François Englert, fisico ebreo: «Salvo dal nazismo grazie alla Chiesa cattolica»

Siamo in Belgio, anno 1943 e la resistenza cattolica al nazismo, guidata clandestinamente dai vescovi cattolici, nasconde e mette in salvo gli ebrei. Tra essi il futuro premio Nobel per la fisica, François Englert, co-scopritore del bosone di Higgs.

Englert ha rivelato la sua storia soltanto nel 2013, quando vinse il Nobel per aver scoperto i meccanismi che danno origine alla massa delle particelle elementari. «Il direttore del Comitato che assegna il premio mi chiese di scrivere una breve autobiografia», ha raccontato recentemente. «Risposi che non avevo voglia di includervi il periodo della guerra. Lui replicò che in quanto vincitore avevo il dovere morale di farlo. Accettai e improvvisamente mi sentii liberato».

Nato in Belgio da una famiglia di ebrei polacchi, nel 1943 vennero denunciati ai nazisti: «incontrammo un prete cattolico che ci aiutò a fuggire con l’aiuto della resistenza clandestina e di alcuni membri della gerarchia cattolica», ha raccontato. «Ci fecero avere una nuova identità e un nascondiglio sicuro». Fino alla fine della guerra, quando Englers riprese gli studi che lo avviarono alla sua celebre carriere scientifica.

Il grande contributo della Chiesa cattolica nel salvare migliaia di ebrei è ormai un dato storico, come ha raccontato uno dei più importanti scrittori israeliani, Aharon Appelfeld, recentemente scomparso. Ma, sopratutto, ne ha dato testimonianza il biografo ufficiale di Winston Churchill, Martin Gilbert, storico di origine ebraica e tra i più noti studiosi dell’Olocausto. «Come storico ebreo, ho a lungo sentito il bisogno di rivelare pienamente l’aiuto cristiano agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e la storia degli uomini che sono stati coinvolti nel salvataggio», ha affermato. Vi furono «sacerdoti e vescovi cattolici che hanno lavorato per salvare gli ebrei in ogni paese in cui venivano minacciati, tra cui Francia, Italia e Polonia, paese che era in vigore la pena di morte per coloro che aiutavano gli ebrei».

In particolare, ha proseguito lo storico Gilbert, i rappresentati del Vaticano «all’inizio erano soprattutto preoccupati per il destino degli ebrei che si erano convertiti al cristianesimo, ma quando il delitto divenne evidente il Vaticano ha espresso preoccupazione non solo per la loro macellazione, ma ha incoraggiato i rappresentanti pontifici in Europa a compiere ogni sforzo a favore dei perseguitati». E per quanto riguarda Papa Pio XII, a lungo accusato di silenzio complice davanti alla Shoah, lo storico ebreo ha riflettuto: «ha ritenuto, a mio parere correttamente, che l’intervento diretto avrebbe avuto conseguenze disastrose nelle forme di rappresaglia e un’escalation di persecuzione. Scomunicando Hitler non avrebbe ottenuto altro che aumentare la persecuzione dei cattolici sotto la loro sfera di controllo». Cosa che, infatti, avvenne alla pubblicazione dell’enciclica Mit brennender Sorge, redatta anche dal futuro Pio XII e scritta in modo inedito in lingua tedesca, dove venne condannato il razzismo ed il regime hitleriano.

Eppure, clandestinamente, non vi fu alcun “silenzio” vaticano. Anzi, «quando le SS vennero a Roma», ha concluso Martin Gilbert, «la Santa Sede prese sotto la sua protezione centinaia di migliaia di ebrei, accogliendoli in Vaticano e incoraggiando nel contempo tutte le istituzioni cattoliche a fare altrettanto. La Chiesa cattolica è stata al centro di questa grande operazione di salvataggio. Io la definisco un’opera sacra».

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L’ex brigatista: «Ho ucciso Aldo Moro, da ateo la provvidenza di una seconda vita»

Fa tremare i polsi la testimonianza che Franco Bonisoli ha lasciato al Meeting di Rimini (video più sotto). Membro della direzione strategica delle Brigate Rosse e del Comitato esecutivo, condannato a quattro ergastoli anche a causa della strage di via Fani dove venne rapito Aldo Moro. Impressionante il racconto di come dal marxismo-leninismo scelse di passare alla lotta armata per coerenza con gli slogan, unica soluzione per poter imporre un mondo più giusto.

«Il comunismo era un sogno, un Eden terreno da vivere subito», ha raccontato. «Serviva però prima la rivoluzione: i buoni, cioè noi, andavano divisi dai cattivi (i padroni, il potere e chi li difendeva), andavano abbattuti e si sarebbe instaurata una società di transizione, la dittatura del proletariato. Un potere giusto, per poi arrivare al comunismo. Il problema è che per abbattere lo Stato serviva la forza, la violenza e le armi e quindi l’omicidio politico. Questa è stata la base di quello che poi divenne cronaca, gli anni di piombo. Io, come tutti i compagni che hanno fatto la scelta armata, non avevamo una sete di potere personale o aspirazioni politiche. La scelta della clandestinità intrapresa nel 1974 significava dare la mia vita per una causa, la vita che mettevo in discussione era la mia. Questo per abbattere un mondo brutto, dare un contribuito per le nuove generazioni: ci sarebbero voluti 100 anni, non importava. Ne valeva la pena. L’alternativa era vivere in un mondo che rifiutavi, sopravvivendo con ipocrisia».

Bonisoli è cresciuto in una famiglia normale, di operai, di comunisti, «quelle persone che hanno costruito la società del boom economico e che ci avevano dato il benessere in cui vivevamo». La società, la famiglia come la politica, era però bloccata su alcuni schematismi: «tu avevi un ruolo, dovevi studiare, diventare consumatore e stop. Così cominciai a sognare un mondo migliore, mi aveva colpito la guerra del Vietnam, una aggressione di una società avanzata (gli USA) verso i contadini. Volevamo difendere questo piccolo popolo, sentivamo dentro l’ingiustizia. Oggi accendi la televisione e ci sono solo guerre, ma la vita scorre normale. Allora invece c’era una forte tensione verso le ingiustizie, ci si voleva ribellare. Già alle scuole medie cominciammo a chiedere l’assemblea, cioè dire in modo ufficiale quello che pensavamo seppur avevamo poco da dire, ma la cosa che più ci frustrava era il non ascolto da parte degli adulti o meglio, ti ascolto finché sei dentro ad uno schema. E Papa Francesco sta insistendo molto oggi sull’ascoltare l’altro, i giovani».

Partecipa al Movimento Studentesco, l’eskimo come divisa e l’interesse ai movimenti rivoluzionari in America Latina, in Giappone. «Cresceva in noi un sogno di essere protagonisti e costruire una società più giusta, senza guerra. Come sono arrivato alla scelta della lotta armata? Il mito della resistenza era continuare quello che i nostri padri comunisti non erano riusciti a fare, imporre il modello sovietico. Così ritenevamo la rivoluzione russa e cinese modelli del futuro. Predavamo i movimenti di Che Guevara, quelli del Cile, come riferimenti di chi stava facendo la propria parte. E noi? Soltanto violenti slogan della cultura di sinistra: “il potere nasce dalla canna del fucile”, “lo stato borghese si abbatte e non si cambia”. Testi lenininisti, maoisti, la scuola di Francoforte e dei gruppi armati dell’America Latina. Non bastavano più, serviva coerenza e la scelta fu esistenziale: dare la propria vita per questo o no. Le Brigate Rosse erano per me la vera coerenza tra parole e i fatti. Se si dice che la rivoluzione va fatta con le armi, ci si arma. Non si può dichiararlo, guardare il Cile e Cuba e poi andare al bar».

A 15 anni Bonisoli sposa la teoria marxista-leninista, a 17 anni interrompe gli studi per andare a fare l’operaio, l’iscrizione al Partito Comunista. A 19 anni entra nelle Brigate Rosse e nella clandestinità, in particolare «dopo il colpo di stato in Cile decidemmo di armarci come unica opzione». Quattro anni come clandestino rivoluzionario, poi l’arresto nel 1978 e il viaggio nelle carceri di massima sicurezza. «Però non è che fosse cambiato qualcosa per me», ha raccontato l’ex brigatista, «l’idea era continuare la rivoluzione dentro al carcere secondo l’esempio dei partigiani, puntare all’evasione per continuare la lotta. Più il carcere era duro più giustificava la ribellione verso Stato violento». 4 ergastoli e 105 anni per vari processi, «non ci difendevamo e facendo parte dell’organizzazione prendevo l’ergastolo per ogni azione commessa. Era un punto d’orgoglio per noi».

Poi la crisi. Apparivano i primi pentiti, cioè traditori. «Iniziò la fase di implosione e la violenza contro questi infami che tradivano era la nuova causa giusta, ci ammazzammo tra noi». Il dubbio era sempre stato sopito con frasi di Lenin o prese da Il Capitale, ma ormai non teneva più, «non ci credevo più. Avevo 28 anni, avevo sacrificato la vita per una causa in cui dubitavo e avevo provocato un danno enorme alla mia famiglia, alle persone che avevamo ucciso o ferito e che avevano dei familiari. Cominciai a pensarli come persone, togliendole dal loro ruolo». Si uccideva perché il nemico non era considerato una persona ma un ruolo, una funzione. Una disumanità totale e la consapevolezza di stare negando gli stessi valori che «ti avevano portato a fare queste scelte». Qualcosa non tornava. Volevano instaurare la pace e avevano generato una spirale di guerra, uccidevano i nemici perché nessuno potesse più uccidere. «Non siamo andati da nessuna parte», l’ammissione di Bonisoli. «Ci sono stati solo dei danni, un’idea che è saltata e la violenza ha portato solo violenza. Uscire da questa spirale è difficilissimo e io ho avuto la fortuna di uscirne».

Lo fece iniziando uno sciopero per la fame in carcere, quindi rompendo lo schema della violenza e tradendo gli ideali. Poi il rapporto con il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, poi il card. Carlo Maria Martini e quel moto ecclesiale -e non solo- verso un trattamento dignitoso dei detenuti. Insomma, la scoperta che il mondo non era così terribile. Bonisoli fece solo 22 anni di carcere beneficiando di alcune leggi, seppur assumendo sempre tutte le responsabilità delle azioni criminali commesse. Poi l’incontro con Agnese Moro, figlia di Aldo, e con Giovanni Ricci, figlio dell’autista della scorta di Aldo Moro. Con loro è nato un rapporto personale, «mi hanno riconosciuto come persona, interessavo io, la mia vita oggi», ha raccontato in un’intervista. Così, «si è aperta per me la possibilità di una seconda vita attraverso degli incontri, dei fatti che io, da ateo, definisco provvidenziali».

 

Qui sotto la testimonianza di Franco Bonisoli

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Smentito Vittorio Lingiardi: suicidi gay? L’omofobia non c’entra, colpa delle relazioni

“Discriminazione gay spinge al suicidio”, “si suicidano perché vittime di bullismo”, “quando sono ostacolati dalla famiglia, gli omosessuali sono a rischio suicidio”. Queste e altre sono le solite affermazioni dello psichiatra arcobaleno Vittorio Lingiardi, docente presso La Sapienza di Roma. Tutte balle, almeno secondo uno studio australiano, per il quale le cause derivano prevalentemente dalla maggiore incidenza di problemi di relazione tra omosessuali.

Il dott. Delaney Skerrett, dell’Australian Institute for Suicide Research and Prevention presso la Griffith University, ha guidato nel 2014 un gruppo di ricercatori nello studio dei suicidi, scoprendo che la causa principale del suicidio tra le persone “lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali” (LGBTI) è lo stress derivato dai loro partner. «Spesso assumiamo che il disagio psicologico che le persone LGBTI stanno attraversando sia dovuto al rifiuto della famiglia. Ma sembra che non sia così. Il conflitto è in gran parte correlato ai problemi di relazione, con i partner», ha affermato lo scienziato.

Le cause del suicidio e della depressione nella comunità omosessuale sono purtroppo più complesse di quanto ammettono gli attivisti gay. Essi, «da tempo, parlano di una singola spiegazione per gli alti livelli di problemi di salute fisica e mentale tra coloro che si impegnano in relazioni omosessuali», ha commentato Peter S. Sprigg, ricercatore presso il Family Research Council di Washington. «Danno la colpa all’omofobia, lo stigma che soffrono a causa della società e il rifiuto da parte dei membri della famiglia che disapprovano la loro condotta. Ma la ricerca scientifica, tuttavia, non ha mai supportato questa spiegazione».

Inoltre, l’indagine ha confermato diversi studi precedenti che hanno scoperto che gli omosessuali affrontano tassi molto elevati di violenza da partner, maggiori rispetto agli eterosessuali. Uno studio del 2007, ad esempio, pubblicato sul Journal of Urban Health dalla New York Academy of Medicine, ha rilevato che addirittura il 32% degli omosessuali è stato abusato da almeno un partner durante la vita, mentre altri studi parlano addirittura del 47,5% delle lesbiche. D’altro canto, si è rilevato che nei Paesi comunemente definiti gay-friendly i tassi di suicidio delle persone con tendenze omosessuali è, purtroppo, lo stesso.

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«I Sessantottini? Delusi dalla mancanza di senso, ma noi più anestetizzati di loro»

Una ribellione antropologica, una protesta sulla mancanza del senso della vita. Ma, almeno loro e a loro modo, si ribellavano. Noi? Completamente anestetizzati. Così riflettono sul Sessantotto tre storici di livello (il video più sotto), valorizzando l’ideale sessantottino, senza giustificare lo sfascio generazionale che ne seguì. E la ribellione di quegli anni ha provocato danni immensi proprio perché non trovarono una risposta a questo urlo disperato.

Si parta da una constatazione: negli ultimi trent’anni nessuno ha mai visto proteste studentesche che non fossero -imbeccate dalla politica- richieste di maggiori finanziamenti o strutture migliori, nulla di più. Ma a tema, in quegli anni, c’era la vita, il significato del lavoro, dell’autorità, dell’esistenza. Oggi nessuno metterebbe in piazza lo smarrimento esistenziale. «La ribellione generazionale è una richiesta sul significato della vita e sul senso delle cose, sul fondamento della società occidentale», spiega Eugenio Capozzi al Meeting di Rimini, ordinario di Storia contemporanea all’Università “Suor Orsola Benincasa” Napoli.

«L’Europa e l’Occidente hanno vissuto per secoli su una promessa della modernità, delle magnifiche sorte progressiste, che poi si è attuata in tante forme: rivoluzione scientifica, illuminismo, la democrazia, il socialismo ecc. Tutto questo è andato di pari passo con l’erosione delle basi della civiltà europea, l’etica cristiana, il senso della comunità che era nato con il cristianesimo. Questo ha portato ad una destabilizzazione dell’Occidente e ai totalitarismi, in seguito si è cercato di rincollare il tutto con le democrazie del benessere. Si è creduto che dando il welfare, dando gli elettrodomestici e il consumismo si sarebbero risanate le piaghe. Ma dopo Auschwitz, dopo i Gulag non erano queste le risposte e i Sessantottini hanno avuto il merito di aver messo a tema questa gigantesca ipocrisia: “vi rendete conto che è venuto meno il collante della comunità e della civiltà?”, ci dicono».

Ovviamente, però, gli stessi rivoluzionari del’ 68 non hanno saputo produrre questo collante e le loro grida non hanno generato nulla proprio per la mancanza di un collante, che già non c’era più. L’unico frutto di quegli anni -ha proseguito lo storico- è stata l’ideologia del “vogliamo tutto” e del “puoi essere quello che vuoi”.

«Oggi si è affermata una classe dirigente che si è dotata di questa ideologia: l’individuo può puntare ad una forma di onnipotenza, grazie alla tecnica. Non c’è più comunità. La richiesta di senso è seppellita e paradossalmente siamo più ipocriti di quanto lo eravamo 50 o 60 anni fa. E non c’è più un’idea di rivoluzione contro questo se non la cieca rivolta contro le élite, dire che sono “cattive”. Che poi è il populismo. Siamo nel pieno della disgregazione di una società che punta soltanto all’affermazione individuale e così non si ricostruisce la comunità e non si risponde a quella domanda radicale dei Sessantottini a cui nemmeno loro avevano saputo rispondere. Cinquanta anni dopo non abbiamo fatto saputo fare passi avanti».

 

Sono riflessioni cruciali per comprendere l’attualità. Giovanni Orsina, ordinario di Storia contemporanea e di Sistemi politici europei all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma, concorda completamente con questa analisi:

«I Sessantottini sono i più fortunati nella storia del genere umano, c’è un benessere crescente e spazi di libertà inediti. Eppure c’è rabbia e contestazione, sentono questo vuoto, sentono il fallimento dei tentativi del Novecento di ricostruire la società tramite la politica. “Dio è morto, benissimo. Ma come lo soddisfo il mio desiderio di assoluto, di liberazione?”, si chiedono. La politica ha fallito, la classe operaia ha fallito, l’idea di Nazione ha fallito…”Che faccio? Soddisfo i miei istinti”. Sesso, droga, viaggi, sensazioni, emozioni, l’espansione al massimo della propria soggettività ma partecipando ad un’azione collettiva. E’ una enorme contraddizione: il rivoluzionario è un puritano, è disposto a morire per qualcosa di cui nemmeno beneficerà. Altro che sesso e droga e soddisfazione immediata! Qui fallisce il Sessantotto e tutte le generazioni successive: non ci sono più risposte che non siano “fate quello che vi pare, ciascun per sé”. Questa è la tragedia della nostra generazione. Il Sessantotto è stato la denuncia del fallimento di tutte le risposte politiche e l’estremo tentativo di trovare una risposta politica, che fallirà essa stessa nel giro di qualche anno”.

 

Edoardo Bressan, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Macerata, accenna una risposta nel finale. La stessa che già a quei tempi, alcuni cattolici impegnati (lui cita Gioventù Studentesca, quindi don Giussani) proposero ai Sessantottini. Le stesse forze che cambiano il mondo sono quelle che cambiano il cuore dell’uomo, e il cambiamento personale è possibile solo davanti ad una Presenza che attrae e trae fuori da se stessi, dando una prospettiva di eternità alla vita. Così il soggettivismo radicale emblema di quegli anni fu proprio l’antitesi della possibile rinascita.

 

Qui sotto il video dell’incontro

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Abusi, report sui preti in Pennsylvania: cosa stanno nascondendo i media

Il tema della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica è tornato al centro dell’opinione pubblica ed è importante che Papa Francesco abbia parlato di “crimine” nella lettera diffusa ieri, perché l’abuso sessuale di questi uomini corrotti non è solo un peccato, un tradimento tragico della loro vocazione. Pochi giorni fa è stato reso noto un report realizzato dal Grand Jury della Pennsylvania, che descrive gli abusi avvenuti dal 1947 ad oggi in sei diocesi dello stato americano.

La notizia ha fatto il giro del mondo ma vi sono tuttavia due dettagli da aggiungere, che non diminuiscono affatto la gravità di tali azioni ma permettono di contestualizzare meglio le cose. Pochi ne hanno parlato, nemmeno i media catto-tradizionalisti che stanno sfruttando il tema per convogliare l’odio verso l’attuale Pontefice e i suoi collaboratori. Fino a ieri parlavano di complotto laicista, oggi sono «pronti a chiedere le dimissioni anche soltanto sulla base del “non poteva non sapereˮ, quando nel mirino (e soltanto nel loro) finisce qualche ecclesiastico considerato vicino all’attuale Pontefice», ha scritto Andrea Tornielli. Una battaglia non in favore delle vittime ma «portata avanti da siti sedicenti cattolici che quotidianamente e violentemente attaccano Papa Francesco, i vescovi (quelli che a loro non vanno bene) e i fratelli nella fede. Spietatamente colpevolisti con alcuni, ma silenziosamente innocentisti con altri porporati ancora oggi in carica, magari accusati di fatti molto più gravi, ma dei quali non si chiedono le dimissioni soltanto perché considerati “conservatoriˮ».

1) ABUSI RISALENTI A OLTRE 20 ANNI FA.
Se si legge l’intero report, si apprende che si tratta di violenze avvenute oltre venti anni fa, mentre non ve ne sono da quando la Conferenza episcopale statunitense si è impegnata a combattere seriamente il fenomeno. «La maggior parte della discussione dei casi presenti in questo rapporto», viene infatti scritto, «riguarda eventi precedenti agli anni 2000 […]. Allo stesso tempo, riconosciamo che molto è cambiato negli ultimi quindici anni».

Lo stesso caso dell’ex cardinale Theodore McCarrick, arcivescovo emerito di Washington, risale ad abusi su seminaristi adulti molti anni addietro. Certo, aggiungono gli autori, potrebbero esserci vittime più recenti ma ancora non vi sono dati certificati e «pensiamo che sia troppo presto per chiudere il libro sullo scandalo sessuale della Chiesa cattolica». Perché, se l’indagine tratta di fatti così lontani nel passato, viene fatta uscire oggi? C’è chi risponde suggerendo di considerare le aspirazioni politiche del procuratore generale della Pennsylvania, Josh Shapiro, ma non ci sembra il caso di fare dietrologia, sviando l’attenzione sul contenuto. Un’altra nota: quasi nessuno ha commentato il fatto che il principale nemico di Papa Francesco negli Stati Uniti, l’editorialista cattolico-conservatore del New York Times, Ross Douthat -idolo della minigalassia antipapista- ha candidamente ammesso di aver insabbiato gli abusi relativi al card. McCarrick. Ne era venuto a conoscenza nei primi anni 2000, «ero nella stessa posizione di “tutti” coloro che sapevano. Ma in questa posizione ti abitui all’idea che la storia non uscirà mai». E lui non fece nulla per farla uscire, nonostante collaborasse con prestigiosi quotidiani d’inchiesta.

 

2) NON SI TRATTA DI PEDOFILIA, MA PEDERASTIA OMOSESSUALE
Il secondo dettaglio è quello sottolineato da Paul Sullins, docente di Sociologia presso la Catholic University of America: «L’attuale scandalo include per lo più rivelazioni sull’abuso sessuale maschile da parte di seminaristi, dove le vittime sono adulti. La Conferenza episcopale ha commissionato due rapporti, uno nel 2004 e nel 2011, al John Jay College of Criminal Justice per studiare i casi segnalati di abusi sessuali da clero tra il 1950 e il 2002, e tra il 2002 e il 2010. Entrambi i rapporti hanno rilevato che oltre l’80% delle vittime non erano né ragazze, né bambini pre-pubescenti (vera pedofilia), ma pre-adolescenti e adolescenti». Sullins parla di “sottocultura omosessuale”, confermata dal 44% dei sacerdoti statunitensi nel 2002.

L’omosessualità è la grande minaccia e la grande sfida per i seminari, come suggeriscono la preoccupazione e l’indicazione di Papa Francesco: «Nel dubbio, meglio che non entrino». Ne ha parlato anche il card. Raymond Leo Burke: «C’è stato un tentativo studiato di ignorare o negare questo rapporto con l’omosessualità. Sembra chiaro che in effetti esista una cultura omosessuale, non solo tra il clero ma anche all’interno della gerarchia». Ha concordato il vescovo di Madison (Wisconsin), Robert Morlino: «stiamo parlando di atti sessuali devianti – quasi esclusivamente omosessuali – da parte di chierici. Fino a poco tempo fa i problemi della Chiesa sono stati dipinti puramente come problemi di pedofilia – questo nonostante prove evidenti del contrario. È ora di ammettere che esiste una sottocultura omosessuale all’interno della gerarchia della Chiesa cattolica che sta devastando la vigna del Signore. L’insegnamento della Chiesa è chiaro e l’inclinazione omosessuale non è di per sé peccaminosa, ma è intrinsecamente disordinata in un modo che rende ogni uomo stabilmente afflitto da esso inadatto a essere un prete».

Secondo il report americano, infatti, quasi i tre quarti dei preti incriminati erano omosessuali, mentre solo circa un quarto erano eterosessuali. La maggior parte delle vittime, invece, non erano bambini ma giovani seminaristi. E’ quindi tecnicamente sbagliato parlare di “pedofilia”, semmai si tratta di “pederastia” (anche se ciò non allevia le colpe). Nonostante ciò, il procuratore Shapiro ha riempito il palco di vittime di sesso femminile per lanciare la conferenza stampa televisiva. Il giornalista investigativo George Neumayr, presente alla conferenza stampa che ha lanciato la notizia nel mondo, ha scritto: «L’atmosfera di ieri è stata molto strana. Il procuratore generale Josh Shapiro, un democratico sostenuto dalla comunità LGBT, ha messo sul palco vittime femminili, non maschili, anche se la maggior parte delle vittime sono di sesso maschile. Non penso che tale scelta sia stata casuale, non vuole che il pubblico veda questo scandalo per quello che in gran parte è: un prodotto di una mafia gay molto malata presente nella Chiesa, perciò trascura la pederastia omosessuale del cardinale McCarricks». Il ridimensionamento di Shapiro della preponderanza dell’abuso omosessuale potrebbe essere un calcolo politico, probabilmente teso ad evitare di offendere i suoi numerosi sponsor democratici gay.

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W.D. Phillips, premio Nobel e quel Dio presente: «nella mia vita e nell’Universo»

Dopo la breve intervista che ci ha concesso nel 2012, in occasione del Darwin Day, siamo rimasti in contatto con William D. Phillips, fisico statunitense e premio Nobel. E’ piacevolmente sorpreso della recente nascita della versione inglese del nostro sito web e oggi segnaliamo alcune sue recenti riflessioni.

Phillips viene chiamato “l’uomo che ha congelato gli atomi”, in quanto ha sviluppato alcuni importanti metodi per raffreddare egli atomi, tramite laser, con lo scopo di rallentarne il movimento e poterli studiare. E’ docente di Fisica alla Maryland University e membro del National Institute of Standards and Technology (NIST). Non ha mai fatto mistero della sua fede, è un cristiano metodista con grande stima per la Chiesa cattolica, membro oltretutto della Pontificia Accademia delle Scienze. «Non penso ci sia niente di strano», ha spiegato pochi giorni fa. «Molti degli scienziati che conosco credono in Dio. Non credo vi sia quel che viene chiamato “conflitto tra scienza e religione”, forse piuttosto alcune persone si dedicano a creare conflitti».

Il riferimento è ai suoi colleghi “new-atheists”, già presi di mira dal suo collega matematico Amir Aczel, dell’Università del Massachusetts, i quali hanno «compromesso l’integrità della scienza» per tentare di dimostrare che «l’idea della necessità di Dio debba essere necessariamente errata» (A. Aczel, Perché la scienza non nega Dio, Raffaele Cortina Editore 2015, p. 14). Aczel scelse di entrare nel dibattito proprio in reazione all'”ateismo scientifico” di Dawkins, Harris e Hitchens, in voga fino a pochi anni fa. Il premio Nobel Phillips, al contrario, si è sempre manifestato come credente.

Tornando al presunto conflitto tra scienza e fede, il fisico americano ha osservato che «per la Bibbia, la Terra ha un’età di alcune migliaia di anni, che è molto piccola. Questo, che sembra un conflitto, è in realtà molto facile da risolvere. La Bibbia non è un libro sulle origini scientifiche dell’universo, ma sul nostro rapporto con Dio e sulla relazione che vogliamo tra di noi. Secondo me, la Bibbia non si preoccupa di dettagli come quando fu creata la Terra, ma perché è stata creata e cosa Dio si aspetta dalla sua creazione. Questo è il messaggio della Bibbia, e non vedo alcun conflitto con il messaggio trasmesso dalla scienza». Una cosiddetta “risposta da premio Nobel”, per l’appunto! L’interpretazione letterale dell’Antico Testamento tradisce il loro scopo originario.

Phillips ha l’impegnativo compito di convincere il mondo cristiano protestante ad abbandonare il letteralismo biblico e l’opposizione all’evoluzione biologica. Per farlo chiama in causa, come esempio, i cattolici: «Sono un membro della Pontificia Accademia delle Scienze, e sia l’attuale che il precedente Papa ne hanno parlato molto chiaramente: la Chiesa cattolica non ha nulla contro la teoria dell’evoluzione», e tale posizione non è affatto «contraddittoria con la Bibbia». Entrando più nel profondo, ha detto di sé: «Credo che Dio sia il creatore di tutto ciò che vediamo. Questo è facile da credere perché ci sono una logica e un ordine così incredibili per poter credere che l’Universo sia emerso dal nulla. Certo, non ci sono prove, ovviamente. Questa è una questione di fede. E io ce l’ho». Ma non si tratta di distaccato deismo, il suo: «In realtà, Dio è molto più di questo. Penso che Dio si preoccupi per me, tu e tutti noi in un modo personale. Questo è molto più che dire che è un Creatore. Anche Einstein credeva in un Dio di questo tipo: ha sempre detto esplicitamente che non credeva in un Dio personale, ma quando ha parlato lo ha fatto in un modo molto personale, come se fosse una specie di amico».

A questo proposito ricordiamo il nostro recente dossier sul percorso religioso compiuto da Albert Einstein.

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La giornalista del Tg1 e la croce al collo. Gli ebrei italiani: «dov’è l’offesa?»

E alla fine è arrivato anche il sostegno dell’Unione giovani ebrei, lasciando a piedi coloro che urlavano alla discriminazione delle altre religioni. La giornalista Marina Nalesso, volto dell’edizione pomeridiana del TG1, continua infatti ad andare in diretta indossando sobriamente una croce al collo e in questi giorni è tornata la polemica (laicista).

Due anni fa, quando la vicenda emerse per la prima volta, la Nalesso aveva risposto così: «Sono felice, umilmente, sono stata semplicemente lo strumento e l’occasione per parlare di Lui. Questo per me è il più grande segno d’amore che esista al mondo. Quando una persona dà la vita per salvare un’altra vita, noi giornalisti lo innalziamo come eroe e santo. Ma non capiamo che c’è stata una persona che ha dato la sua vita per la nostra salvezza. Sono felice perché in tutto il mondo si è parlato di nuovo di Gesù Cristo, del suo sacrificio, del senso che ha portare questo simbolo». Una bellissima ed efficace risposta!

La giornalista della Rai -che abbiamo conosciuto solo in questa occasione, scoprendo piacevolmente una persona libera e autentica (si veda il video qui sotto)- non teme di mostrare esplicitamente il suo percorso di fede, e replica così a chi dice che la fede sia una cosa da vivere in forma privata: «Ci hanno inculcato in maniera strisciante che la fede vada vissuta privatamente. Ma questo è un controsenso, se una persona ha fede, è ciò che è in tutto ciò che fa, in ogni gesto, ogni piccola attenzione, ogni sorriso. Non può essere nascosta, nei gesti come nei simboli». Cosa dicono i suoi colleghi? «Sono divisi. Qualcuno mi ha espresso solidarietà, alcuni si sono avvicinati, però devo dire che c’è stato molto silenzio. Probabilmente molte persone non condividono, ma in fondo ognuno è fatto in modo diverso. Ma dirò la verità, io sono serena a prescindere».

Però l’Italia è uno stato laico e il servizio pubblico non può mandare questo tipo di messaggi, oltretutto unidirezionali verso una religione, discriminando le altre. Così ripetono i critici, dimenticando che la Rai si è fatta per anni portavoce delle idee unidirezionali di Corrado Augias, a favore di un laicismo radicale e di un revisionismo storico contro al cristianesimo che non trova spazio nemmeno nei libelli più anticlericali, diffuso quasi sempre senza contraddittorio. Però, alla vista di una croce al collo si urla allo scandalo, alla propaganda.

Per non parlare di tutte le vallette, veline, ballerine, vip e presentatrici che usano il crocefisso tempestato di diamanti come ornamento di moda e lo sfoggiano ben visibile nei loro décolleté all’interno dei più svariati programmi televisivi di facile ascolto. Ma se la croce viene indossata da qualcuno che vi crede davvero e lo considera per quel che realmente simboleggia, allora è discriminazione.

«Polemica assurda sulla giornalista di Raiuno, Marina Nalesso, rea di indossare il crocifisso in diretta tv», ha twittato il giovane Ruben Spizzichino, Vice Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia. «In quanto ebreo non colgo l’offesa. Quando il laicismo diventa l’unica religione consentita e non gradisce concorrenza».

Ai laicisti che si fanno portavoce non richiesti delle altre religioni per colpire il cristianesimo e rinchiudere i cristiani nelle sacrestie, nell’ambito privato, ricordiamo che la non discriminazione del crocifisso nelle aule scolastiche è stata riconosciuta dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo proprio grazie alla difesa del giurista ebreo Joseph Weiler.

 

Qui sotto la bella intervista alla Nalesso realizzata da Rita Sberna per Cristiani Today

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Aldo Brandirali: da Marx a Cristo…passando per don Giussani

E’ alle porte il Meeting per l’amicizia tra i popoli, organizzato da Comunione e Liberazione. Comunque la si pensi, chiunque dovrebbe interessarsi agli scritti di don Luigi Giussani. Il suo ragionevole modo di spiegare la fede non lascia indifferenti ed è, il suo, un metodo di evangelizzazione che non risulterà mai anacronistico. E’ così che ha convertito migliaia di persone, tra cui musulmani, ortodossi, teologi protestanti, agnostici, scienziati, filosofi. Ma anche diversi marxisti: un esempio è Aldo Brandirali.

Classe 1941, Brandirali fu uno dei punti di riferimento dei Sessantottini milanesi, tra i responsabili del PCI nel 1945, leader della maoista Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti), fondatore del settimanale Servire il popolo e della rivista FalceMartello. Almeno fino al 1975 quando, dopo l’incontro con don Giussani, sciolto il suo partito di 15mila aderenti, inizia un cammino di conversione personale.

«Sono stato un interprete influente» del Sessantotto, ha scritto recentemente Brandirali. «Se oggi avessi ancora le opinioni che avevo allora, ora potrei solo raccontare illusioni e fallimenti, e questo non sarebbe interessante. In cinquant’anni ho camminato cambiando, riconoscendo i fallimenti e cercando di spiegare a me stesso le mie ragioni». Fu un’epoca impregnata di «ideologie che brandivano il primato della teoria sulla realtà», tuttavia Brandirali salva il moto originario di quei giovani, di cui era uno dei leader, animati da «bisogni più umani rispetto all’arricchimento e ai miti del benessere e del consumismo. Domande sul significato della propria vita sorgevano come accade sempre in tutte le generazioni. Domande di senso che non avevano risposta nella moralità dominante, con uno Stato concepito come luogo dell’etica consolidata e una Chiesa diventata concorrente, con la sua etica religiosa critica verso l’etica laicista». Lo Stato etico ed una Chiesa moralista. Per questo, «andare controtendenza, rompere con usi e costumi dell’epoca, sperimentare forme di vita diversa: questa diventa la soggettività giovanile di quegli anni».

Capelli lunghi, vestiti strappati, droga e sesso libera, conflitti familiari, contestazione culturale degli insegnanti, anticlericalismo, rimessa in discussione dell’autorità in generale. Questo anche perché «i figli non avevano risposte adeguate da parte degli adulti alle proprie domande di senso. Mancava l’incontro con una corrispondenza al proprio desiderio di significato», scrive l’ex comunista italiano. Ma Bradirali uscì anche dal Pci in quanto «gli ideali comunisti rimanevano esterni alla vita reale, perché scopo della lotta politica era solo quello di partecipare alla classe dirigente del Paese», dando così vita al Gruppo Falcemartello. E, tuttavia, di nuovo il fallimento a causa del «decadimento delle domande iniziali, e con l’insorgere di un astratto problema di concretezza politica, che divenne apertura alle idee di azioni violente per imporre le nostre idee. Io mi rifiutai di entrare in questa logica e provocai lo scioglimento del movimento. Si capiva che non avevamo trovato risposte al nostro desiderio. Uno scioglimento che riguardava 15mila aderenti e che scatenò mille rancori nei miei confronti».

Nell’ottobre del 1982, come dicevamo, avviene l’incontro con don Giussani, fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, il quale sta tentando di recuperare tra i giovani la credibilità del cristianesimo come risposta alle attese di significato insite nel cuore dell’uomo. Afferma la necessità di ripartire dall’incontro concreto con Cristo, incontrabile nei volti della comunità cattolica, per cambiare davvero la vita e, di conseguenza, il mondo intero. «Mi colpì molto il suo riconoscimento di quello che ero, non di quello che dicevo», scrive Brandirali. «Questa nuova attrattiva crebbe dentro di me, e nel maggio del 1985 in un incontro pubblico con don Giussani dissi: “ma tu dov’eri, io ti ho sempre cercato”; volevo dire che avevo trovato in lui finalmente un punto di riferimento per capire le mie domande. Giussani stesso rispose che anche lui mi aveva cercato, ovvero che sapeva di quel fermento giovanile, delle domande che lo caratterizzavano, e voleva raggiungerci oltre le ideologie».

Aldo Brandirali si convertì così al cattolicesimo, abbandonando completamente l’ideologia marxista-maoista. Oggi ne salva l’ideale ma condanna i suoi sviluppi: «Avendo studiato in gioventù Marx e avendo poi verificata la teoria che ha preso il nome di marxismo», ha riflettuto, «dopo un lungo percorso che mi ha portato a un cambiamento profondo delle mie idee, sono diventato cattolico e ho compreso che non può esistere una scienza della vita dei popoli e delle persone». Questo perché «il desiderio di giustizia e di eguaglianza fra gli uomini costituisce un nobile ideale, e l’andare contro la mentalità mondana dell’arricchimento come scopo del vivere è un passo vero verso la libertà, ma tutte queste ragioni umane hanno bisogno del vero soggetto della storia, che non è l’auto-emancipazione degli uomini, ma è l’unità degli uomini, che ha la sua radice in Cristo e nella capacità di seguire per fede la verità. Cristo è il soggetto della storia, una presenza che rivoluziona continuamente la vita degli uomini riconoscendoli e sostenendoli nel desiderio».

Don Luigi Giussani è stato recentemente ricordato dall’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, il quale ha ricordato il suo «modo così personale, diretto e affettivo, innamorato di Dio e per questo penetrante, sensibile, fermo e duttile, attento all’uomo, che faceva sentire l’ansia del cielo e apriva le domande più vere del cuore, della persona. Giussani vide come i ragazzi in realtà erano affamati di parole vere, desiderosi di acqua per spegnere la sete del cuore, che andavano nudi perché con tante parole spogliate di contenuto vero, prigionieri di luoghi comuni». E, uno di questi ragazzi, fu proprio l’ex marxista Brandirali.

La redazione

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Benetton e Oliviero Toscani: la pubblicità che snatura San Francesco d’Assisi

Il crollo del ponte Morandi si è presto trasformato in bagarre politica, Lega e M5S hanno addossato alla società Benetton la responsabilità della tragedia in quanto legati alla holding che ha in concessione le tratte autostradali. Il linciaggio mediatico ha anticipato la conclusione delle indagini e il freddo, insensibile e distaccato comunicato di Benetton ha, comprensibilmente, esacerbato gli animi.

Il clima si è poi surriscaldato all’imbarazzo con cui i principali quotidiani hanno nascosto il nome Benetton, dato che è anche azionista del gruppo Repubblica-L’Espresso-La Stampa. Per non parlare della stretta collaborazione con il fotografo Oliviero Toscani, un personaggio abbonato a grandi idiozie (un esempio: «hanno fatto più morti i cattolici dei musulmani, milioni di morti in più. E’ imbarazzante essere cattolico, io sono ateo. Se pensi di avere Dio dalla tua parte fai delle cazzate», intervista a La Zanzara – Radio 24, 09/01/15).

Follie che non sono mancate nemmeno tra gli accusatori, come il controverso “storico” catto-tradizionalista (e antipapista) Massimo Viglione, che ha redatto uno dei suoi deliranti post in cui accusa Benetton di voler «progressivamente eliminare gli esseri umani», e si pone in difesa della «razza bianca» minacciata dall’invasione mondialista (commento che è stato cancellato in un attimo di sobrietà, ma da noi recuperato).

La diatriba ci ha fatto tornare in mente l’ultima campagna di Oliviero Toscani realizzata proprio per Benetton, in cui il fotografo è arrivato a sfruttare perfino San Francesco d’Assisi, trasformandolo in un paladino del multiculturalismo. «Nudi come San Francesco», il titolo. 9 ragazzi e ragazze di diversa etnia, nudi e stretti in un abbraccio confuso. Il testo cita il Santo di Assisi e i primi versi del Cantico delle creature usati «contro le guerre civili, le mafie e le violenze urbane dell’identità, contro i feroci conflitti etnici, contro le guerre di faglia e di religione, contro il terrorismo e contro tutti i razzismi risorgenti». In risposta a questo, spiega Toscani, «c’è la gioiosa confusione come valore, il Cantico delle Creature che avvicina al cielo e sottomette il mondo».

San Francesco, come il Gesù comunista o femminista, è sempre stato un pupillo del mondo laicista. Ma Papa Francesco, che ha scelto il suo nome in onore del poverello di Assisi, ha replicato a questo tentativo di strumentalizzazione marxista-pacifista: «Per favore: questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo. Anche questo non è francescano! Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo”. Per favore: questo san Francesco non esiste!». Altro che “confusione come valore”!

Ne avevamo già parlato. Mai è esistito un Francesco ideologo della povertà: il suo obiettivo era la vanità, la bramosia del possesso ma non avrebbe mai tollerato che l’Eucarestia fosse posata in un calice non di oro e che le chiese fossero spoglie: «Vi prego», raccomandava, «i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (San Francesco d’Assisi, Prima lettera ai Custodi).

Priva di fondamento è anche il Francesco d’Assisi sincretista. Fu convinto sostenitore delle Crociate, famoso per il suo confronto nel 1219 con il Sultano Malik al-Kami, durante il quale tentò di convertirlo: «I cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi». Francesco, se si leggono i suoi scritti, non amava per nulla l’Islam, che denunciava come una religione falsa.

Bisognerebbe evitare una volta per tutte di snaturare e sfruttare il patrono d’Italia come fosse un santino laico, adatto per le pubblicità del presunto progresso. Fu un ribelle? Si, a suo modo. Ma nulla a che vedere con i sessantottini. Amava la Chiesa e fu sempre fedele al Papa, come ha spiegato recentemente padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento di Assisi. Cambiò il mondo con l’ubbidienza e l’umiltà. Tutto il contrario di chi oggi ne abusa per i suoi sporchi slogan.

La redazione

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Peter Singer, guru della bioetica laica: «i disabili? Ok allo stupro, non comprendono»

Non sono pochi i teorizzatori di una bioetica laica, la quale disconosce una legge morale insita nell’uomo. La perdita di assoluti è la prima conseguenza, il relativismo la seconda, una cui variante si chiama utilitarismo. Ne è teorizzatore, da anni, Peter Singerdocente della Princeton University, vegano ed antispecista, tornato recentemente a far discutere.

In Italia, l’esperimento più riuscito di etica laica è quello della Consulta di Bioetica, diretta da Maurizio Mori. Nel 2012 è finita sulla prima pagina di tutti i quotidiani in quanto due membri del direttivo, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, hanno apertamente giustificato l’infanticidio. Nonostante l’indignazione internazionale, lo stesso Mori ha appoggiato la tesi dei suoi ricercatori.

Ma il vero leader della bioetica laica internazionale è, come già detto, Peter Singer. Anch’egli è autore di tesi simili: «Né un neonato né un pesce sono persone, uccidere questi esseri non è moralmente così negativo come uccidere una persona». «Anche se il bambino potrà avere una vita senza eccessiva sofferenza, come nel caso della sindrome di Down, ma i genitori pensano che sia un peso eccessivo per loro e vogliono averne un altro, questa può essere una ragione per ucciderlo» (Ripensare alla vita, Il Saggiatore 1996, pag. 20). L’associazione Disabled Peoples’ International lo ha definito uno «uno spaventoso Mengele».

In un editoriale sul New York Times, qualche tempo fa ha commentato il caso di Anna Stubblefield, condannata per aver aggredito sessualmente un suo alunno affetto da paralisi cerebrale grave. La donna agiva come tutor nei suoi confronti, si è convinta della nascita di una intesa romantica con il disabile, arrivando alla sessualità fisica e venendo denunciata dalla famiglia. Il bioeticista di Princeton ha difeso la donna:

«Se supponiamo che il disabile in questione fosse profondamente compromesso dal punto di vista cognitivo, dovremmo ammettere che non può comprendere il normale significato delle relazioni sessuali tra persone o il significato della violenza sessuale. In tal caso, il disabile non sarebbe stato in grado di concedere o rifiutare il consenso informato alle relazioni sessuali; in effetti, può del tutto mancare il concetto di consenso in lui. Ciò non esclude la possibilità che sia stato intimamente offeso da Stubblefield, ma rende meno chiara quale potrebbe essere la natura dell’errore. Sembra ragionevole presumere che l’esperienza sia stata piacevole per lui […]. Partendo dal presupposto che il disabile era profondamente compromesso dal punto di vista cognitivo, se Stubblefield lo ha danneggiato, deve essere stato in un modo che è il disabile era incapace di comprendere e che ha influenzato la sua esperienza solo in modo piacevole».

Il sociologo dell’Harvard University, Nathan J. Robinson, ha sostenuto che Singer abbia elaborato «una difesa filosofica dello stupro delle persone disabili». Da più parti si sono levate simili accuse, tuttavia le cose non stanno così. Il filosofo non ha sostenuto che la Stubblefield non avrebbe dovuto essere condannata se il disabile non era in grado di dare il consenso all’atto sessuale e non ha direttamente legittimato lo stupro dei disabili.

Tutto il problema nasce dal principio morale guida del laicissimo Peter Singer, cioè l’utilitarismo: un’azione è moralmente buona solo se produce felicità, soddisfazione o piacere (e viceversa). Questa visione preclude l’esistenza di un Bene o un Male morali assoluti e basa la valutazione sulle mere conseguenze: il problema è che esistono gravi torti (o ottimi meriti) anche se non viene causata sofferenza. Tradire il proprio partner, a sua insaputa, è comunque un’atto immorale; rubare è un grave torto, anche se nessuno se ne accorge. Se il bene è la maggior felicità del maggior numero -secondo la classica formula dell’utilitarismo- e se il maggior numero è cannibale, il cannibalismo diventa automaticamente un bene.

Nel caso in questione, Singer sta supponendo che il disabile non sia nemmeno in grado di concepire la nozione di consenso o di violazione di sé, allora non si può dire che la donna lo abbia violato. Gli unici motivi per giudicare l’errore della sua azione, sostiene il filosofo utilitarista, sono i motivi legati alla sofferenza: ma non ci sono prove che il disabile abbia sofferto. Anzi, ha concluso: è molto probabile che abbia provato piacere.

Se non c’è un orientamento morale assoluto (trascendente), allora non c’è nulla che ci tiri fuori da noi stessi, così il piacere è l’unico metro di giudizio di moralità. Il filosofo ha semplicemente applicato ai disabili gravi quel che sostiene da anni rispetto agli animali: avere rapporti sessuali con le bestie è moralmente accettabile poiché noi stessi siamo animali e, secondo, noi proviamo piacere mentre non si può provare che loro sperimentino disagio o dolore. E lo stesso ha detto per la necrofilia: non c’è danno ma c’è piacere, dunque «nessun problema morale».

La redazione

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