La coscienza rimane un mistero, superati dualismo e riduzionismo

ceroni coscienza misteroLa mente è molto più che il prodotto del cervello: l’essere umano non è spiegabile infatti tramite meccanismi neurologici, come invece vorrebbe l’approccio riduzionistico. E’ questa la tesi emersa nel recente lavoro di Daniel J. Siegel, docente di Psichiatria clinica presso la UCLA School of Medicine, intitolato Mind: A Journey to the Heart of Being Human (WW Norton & Co Inc 2016).

Un’altra dimostrazione di quanto stia cambiando il panorama neuroscientifico attuale, intenzionato a lasciarsi alle spalle il tentativo di spiegare la personalità umana tramite un approccio puramente materialista (tentando di ridurre la psicologia alla fisiologia). C’è uno studio italiano che riteniamo imprescindibile per chiunque sia interessato a questa affascinante tematica: si tratta della monumentale opera di due docenti dell’Università di Pavia, il neurologo Mario Ceroni e il filosofo Luca Vanzago, con la collaborazione del neuropsichiatra Faustino Savoldi. Il titolo è La coscienza. Contributi per specialisti e non specialisti tra Neuroscienze, Filosofia e Neurologia (Aras edizioni 2014).

Fin dalla prefazione, gli autori identificano il cuore della questione: «il problema della coscienza è la tautologia di un fenomeno che può essere studiato soltanto impiegando il fenomeno stesso. Il mezzo diventa dunque anche un fine e viceversa» (p. 4). Le 1087 pagine non devono spaventare, la lettura è agevole e le quattro parti in cui è diviso il libro la rendono scorrevole: la prima sezione è dedicata alla presentazione (dei contenuti e dei loro limiti) delle correnti scientifiche e di pensiero che maggiormente hanno caratterizzato lo studio della coscienza, della mente e del cervello umano a partire dal 1900. A seguire c’è spazio per i contributi dei singoli autori, mentre la terza parte indaga l’origine della coscienza e l’evoluzione degli approcci attraverso cui essa è ed è stata stata studiata. La quarta parte, infine, presenta una sintesi conclusiva.

Ampia parte dell’opera dei tre studiosi è dedicata a sottolineare i limiti di tutti i tipi di negazionismi comparsi dalla seconda metà del ventesimo secolo, approccio che la fa da padrone sul tema della coscienza. In comune hanno l’obbiettivo di estirparla dall’uomo e ricondurla ad uno stato del cervello. Prima, descrivendola come fenomeno puramente soggettivo, poi come epifenomeno del cervello o una mera proprietà funzionale identificabile come “vigilanza”.

Tra le principali scuole di pensiero che condividono questo scopo c’è il fisicalismo australiano, secondo la quale gli stati mentali vanno ricondotti a stati fisici del cervello, ma è messo in difficoltà dall’evidenza dell’identificazione degli stati mentali, così come tale approccio non sa spiegare perché operazioni intelligenti possano realizzarsi anche in strutture come i calcolatori, privi di un sistema nervoso centrale organico. Un altro approccio noto è il behaviorismo psicologico di John B Watson e quello filosofico di Rudolf Carnap, una forma di monismo materialista radicale dove la coscienza è solo un epifenomeno del sistema nervoso centrale: è stato però Noam Chomsky a mostrare, meglio di altri, l’inadeguatezza della correlazione stimolo/risposta nello spiegare il comportamento umano. Il funzionalismo è invece una sorta di fiscalismo decisamente meno riduzionista, seppur fondato anch’esso sul materialismo: a sua volta è però risultato incapace di cogliere la natura dall’esperienza cosciente. Un’altra scuola è quella del cognitivismo, che confronta erroneamente l’attività mentale del soggetto umano con il computer, affermando la natura computazionale delle attività cognitive ed escludendo (quindi riducendo), ancora una volta, il concetto di mente e i fattori complessi della personalità (affetti, sentimenti, cultura ecc.).

La lettura e la rielaborazione critica del pensiero dei principali studiosi è affascinante, sono presi in considerazione almeno una trentina di autori e per ognuno viene esposto e valutato il rispettivo point of view, spaziando da Giacomo Rizzolati ad Alva Noè, da Colin McGinn a Benjamin Libet, da Joseph Le Doux a Christof Koch, da Daniel Dennett a Francis Crick. Fino al dualismo moderno del premio Nobel John C Eccles e di Karl Popper, i quali sostengono l’esistenza di due sostanze indipendenti l’una dall’altra, quella spirituale e quella materiale, seppur non rispondendo al problema di come possa «una sostanza spirituale inestesa modificare una sostanza materiale con la quale non ha nulla in comune e, a sua volta, esserne modificata» (p. 15).

Esiste insomma una estrema varietà di posizioni e concezioni riguardo alla coscienza, davanti alla quale è importante saper scegliere «il punto di partenza, da esso dipendono in gran parte le conclusioni e i contributi dei vari autori», scrivono Ceroni, Vanzago e Savoldi. «Si resta, tuttavia, sorpresi da quanto poco il punto di partenza sia messo in discussione nelle opere della maggioranza degli autori. Esso rappresenta il fondamento a partire dal quale vengono criticate altre posizioni, spesso senza che si operi un confronto effettivo sui punti di partenza delle concezioni in discussione. Riteniamo che sia esattamente questo, cioè l’indisponibilità della messa in discussione del proprio punto di partenza, a costituire una della maggiori difficoltà nel dibattito neuro scientifico attuale» (p. 890).

Alla luce di tutto questo appare nobile il tentativo dei tre autori di non voler opporre la «concezione di coscienza che prevale nelle neuroscienze, che pretende di essere fondata oggettivamente, a quella del pensiero fenomenologico che sottolinea l’irriducibilità della soggettività», l’intento è invece «quello di creare uno spazio in cui fenomenologia e neuroscienze trovino il loro senso comune e si incontrino in un rapporto dialettico» (p. 939). Lo consideriamo uno degli approcci migliori nel dibattito sulle neuroscienze, l’unico che non tratta la personalità umana come un pezzo anatomico del corpo, da isolare e analizzare in modo settorializzato, e nemmeno la considera indipendente e svincolabile dal supporto biologico su cui è inserita e collegata. Essa «è una formazione composta di più strati saldamente connessi, ma non omogenei. Gli uomini non sono gli schiavi di una natura invincibile e neppure degli angeli che volano sopra il proprio corpo. Per il filosofo e per il neuroscienzato questo significa cercare di comprendere l’uomo che non si identifica mai astrattamente con la salute o con la malattia, con uno degli aspetti della sua variegata personalità, con una sua parte anche se meravigliosamente complessa come il cervello. Significa anche rispettarlo nella complessità del suo essere senza arbitrarie interpretazioni che lo trasformino in oggetto di una ideologia vecchia o nuova che sia» (p. 940).

Occorre dunque lasciare alle spalle il naturalismo e lo spiritualismo, andare oltre al riduzionismo e al monismo, ma superare anche il dualismo cartesiano. Per studiare la personalità umana, ci insegnano i tre studiosi, occorre assumere un punto di partenza in cui essa è intesa come «una formazione composta di più strati indissolubilmente connessi, qualunque sia la condizione del soggetto umano, dal geniale scienziato all’handicappato più grave». Questo permette di guardare all’uomo, sia dal punto di vista filosofico che scientifico, «come una misteriosa unità duale dentro un Universo di cui rappresenta il punto di consapevolezza, il punto di autocoscienza» (p. 940).

La redazione

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La showgirl Nadia Toffa sponsor dell’utero in affitto, cioè sfruttamento di donne e bambini

iene mediasetIeri sera la marchetta, priva di contraddittorio, delle Iene alla maternità surrogata. Un servizio nato come vendetta verso il mondo femminista che la scorsa settimana ha chiesto all’ONU che l’utero in affitto venga considerato reato universale, considerandolo «nuovo schiavismo»

Ad ideare lo spot verso tale crimine umano -dove le donne diventano incubatrici viventi (volontarie o spinte per bisogno economico) a cui vengono ordinati bambini da donare, come fossero oggetti, ai meno fortunati-, è stata Nadia Toffa. Nonostante il tema divisivo, la Iena non chiesto opinione ai tanti esperti che si sono opposti all’utero in affitto (tra cui lo psichiatra Paolo Crepet), ma è andata a pescare una delle poche psicoterapeute, Giuliana Barbieri, che ha strizzato l’occhio all’eugenetica, sostenendo che non ci sarebbe nulla di male nel selezionare in laboratorio bambini perfetti e scelti da catalogo -con naso piccolo, occhi azzurri e capelli biondi-, semplicemente ci sembra strano «perché non siamo abituati».

Ad onor del vero qualche tentativo venne fatto in passato nei laboratori di Hitler per creare la razza perfetta, non è un caso che il dott. Crepet definisca la maternità surrogata una «pratica nazista». La Barbieri è membro associato della Società Psicoanalitica Italiana, ed è proprio tale associazione a smentirla definendo i bambini nati tramite surrogata «figli dello strappo», nonché «aspetto utopico eppur distopico del mondo contemporaneo» e condividendo gli articoli della femminista Monica Ricci Sargentini, una delle leader italiane contro tale pratica. Le Iene non hanno nemmeno avuto l’onestà intellettuale di ricordare che sia Parlamento di Strasburgo, sia il Consiglio d’Europa che la Corte europea dei diritti umani si sono opposti alla maternità surrogata.

A proposito dell’autrice della marchetta, Nadia Toffa, la cosa più curiosa non è che nella sua carriera abbia portato in televisione Raffaele Sollecito, accusato dell’omicidio di Meredith Kercher (poi assolto per “mancanza di prove”), trasformandolo in vip, sghignazzando con lui e promuovendo il suo libro durante la trasmissione Open Space, quando quest’ultimo su Facebook gestisce gruppi d’odio verso le donne e deride la povera Meredith. Ciò che colpisce davvero è che la showgirl della tv berlusconiana abbia oltre 1 milione di fans su Facebook. Senza considerare, inoltre, che il programma ideato dalla Toffa è stato chiuso dopo poche puntate a causa del flop di ascolti. Lo scrittore Giancarlo Dotto si è detto vergognato da lei, del «vellicare languidi il presunto assassino». «I Luciferi» delle Iene «montano la bagarre contro le scommesse legali e non si fanno scrupoli di promuovere un libro che nasce, all’origine di tutto, sul corpo macellato di una ragazza».

Il servizio pro-utero in affitto -che ha generato una marea di critiche- si è caratterizzato da sdolcinate interviste a benestanti donne americane che hanno portato in grembo figli per coppie sterili come gesto d’amore, con il chiaro obiettivo di contrastare l’idea che vi sia un pagamento di denaro o uno sfruttamento dei ricchi verso donne povere. Il problema, tuttavia, non è solo questo, come abbiamo già ricordato: ma è altrettanto grave usare i bambini come “pacchetti regalo”, strapparli dal grembo materno in cui sono cresciuti per nove mesi, sviluppando un legame fortissimo con la madre (chiamato “bonding“) e cederli ad altri su commissione. Con o senza scambio di denaro.

Il filosofo Massimo Reichlin, ordinario all’Università San Raffaele di Milano, ha giustamente osservato che «la maternità surrogata svilisce l’essere donna e fa passare a una logica produttiva e commerciale, fa perdere la centralità di essere portati da una donna, divenendo oggetto di relazione contrattuale e di scambio di servizi». La femminista rossa Luisella Costamagna ha chiarito ulteriormente le cose: «basta internet per capire cosa sia davvero la gestazione per altri, per abbandonare via via idee tipo libertà, amore, altruismo delle donne e scoprire lo sfruttamento, l’emarginazione, il business che si nutre di loro». Susanna Tamaro nell’intervento pronunciato alla Camera pochi giorni fa, ha dichiarato: «La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”».

La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”.

Se Le Iene sponsorizzano la mercificazione degli esseri umani, del corpo delle donne (generose o meno) e dei bambini strappati dal grembo materno e regalati come pacchi natalizi, vanno ribadite le parole della più famosa femminista europea, Sylviane Agacinski: «i bambini sono persone, non si tratta di cose» da regalare con generosità a chi non ne ha. Parole simili a quelle della filosofa californiana Rivka Weinberg: «Non si può trattare una persona come una cosa, anche se la si scambia gratis».

La redazione

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Un milione per il Papa, meno male che era poco amato…

bergoglio in ginocchioUna folla oceanica di fedeli si è svegliata prestissimo, ha percorso chilometri a piedi e ha atteso ore sotto al sole nel Parco di Monza prima di partecipare alla messa presieduta da Papa Francesco. Lo sa bene chi ha partecipato e chi ha seguito la diretta televisiva della visita pastorale del Pontefice alla città di Milano.

«Fedeli in fuga da Bergoglio» si leggeva solo un anno fa sui siti web dei giornalisti antipapisti. «Bergoglio non è amato dai cattolici ma solo da atei e anticlericali perché sta distruggendo la fede e la Chiesa», ha scritto recentemente Antonio Socci. Erano un milione i fedeli nel Parco di Monza, 80mila i cresimandi che hanno riempito lo stadio San Siro, 100mila milanesi invece hanno recitato l’Angelus con lui sul piazzale del Duomo. Meno male che era poco amato!

Ma i nemici della Chiesa sanno come girare le carte: se i fedeli che seguono il Papa sono pochi, allora è perché sono offesi dai suoi continui rimproveri e dimostra che l’Anticristo ha allontanato la gente dalla fede e dalla partecipazione attiva. Se invece è alta la partecipazione agli eventi pubblici del Pontefice -come hanno dimostrato i numeri delle udienze generali-, allora i tradizionalisti useranno la citazione evangelica “guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”, sostenendo che il mondo segue sempre chi vuol disintegrare la Chiesa. In ogni caso cadranno in piedi, anche se questo rivela la schizofrenia dei loro ragionamenti.

Gran parte dei cattolici fa bene a non interessarsi a queste diatribe, da parte nostra però riteniamo di dovercene occupare offrendo argomenti di risposta ai fedeli che rimangono vittime confuse dei persecutori mediatici del Pontefice. Dalle numerose email e dai messaggi di ringraziamento che abbiamo ricevuto in questi anni, ci siamo infatti convinti che sia la strada giusta, anche a costo di annoiare e allontanare i tanti lettori -credenti e non credenti- che ci hanno sempre seguito interessati da altre tematiche. Oggi tuttavia riteniamo che il pericolo maggiore per la fede sia la disinformazione contro la Chiesa e contro il Papa che arriva sopratutto da dentro, dall’apparato mediatico pseudocattolico che genera volontariamente pregiudizi, confusione e disaffezione, e che ha fatto della guerra al Papa, garante dell’unità dei fedeli, il suo unico obiettivo. Questo spiega i nostri numerosi interventi in questa direzione.

Di tutto l’evento di ieri, ad esempio, i sedevacantisti hanno tratto soltanto le brevi immagini in cui Francesco ha adorato il Santissimo Sacramento nel Duomo di Milano, seduto piuttosto che inginocchiato. Il Demonio non ama l’Eucarestia, hanno spiegato i giornalisti antipapisti. Non sappiamo l’esatto motivo di questa scelta del Papa, avendo davanti una giornata davvero impegnativa probabilmente non ha voluto sottoporre le sue già fragili ginocchia ad uno stress che avrebbe potuto condizionargli il resto della visita pastorale. Infatti, quando il suo fisico glielo permette, il Papa si inginocchia sempre davanti alle specie eucaristiche. In passato lo abbiamo mostrato in alcune fotografie e qui sotto è possibile prenderne atto in questo video.

 

Qui sotto un esempio del Papa inginocchiato durante l’Adorazione eucaristica (pubblicato anche sul nostro canale Youtube)

La redazione

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Fine vita, radici cristiane e famiglia: la Chiesa continua a parlare chiaro

chiesa chiarezzaLa Chiesa parla chiaro, anche sui temi più scomodi per la modernità. Per chi avesse dubbi, questa settimana è stata in particolar modo significativa: dal Consiglio Episcopale Permanente al discorso di ieri di Francesco ai Capi di Stato dell’Unione Europea.

«Chi ha sentito parlare la Chiesa, sa che non ha mai smesso di insistere sul fattore famiglia», ha dichiarato il segretario della CEI, mons. Nunzio Galantino durante la conferenza stampa di presentazione del comunicato finale del Consiglio permanente dei vescovi italiani. «Non molleremo mai finché non si riscopra la centralità della famiglia per la società e per la società contemporanea, finché non si capisca che la famiglia – quella formata da madre, padre e figli – non è un fatto di Chiesa, ma di società, perché quando si disgrega, si comincia ad adottare un tipo di soluzione che va in una direzione che tante volte con chiarezza abbiamo stigmatizzato e che non ci trova assolutamente d’accordo».

Ci possono essere parole più chiare? No, eppure nessuno dei giornalisti sedicenti confusi, quelli che dicono di essere bussole dei cattolici e denunciano ogni giorno il presunto silenzio ecclesiale sui temi etici, ne ha parlato ai propri lettori o ha ripreso tali dichiarazioni. Mons. Galantino è intervenuto anche sul fine vita, altra tematica scottante: «è un tema che i vescovi seguono con molta attenzione non da oggi». Rispetto al ddl attualmente in discussione, «chiediamo con chiarezza che venga messa in evidenza l’importanza della relazione paziente-medico-familiari e non è possibile che in Italia su cure palliative e terapia del dolore non si investa ancora tanto». Infine, «bisogna evitare e superare l’assolutizzazione del principio di autodeterminazione e rispettare l’autonomia in scienza e coscienza del medico».

Il segretario della CEI aveva ribadito le stesse cose pochi giorni fa, non ha invece parlato di eutanasia perché, fortunatamente, non è oggetto dell’attuale disegno di legge in discussione in Parlamento. In ogni caso, ad inizio mese è entrato comunque in argomento sul principale quotidiano nazionale in occasione della morte di Dj Fabo: «Continuo a pensare che l’eutanasia o il suicidio assistito non siano segno di civiltà evoluta, come sento dire con tanta sicurezza, nascondono un messaggio non solo falso, ma anche deleterio: cioè che esistano alcune vite che, per alcune condizioni, non sono degne di essere vissute. Non credo sia il volto di una società davvero “civile”».

Dal canto suo, il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, aprendo il consiglio permanente, ha criticato la legge sul fine vita in discussione poiché «radicalmente individualista» mentre la vita è «un bene originario indisponibile», opponendosi all’accanimento terapeutico e all’eutanasia. Un altro tema urgente per Bagnasco, oltre alla disoccupazione giovanile, alla denatalità e al fenomeno immigratorio, è l’utero in affitto e «il diritto dei figli ad essere allevati da papà e mamma, nella differenza dei generi che, come l’esperienza universale testimonia, completa l’identità fisica e psichica del bambino». Il presidente dei vescovi italiani ha parlato talmente chiaro che il vatikanista rosso Luca Kocci, de Il Manifesto, ha voluto velatamente criticarlo, come sempre: «come in una sorta di testamento – non biologico –, il card. Bagnasco elenca e richiama i temi che hanno caratterizzato il suo decennio alla guida dei vescovi italiani».

Ieri pomeriggio è toccato a Papa Francesco, rivolgendosi ai Capi di Stato europei: «L’Europa ritrova speranza quando si apre al futuro. Quando investe nella famiglia, che è la prima e fondamentale cellula della società. Quando rispetta la coscienza e gli ideali dei suoi cittadini. Quando garantisce la possibilità di fare figli, senza la paura di non poterli mantenere. Quando difende la vita in tutta la sua sacralità». Due giorni prima il suo più stretto collaboratore, il segretario di Stato Pietro Parolin aveva dichiarato: «Le radici cristiane sono la linfa vitale dell’Europa. Basti rileggere i discorsi che i protagonisti del 25 marzo 1957 tennero in Campidoglio, per scoprire come essi vedessero nel comune patrimonio cristiano un elemento fondamentale sul quale costruire la Comunità economica europea. Poi è subentrato un lento processo che ha cercato di relegare sempre più il cristianesimo all’ambito privato. È stato così necessario ricercare altri denominatori comuni, apparentemente più concreti, ma che hanno condotto ad un vuoto di valori, con gli esiti che abbiamo dinanzi agli occhi di società sempre più frammentate».

Nel suo importante discorso di ieri, il Pontefice ha a sua volta ricordato: «Il denominatore comune dei Padri dell’Europa era la consapevolezza che all’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo, senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili. E ancor oggi – affermava san Giovanni Paolo II –, l’anima dell’Europa rimane unita, perché, oltre alle sue origini comuni, vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona umana, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito di iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono note che la caratterizzano. Nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati».

Nessuna bandiera bianca, dunque. Nessuna accondiscendenza sulle tematiche maggiormente divisive. Lo sa bene chi si informa realmente e non tocca a noi riprendere tali interventi, disponibili su tutti i quotidiani principali. Se lo facciamo è perché vediamo diffusa la disinformazione su alcuni organi fino a ieri autenticamente cattolici, dove si oscura la verità per colpire i propri pastori. Fortunatamente la Chiesa è ben altro rispetto a questi giornalisti, chiunque potrà osservarlo recandosi a Milano quest’oggi (o, da casa, guardando TV2000 che seguirà tutto l’evento in diretta), dove il Pontefice è in visita pastorale e sarà accolto da oltre 700mila persone.

Forse il dato più significativo è come il card. Angelo Scola, amico fraterno e di lungo corso di Benedetto XVI, ha risposto in queste ore alle resistenze cattoliche a Papa Bergoglio: «Le inerzie rispetto al cambiamento sono un po’ inevitabili, lo vediamo in tutta la storia della Chiesa. Un Papa con questo stile è stato un salutare colpo allo stomaco che lo Spirito Santo ci ha assestato per svegliarci. Quella di Francesco è una pro-vocazione in senso etimologico. Ci rimette davanti alla vocazione cristiana senza sconti. Parte sempre dai gesti, dagli esempi, da una cultura di popolo nutrita da una precisa teologia. Da qui scaturisce il suo insegnamento. Questi elementi vanno visti insieme, altrimenti rischiamo di leggere ideologicamente la proposta del Papa». Rispetto ai manifesti anonimi posizionati a Roma dai circoli tradizionalisti, con scritte riproducenti le accuse dei giornalisti antibergogliani, il ratzingeriano Scola ha detto: «Come in ogni ambito umano, anche nella Chiesa può attecchire la zizzania. Inoltre, in un momento di passaggio così radicale, occorre mettere in conto che chi è abituato a un altro stile reagisca anche in forme disdicevoli, magari non sempre in buona fede. Il Papa sa guardare alle intenzioni profonde di chi muove valide riserve ed evita di trasformare le difficoltà in dialettica sterile e in scontro».

La redazione

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Negare la possibilità del miracolo è ghigliottina ideologica, non razionalità

materialismo e razionalitàMolte volte, davanti a eventi inspiegabili, si sente parlare di miracolo. Si tratta sempre di questo oppure di fatti, che, seppur sorprendenti, rientrano nella sfera delle leggi di natura?

Davanti a fenomeni straordinari, come, per esempio, guarigioni improvvise da malattie gravi, per un credente non è difficile pensare ad un intervento diretto di Dio.

Diversamente, per un non credente, la cosa può complicarsi a tal punto, che il miracolo va negato o ridicolizzato, poiché è qualcosa che smuove e, a volte, sradica la persona dalle proprie certezze, dal suo milieu. È qualcosa che minaccia lo status quo. Ed ecco che si ricorre alle più svariate ipotesi, che vanno dalla suggestione alla guarigione spontanea. Fenomeni, questi, che possono essere, a volte, la spiegazione più plausibile ma, altre volte, sono solo goffi espedienti, con cui si cerca di spostare il problema, per togliersi dall’imbarazzo di un Dio troppo ingombrante per il proprio io.

Difatti, davanti alla ricrescita istantanea di un osso, di una gamba (come riportato nel celebre libro di Messori, Il Miracolo) oppure alla guarigione immediata da un tumore esteso, come è possibile parlare di fattori psicosomatici? Se fosse così semplice, tutti guarirebbero allo stesso modo, con un po’ di suggestione. Ma chi consiglierebbe mai ad un malato terminale di sostituire la sua terapia con qualche seduta di psicoterapia? Allo stesso modo, desta qualche perplessità l’ossessivo ricorso all’ipotesi della guarigione spontanea. Può darsi che in alcuni casi una malattia regredisca spontaneamente e gradualmente. Ma che dire di una guarigione immediata, che avviene proprio nelle piscine di Lourdes? Sono tutte coincidenze? Quale è la probabilità che ogni guarigione spontanea avvenga proprio a Lourdes e a seguito di un atto di fede? Per il principio del rasoio di Occam, l’esistenza di Dio non sarebbe la spiegazione più probabile e più semplice e, dunque, da preferire?

L’insistenza da parte degli scettici sul fenomeno della guarigione spontanea per spiegare qualsiasi guarigione inspiegabile sembrerebbe, dunque, priva di ragionevolezza. Per capire le dinamiche di un evento inspiegabile, come può essere un miracolo, bisogna voler uscire da una visione positivista-materialistica e con umiltà e intelligenza accettare i limiti della propria ragione. Pascal diceva che la ragione a volte deve sottomettersi al mistero, ed emerge la necessità di ripensare l’epistemologia alla luce del pensiero complesso e della fisica dei quanti. Secondo Heisenberg, «nella ricerca dell’armonia nella vita, non dobbiamo dimenticarci che nel dramma dell’esistenza siamo insieme attori e spettatori».

La realtà è condizionata dal processo conoscitivo, per cui non possiamo avere la perfetta conoscenza degli eventi naturali. Essi ci sfuggono sempre. Questo vuol dire che non siamo neanche in grado di poter affermare – come fanno alcuni – che il miracolo, se fosse vero, altererebbe le leggi di natura, ponendo in essere una vera e propria contraddizione nell’ordine della creazione. In altre parole, che il miracolo sarebbe una contraddizione da parte di Dio, come ha detto, persino, qualche teologo. Ma quali elementi abbiamo per poter parlare di contraddizione? Le nostre conoscenze ci permettono, forse, di comprendere tutta la ricchezza del reale, del creato e delle sue leggi? Possiamo dire, dunque, che il miracolo è una vera e propria azione, che parte da una sfera metafisica (Dio) e che ha ripercussioni nel mondo fisico, “piegando” – entro certi limiti, forse – le sue leggi o le leggi che noi crediamo di conoscere. Ma il vasaio, non modella e rimodella la creta, dandogli la forma che vuole? E per questo si può dire che contraddica se stesso?

Spesso, a destare maggiore perplessità, non sono tanto i ragionamenti dei soliti scettici da talk show, quanto le posizioni teologiche di alcuni prelati, che con sottili sofismi cercano di far rientrare nella sfera fisica tutto ciò che – secondo la Scrittura e il Magistero – apparterrebbe, invece, alla sfera metafisica. Ma domandiamoci: questa diffidenza verso i miracoli, non sarà forse l’ennesimo goffo tentativo esibizionista da parte di alcuni religiosi di emulare i colleghi protestanti? Se – come dicono molti di stampo bultmanniano – i miracoli non esistono, per coerenza, non esiste la transustanziazione e, nemmeno, la risurrezione dai morti. Ma, allora, vana è la nostra fede e «se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1 Cor. 15,19), oltre al fatto che faremmo di Cristo solo un bugiardo. Si può essere cristiani e non credere nei miracoli? Non è forse questa la più grande contraddizione, soprattutto quando i peggiori scettici escono dai seminari?

Per Edgar Morin, il riduzionismo scientifico è un paradigma, che «mutila la conoscenza e sfigura il reale». Scrive il filosofo della complessità: «La Ragione con la maiuscola, pietrificata in astrazioni e razionalizzazioni, instaura in se stessa una ghigliottina ideologica e sviluppa potenzialità totalitarie. Sono stato spinto così a formulare l’importantissima distinzione fra razionalità e razionalizzazione. La razionalizzazione è una logica chiusa, demenziale, che opera applicandosi unilateralmente al reale, e quando il reale non si piega a questa logica, lo si nega o si usano dei forcipi affinché obbedisca. La razionalizzazione è demente e ha tuttavia gli stessi ingredienti della ragione (il calcolo, il procedimento discorsivo, la logica). La differenza importante è che la ragione è aperta, riconosce nell’universo la presenza di ciò che non è razionalizzabile, vale a dire la presenza dell’ignoto e del mistero. Essa integra l’autoesame, il dubbio, l’incertezza, i limiti della conoscenza nella stessa conoscenza razionale» (E. Morin, I miei filosofi, Erickson 2003, p. 116).

Il miracolo, forse, è l’ultimo espediente di Dio per risvegliare in noi quel senso dello stupore, che è stato narcotizzato da una spietata razionalizzazione selvaggia, che non permette più all’uomo di intravvedere nel creato la firma del Creatore. Ma tutto questo, sempre nel rispetto della nostra libertà.

Armando Savini

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«Sono cresciuta nel mondo Lgbt, avrei voluto una mamma e un papà»

La lettera aperta che qui sotto abbiamo tradotto è apparsa qualche tempo fa su The Federalist e ha attirato moltissima attenzione negli USA, senza però arrivare sui media europei. L’autrice è Heather Barwick, una giovane donna cresciuta con due mamme che ha voluto raccontare la sua esperienza rivolgendosi direttamente alla comunità gay, a cui è ancora molto affezionata.

 

di Heather Barwick
da The Federalist, 17/03/15

 

Comunità gay, io sono tua figlia. Mia madre mi ha cresciuto assieme alla sua partner dello stesso sesso negli anni ’80 e ’90. Lei e mio padre sono stati sposati per un periodo, lei sapeva di essere omosessuale prima di sposarsi, ma le cose erano diverse allora. Lo lasciò quando avevo due o tre anni perché voleva la possibilità di essere felice con qualcuno che veramente amava: una donna.

Mio padre non era un brav’uomo, non si è mai preoccupato di venire a cercarmi. Ho vissuto in una piccola casa accogliente nei sobborghi di una zona molto liberale. La partner di mia madre mi ha cresciuto come fossi sua figlia e sono stata ereditata dalla loro affiatata comunità di amici gay e lesbiche.

Ad ogni modo, sento ancora che le persone gay sono le mie persone. Ho imparato così tanto da voi. Mia avete insegnato ad essere coraggiosa, soprattutto nei momenti difficili. Mi avete insegnato empatia. Mi avete insegnato ad ascoltare. E come ballare. Mi avete insegnato a non avere paura delle cose che sono diverse. E mi avete insegnato a stare in piedi da sola, anche se questo significa isolarsi.

Sto scrivendo a voi perché sto uscendo dall’armadio: non sostengo il matrimonio gay. Ma non per le ragioni che pensate, non è perché siete gay. Vi amo tanto. E’ a causa della natura del rapporto dello stesso sesso. Ho sempre sostenuto il matrimonio gay, ma solo oggi con un po’ di esperienza e di distanza dalla mia infanzia sono in grado di riflettere sulle mie esperienze e riconoscere le conseguenze a lungo termine che i genitori dello stesso sesso genitori hanno avuto su di me. Ed è solo ora, mentre guardo i miei figli amare ed essere amati da loro padre ogni giorno, che io posso vedere la bellezza e la saggezza del matrimonio tradizionale e della genitorialità.

Alcuni bambini che crescono all’interno di un matrimonio omosessuale dicono che non gli importa non avere una madre o un padre. Che è lo stesso. Ma non lo è. Molti di noi, un sacco di vostri bambini, stanno male. L’assenza di mio padre ha creato un enorme buco in me e questa assenza mi ha fatto male. Ho amato la compagna di mia madre, ma un’altra mamma non è mai riuscita a sostituire il padre che ho perso.

Sono cresciuta circondata da donne che dicevano non volere o aver bisogno di un uomo. Eppure, da bambina, ho disperatamente voluto un papà. È una cosa strana e confusa andare in giro con questo inestinguibile e profondo dolore per un padre, per un uomo, in una comunità che dice che gli uomini sono inutili. Ci sono stati momenti che mi sono sentita così arrabbiato con mio padre per non essere lì con me, e poi altre volte mi sono sentita arrabbiata con me stessa per questo desiderio.

Non sto dicendo che non si può essere buoni genitori. Si può esserlo. Ne ho avuta una delle migliori. Non sto dicendo che essere cresciuti da genitori etero significa che tutto andrà bene. Sappiamo che ci sono tanti modi diversi per far crollare l’unità familiare e causare così sofferenza ai bambini: il divorzio, l’abbandono, l’infedeltà, gli abusi, la morte, ecc. Ma in generale, la migliore e più efficace struttura familiare è quella in cui i bambini vengono allevati sia dalla loro madre che dal loro padre.

Il matrimonio gay non si limita a ridefinire il matrimonio, ridefinisce anche i genitori. Promuove e normalizza una struttura familiare che necessariamente ci nega qualcosa di prezioso e fondamentale. E ci nega qualcosa di cui abbiamo bisogno e tanto desideriamo, mentre allo stesso tempo ci dice che non abbiamo bisogno di ciò che naturalmente desideriamo. Che saremo a posto. Ma noi non lo siamo. Stiamo male.

I bambini di genitori divorziati sono autorizzati a dire: “Ehi, mamma e papà, vi voglio bene, ma il divorzio mi ha schiacciato ed è stato così difficile. La mia fiducia in voi è in frantumi e mi ha fatto sentire come se fosse colpa mia. E’ così difficile vivere in due case diverse”. I bambini adottati sono autorizzati a dire: “Ehi, genitori adottivi, vi amo. Ma è davvero difficile per me. Soffro perché il mio rapporto con i miei progenitori si è rotto. Sono confuso e mi mancano, anche se non li ho mai incontrati”. Ma i figli di genitori dello stesso sesso non hanno la stessa voce. Non sono solo io, siamo così tanti come me. Molti di noi sono troppo spaventati per parlare e raccontare il nostro male e il nostro dolore, perché ci sentiamo come se nessuno ci stesse ascoltando. Nessuno desidera ascoltarci. Se diciamo che stiamo male perché siamo stati cresciuti da genitori dello stesso sesso, siamo ignorati o etichettati come nemici.

Ma non si tratta affatto di odio. Capisco il dolore per una etichetta che viene utilizzata per diffamare. So che siete stati veramente odiati e che realmente vi hanno ferito. Ero lì anch’io, durante le marce, quando c’era chi teneva dei cartelli con scritto: “Dio odia i froci” e “L’AIDS cura l’omosessualità”. Ho pianto e mi sono voltata con rabbia proprio lì, in strada con voi. Ma noi non vi stiamo dicendo queste cose.

So che questa è una conversazione difficile. Ma dobbiamo parlarne. Se qualcuno vuole parlare di queste cose difficili, lo faccia. Voi mi avete insegnato questo.

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Se la mafia minaccia la Chiesa è perché la vede come nemica

don ciotti chiesa mafiaPochi giorni fa sono apparse delle scritte ingiuriose sui muri dell’arcivescovado di Locri (Reggio Calabria), dove risiede monsignor Francesco Oliva. Uno dei messaggi era rivolto a don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione Libera. Un altro messaggio era diretto contro il sindaco.

Fra scandalosi “inchini” durante le processioni e alcuni monsignori e vescovi condannati si potrebbe commettere l’errore di ipotizzare una omertà ecclesiale o un “non ha mai fatto abbastanza” contro la mafia, ma evidentemente la ‘ndrangheta vede anche la Chiesa, oltre allo Stato, come nemica. E questo basta a chiarire le cose. E se non bastasse ricordiamo esempi recenti: l’arcivescovo di Bari, mons. Francesco Cacucci, ha impedito la commemorazione della morte di un esponente della ’ndrangheta, l’arcivescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, ha solidarizzato con don Fernando Russo che ha abbandonato la processione quando un gruppo di fedeli ha deciso di far sostare la statua della Vergine davanti alla casa di un boss mafioso. Importante anche la presa di provvedimenti contro questi “inchini” da parte dell’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, che ha chiesto l’aiuto delle questure per stilare i percorsi delle processioni.

L’arcivescovo Francesco Oliva, cha ha subito ricevuto il sostegno di mons. Nunzio Galantino, segretario della CEI, è un’altra delle voci attuali della Chiesa più forti contro l’organizzazione mafiosa, scelto come vescovo nel maggio 2014 da Papa Francesco. E, chiaramente, lo stesso don Ciotti è forse l’esponente ecclesiale più esposto nell’antimafia. Un prelato guardato con sospetto da molti cattolici: non veste pubblicamente in tonaca, è autore di dichiarazioni sui generis e forse troppo immischiato con la sinistra più rossa. Tuttavia, se fino a poco tempo fa agiva estraniato e isolato dalla Chiesa, la scelta di Papa Francesco di valorizzare la sua battaglia contro la mafia è stata un’iniziativa significativa e lui stesso forse ha capito e si è accorto di avere la Chiesa dalla sua parte.

«Oggi la Chiesa è consapevole, tranne eccezioni, che fedeltà al Vangelo significa anche “interferire”, parlare chiaro, dire no alle mafie e a chi alle mafie presta il fianco, di conseguenza impegnarsi per la libertà delle persone, calpestate da mafiosi e corrotti», ha dichiarato recentemente il fondatore di Libera. «Chi denuncia oggi non è più solo, a maggior ragione dopo le parole dei Papi». «Abbiamo anche dei vescovi più coraggiosi, più forti, più capaci – dei bei segnali -; ma non vorrei che si dimenticasse che anche nel passato c’erano delle contraddizioni, ma c’è anche gente che ci ha sempre creduto e ci ha anche lasciato la vita: don Peppino Diana, don Pino Puglisi», ha aggiunto. «Nel 1900 furono uccisi dei preti, perché si erano impegnati per affermare la dignità, la libertà, la giustizia, la pace. Dobbiamo lottare contro questa corruzione, che ci impoverisce tutti: è un cancro che ci mangia. E Papa Francesco non si stanca! Non c’è settimana che non alzi la voce contro quanti hanno scelto dei prudenti silenzi».

Giustamente don Ciotti ha ricordato che anche prima di Francesco, diversi esponenti ecclesiastici erano impegnati coraggiosamente contro la mafia. Due anni fa abbiamo ricostruito gran parte delle principali figure di spicco, arcivescovi e cardinali, impegnati nella denuncia pubblica contro le organizzazioni mafiose, sopratutto dagli anni Cinquanta in poi: dal card. Pappalardo, arcivescovi di Palermo ai “preti antimafia” degli anni ’80, dal segreterio di Stato Vaticano Angelo Dell’Acqua al al cardinale Ernesto Ruffini, dai documenti dei vescovi siciliani ai celebri discorsi di Giovanni Paolo II.

«C’è stata una Chiesa che ha sempre saputo essere attenta alle mafie», ha ricordato ancora don Ciotti. «Magari numeri piccoli, ma c’erano sacerdoti e vescovi che condannavano questo male. Una Chiesa che ha reagito, ha parlato. Ma c’è stato anche chi per tiepidezza, prudenza, ignoranza, superficialità è stato dall’altra parte. Non possiamo nasconderlo». E ancora: «Nella Chiesa noi abbiamo davanti agli occhi tanti esempi di chi vive il Vangelo con radicalità e senza accomodamenti. Pronti a dare la vita per combattere le mafie. Come è capitato in passato, capita oggi e capiterà in futuro».

D’altra parte è stato il mafioso Leonardo Messina a dichiarare: «La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da Cosa nostra».

La redazione

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L’ateismo è in estinzione perché inadatto alla modernità: lo sostiene uno studio

decrescita ateiNel 2011 abbiamo segnalato uno studio tedesco che suggeriva l’estinzione delle società con prevalenza di persone non credenti in quanto i popoli religiosi presentano ben superiori tassi di nascite.

In questi giorni una ricerca americana, pubblicata su Evolutionary Psychological Science, ha confermato la tesi. Quattro studiosi di fama mondiale, Lee Ellis, Anthony W. Hoskin, Edward Dutton e Helmuth Nyborg, hanno infatti osservato il ribaltamento della classica tesi della secolarizzazione: «Per oltre un secolo gli scienziati sociali hanno previsto il declino dei credo religiosi e la loro sostituzione con prospettive più scientifiche e/o naturalistiche. Una previsione conosciuta come l’ipotesi della inarrestabile secolarizzazione». Ma lo scetticismo generale verso questa convinzione è stata da loro confermata studiando grandi campioni di studenti universitari in Malesia e negli Stati Uniti, scoprendo che a diventare minoranza saranno coloro che non si riconoscono in alcuna fede.

«È ironico pensare che i metodi contraccettivi siano stati sviluppati in primo luogo da atei», hanno osservato gli autori, «questi metodi stiano contribuendo, ora, a diminuire la rappresentanza degli atei nelle future generazioni». La questione infatti è che le persone scettiche hanno statisticamente meno fratelli rispetto alla media, quelle religiose invece mostrano maggiori tassi di fertilità. Da qui ne consegue che «l’ateismo subirà un declino costante per tutto il secolo, anche nei paesi industriali e perfino in Europa».

Il grande limite dello studio è chiaramente quello di identificare la fede religiosa come esperienza ereditaria, dando forse eccessiva importanza al contesto familiare in cui si cresce. E’ comunque vero che genitori con una forte fede religiosa sapranno convintamente offrire valori più difficilmente ripudiabili rispetto a genitori privi di religiosità che, al massimo, infonderanno un semplice relativismo, facilmente abbandonabile dopo un’esperienza di compimento della propria umanità, come accade nell’incontro cristiano. Nell’ateismo, invece, semmai ci si lascia scivolare dopo l’esperienza di una delusione, di una rassegnazione, di un dolore nei confronti della vita. L’adesione ad esso non segue mai una conversione dettata da un’esperienza entusiasta di soddisfazione.

La nostra tesi è che il maggior tasso di fertilità delle persone religiose non è semplice coincidenza o astratto senso del dovere nel riprodursi, ma risponde alla positività di sguardo che il credente, in particolare il cristiano convinto, ha verso la vita. Egli non si limita a sopravvivere, ha un orizzonte più ampio e, per questo, è lieto di mettere al mondo dei figli sapendo di poter trasmettere loro un adeguato significato dell’esistenza. Per lui il reale è positivo in quanto voluto dal Dio che ha abbracciato la sua vita, non teme perciò di introdurre in esso il proprio figlio.

Il relativista scettico, al contrario, è consapevole di avere ben poco di positivo da trasmettere alla ragione altrui, non è un caso che la secolarizzazione sia andata di pari passo all’individualismo egoista delle società occidentali. «L’ateismo è morto di morte naturale», afferma il filosofo Philippe Nemo, «non ha mantenuto le promesse non sapendo offrire all’umanità una ragionevole ragione di vita» (P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2014).

La redazione

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Il “diritto a morire”? Con l’eutanasia si trasformerà in “dovere di morire”

eutanasia pendio scivoloso 
 
di Aldo Vitale*
*Dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto presso l’Università Tor Vergata di Roma

 

Mentre in Italia si (ri)comincia a discutere di fine vita, dopo quasi un decennio dal caso Englaro, con tutte le implicazioni etiche e giuridiche che riguardano il delicato tema in questione e che, purtroppo, non vengono affrontate con la dovuta serietà e professionalità dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa, all’estero, a livello scientifico, il dibattito è già progredito di grado.

Se il diritto di morire è sempre stato descritto come manifestazione dell’autodeterminazione e dell’autonomia, cioè della libertà, di ciascuno di poter decidere, oltre che come vivere, anche e soprattutto come morire, esemplari in questa direzione le parole di Umberto Veronesi per il quale, infatti, «scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona, e non si può affermare che la vita è un bene non disponibile da parte dell’individuo senza negare il concetto stesso di libertà», è anche pur vero che proprio per le paradossali sorti della storia umana, il principio di autonomia a cui viene delegato il compito di sostenere e fondare giuridicamente ed eticamente il diritto di morire, viene poi ben presto rinnegato dai suoi stessi sostenitori che quanto prima si risolvono per essere i suoi più accaniti detrattori nel caso si debba trattare non più del diritto di morire, ma del dovere di morire.

Una prova diretta di una simile contraddizione sui principi e sull’applicazione degli stessi si può rinvenire, infatti, proprio nei Paesi in cui è stato riconosciuto e tutelato, sotto le varie tipologie del suicidio medicalmente assistito, dell’eutanasia passiva, o di quella attiva, il diritto di morire, che si è già trasformato, o si sta velocemente trasformando, in un vero e proprio dovere di morire, in almeno tre sensi.

In un primo senso, in riferimento ai cosiddetti “mental illness” cioè tutti coloro a cui è diagnosticata una patologia di carattere psichiatrico e per i quali si ritiene legittima la somministrazione della morte medicalmente assistita. Tra i molteplici sostenitori di una simile opzione, tra i numerosi esempi possibili, spicca l’intervento di Jukka Varelius sulla prestigiosa e rinomata rivista “Bioethics” dal significativo titolo “On the moral acceptability of physician-assisted dying for non-autonomous psychiatric patients” in cui per l’appunto si chiarisce che anche i pazienti psichiatrici non autonomi possono spesso soffrire in modo insopportabile per cui occorre ridiscutere del limite di non poter somministrare loro una morte medicalmente assistita di cui invece avrebbero bisogno. Lo stesso autore aveva già anticipato la medesima prospettiva anche sull’altrettanto nota rivista “Ethical theory and moral practice”.

La tendenza assume una sempre maggiore rilevanza, tanto che lo psichiatra Paul Appelbaum, sulla rivista “Law and psychiatry” ha avuto modo di esprimere la propria preoccupazione sulla eventualità, sempre più concreta, che la morte medicalmente assistita per i pazienti psichiatrici possa costituire una facile alternativa rispetto all’elaborazione di adeguati trattamenti medici e di supporto sociale per questo tipo di pazienti.  Il fenomeno è diventato così allarmante che perfino il quotidiano progressista statunitense “Washington Post” ha parlato di vera e propria “crisi morale dell’Europa” per la sempre crescente diffusione della soppressione dei pazienti affetti da patologie psichiatriche senza o contro il loro consenso.

Anello di congiunzione tra la prima prospettiva del diritto di morire, che diventa un dovere di morire, e la seconda, è l’idea sostenuta da Roland Ripke secondo cui coloro che, pur condividendo la morte assistita, non sarebbero disposti ad accettarne lo sfruttamento commerciale dovrebbero rivedere l’intera propria posizione sul suicidio assistito in quanto tale, per mancanza di coerenza interna al loro ragionamento. L’anello di congiunzione è quindi la logica dell’utilitarismo. In un secondo senso, quindi, il dovere di morire si prospetta in riferimento al trapianto di organi. Ad una simile connessione si è giunti per gradi, dapprima con l’idea della legalizzazione della compravendita di organi umani, come prova nel lontano 2002 l’articolo di Michael Friedlaender il quale aveva avuto modo di delineare il diritto di vendere e perfino di comprare un rene. Qualche tempo dopo, dalle pagine del “British medical journal”Anne Griffin ha dibattuto l’idea dei reni “on demand”.

Il bioeticista Walter Glannon, aveva, del resto già profilato l’idea di un diritto agli organi dei cadaveri. A spingersi fino alle logiche conseguenze è stato però Julian Savulescu che ha espressamente ritenuto l’eutanasia come un sistema adeguato per massimizzare il numero e la qualità degli organi a fini di trapianto. Lo scorso 24 marzo 2016, sul “Journal of Medical Ethics” è stato pubblicato uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Maastricht in cui gli autori si chiedono se deve essere ancora applicata rigorosamente la regola del donatore deceduto, invece di procedere con il donatore ancora vivente per garantire una migliore protezione degli organi da trapiantare.

In un terzo senso, infine, si sta sempre più affermando un presunto obbligo morale di accettare il dovere di morire, come comprova l’intenso confronto teso a dimostrare l’insussistenza del diritto all’obiezione di coscienza da parte del medico. Tra i tanti esempi possibili si consideri proprio quanto scritto lo scorso settembre 2016 da Julian Savulescu e Udo Schuklenk in un significativo articolo dal titolo “Doctors have no right to refuse medical assistence in dying, abortion or contraception”, in cui i due autori concludono che i medici possono senz’altro avere opinioni e valori personali, ma che non possano vantare uno statuto morale speciale che consenta loro di negare assistenza ai pazienti che ne hanno diritto in alcune circostanze come la morte assistita, l’aborto o la contraccezione.

Il principio di autonomia viene quindi negato tre volte: una prima volta in danno dei diritti dei pazienti con patologie psichiatriche; una seconda volta in danno dei pazienti a cui si “devono” espiantare gli organi; una terza volta in violazione della libertà di coscienza dei medici. Alla luce di questo rapido excursus si intuisce quanto concreto ed effettivo sia il rischio di attuazione del cosiddetto “slippery slope” in tema di fine vita, cioè il rischio di percorrere il “pendio scivoloso” che conduce dalla morte volontaria a quella involontaria, dall’affermazione di alcuni diritti alla negazione di altri diritti altrettanto fondamentali.

In conclusione, non si possono non ricordare le parole di David Lamb, celebre sostenitore di un simile scenario fin qui descritto, il quale riassume perfettamente l’idea di questo preciso capovolgimento etico e giuridico del diritto di morire in dovere di morire: «In una società in cui l’uccisione su richiesta venga considerata lecita, i moribondi finiscono in una situazione in cui sono costretti a esprimere il loro desiderio di morire come l’adempimento di un ultimo dovere di buona creanza verso i viventi» (David Lamb, Down the slippery slope, London, 1988, pag. 42-43).

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Dal Papa nessuna misericordia-buonismo: «il perdono? Solo dopo aver confessato il peccato»

buonismo bergoglio«Lui è disposto sempre a perdonarci. Soltanto, dobbiamo chiederlo. Questo ci incoraggi nel cammino della vita cristiana, ci incoraggi a chiedere perdono per i nostri peccati». Basterebbe ascoltare qualche omelia di Papa Francesco per scoprirlo radicalmente diverso da quanto viene dipinto dal gruppetto di giornalisti che lo perseguita su blog e social network.

Una delle accuse più frequenti a lui rivolta, infatti, è di fare «ripetutamente ricorso in modo generico alla categoria della misericordia senza chiamare in causa quella del giudizio e alla categoria del discernimento senza precisare a che cosa si deve agganciare e a che cosa deve portare». Questa una delle tante, e poco comprensibili, reprimende del giornalista/teologo/custode della dottrina cattolica Aldo Maria Valli.

Eppure dovrebbe essere semplice per un giornalista scoprire che dal Papa non arriva alcun messaggio di buonismo fine a se stesso. E’ vero, c’è un’insistenza particolare da parte di Francesco sul presentare Dio e la Chiesa come luogo di perdono, di accoglienza, di riconciliazione verso se stessi. Nonostante le diaboliche resistenze dei tradizionalisti-sedevacantisti, il Pontefice vuole riavvicinare i tantissimi che si sono creati l’immagine di una Chiesa che colpevolizza a prescindere, di un Dio dal dito puntato, di una fede concepita come moralismo soffocante, di un cristianesimo ridotto al si può o non si può fare?

Francesco non cade affatto nel prevedibile errore del relativismo, della liquidità della fede, del proporre il perdono totale cancellando la colpa. Non c’è peccato che Dio non perdona e «la Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio», ripete spesso il Papa. Aggiungendo anche: «la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono». E ancora: «la Chiesa abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio». E’ lo stesso Francesco a ricordare che «tante volte si confonde la misericordia con l’essere confessore “di manica larga”, ma né un confessore di manica larga, né un confessore rigido è misericordioso. Il primo, perché dice: “Vai avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro, perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta il penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! Misericordia significa prendersi carico del fratello o della sorella e aiutarli a camminare».

Il primo passo per vedere all’opera la misericordia di Dio, ha spiegato proprio ieri mattina il Pontefice, è «la vergogna dei propri peccati, una grazia che non possiamo ottenere da soli». E non basta andare «a confessarti, dire i miei peccati, il prete mi perdona, mi dà tre Ave Maria da pregare e poi torno in pace». Altrimenti si ritorna sempre al moralismo, «sei andato al confessionale a fare un’operazione bancaria a fare una pratica di ufficio, hai creduto che il confessionale fosse una tintoria per coprire le macchie. Sei stato incapace di vergognarti dei tuoi peccati. E’ l’ipocrisia di rubare un perdono, un perdono finto».

La vita rifiorisce solo quando l’uomo sperimenta il calore di un Dio vicino, pronto a curare le ferite che ci siamo inflitti da soli. «Posso perdonare soltanto se mi sento perdonato. Se tu non hai coscienza di essere perdonato mai potrai perdonare, mai», ha ricordato Francesco nella sua omelia mattutina. Ha quindi concluso e sintetizzato: «Il perdono è totale. Ma soltanto si può fare quando io sento il mio peccato, mi vergogno, ho vergogna e chiedo il perdono a Dio e mi sento perdonato dal Padre e così posso perdonare. Se no, non si può perdonare, ne siamo incapaci. Per questo il perdono è un mistero».

E’ un mistero anche come sia possibile che tanta gente interpreti male -certamente condizionata da certi opinionisti- la visione della misericordia di Papa Bergoglio, identica a ciò che è sempre stato insegnato dalla Chiesa. Tanto che Benedetto XVI, un anno fa, è voluto intervenire dicendo: «la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea».

 

AGGIORNAMENTO ORE 15:00
A proposito di false accuse, da un’intervista odierna de La Stampa al segretario di Stato, Pietro Parolin, si certifica l’errore anche di chi accusa le attuali gerarchie vaticane di aver rinunciato a richiamare l’importanza delle radici cristiane europee. Ha infatti detto il più stretto collaboratore di Papa Francesco: «Le radici cristiane sono la linfa vitale dell’Europa. Basti rileggere i discorsi che i protagonisti del 25 marzo 1957 tennero in Campidoglio, per scoprire come essi vedessero nel comune patrimonio cristiano un elemento fondamentale sul quale costruire la Comunità economica europea. Poi è subentrato un lento processo che ha cercato di relegare sempre più il cristianesimo all’ambito privato […]. L’anima del progetto europeo, secondo l’idea dei Padri fondatori trovava la sua consistenza nel patrimonio culturale, religioso, giuridico, politico e umano su cui l’Europa si è edificata nei secoli. Roma fu scelta come sede della firma dei Trattati proprio per questo motivo. Essa è il simbolo di questo patrimonio comune, che certamente ha anche nel cristianesimo un suo elemento fondamentale».

La redazione

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