei, ma si vede che per poter rendere credibile la profezia bisogna fare un notevole sforzo di fantasia. Del resto come non notare che un motto del genere è così vago da potersi adattare a chiunque? Ad un papa italiano (terra degli ulivi) come ad un papa mediorientale o nordafricano (di carnagione olivastra) o anche ad un papa impegnato per la pace (l’ulivo è simbolo di pace). Qualcuno prima del conclave che ha poi portato all’elezione del cardinal Ratzinger, aveva visto nella profezia di Malachia un rafforzamento della candidatura al papato del cardinal Martini: era sicuramente qualcuno esperto di cocktail visto che aveva associato l’oliva al Martini.

Un altro elemento sottolineato dai critici è il fatto che nell’interpretazione classica, nell’elenco dei Papi sono considerati anche dieci anti-papa, il che è quantomeno curioso. Per la Chiesa gli anti-papa non possono essere certo inclusi nella successione di Pietro (tanto è vero che l’esistenza di un anti-papa Giovanni XXIII all’inizio del XV secolo non ha impedito che papa Roncalli assumesse quel nome nel 1958) né nella profezia si fa menzione di eventuali anti-papa, come ci si aspetterebbe. Se dovessimo perciò togliere gli anti-papa dall’elenco troveremmo che Benedetto XVI non sarebbe più il 111esimo Papa della lista ma soltanto il 101mo, con tanti auguri agli esegeti per trovare un nuovo aggancio tra persona e motto.

Un ultimo problema riguarda il 112esimo della lista, Petrus Romanus. Secondo alcuni storici si tratterebbe di un’aggiunta al testo inserita nel XIX secolo, ma a parte questo, la profezia non parla di un 112esimo papa. La cosa ha dato adito a due interpretazioni. La prima è che ci possano essere altri papi dopo il numero 111 e prima di Petrus Romanus, che poi nella tradizione è diventato Pietro II: in questo caso la fine della Chiesa e del mondo sarebbe rimandata a data da destinarsi. La seconda è che dopo Benedetto XVI non ci sia un altro Papa, ma un “reggente” che guidi la Chiesa senza che ci siano tempo e condizioni per la convocazione o la conclusione di un conclave. In questo caso la fine sarebbe davvero prossima: al venir meno di un papa (per morte o, come in questo caso, per rinuncia) la reggenza della Chiesa spetta infatti, fino all’elezione del papa successivo, al cardinale Camerlengo di Santa Romana Chiesa. Quindi, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, ci sarebbe dovuto essere come reggente il Camerlengo, che in quel momento era il cardinale Tarcisio Bertone, che era anche segretario di Stato vaticano. Ebbene, il nome completo del cardinale Bertone è Tarcisio Pietro Evasio, nato a Romano Canavese: ed ecco fatto Petrus Romanus, a patto di non farsi domande sul perché Malachia avrebbe indicato il secondo nome e non il primo, e usato come aggettivo (Romanus) il nome della città che in questo caso è sostantivo.

Ma, del resto, quando si è fermamente intenzionati a credere al catastrofismo apocalittico, si prende per buono tutto ed il contrario di tutto…

 

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Nel libro-intervista Ultime conversazioni (Garzanti 2016), il Papa emerito Benedetto XVI ha risposto ironico ad una domanda sulla “profezia” di Malachia, secondo la quale il papato terminerebbe con il suo pontificato: «Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri. A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito, e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di papi, che invece non era così. Non per questo, però, si deve dedurre che finirà davvero. Piuttosto che la sua lista non era ancora abbastanza lunga!» (p. 205).

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I cristiani impegnati divorziano meno (grazie a Dio!)

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Certe notizie diventano interessanti se arrivano da un contesto storico e sociale in cui le persone non faticano a definirsi nominalmente cristiane anche se in gran parte non mettono piede in una chiesa da anni, non conoscono e non vivono il messaggio cristiano, ignorano i fondamenti del catechismo e trascorrono la loro vita esattamente come se Dio non esistesse.

Queste persone, gran parte degli italiani (e degli occidentali), continua a definirsi cristiana per motivi di tradizione, abitudine cultura o costume. Ma non c’è da parte loro un’adesione sincera e profonda, impegnata e consapevole alla fede cristiana, alla sequela di Cristo e all’appartenenza alla Chiesa, facendo proprio e vivendo il suo insegnamento, diffuso dal Pontefice, dai pastori e dal Catechismo. Non intendono semplicemente farlo.

A livello sociologico sono definiti cristiani o cattolici nominali e proprio ad essi sembra rivolgersi un’indagine realizzata nel 2011 dal sociologo Bradley Wright, docente dell’Università del Connecticut. «E’ un mito utile», ha dichiarato, «affermare che il tasso di divorzio dei cristiani è identico, se non superiore, a quello di tutti gli altri». Invece non è così, in linea generale il tasso di divorzio di chi si definisce cristiano è del 42%, mentre quello degli americani religiosamente non affiliati è del 50%. Ma se confrontiamo i cristiani nominali da quelli seriamente impegnati (che frequentano settimanalmente le funzioni religiose, anche se questo ovviamente non basta per definirli “impegnati”), il tasso scende al 38%.

Secondo una seconda analisi, effettuata da Brad Wilcox, direttore del National Marriage Project presso l’Università della Virginia, gli americani che frequentano le funzioni religiose più volte al mese hanno invece il 35% in meno di probabilità di divorziare rispetto ai non religiosi e il 20% in meno rispetto ai cristiani nominali.

Questo suggerisce che non è tutto uguale, credere o non credere, scegliere di vivere da autentici cristiani tutti i giorni non è come non farlo. Tutto cambia, tanto che il coinvolgimento attivo e consapevole con l’insegnamento cattolico arriva ad influenzare anche la qualità dei rapporti coniugali e familiari, dato importante in quanto immersi in un contesto storico durissimo e drammatico per la famiglia.

La redazione

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