Che Guevara, lo spietato stalinista diventato icona pop

Ricorre in questi giorni il novantennale di Ernesto Guevara, detto “Che”. Un santino laico, un simbolo di pace, un difensore degli ultimi. Non c’è manifestazione in cui non compaiano ancora oggi magliette e poster con il suo volto.

Ma la realtà è molto diversa: «I fatti dimostrano che era un totalitarista con vene messianiche, che voleva apertamente imporre la tirannia maoista nel mondo», ha commentato uno dei principali sociologi sudafricani, Lucien van der Walt.

«Era così fanatico che nel momento più caldo della Guerra Fredda, implorò persino l’Unione Sovietica di attaccare New York, Washington o Los Angeles con la bomba nucleare e portare alla fine del mondo». Secondo van der Walt, «il culto del Che è ancora oggi usato per oscurare la vera natura della Cuba di Fidel Castro, uno degli ultimi bastioni dello stalinismo». Stalinismo? «Ho giurato davanti a una fotografia del vecchio e compianto compagno Stalin che non avrò riposo fino a che non vedrò annientate queste piovre capitaliste», disse Che Guevara nel 1959 a proposito degli Stati Uniti. Il “male assoluto”, per lui.

Contro gli USA fondò, assieme a Castro, il Movimento del 26 luglio (J26M), dimostrandosi «il più autoritario e brutale dei leader della guerriglia». Chiese la pena di morte per informatori, insubordinati, malintenzionati e disertori. «Lui stesso», ha proseguito va der Walt, «ha eseguito personalmente le esecuzioni. In un’altra occasione progettò di sparare ad un gruppo di guerriglieri che avevano fatto lo sciopero della fame a causa del cibo cattivo. Fidel intervenne per fermarlo. «Per farla breve», si legge, «Che Guevara era uno psicopatico la cui sadica brama di sangue non si estingueva facilmente. Uccise per puro piacere».

Con la vittoria castrista del 1959, il Che fu incaricato di istituire il controllo di stato. Purgò l’esercito con 550 omicidi (in pochi mesi) dei sostenitori di Fulgencio Batista. «Queste uccisioni contro i sostenitori del vecchio regime furono estese nel 1960 ai sostenitori del movimento operaio che criticava il regime di Castro. Il Che ha chiuso la stampa e le scuole libere, ha creato una polizia segreta (il C-2) e ha avuto un ruolo chiave nella creazione dei Comitati per la difesa della rivoluzione, cioè enti locali per spiare e controllare la popolazione». Tra i suoi nemici, è stato osservato recentemente, vi furono anche neri ed omosessuali.

Il guerrigliero cubano era l’anello di congiunzione tra Cuba e l’URSS, facendo sfiorare la guerra nucleare nel 1962 contro gli Stati Uniti. Quando Krusciov indietreggiò, salvando letteralmente il mondo, il Che parlò furioso di “tradimento”. Capì che lo stalinismo sovietico non aveva futuro, ed abbracciò quello cinese e nordcoreano. Fallì in Congo con l’esercito di liberazione e anche in Bolivia, dove non riuscì a creare un’insurrezione armata tra i contadini. Nell’aprile 1966, nel Message to the Tricontinental Conference de L’Avana, Che Guevara disse: «L’odio è l’elemento centrale della nostra lotta! L’odio è intransigente, è così violento che spinge un essere umano oltre i suoi limiti naturali, rendendolo violento e assassino. Rifiutiamo ogni approccio pacifico. La violenza è inevitabile. Per il socialismo devono fluire fiumi di sangue! Il nemico imperialista deve sentirsi come un animale braccato, ovunque si muova. Così lo distruggeremo! Queste iene sono adatte solo allo sterminio. Dobbiamo mantenere vivo il nostro odio e appassionarlo al parossismo! La vittoria del socialismo merita milioni di vittime atomiche!».

Il giornalista britannico dell’Independent, Johann Hari, ha scritto: «Il suo unico obiettivo era l’imposizione del comunismo autoritario con la forza, ovunque. Ha scelto di non vedere che questo sistema, ovunque sia stato provato, ha reso ancora più povere le persone, diffondendo invariabilmente carestie, fame e terrore». L’amico che aveva viaggiato con lui nei famosi viaggi in motocicletta, David Mitrani, rimase scioccato quando si incontrarono nuovamente a l’Avana dopo la rivoluzione. Non riusciva a capacitarsi come il Che potesse essere diventato una «macchina per uccidere, efficace, violenta, selettiva e fredda».

La morte di Che Guevara come “martire” lo ha infine rapidamente trasformato in un’icona internazionale. Il bell’aspetto e il coraggio che comunque dimostrò hanno camuffato ciò che realmente era: uno spietato autoritario stalinista.

La redazione

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No al suicidio assistito, così l’American Medical Association e il Consiglio Medici Spagnoli

Al punto 5 delle nostre dieci ragioni laiche contro eutanasia e suicidio assistito abbiamo citato la forte opposizione delle principali associazioni mediche internazionali. Giustappunto, l’American Medical Association (AMA) ha recentemente rifiutato non solo di rivedere la sua contrarietà al suicidio assistito, ma anche di assumere semplicemente una posizione neutrale.

Nella relazione 5-A-18, infatti, l’AMA ha anche respinto la richiesta dei fautori della dolce morte di modificare la terminologia per descrivere l’eutanasia, così da renderla più appetibile.

Fu George Orwell che per primo articolò l’importanza del linguaggio per chi tenta di manipolare o cambiare la mentalità della massa. «Secondo il Consiglio etico» dell’American Medical Association (AMA), invece, «malgrado le sue connotazioni negative il termine “suicidio assistito da parte del medico” descrive la pratica con la massima precisione. Soprattutto, la distingue chiaramente dall’eutanasia. I termini “aiuto alla morte” o “morte dignitosa” potrebbero essere usati ma questo grado di ambiguità è inaccettabile». Nessuna ingegneria linguistica, quindi.

Quasi contemporaneamente è intervenuto il Consiglio Generale dei Medici Spagnoli, ovvero l’equivalente dell’AMA in Spagna. Ha rifiutato eutanasia e suicidio assistito ricordando che il codice deontologico della professione medica afferma che «mai il medico potrà provocare intenzionalmente la morte di un paziente». Il presidente, Serafín Romero, ha affermato: «l’eutanasia non è un problema medica ed è totalmente contro all’essere medici. Ci preoccupa quando si parla di questo e contemporaneamente non siamo capaci di ottenere una legge sulle cure palliative». All’intento di depenalizzare il suicidio assistito si è aggiunta la contrarietà dell’Associazione Spagnola contro il Cancro.

Allo stesso modo si sono espresse anche la World Medical Association, la American Psychiatric Association, la British Medical Association, la Association for Palliative Medicine, la British Geriatric Society, la German Medical Association, l’Australian Medical Association, la New Zealand Medical Association ecc.

Pochi hanno riferito la notizia, sia in Spagna che in America, probabilmente perché non c’è alcun cambiamento di visione da parte dei due enti. Da parte nostra riteniamo invece importante la posizione di queste ed altre associazioni mediche, le quali stanno avvertendo così chiaramente che la morte di Stato mina le basi stesse della medicina. «Il suicidio assistito è pericoloso, non necessario e danneggerà in modo permanente l’integrità e la fiducia dei pazienti verso le professioni sanitarie ed il sistema sanitario», ha riferito il dott. Joseph E. Marine, membro dell’AMA e professore di Medicina alla Johns Hopkins University.

 

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La distruzione dei templi pagani, più fantasia che storia

«La storia in gran parte sconosciuta e profondamente scioccante di come il cristianesimo violento, spietato ed intollerante estinse il mondo classico». Prosegue la saga del “libro che la tua chiesa non ti farebbe mai leggere”, questa volta a cura della critica d’arte (ma priva di titoli in ambito storico) Catherine Nixey: The Darkening Age: The Christian Destruction of the Classical World è il titolo del suo (primo) libro. Una collezione di falsità, seppur ampiamente celebrata dalla stampa inglese.

L’autrice, una sorta di Corrado Augias in gonnella, è consapevole che «la storia delle buone opere del cristianesimo è stata raccontata tante volte», per questo ha deciso di smascherare le presunte malefatte. Peccato che la storica Dame Averil Cameron, docente emerito di Antichità e Storia Bizantina presso l’Università di Oxford abbia liquidato come “parodia, esagerata e squilibrata” la fatica di Nixey, sottolineandone peraltro la poca originalità. Già nel ‘700 il polemista anticristiano Edward Gibbon, tentò di incolpare i cristiani non solo di aver ucciso la civiltà classica, ma anche di essersi meritata la persecuzione da parte dei Romani. «Avevamo immaginato di aver fatto qualche progresso nel ribaltare definitivamente il modello gibboniano dopo oltre due secoli. Ed invece no», ha commentato amareggiata la Cameron.

Il blogger agnostico Tim O’Neill ha realizzato un’esauriente recensione critica, notando come la retorica dell’autrice tradisca un’avversione ideologica, definendo i cristiani come “stupidi” ed “ignoranti”. Ecco un passaggio del libro: «Gli intellettuali pagani guardavano disperati mentre volumi di libri non cristiani -spesso testi sulle arti liberali- andavano in fiamme. Gli amanti dell’arte osservavano con orrore come alcune delle più grandi sculture del mondo antico venivano distrutte da persone troppo stupide per apprezzarle e certamente troppo stupide per ricrearle. I cristiani non sapevano nemmeno distruggerle efficacemente: molte statue in cima ai templi si salvarono semplicemente in virtù del fatto che erano troppo alte per loro, con le loro primitive scale e martelli» (p. 34). Evidentemente, quando i cristiani costruirono la basilica di Santa Sofia (55 metri di altezza) utilizzarono scale e martelli iper-tecnologici rubati ai pagani…

Entriamo nel merito della tesi di Catherine Nixey. Il suo intento è valorizzare la cultura greco-romana contrapponendola alla barbarie cristiana. Così ha dovuto innanzitutto minimizzare il bilancio delle vittime nella persecuzione dei cristiani da parte dei “tolleranti” Romani, mettendo in dubbio l’esistenza dei martiri ed episodi di violenza come quello provocato da Nerone. Le sue fonti sono lo scrittore Henry Dodwell (1684) ed il già citato Edward Gibbon (1776), l’unico studioso moderno citato è William Hugh Clifford Frend, secondo il quale i martiri cristiani sarebbero stati «centinaia, non migliaia» (p. 76). Ma lo storico inglese si stava riferendo alle sole vittime dell’imperatore Decio nel 250 d.C. e non al totale dei martiri cristiani. Anche perché è lui stesso a ricordare, ad esempio, che le vittime della persecuzione di Diocleziano furono «un totale complessivo di 3.000-3.500» (Martyrdom and Persecution in the Early Church, p. 357).

E’ stucchevole come l’autrice tenti di rappresentare i governatori romani, responsabili delle persecuzioni cristiane, come validi amministratori urbani (e su questo non ci piove), persone perfettamente ragionevoli, pluralisti, razionali ed intellettuali tolleranti, che dovettero sopportare quei cristiani parassiti, buoni solamente per offrirsi volontari per essere uccisi. Gli stessi testi dei Romani, tuttavia, dicono il contrario. I culti erano tollerati finché si conformavano, più o meno, alla concezione romana. «Non dovresti solo adorare il divino ovunque ed in ogni modo in accordo con le nostre tradizioni ancestrali», scrisse ad esempio il senatore Cassio Dione, «ma anche obbligare tutti gli altri ad onorarlo. Coloro che tentano di distorcere la nostra religione con strani riti vanno odiati e puniti, e non solo per il bene degli dei» (Dio Cassius, Hist. Rom. LII.36.1-2). Ed i Romani hanno “odiato e punito” tante volte e non soltanto i cristiani: dai culti di Cibele e Attis a quello dei druidi celtici, passando dalla setta dei Baccanali.

Così, eccoci all’accusa ai rozzi cristiani di aver abbattuto violentemente la civiltà classica. Una tesi sostenuta in Italia, ad esempio, da Umberto Galimberti che si definisce “greco o pre-cristiano”. La lunga descrizione di Catherine Nixey dell’orgia distruttiva termina con l’infausta affermazione che «il “trionfo” del cristianesimo era iniziato». (pp. 19-21). Siti antichi profanati, statue decapitate, templi abbattuti, vandalismo ecc. Le fonti sono pagane ma anche racconti cristiani, agiografie esultanti di Santi in particolare (scritti spesso molto tempo la morte). L’autrice stessa avverte: «l’agiografia non è storia, bisogna leggere tali resoconti con cautela». Cosa che lei, però, non sembra fare. Prendendo anche grosse cantonate, come quando attribuisce ai soliti cristiani la distruzione del tempio di Poseidone (Atene), abbattuto invece dai Visigoti nel 396 d.C.

Al centro dell’accusa ci sono i decreti dell’imperatore Teodosio. Ma, come giustamente ha osservato l’agnostico O’Neill, tali editti erano per lo più «una dichiarazione del desiderio dell’imperatore» prima di passare per la lunga catena amministrativa e spesso venire bloccati se il prefetto locale o il governatore diocesano non fossero stati entusiasti del decreto. Il fatto che gli stessi ordini vennero ripetuti molte volte, «mostra che i successivi imperatori riconobbero che i decreti precedenti erano sostanzialmente rimasti non applicati». In ogni caso, Teodosio proibì i cruenti sacrifici dei pagani e, di conseguenza, anche i riti in sé, dando una importante spallata ai culti tradizionali ma anche all’immoralità di tali rituali: «Che nessuno, senza eccezione, qualunque sia la sua origine o il suo ragno nelle dignità umane, che occupi un posto di potere o sia investito di una carica pubblica, che sia potente per nascita o umile di origine, assolutamente in alcun luogo o città sacrifichi una vittima innocente ad idoli sprovvisti di senso […]. Che se qualcuno osasse immolare una vittima con l’intenzione di compiere un sacrificio o consultare nelle viscere ancora vive, costui subirà una condanna appropriata».

L’archeologia è forse la fonte più attendibile per comprendere la vastità di tale presunta furia cristiana. Un’ampia ed apprezzata indagine è The Archaeology of Late Antique ‘Paganism’ (Brill 2011) a cura degli archeologi Luke Lavan e Michael Mulryan (Università del Kent), i quali concludono: «Come risultato dei lavori, si può affermare con certezza che i templi pagani non furono né ampiamente convertiti in chiese, né ampiamente demoliti nella tarda antichità. Esistono solo 43 casi (di desacralizzazione o distruzione architettonica attiva dei templi), di cui solo 4 sono stati confermati archeologicamente» (p. 24). In particolare, è stato provato che solo il 2,4% di tutti i templi della Gallia sono stati distrutti con violenza (p. 35), un solo tempio in tutta l’Asia Minore, uno in Italia, sette in Egitto e uno solo in Grecia (ovvero quello già citato, distrutto dai Visigoti). Non vanno dimenticate, inoltre, le iniziative cristiane di riparazione e conservazione dei templi classici: «in regioni come l’Africa, la Grecia e l’Italia», hanno scritto Lavan e Mulryan, «la conservazione dei templi sembra essere stato un processo più diffuso rispetto alla loro distruzione» (p. 37).

La verità è che i luoghi di culto pagani fecero la stessa fine delle piccole chiese di campagna delle nostre società occidentali. Nel tempo smisero di essere utilizzati, furono mantenuti per un periodo e poi smantellati per recuperare materiali da costruzione, o convertiti per altri usi. Uno studio equilibrato è quello di Edward J. Watts, eminente storico della University of California San Diego, intitolato The Final Pagan Generation (2015). Lo studioso evidenzia come la transizione da paganesimo a cristianesimo avvenne in modo graduale, senza particolari sconvolgimenti. Il paganesimo è morto di morte naturale. Certamente vi furono alcune esplosioni di violenza contro statue e templi pagani, ma si trattò di un’eccezione, non della regola.

La redazione

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Studi di genere: la supercazzola di due studiosi svela la zero credibilità

Due studiosi statunitensi, sotto falso nome, hanno redatto uno studio farlocco nel filone dei gender studies (studi di genere), collezionando appositamente una serie di assurdità per fingere di dimostrare che l’organo sessuale maschile sia una costruzione sociale e non un organo anatomico. Incredibilmente la supercazzola è stata pubblicata su una rivista scientifica, dimostrando come a questo tipo di studi venga concessa una immeritata ed aprioristica credibilità.

Due premesse. Gli studi di genere altro non sono che il parto intellettuale delle ossessioni storiche del femminismo radicale in associazione alle rivendicazioni Lgbt. Il loro cavallo di battaglia è appunto l’identità (o ideologia) di genere, secondo la quale la maschilità e la femminilità non sarebbero legati al sesso di nascita, ma concetti relativi, dinamici e culturali. In Italia sono sostenuti addirittura dalla rivista Le Scienze, grazie all’approvazione del direttore responsabile Marco Cattaneo. Seconda premessa: a prendersi gioco di loro sono stati due esponenti del “nuovo ateismo” americano, Peter Boghossian (membro del Center for Inquiry, della fondazione di Richard Dawkins e della Secular Student Alliance) e James A. Lindsay. Con il sostegno di Michael Shermer, fondatore di The Skeptics Society. Negli USA, al contrario che in Europa, i più attivi oppositori del femminismo e dell’omosessualismo sono, appunto, gran parte degli attivisti atei-evoluzionisti.

Torniamo alla burla. I due autori hanno composto tale articolo utilizzando lo stile della teoria discorsiva del gender post-strutturalista. Il documento era appositamente ridicolo ed intitolato Il concetto di pene come costruzione sociale: «non abbiamo cercato di rendere l’articolo coerente», spiegano gli studiosi, rivelando lo scherzo. «Anzi, lo abbiamo riempito con il gergo degli studi gender (come “-ismo”), utilizzato frasi degli ambienti “rossi” (come “pre-post”, “società patriarcale” ecc.), riferimenti osceni ai termini gergali per il pene, fraseggio offensivo nei confronti degli uomini ed allusioni allo stupro (abbiamo affermato che gli uomini che stanno seduti con le gambe spalancate stanno “stuprando lo spazio vuoto che li circonda”)». Così, hanno proseguito, «abbiamo semplicemente assunto che se fossimo stati semplicemente chiari nelle nostre implicazioni morali sul fatto che la mascolinità è intrinsecamente cattiva e che il pene è in qualche modo alla base di esso, avremmo potuto ottenere la pubblicazione su un giornale rispettabile». Cosa che è avvenuta, ricevendo il via libera dalla rivista Cogent Social Sciences.

Giusto per farsi due risate, riportiamo un paragrafo della conclusione del finto studio, molto apprezzata dai revisori della rivista dei gender studies: «Concludiamo che i peni non vanno intesi come l’organo sessuale maschile, o come un organo riproduttivo maschile, ma come una costruzione sociale che è allo stesso tempo dannosa e problematica per la società e le generazioni future. Il concetto di pene presenta problemi significativi per l’identità di genere e l’identità riproduttiva all’interno delle dinamiche sociali e familiari, è esclusivo per le comunità diseredate basate sul genere o sull’identità riproduttiva, è una fonte duratura di abuso per le donne ed individui emarginati di genere, è l’universale fonte di stupro performativa, ed è il motore concettuale di gran parte dei cambiamenti climatici». Si, l’hanno scritto davvero: cambiamenti climatici! E ancora: «L’ipermascolinosi tossica deriva il suo significato direttamente dal concetto di pene e si applica a sostegno del materialismo neocapitalista, che è il motore fondamentale del cambiamento climatico, specialmente nell’uso sfrenato delle tecnologie di emissione di combustibili fossili e nell’incurante dominio degli ambienti naturali vergini».

Boghossian e Lindsay hanno spiegato che, oltre a questa serie di supercazzole, la maggior parte delle citazioni e dei riferimenti che hanno inserito sono falsi o estratti da testi che nulla aveva a che fare con l’argomento. «Per la nostra burla, non abbiamo nemmeno letto una fonte di quelle che abbiamo citato», scrivono. Il problema è «l’intera impresa accademica chiamata collettivamente “studi di genere” e di qualsiasi rivista che si definisca “rivista accademica rigorosa in studi di genere”». Infatti, è bastato scrivere qualcosa in linea con le scemenze gender per ricevere consenso e visibilità scientifica: «abbiamo solo pubblicato sciocchezze però seguendo l’atteggiamento moraleggiante adatto alle convinzioni morali degli editori. Intendevamo testare l’ipotesi che l’adulazione dell’architettura morale della sinistra accademica in generale e dell’ortodossia morale degli studi di genere è il determinante schiacciante per la pubblicazione in un giornale accademico. Cioè, abbiamo cercato di dimostrare che l’adesione ad una certa visione morale del mondo può oltrepassare la valutazione critica richiesta per una legittima borsa di studio. In particolare, sospettavamo che gli studi di genere fossero storicamente storpiati da una convinzione quasi religiosa che la mascolinità sia la radice di tutti i mali. Sulla base delle prove, il nostro sospetto era giustificato».

Se i due autori avessero scritto di altre tematiche probabilmente la burla non avrebbe funzionato, il sistema di revisione tra pari solitamente funziona e avrebbe bloccato la supercazzola. E’ bastato, tuttavia, accarezzare «i sentimenti morali ed il gergo alla moda del prevenuto ambiente accademico sui gender studies e Cogent Social Sciences ha felicemente inghiottito la pillola». Lo scherzo è ben riuscito e ha dimostrato la zero credibilità degli studi di genere. Purtroppo, hanno concluso i due attivisti atei Boghossian e Lindsay, «la nostra bufala non romperà l’incantesimo perché le persone raramente rinunciano ai loro attaccamenti morali e agli impegni ideologici solo perché si dimostrano disallineati con la realtà».

La redazione

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Se la difesa di Asia Bibi è poco cool: l’ipocrisia dell’Onu è anche la nostra

 
 
 
di Pierluigi Battista*
*da Corriere della Sera, 10/06/18

 

Tra pochissimo si toccherà quota 3.300. Un record molto triste perché 3.300 sono i giorni che Asia Bibi, in Pakistan, ha già scontato, colpita da un’accusa grottesca di “blasfemia”.

Asia Bibi è una donna pakistana che ha la sventura di essere cristiana e per il solo fatto di aver avuto la spudoratezza di girare per strada da sola è stata condannata a morte, con una condanna per il momento, ma solo per il momento, sospesa. Per qualche tempo Asia Bibi ha ricevuto la solidarietà di molte organizzazioni umanitarie, e ovviamente del Vaticano.

Dopo un po’ la campagna in suo favore è però venuta a noia. La difesa di una donna cristiana perseguitata non si porta molto, sa di vecchio, non attira, non è cool. E perciò Asia Bibi se ne sta in galera da quasi 3.300 giorni condannata nel silenzio e nell’indifferenza. I diritti umani non esistono più nella nostra coscienza se vengono violati a troppi chilometri di distanza. La mostruosità di una donna cristiana condannata a morte semplicemente perché cristiana non muove a pietà, è un po’ meno mostruosa, è troppo poco “altra” da noi per farne motivo di indignazione. La sorte dei cristiani massacrati e discriminati non interessa più a nessuno.

L’universalità dei diritti fondamentali è buona solo per i discorsi retorici, non per motivare un impegno vero. E Asia Bibi giace in una cella, in condizioni disumane, sola, abbandonata, dimenticata, con la colpa di non aver commesso nulla: solo di aver pregato e onorato il suo Dio, che nel Pakistan islamista è crimine troppo grave. Il silenzio su Asia Bibi svela in tutta la sua meschinità la nostra ipocrisia, la nostra grottesca doppiezza morale, la mancanza di credibilità di organismi internazionali come l’Onu, nata proprio per reagire alla violazione dei diritti umani e trasformatasi via via in un baraccone in cui le commissioni per i diritti umani sono presiedute dai Paesi in cui quegli stessi diritti sono sistematicamente violati.

Povera Asia Bibi, condannata a morte e dimenticata da noi, come tutte le donne e tutti gli uomini che non possono nemmeno possedere un rosario perché indizio di “blasfemia”. Noi che sembriamo buoni solo a intermittenza, che non siamo più credibili, meritandoci questo attestato non proprio motivo di orgoglio. Quanti giorni dovrà scontare ancora in carcere Asia Bibi? E a noi, che ce ne importa?

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Il veterano di guerra si converte a 95 anni: «E’ da una vita che Ti cercavo»

L’australiano Stanley Everett compirà 96 anni a luglio e da pochi giorni ha ricevuto i sacramenti cattolici del Battesimo, dell’Eucarestia e della Cresima.

I tanti anni alle spalle non gli hanno tolto la lucidità: «Mi sembra che ho ancora tanto da imparare. Tanto per cominciare, inizio a fare il segno della croce quando gli altri hanno già finito», ironizzando sull’ormai lentezza dei movimenti.

Il 17 maggio scorso ha ricevuto la Prima Comunione nella cappella Villa Maria Centre, a Fortitude Valley (Australia). «Un completo cambiamento della mia vita. Per tutta la vita l’ho cercato», ha detto riferendosi a Colui che, unico, salva l’esistenza umana dall’effimero nulla a cui è altrimenti destinata.

Ufficiale per la Gran Bretagna e l’Australia durante la Seconda guerra, Stanley Everett fu inviato in Nord Africa dove venne addestrato per disinnescare e detonare mine antiuomo. Oggi è un veterano di guerra, si è convertito e frequenta la diocesi di Brisbane.

Dopo 95 anni di ricerca di quel Volto, ora dice di essere giunto a casa. «E’ il Signore che mi ha portato qui. Nella vita puoi sempre guardarti indietro, se hai retrospettiva, guardi indietro e dici: “Questo l’ha voluto il Signore”». E ancora: «Se cerchiamo le cose che abbiamo voluto fare noi, troveremo spesso una pagina vuota. Ma se cerchiamo ciò che Lui ha fatto nella nostra vita, non ci sarà spazio in quella pagina. Perché sarà piena».

In una società che idolatra (e, forse, sopravvaluta) la gioventù, Papa Francesco ci ricorda invece l’importanza degli anziani e dei nonni, che sono «le radici e la memoria di un popolo». La testimonianza di Stanley è un bell’esempio di ciò.

 

Qui sotto il video del suo ingresso ufficiale nella comunità cattolica

 
La redazione

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Migranti ed il caso Aquarius. Le parole di Bergoglio e Biffi sono la bussola

I naufraghi a bordo della nave Aquarius verranno trasferiti su navi italiane e condotti a Valencia. Queste le ultime notizie dopo che il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha negato alla nave il permesso di attraccare in un porto italiano. Il Paese è diviso e la lotta intestina tra buonisti e razzisti -così come entrambi gli schieramenti si definiscono a vicenda- è senza esclusione di colpi.

Anche parte della comunità cattolica è travolta nel volgare furore dei social, in un irrazionale clima da ultrà. A venire verbalmente colpiti anche alcuni esponenti ecclesiastici, in gran parte contrari al principio di non accoglienza. Spiace vedere come la retorica anticlericale sia penetrata così profondamente in casa cattolica: “taci cardinale, facile predicare mentre vivi nel lusso!”. “Il Vaticano non si deve intromettere nella politica italiana!”. “I vescovi si occupino piuttosto dei preti pedofili!”. Questi alcuni tweet e post di “cattolici militanti”, che hanno interiorizzato le classiche accuse del laicismo.

Il compianto card. Giacomo Biffi non è più tra noi, possiamo però il suo giudizio sul fenomeno immigratorio è più che attuale e può aiutare a formarsi un’opinione sana sulla tematica. “Ero straniero e non mi avete accolto” (Mt 25,43), ha twittato in queste ore il card. Gianfranco Ravasi. Le intenzioni del porporato sono ottime, usare il Vangelo come coscienza critica del presente, per sensibilizzare l’opinione pubblica. Certamente non intendeva affidare ad un tweet il giudizio di una situazione così complessa, però questo è purtroppo passato. Biffi avvertì la possibilità di tale semplificazione: «Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica -che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose- si dimostrano più generose e ben intenzionate che utili, se rifuggono dal commisurarsi con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale».

L’arcivescovo di Bologna non riteneva affatto negativi i flussi immigratori. Anzi, disse: «Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica». In particolare, perché «l’Italia ha bisogno di forze lavorative che non riesce più a trovare nell’ambito della sua popolazione», ed inoltre per sopperire al «terrorismo culturale antidemografico», prodottosi a causa dell’«assenza di ogni correttivo legislativo e politico che ponesse qualche rimedio all’egoistica e stolta denatalità». Inoltre,«di fronte a un uomo in difficoltà -quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza- i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell’ampiezza della nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile».

Ma il “possibile” ha dei limiti. Innanzitutto, da questo «non se ne può dedurre -se si vuol essere davvero “laici” oltre tutti gli imperativi ideologici- che una nazione non abbia il diritto di gestire e regolare l’afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo. Tanto meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire indiscriminatamente le proprie frontiere. Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto di pacifico inserimento suppone ed esige che gli accessi siano vigilati e regolamentati. E’ tra l’altro davanti agli occhi di tutti che gli ingressi arbitrari -quando hanno fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili- determinano fatalmente da un lato il dilatarsi incontrollato della miseria e della disperazione (e spesso pericolose insorgenze di intolleranza e di rifiuto assoluto)».

La seconda condizione posta da Biffi è la salvaguardia della «fisionomia propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto». Anzi, «il cattolicesimo -che indiscutibilmente non è più la “religione ufficiale dello Stato”- rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana, la fonte precipua della sua identità, l’ispirazione determinante delle nostre più vere grandezze. Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme religiose o culturali». Capitolo a parte per gli immigrati di convinta fede musulmana i quali, eccezioni a parte, «vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro». Per cui Biffi propose il “principio di reciprocità”, ovvero «consentire in Italia per i musulmani, sul piano delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che nei paesi musulmani è effettivamente consentito per gli altri».

Checché se ne dica, la posizione di Biffi è in coerenza con quella espressa più volte da Papa Francesco: «Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione». La stessa salvaguardia della fisionomia della nazione ospitante, è una preoccupazione anche per Bergoglio: «occorre garantire che i popoli che li accolgono non sentano minacciata la propria sicurezza, la propria identità culturale e i propri equilibri politico-sociali. D’altra parte, gli stessi migranti non devono dimenticare che hanno il dovere di rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti».

E’ ancora il pontefice argentino ad indicare che «non si può chiudere il cuore a un rifugiato ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato lo si deve anche integrare. E se un Paese ha una capacità di venti di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte».

La redazione

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Nuovo studio: le scuole cattoliche formano studenti più disciplinati

Da sempre rivolgiamo grande attenzione al mondo della scuola, sopratutto sfidando i pregiudizi di molti sulla presunta inadeguatezza degli istituti cattolici. Uno nuovo studio statunitense guarda in questa direzione sostenendo che l’eduzione al comportamento ricevuta dagli studenti delle scuole cattoliche è migliore.

Sul Wall Street Journal, infatti, viene ripresa la ricerca svolta dal Thomas B. Fordham Institute dell’University of California-Santa Barbara, curata dal prof. Michael Gottfried. Analizzando i dati nazionali sugli studenti delle scuole elementari statunitensi e confrontando tra loro gli alunni delle scuole cattoliche, delle scuole statali e di altre scuole private, religiose e laiche, gli autori hanno ricavato prove statisticamente significative che gli studenti degli istituti cattolici hanno mostrato un miglior e più civile comportamento rispetto a quelli delle altre scuole.

Concretamente, si legge nello studio, «i bambini delle scuole cattoliche hanno discusso, litigato, si sono arrabbiati, hanno reagito in modo impulsivo e disturbato le attività scolastiche meno frequentemente». Inoltre, «dimostrano maggiori probabilità di controllare la propria rabbia, di rispettare la proprietà altrui, di accettare le idee dei loro compagni di studio e di gestire la pressione dei pari». In altre parole, si potrebbe sintetizzare con maggiore autodisciplina.

Gli autori negano una casualità nella scoperta, sostenendo la forte correlazione e considerando «l’attenzione che le scuole cattoliche attribuiscono all’autodisciplina e al comportamento degli studenti. Sappiamo infatti che, soprattutto nelle aree urbane, gli studenti neri e latini che frequentano le scuole cattoliche mostrano risultati più alti, tassi di laurea più alti ed iscrizioni al college più alte di quelli che frequentano scuole pubbliche vicine».

Non è un caso che tra le migliori scuole d’America vi sia il cattolico Thomas More College, premiato proprio per la qualità educativa dal punto di vista dei risultati scolastici e del comportamento degli studenti. L’indagine si potrebbe abbinare con quella governativa effettuata qualche anno fa nel Regno Unito, dalla quale è emerso che le scuole cattoliche di Galles ed Inghilterra, rispetto alle altre, offrono una migliore istruzione ai loro studenti. Anche in Italia, infine, nonostante siano penalizzate da uno scarso finanziamento statale (al contrario di quanto avviene all’estero), moltissime scuole paritarie -e tra esse molte di impostazione cattolica- svettano tra coloro che preparano meglio gli studenti all’Università.

La redazione

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Sindone, il resoconto della datazione pubblicato su Nature diceva il falso


 
di Andrea Tornielli
La Stampa, 03/05/2018
 

A trent’anni dalla datazione della Sindone con la tecnica del radiocarbonio (i cui risultati apparvero nel 1989 in un resoconto su Nature), emergono nuovi dubbi sull’affidabilità di quel risultato, secondo il quale il lenzuolo che porta impressa l’immagine del corpo di un uomo flagellato e crocifisso come Gesù sarebbe in realtà un tessuto risalente all’epoca medioevale.

Se n’è parlato all’incontro annuale del comitato scientifico del Centro Internazionale di Sindonologia, il 5 e il 6 maggio a Chambéry, in Savoia, con medici, fisici, chimici, storici e biologi internazionali. Tra questi Paolo Di Lazzaro, dirigente di ricerca dell’Enea di Frascati, che nel suo intervento ha ricordato come «il calcolo che trasforma il numero di atomi C-14 nell’età di un tessuto» presenti «maggiori incertezze rispetto ad altri campioni solidi (ossa, manufatti, etc.) a causa della maggiore permeabilità del campione tessile agli agenti esterni (digestione batterica, muffe, sporcizia)».

Non è un caso, spiega di Lazzaro, che Beta Analytic, una delle ditte più rinomate per la datazione C-14, sia oggi prudente riguardo l’affidabilità della datazione dei tessuti con questa tecnica, «riconoscendo che i campioni tessili necessitano di maggiori precauzioni rispetto agli altri materiali». In particolare, Beta Analytic dichiara che «la datazione di tessuti si effettua solo nell’ambito di una ricerca multidisciplinare», e che «i campioni prelevati da un tessuto trattato con additivi o conservanti generano un’età radiocarbonica falsa». La Sindone in passato è stata in contatto con materiali conservanti e anti-tarma, che potrebbero dunque aver falsato la datazione.

Lo scienziato dell’Enea contesta anche la determinazione con la quale a suo tempo, dalle colonne della rivista Nature, i tre laboratori coinvolti nella datazione presentarono la loro ricerca come «prova definitiva»: parole inusuali per un articolo scientifico, dato che «nei secoli, la scienza è progredita mettendo in discussione i risultati acquisiti in precedenza». Gli interrogativi aumentano, spiega Di Lazzaro, anche perché i tre laboratori che eseguirono la datazione 30 anni fa «si sono sempre rifiutati di fornire l’esatta distribuzione dei dati grezzi. Si tratta dell’unico caso a mia conoscenza in cui gli autori di un articolo si rifiutano di fornire i dati che possono permettere ad altri scienziati di ripetere il calcolo e verificare se è stato fatto correttamente».

Entra qui in gioco una seconda significativa ricerca, quella di Marco Riani, statistico e professore di Tecniche di ricerca ed elaborazione dati all’Università di Parma. Analizzando i dati pubblicati su Nature aveva scoperto un’età che in modo anomalo «aumenta costantemente a mano a mano che ci si sposta da un pezzettino all’altro adiacente», un fatto che «suggerisce la presenza di una contaminazione che può aver falsato i risultati». Riani aveva inoltre scoperto che l’analisi statistica «fornisce risultati coerenti solo distribuendo i dati su tre dei quattro lembi consegnati ai laboratori per le misure». Questo significa che solo tre lembi di lino furono datati nel 1988, e uno dei due lembi consegnati al laboratorio di Tucson non venne in realtà mai datato. «Di conseguenza – spiega di Lazzaro – scopriamo che sull’articolo di Nature è dichiarato il falso: non è vero che tutti i lembi sono stati datati». La ricerca di Riani ha costretto nel dicembre 2010 il professor Timothy Jull, responsabile del laboratorio di Tucson, a mostrare per la prima volta la foto di uno dei due lembi di Sindone ricevuti dal suo laboratorio 22 anni prima, e mai usato.

«Questo fatto da solo – conclude Di Lazzaro – dimostra più di mille parole la mancanza di trasparenza e la scarsa deontologia professionale» con cui venne eseguita la datazione. La Sindone di Torino, quell’immagine che nessuno è ancora riuscito a riprodurre, rimane dunque un mistero.

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La nipote di Martin Luther King: «se rifiuti il razzismo, combatti l’aborto»

Il nome del pastore Martin Luther King sarà sempre legato ai diritti civili degli afroamericani. L’eredità spirituale è oggi nelle mani della sua famiglia e, in particolare, della nipote Alveda King. La quale continua la battaglia, riconoscendo che «un bambino nero ha tre volte più probabilità di essere ucciso nel grembo materno rispetto ad un bambino bianco».

Alveda ha recentemente accusato sul Washington Post la nota catena di caffetteria Starbucks, in quanto, «attraverso le sue donazioni aziendali, finanzia una delle organizzazioni più razziste nella storia della nostra nazione, Planned Parenthood. Cioè il principale fornitore di aborti negli Stati Uniti, che esegue oltre 300.000 interruzioni di vita ogni anno». Dal 1973, ha spiegato la nipote di Martin Luther King, l’aborto ha ridotto la popolazione nera di oltre il 25%, come confermano i rapporti americani.

Pochi sanno che Planned Parenthood è stata fondata dall’eugenetista hitleriana Margaret Sanger, nel tentativo di eliminare ciò che considerava membri “non idonei” della società. Cioè neri e disabili. Non è un caso che ancora oggi l’80% delle sue cliniche si trovano in quartieri dove le persone di colore sono la maggioranza. «Planned Parenthood ha passato un intero secolo ad uccidere bambini e sradicare gli afro-americani», ha detto l’attivista. Tuttavia, «il vento sta cambiando, con una maggioranza di americani che afferma di non volere il finanziamento dei contribuenti per l’aborto».

«Dico spesso che l’aborto è la questione dei diritti civili del nostro tempo», ha concluso Alveda King. «L’aborto nega i diritti degli innocenti. Si rifiuta di aiutare i più vulnerabili. L’aborto sradica il nascituro da sua madre e da tutta la società». Perciò, «se dici di opporti al razzismo, combatti l’aborto».

La redazione

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