Ratzinger disse “no” al creazionismo: «l’evoluzione è una conquista della scienza»

L’idea pre-darwiniana secondo cui «ogni singola specie» è «un dato della creazione, che grazie all’opera creatrice di Dio esiste sin dal principio del mondo accanto alle altre specie come qualcosa di unico e di diverso», è una visione che «contraddice l’idea dell’evoluzione e oggi è diventata insostenibile». Ad affermarlo, nel lontano 1969, uno dei più importanti teologi cattolici: Joseph Ratzinger.

Si tratta di una poco conosciuta lezione pubblicata in una raccolta di saggi intitolata Wer ist das eigentlich – Gott? (München 1969) e rivela, forse meglio di tanti altri suoi interventi sul tema, che la Chiesa cattolica non è affatto nemica della teoria di Charles Darwin (seppur lo è di una sua interpretazione filo-ateista, il neodarwinismo filosofico).

Proprio il naturalista inglese è l’oggetto di riflessione del teologo Ratzinger, il quale «scatenò una rivoluzione dell’immagine del mondo non inferiore a quella che per noi si lega al nome di Copernico». Innanzitutto perché «la teoria del fissismo della specie» che «considerava ogni singola specie come una realtà creata da Dio fin dall’inizio del mondo, esistente come qualcosa di separato e distinto da tutte le altre specie […] non è conciliabile con quella evoluzionistica e che questo aspetto della fede di altri tempi non è oggi più sostenibile».

Questa chiarificazione, tuttavia, «non è ancora sufficiente per spiegare il concetto di creazione». La quale, se correttamente interpretata non è affatto in contraddizione con la selezione naturale darwiniana: «la fede nella creazione si pone il problema del perché qualcosa esiste al posto del nulla; la teoria dell’evoluzione si domanda invece perché esistano proprio queste cose e non altre. In termini filosofici si potrebbe dunque dire che l’evoluzionismo rimane sul piano fenomenologico, occupandosi delle singole realtà concrete, mentre la fede nella creazione si muove sul piano ontologico, contempla il miracolo dell’essere, nel tentativo di cogliere il fondamento che sta dietro alle singole cose e di arrivare al mistero di questo “essere” comune a tutte le realtà». Così, sottolineò magistralmente Ratzinger, «la fede nella creazione riguarda la differenza tra il nulla e l’essere, mentre la teoria nell’evoluzione vuole spiegare la differenza tra i diversi esseri».

La presa di distanza del futuro Benedetto XVI dal creazionismo biblico, oggi ancora sostenuto dal mondo protestante e, purtroppo, anche da qualche cattolico, è netta: «è stato eliminato dalla teoria dell’evoluzione. Il credente deve perciò accettare le conquiste della scienza ed ammettere che la maniera in cui egli si era immaginata la creazione, apparteneva ad una concezione prescientifica del mondo, diventata oggi indifendibile». L’interpretazione letterale delle Scritture, danneggia «la comprensione della trascendenza della parola di Dio rispetto a tutte le sue singole forme espressive». Anche l’evoluzione dell’uomo non è più smentibile: «o tutte le singole cose sono prodotto dello sviluppo, e quindi lo è anche l’uomo, oppure non lo sono. Quest’ultima (opzione) è fuori discussione, quindi rimane la prima».

Anche Ratzinger, come il biologo Stephen Jay Gould, propose di separare le due sfere: «la dottrina dell’evoluzione non può assolutamente incorporare la fede nella creazione. In questo senso essa può giustamente indicare l’idea della creazione come inutilizzabile per sé: non può stare fra i materiali positivi alla cui elaborazione essa è vincolata per metodo». Dall’altra parte, però, l’evoluzione biologica «deve lasciare aperta la domanda se la problematizzazione della fede non sia legittima e possibile per sé. A partire da un certo concetto di scienza, al massimo la può vedere come extrascientifica, ma non può vietare per principio alcuna domanda sull’uomo che si rivolga alla questione dell’essere come tale. Al contrario, tali domande ultime saranno sempre indispensabili per l’uomo che vive faccia a faccia con l’Ultimo e non può essere ridotto a ciò che è documentabile scientificamente».

La questione più interessante, allora, è capire se la fede nella creazione può «assumere in sé l’idea dell’evoluzione come un di più oppure se al contrario questa contraddica il suo fondamento». La domanda posta da Ratzinger è: «la rappresentazione di un mondo in divenire è conciliabile con l’idea biblica fondamentale della creazione del mondo da parte del Verbo, con il ricondurre l’essere al senso creatore? L’idea dell’essere espressa nella Bibbia può coesistere con quella del divenire elaborata dalla teoria dell’evoluzione?». Già per i Padri della Chiesa, in realtà, «l’immagine biblica del mondo, così come essa si esprime nei racconti della creazione del Vecchio Testamento, non era affatto la loro. In sostanza appariva antiscientifica a loro tanto quanto a noi».

Arrivando alle conclusioni: «la creazione non è un principio lontano e nemmeno un principio suddiviso in più stadi, bensì coinvolge l’essere contingente e l’essere in divenire: l’essere contingente è abbracciato nella sua interezza dall’unico atto creatore di Dio, il quale gli dà nella sua divisione la sua unità, in cui contemporaneamente consiste il suo essere, che non è misurabile per noi, perché noi non vediamo il tutto, anzi noi stessi siamo solo sue parti. La creazione non è da pensare secondo lo schema dell’artigiano che realizza oggetti di ogni sorta, ma nella maniera in cui il pensiero è creatore». Il pensiero di Ratzinger, così, si avvicina a quello del gesuita Teilhard de Chardin, per il quale «la materia rappresenta un momento nella storia dello spirito. Questa però è solo una diversa espressione dell’affermazione che lo spirito è creato e non è puro prodotto dello sviluppo, anche se si manifesta alla maniera dell’evoluzione. La comparsa dello spirito significa piuttosto che un moto progressivo raggiunge la sua meta stabilita».

Come dunque interpretare l’inizio dell’umanità in Adamo ed Eva, secondo il racconto biblico? «Adamo significa ognuno di noi», rispose Ratzinger. «Ogni uomo è in rapporto diretto con Dio. La fede afferma sul primo uomo nulla di più che su ciascuno di noi e viceversa su di noi nulla di meno che sul primo uomo. Ogni uomo è più che un prodotto di disposizioni ereditarie e ambiente, nessuno è solo risultato dei fattori calcolabili del mondo, il mistero della creazione sta sopra ognuno di noi». Così, a proposito del “primo uomo”: «L’argilla divenne uomo nell’istante in cui un essere per la prima volta, anche se ancora in modo confuso, riuscì a sviluppare l’idea di Dio. Il primo “tu” che fu pronunciato – balbettando come sempre – nei confronti di Dio dalle labbra dell’uomo, indica l’istante in cui lo spirito era nato nel mondo. Qui fu attraversato il Rubicone dell’umanazione». E, tuttavia, «l’istante dell’umanazione non può essere fissato dalla paleontologia: l’umanazione è l’insorgenza dello spirito, che non si può dissotterrare con la vanga. La teoria dell’evoluzione non annulla la fede, e nemmeno la conferma. Ma la sfida a comprendere meglio se stessa e ad aiutare in questo modo l’uomo a capire sé e a diventare sempre più quello che deve essere: l’essere che può dire tu a Dio per l’eternità».

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Argentina, ecco le scomode donne pro-life censurate dai media

Il no all’aborto è nemico della donna e dei suoi diritti. Su questa menzogna si basa sostanzialmente l’approvazione morale dell’interruzione di gravidanza e per gran parte delle persone, purtroppo, poco servono argomentazioni scientifiche sulla personalità dell’embrione. L’unica risposta davvero efficace è mostrare quanto sia condivisa l’interruzione della vita umana da parte delle donne stesse, consapevoli che l’aborto non è un diritto e vietarlo non è discriminazione o riduzione della libertà di scelta.

Questo spiega perché il giorno della vittoria pro-life in Argentina, alcune settimane fa, i media internazionali hanno dato la notizia censurando la marea femminile in festeggiamento scegliendo, invece, volti tristi e disperati di alcune sostenitrici dell’aborto. Alcuni esempi italiani: Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Il Corriere della Sera, RaiNews24 ecc. Unica eccezione, tra i grandi media, Avvenire.

Una scelta giornalistica per nulla casuale -come avevamo denunciato il giorno stesso-, che mai si sarebbe verificata a parti inverse. Allo stesso modo, la sera stessa i gruppi pro-aborto hanno sfogato la frustrazione aggredendo i manifestanti pro-vita con bombe incendiarie, costringendo l’intervento della polizia in tenuta antisommossa. I titoli di giornali però riportavano di “scontri in piazza”, come se si fossero fronteggiate due tifoserie. Se fosse avvenuto il contrario, ancora una volta, certamente avremmo letto titoli scandalistici di “violenti militanti anti-abortisti aggrediscono pacifici manifestanti che difendono i diritti delle donne”.

Nessuno, infine, ha nemmeno riportato i risultati di un sondaggio uscito pochi giorni prima del voto, in cui emergeva come le donne argentine erano maggiormente a favore dell’aborto illegale: 52% contro 39%. Soltanto noi, in Italia, ne abbiamo parlato (e un altro sito web, due giorni dopo, che ha copiato quanto scrivevamo).

E allora eccole qui le migliaia di donne censurate da chi si è proclamato loro paladino, militanti gioiose per l’aborto illegale, che così fastidio danno ai grandi organi di stampa. La discesa in campo delle donne e la loro leadership nell’associazionismo argentino (come l’avvocata María Amelia Moscoso Cardoso), è stata una carta vincente che andrebbe replicata (ma in Italia nemmeno riusciamo ad avere un fronte compatto e non litigioso!).

 

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“Gesù non volle fondare una nuova religione”: come rispondere?

«Gesù non aveva alcuna intenzione di fondare una nuova religione». Questa è la frase più forte emersa dal dibattito avviato dalla rivista Jesus con alcuni studiosi, pronunciata dal prof. Mauro Pesce, ordinario di Storia del Cristianesimo e già autore di tesi controverse esposte nel suo libro con Corrado Augias: Inchiesta su Gesù.

Il tentativo è quello di ridurre Gesù ad un pio ebreo che volle solamente approfondire meglio l’ebraismo, indicando il cristianesimo come un tradimento delle sue reali intenzioni (accusando solitamente San Paolo di essere il fondatore della nuova religione). L’antropologa Adriana Destro, ad esempio, ha aggiunto: «Gesù non vuole formare un gruppo a parte, non fonda una Chiesa. I motivi della morte, dunque, non hanno a che fare con questioni teologiche ma con questioni sociali e politiche». Pesce concorda e, nel libro già citato, aggiunge: «Gesù non vuole cambiare neppure una virgola, se vogliamo usare un termine attualizzante, della Torah, vale a dire della legge religiosa contenuta nei primi cinque libri della Bibbia». Ma queste sono tesi errate.

Da un certo punto di vista è vero, Gesù non parla mai di una nuova religione da fondare. Ed infatti il “cristianesimo” altro non è che quel gruppo di devoti ebrei che, incontrando Gesù, si convinsero tramite l’esperienza e la convivenza con lui, che seguire il suo insegnamento piuttosto che quello della Torah, gli avrebbe portati alla salvezza e alla letizia del cuore. E da quei discepoli si è generato un popolo, i seguaci di Gesù Cristo. Cioè i cristiani, cioè il cristianesimo. Padre Raniero Cantalamessa ha giustamente fatto un’osservazione tecnica: «nessuna religione è nata perché qualcuno ha inteso “fondarla”. Forse Mosè aveva inteso fondare la religione d’Israele o Buddha il buddhismo? Le religioni nascono e prendono coscienza di sé come tali in seguito, da coloro che hanno raccolto il pensiero di un Maestro e ne hanno fatto ragione di vita». Aggiungendo, comunque: «neanche la Chiesa, a rigore, considera il cristianesimo una “nuova” religione. Si considera insieme con Israele l’erede della religione monoteistica dell’Antico Testamento, adoratori dello stesso Dio “di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. Il Nuovo Testamento non è un inizio assoluto, è il “compimento” (categoria fondamentale) dell’Antico». Chi solitamente afferma che il cristianesimo ha tradito le vere intenzioni di Gesù, si dimentica inoltre di quel brano così breve, ma così centrale: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,13-20).

Il volume II della monumentale opera Un ebreo marginale (Queriniana 2003), scritta dal principale biblista vivente, John P. Meier della University of Notre Dame, nota che certamente Gesù non rifiutò del tutto i riti religiosi della comunità ebraica. Tuttavia, «il Nazareno almeno agli inizi del 28 d.C. imperniò la sua vita religiosa su un nuovo tipo di rito che mancava dell’approvazione della tradizione e delle autorità del tempio. Ciò significò l’introduzione di un nuovo rito che, implicitamente, metteva in discussione l’efficacia del culto praticato allora nel tempio e nella sinagoga» (pp. 145, 146). Inoltre, al contrario di Giovanni Battista e degli altri personaggi originali dell’ebraismo di allora, Gesù introduce un fatto radicalmente sconvolgente: la sua stessa persona come strada di salvezza, «il lieto annuncio del già e non ancora del regno di Dio, già presente ma in qualche modo ancora veniente; l’attuazione di questa presenza nelle guarigioni, negli esorcismi e nella comunione di mensa con i peccatori; un insegnamento nuovo e autorevole su come dovevano essere interpretate e praticate la legge di Mosè e la tradizione, e una posizione critica nei confronti del tempio di Gerusalemme». «Era questa esuberante e forse scioccante novità», commenta Meier, «a trovarsi al centro del messaggio, dell’azione di Gesù, dell’attrattiva (o repulsione) che esercitava. Il battesimo conferito da Gesù era il simbolo di una adesione come discepolo al nuovo messaggio che Gesù proclamava e dell’ingresso di chi, uomo o donna, entrava nella realtà nuova che Gesù portava» (pp. 174, 175).

“Scioccante novità”, “realtà nuova”. Questo contraddistingue la figura di Gesù, ben poco conciliabile con i tentativi di presentarlo come semplice “ribelle interno” all’ebraismo del I secolo. Anche perché, commenta Meier, «Gesù contraddistingue i suoi discepoli da tutti gli altri ebrei» (p. 584). Certo, sarebbe sbagliato anche considerarlo come in totale “discontinuità” con ciò che lo precedette: «Una rottura completa con la storia religiosa a lui immediatamente precedente o successiva è a priori inverosimile», ha continuato il biblista statunitense. «Infatti, se fosse stato così “discontinuo”, unico, tagliato fuori dal flusso della storia prima e dopo di lui, sarebbe stato praticamente incomprensibile a chiunque. Senza dubbio, per quanto Gesù fosse originale, per essere un maestro e un comunicatore di successo deve essersi sottoposto ai vincoli della comunicazione, i vincoli della sua situazione storica» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, Vol. 1, Queriniana 2006, p. 166). Ma, attenzione, ciò non toglie che: «il Gesù storico minacciò, disturbò, irritò la gente, dagli interpreti della Legge, passando per l’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, fino al prefetto romano che alla fine lo processò e lo crocifisse […]. Un Gesù le cui parole e i fatti non gli avessero alienato la gente, specialmente i potenti, non è il Gesù storico» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, Vol. 1, Queriniana 2006, p. 173).

Se si legge il già citato Inchiesta su Gesù (Mondadori 2006), lo stesso Mauro Pesce inizialmente sostiene che Gesù si rivolgeva soltanto agli ebrei e non voleva niente più che la liberazione di Israele. Lo fa prendendo come guida il vangelo di Matteo, «un testo con caratteri fortemente ebraici» (pp. 8-13). Tuttavia, dopo poche pagine, riflettendo sul racconto della natività contenuto proprio in Matteo, lo studioso commenta così l’intento dell’evangelista: «vuole mostrare che la rivelazione riguardante Gesù come re dei Giudei e messia è stata affidata a sacerdoti e sapienti non ebrei. In tal modo giustifica il fatto che quel messaggio, che Gesù aveva indirizzato solo agli ebrei, dopo la sua morte può essere diffuso a tutte le genti. Alla fine del vangelo è scritto proprio così: “Andate e battezzate tutte le genti”» (p. 35). E ancora: «Per l’evangelista Matteo ciò significa forse che anche i non ebrei sono destinati a ereditare la salvezza portata da Gesù» (p. 38).

Più evidente la contraddizione di un altro studioso convinto del “tradimento del cristianesimo”, Bart D. Ehrman. «Quando il ricco chiede a Gesù come guadagnarsi la vita eterna, questi gli risponde: “Osserva i comandamenti”», scrive il docente della North Carolina University. Eppure «i primi cristiani pensavano davvero che per guadagnare la vita eterna si dovesse osservare la Legge? Neanche per sogno. Era un’opinione respinta dalla maggior parte dei primi cristiani, persuasi che occorresse credere alla morte e risurrezione di Gesù per ottenerla. Non era la Legge a portare la salvezza bensì Gesù. Allora perché in quel passo Gesù afferma che chi osserva la Legge otterrà la salvezza? Perché quelle erano le parole che pronunciò realmente» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p. 317). E’ sconcertante l’errore di Ehrman, il quale non si accorge che proprio nel brano evangelico del giovane ricco da lui citato (Mt 19, 16-22), Gesù indica esattamente l’opposto: il giovane infatti replica che ha già osservato i comandamenti (cioè la Torah, la legge), «che mi manca ancora?». Ed ecco la sconvolgente novità introdotta da Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi» (detto quasi certamente storico come attestato dalla molteplice attestazione: Mc 10, 18-21//Lc 18,18-22). Dunque, obbedire alla Legge non rende perfetti (cioè santi, diremmo oggi) per Gesù, serve altro: vieni e seguimi, sono io la Via, la Verità e la Vita. Non la Torah e non la Legge. E ancora: se a pagina 319, Ehrman annota che «per Gesù chi vuole entrare nel regno di Dio deve attenersi all’essenza della Torah», a pagina 321 e 323 scrive l’opposto: «Gesù ribadì più volte che il regno di Dio era già presente, qui e ora, anche se in forma ridotta. Si trattava di un’estensione del suo insegnamento sul regno venturo. Chi seguiva Gesù e obbediva alle sue parole stava già sperimentando la futura vita nel regno di Dio […]. Affermò, inoltre, che chi lo seguiva stava già pregustando il sapore del regno venturo. Nel suo ministero pubblico era già impegnato a portare il regno di Dio sulla terra».

In questo ultimo passaggio B.D. Ehrman sta giustamente riconoscendo che per Gesù stesso, la Torah non bastava, era invece la Sua persona a garantire l’accesso al regno di Dio (“già e non ancora”). Egli pretese di essere il Messia (Mc 2,23-28), si pose al di sopra del sabato, ritenne illeciti alcuni comportamenti che i giudei considerano derivati dalla Torah (Mc 10,2-11 // Mc 7,19), addirittura contrastò apertamente l”insegnamento di Mosè. Insegnò in nome della sua autorità, come se egli rivelasse la volontà di Dio. Si sostituì alla Torah, si dichiarò superiore al tempio. Concesse la remissione dei peccati, riservata solo a Dio, scandalizzando i farisei: il motivo della sua condanna fu proprio la sua pretesa divina. Lo storico e teologo spagnolo José Miguel García, della Università Complutense di Madrid, ha osservato: «aderire a Gesù significava negare il giudizio del sinedrio ebraico e mettere in discussione la legge mosaica, per questo fu violenta la reazione delle autorità ebraiche», ed infatti «la prima comunità cristiana (formata dagli apostoli) non condivide nulla con l’ebraismo, non frequentano il Tempio se non per evangelizzare, sanno e affermano di vivere qualcosa di assolutamente nuovo» (J.M. Garcia, Il protagonista della storia, Bur 2008, pp. 339, 400).

Così, la tesi che Gesù non volle creare una nuova religione è tecnicamente errata, non solo perché non ha senso utilizzare un termine sociologico come “religione”, sul quale ancora oggi non c’è un consenso chiaro del suo significato. Al contrario, Gesù volle di fatto introdurre un messaggio, un annuncio fortemente unico, inconcepibile e destabilizzante per gli ebrei suoi contemporanei e non criticò soltanto alcune forme religiose (come fosse un rivoluzionario interno), ma si mise in competizione lui stesso con la Legge ebraica, evidenziandone la sua incompiutezza. Infatti, i discepoli ebrei riconobbero il lui il Messia annunciato da sempre nell’Antico Testamento, ed inevitabilmente ciò produsse immediatamente una netta divisione rispetto agli ebrei che non lo riconobbero (negli Atti degli Apostoli si può leggere quel “noi” e “voi” come conferma).

Ha spiegato Eric Noffke, presidente della Società Biblica Italiana: «a cominciare dal Nazareno fino ad arrivare agli apostoli e ai loro discepoli, la nuova fede in Gesù è andata gradualmente costruendosi come una religione completamente nuova rispetto al giudaismo». Lo stesso Gesù «aveva radicalizzato vari aspetti della fede ebraica, soprattutto l’attesa del Regno di Dio, predicato come una realtà in lui presente e operante […]. Gesù fu maestro, ma fu anche riconosciuto come il Messia atteso, nonostante che la sua predicazione e la sua morte in croce dovessero essere spiegate sovente contro la tradizione messianica mediogiudaica. Paolo, dunque, lungi dal tradire il Gesù profeta del Regno, fu di lui un discepolo fedele e un predicatore instancabile di quanto Dio aveva operato per suo tramite» (E. Noffke, Protestantesimo n.67, Claudiana Editrice 2012, pp. 125-141).

La redazione

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Il matrimonio “roba da stupidi”? Macché, allunga e migliora la vita

Siamo in un periodo storico dove il matrimonio ha toccato il fondo come capacità di attrattiva sociale e le sessuologhe, come la femminista australiana Nadia Bokody, ne parlano come una «scelta stupida ed innaturale». E però, mensilmente, appaiono studi che ne rivelano la bontà e la positività per i coniugi, smentendo tanti pregiudizi.

Le persone sposate, si è scoperto recentemente, hanno oltre il 40% di probabilità in meno di morire per malattie cardiache rispetto a coloro che non lo sono o non lo sono mai state. I risultati ottenuti sono così significativi che «lo stato civile di un paziente dovrebbe essere considerato come un fattore di rischio, insieme a pressione sanguigna e fumo», si legge.

Basandosi su 34 studi in 52 anni ed esaminando i dati provenienti da due milioni di pazienti in tutto il mondo, di età tra i 42 e i 77 anni, tra il 1963 e il 2015, è emerso che il divorzio, ad esempio, era associato a un rischio maggiore del 35% di sviluppare malattie cardiache per ambo i sessi. Sia le vedove che i vedovi, invece, avevano il 16% in più di probabilità di avere un ictus, secondo la ricerca pubblicata sulla rivista Heart. E anche i single hanno mostrato le stesse percentuali.

In generale, si legge, «il fatto di essere non sposati era associato ad un aumento delle malattie coronariche e malattie cardiovascolari e mortali, come l’ictus, nella popolazione generale». Esistono varie teorie sul perché il matrimonio possa essere un fattore protettivo. Tra esse il riconoscimento anticipato dei sintomi; la risposta tempestiva ai problemi di salute; una costanza maggiore nell’assumere farmaci; migliore sicurezza finanziaria; miglioramento del benessere generale; migliori reti di amicizia. Un’altra recente indagine ha osservato che la fertilità delle donne sposate è superiore a quelle non sposate.

Così, al di là delle irriducibili convinzioni post-sessantottine, esiste una corposa letteratura scientifica a sostegno della positività del matrimonio rispetto alla convivenza, alle coppie di fatto e all’essere single. Abbiamo raccolto vari studi scientifici in un nostro apposito dossier.

Se non siamo fatti per condividere la nostra vita più profonda con un’altra persona, per tutta la vita, se è una scelta “masochista” e “per stupidi” –come ci viene detto-, come spiegare questo feeling tra matrimonio duraturo e benessere psicofisico? L’innegabile fatica non ne confuta la bontà perché l’amore lo si vede più nella fedeltà e nel sacrificio che nelle effusioni: «Amare a volte è duro come mordere un sasso», dice il Miguel Mañara, protagonista dell’opera del drammaturgo Milosz. Il matrimonio nell’ottima cristiana e sacramentale, inoltre, è un donarsi, un cedersi continuamente all’altro non appartenendosi più ma divenendo “una sola carne”. La vera domanda è: che vale la vita se non per essere data?

La redazione

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L’ex portavoce di Benedetto XVI smentisce l’anti-papa Viganò

Dopo la prima sparata contro il Papa dal suo rifugio segreto, mons. Viganò sta continuando a fare fuoco ma non si è accorto che il fucile è ormai caricato solo a salve. L’ultimo pettegolezzo del prelato varesino, infatti, riguarda l’incontro del 2015 tra Papa Francesco e Kim Davis, impiegata condannata per aver esercitato obiezione di coscienza rifiutandosi di firmare la licenza matrimoniale a coppie gay. Ma la ricostruzione dei fatti è stata smentita clamorosamente dall’ex portavoce di Benedetto XVI e uno dei più stretti collaboratori del Papa emerito: padre Federico Lombardi.

LE PUNTATE PRECEDENTI. Mons. Viganò ha conquistato la scena una settimana fa attraverso un verboso dossier, ben circostanziato ma privo di prove, in cui ha chiesto a scoppio ritardato le dimissioni a Francesco perché avrebbe disatteso presunte restrizioni segrete del suo predecessore nei confronti del card. McCarrick, accusato di una passata vita omosessuale. Tuttavia, si è scoperto che Viganò ha mentito: proprio Benedetto XVI permise al cardinale di disattendere queste restrizioni, incontrandolo in Vaticano e lasciandolo frequentare eventi d’altro profilo (dunque, alla peggio, le maggiori colpe andrebbero addossate a Papa Ratzinger, malamente coinvolto da Viganò). Il dossier è rapidamente diventato un boomerang in quanto ha permesso di scoprire anche che lo stesso Viganò manifestava pubblicamente “affetto” e celebrava l’Eucarestia con il cardinale che sapeva essere abusatore. Deluso dal mancato impeachment papale, l’ex nunzio apostolico si è rifatto vivo ammettendo che effettivamente il card. McCarrick era libero di presenziare alle udienze del Papa emerito, ridimensionando la sua stessa accusa al Papa attuale di aver permesso «a partire dal giorno della sua elezione» la “disattesa” delle presunte restrizioni di Ratzinger.

NUOVE ACCUSE DI VIGANO’ SUL CASO DI KIM DAVIS. La fiction purtroppo è continuata con una nuova puntata. Viganò ha raccontato al mondo di aver proposto a Francesco di incontrare Kim Davis durante la visita del 2015 negli Stati Uniti, «un incontro personale, assolutamente confidenziale, fuori dai riflettori dei media», ha scritto. L’incontro avvenne, «io organizzai il modo per far venire in nunziatura la Davis senza che nessuno se ne accorgesse, così pure feci previamente promettere alla Davis che non ne avrebbe dato notizia ai media se non dopo il ritorno del papa a Roma». Il Papa, scrive Viganò, incontrò la Davis, la abbracciò e la ringraziò per il suo coraggio ma l’ex nunzio critica gli allora portavoce vaticani poiché, una volta emersa la notizia, smentirono che si trattò di un’udienza privata, riducendolo a saluto informale. Cosa che di fatto fu, lo stesso Viganò lo scrive nel suo recente intervento. L’ex nunzio ha quindi raccontato di essere stato chiamato dal segretario di Stato, Parolin, poiché il Papa era furioso con lui. Ma, a detta di Viganò, avvenne il contrario: «Il papa mi ricevette per quasi un’ora, in modo affettuoso e paterno. Si effuse in continui elogi nei miei confronti per come avevo organizzato la sua visita negli USA, per l’incredibile accoglienza che aveva ricevuto in America, come mai si sarebbe aspettato. Con mia grandissima sorpresa, durante questo lungo incontro, il papa non menzionò neanche una volta l’udienza con la Davis!». Pochi giorni fa, una vittima di abusi sessuali, Juan Carlos Cruz, ha riferito che qualche mese fa in un incontro privato, Francesco gli avrebbe parlato del caso della Davis affermando che «non sapevo chi fosse la donna. Mons. Viganò la intrufolò per un rapido saluto, fecero una grande pubblicità e rimasi inorridito. Licenziai per questo quel nunzio». Chi sta mentendo, si è domandato Viganò. Cruz o il Papa? «È comunque evidente», conclude l’ex nunzio, «che papa Francesco ha voluto nascondere l’udienza privata con la prima cittadina americana condannata e imprigionata per obiezione di coscienza».

Un inconcludente gossip, in cui l’accusa è ridicola: il Papa avrebbe nascosto l’incontro privato con la Davis in un incontro privato (lontano dai media) con Cruz? Anche fosse vero, anche prendendo per oro colato le parole di Cruz, dov’è lo scandalo? Viganò vorrebbe far passare il Papa come nemico dell’obiezione di coscienza? Peccato che, questa volta pubblicamente, proprio tornando da quel viaggio negli USA, ad una domanda di un giornalista sui «funzionari governativi che dicono di non potere, secondo la loro buona coscienza, attenersi a determinate leggi o assolvere ai loro compiti di funzionari governativi, per esempio nel rilasciare licenze matrimoniali a coppie dello stesso sesso» -dunque evidentemente riferendosi, senza nominarla, alla Kevis, Papa Bergoglio rispose: «l’obiezione di coscienza è un diritto umano e se una persona non permette di esercitare l’obiezione di coscienza, nega un diritto. In ogni struttura giudiziaria deve entrare l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano». Più chiaro e pubblico di così! 

PADRE LOMBARDI SMENTISCE. Sulla vicenda però è voluto intervenire ieri sera padre Federico Lombardi, fidato collaboratore di Benedetto XVI, suo portavoce per tanti anni e presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger. Lombardi è stato citato proprio da Viganò e (assieme al suo assistente in lingua inglese, padre Thomas Rosica) ha clamorosamente smentito l’ex nunzio, leggendo gli appunti presi durante l’incontro che ebbe con lui la sera successiva del famoso faccia a faccia tra Viganò e Francesco. In quell’occasione, al contrario di quanto ha riportato l’ex nunzio, il Papa realmente lo rimproverò essendosi sentito da lui ingannato per due motivi. Primo, perché da nunzio apostolico non lo aveva avvertito del potenziale impatto mediatico che, per un saluto informale, rischiò di oscurare il vero motivo della visita negli Stati Uniti e, secondo, per avergli nascosto (o negato) che la Davis era stata sposata quattro volte. Padre Lombardi, infatti, ha letto le parole del Papa che lo stesso Viganò gli riportò allora: «Non mi hai mai detto che aveva avuto quattro mariti!», si lamentò con lui, il Pontefice. Infine, ad una domanda di padre Rosica e padre Lombardi a Viganò, quella sera, se l’incontro fosse stato approvato dal presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti di allora, l’ex nunzio «non ha risposto», consapevole che i vescovi americani non avevano approvato l’iniziativa di Viganò.

 

Ci sono 5 conclusioni che possiamo trarre dal nuovo pettegolezzo vaticano:
1) Mons. Viganò ha mentito ancora: non è vero che il Papa, quando volle incontrarlo dopo il viaggio negli Stati Uniti, non lo rimproverò per aver organizzato l’incontro con Kim Davis. Anzi, è vero il contrario: lo disse lui stesso a padre Lombardi e a padre Rosica.
2) Papa Francesco, all’opposto di quanto vuol far passare Viganò, non ebbe alcun problema a difendere l’obiezione di coscienza dei funzionari pubblici rispetto alle nozze gay, infatti nel viaggio di ritorno dagli USA -come abbiamo dimostrato- ad una precisa domanda diede una precisa risposta: l’obiezione di coscienza è un diritto umano.
3) Papa Francesco ha sgridato Viganò non per avergli fatto incontrare Kim Davis (anche perché lui stesso racconta che il Papa stesso ne fu entusiasta), ma perché Viganò non calcolò e non avvertì del potenziale impatto mediatico che rischiò di oscurare i veri motivi del viaggio pastorale e perché Viganò nascose che la Davis è una pluridivorziata e, dunque, una donna sicuramente coraggiosa per il suo atto di obiezione di coscienza ma una testimone poco credibile nella difesa del matrimonio cristiano.
4) E’ stato l’ex portavoce di Benedetto XVI a smentire Viganò, così come il segretario personale del Papa emerito, Georg Gänswein, lo aveva smentito qualche giorno fa quando il suo (di Viganò) avvocato, Timothy Busch, diffuse la falsa notizia che Ratzinger aveva confermato il famoso dossier. Non è una coincidenza e arriva ben chiara l’indignazione di Benedetto XVI per questa vicenda.
5) Ancora una volta l’uscita di Viganò diventa un boomerang nei suoi stessi confronti.

 

Due giorni fa l’amico Marco Tosatti si lamentava con UCCR per aver difeso Papa Francesco e confutato l’accusa a lui mossa dal dossier Viganò, di cui è stato il correttore di bozza: «Avranno la loro convenienza. È un vero peccato, era un sito interessante. Attendo che commentino la storia di Kim Davis», ha scritto. Beh, lo abbiamo accontentato. Ora siamo noi ad attendere che lui e l’altro compagno della resistenza antipapista, Aldo Maria Valli, facciano i soliti tripli salti mortali per difendere l’indifendibile. Anche se, ad essere sinceri, preghiamo che questa ridicola messinscena a colpi di accuse sgonfie, gossip e pettegolezzi di fronte al mondo finisca. Per il bene di tutti.

AGGIORNAMENTO ORE 22:00
Padre Federico Lombardi ha anche commentato su Tv2000 la scelta di Francesco a non farsi coinvolgere in un botta e risposta con l’ex nunzio Viganò:

La redazione

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Marijuana? Più dannosa di alcol e tabacco, ecco perché

Uno studio recente, apparso sul Journal of Alzheimer’s Disease, oltre ad aver confermato la dannosità della cannabis, ha mostrato anche la sua maggior pericolosità rispetto all’abuso di alcol. L’uso di tale droga, infatti, è associato a 2,8 anni di invecchiamento cerebrale prematuro, rispetto agli 0,6 anni di chi abusa nel consumo di alcol. Cogliamo l’occasione per riprendere un approfondimento di Enzo Pennetta sul tema.

 
di Enzo Pennetta
da Critica Scientifica, 26/06/18

 

Uno degli argomenti usati dal versante antiproibizionista e ripreso nella trasmissione RAI da Roberto Saviano è il confronto tra la cannabis ed altre sostanze (legalizzate) come alcol e tabacco. Ma si tratta di un paragone fuorviante in quanto hanno caratteristiche diverse.

Quello che caratterizza l’effetto della cannabis è l’azione sul sistema nervoso ed è su questo punto che il divieto si basa e, su questo, va verificata la presunta analogia con tabacco e alcol. Il principio attivo del tabacco è la nicotina che agisce sui recettori per l’acetilcolina (Ach) -dove ne imita l’azione del neurotrasmettitore- che sono appunto stati chiamati nicotinici. Questa sostanza, come del resto è esperienza diffusa, non provoca alterazioni negative delle capacità cognitive o di altri aspetti psicologici che sono circoscritti ai sintomi da astinenza, né tanto meno si registrano effetti di questo tipo a medio lungo termine. Negli alcolici la sostanza attiva è l’etanolo che, a bassi dosaggi, ha effetti benefici e manifesta quelli nocivi solamente con un uso eccessivo, come riportato in questo studio.

Nel caso della Cannabis, la situazione è la seguente: il principio attivo responsabile del maggiore effetto ai fini terapeutici riguardo a patologie infiammatorie, immunitarie, psichiatriche è il cannabidiolo (CBD), mentre la sostanza di interesse tossicologico è principalmente il tetraidrocannabinolo (THC). Nelle piante coltivate a scopo “ricreazionale” negli anni ’90, il contenuto medio di sostanza attiva (THC) era tra il 3 e il 4,5%; nel 2008, questo valore era salito all’8%, mentre nell’ultimo decennio sono state prodotte diverse varietà di cannabis con un contenuto di THC superiore al 20%, in alcuni casi fino al 30%.

Le proprietà positive, cioè medicinali, della Cannabis sono legate all’esistenza di una patologia e quindi l’uso ricade nella stessa fattispecie di sostanze come la morfina, di cui nessuno contesta la legalizzazione a fini clinici e divieto ad uso ricreazionale. Gli effetti indesiderati tendono ad aumentare in modo proporzionale all’uso, a livello neurologico un’alterazione della corteccia cerebrale (riduzione) è stata registrata in uno studio del 2014, pubblicato su PNAS. I danni a livello cognitivo sono rilevabili con certezza a breve termine ma la loro persistenza a lungo termine è dibattuta, quello che appare certo è invece l’aumentato rischio di sviluppare comportamenti psicotici, come riferito sul sito della Fondazione Umberto Veronesi: «La marijuana una droga leggera? Può anche raddoppiare il rischio di schizofrenia. La verità è che non esistono droghe leggere o pesanti, è un concetto da superare: sono tutte droghe con effetti deleteri, il rischio e la gravità con cui si manifestano in una condizione patologica sono individuali» (Roberto Cavallaro, responsabile dell’Unità per i disturbi psicotici dell’ospedale San Raffaele di Milano). La scoperta più incisiva è che pure dopo un anno di abbandono della cannabis facilmente i giovani continuano a vivere esperienze subcliniche di paranoia ed episodi di allucinazioni, come quelle osservate durante il consumo continuato.

L’argomento della presunta analogia tra fumo di sigaretta, uso di alcolici e cannabis è dunque da respingere in quanto le tre sostanze hanno caratteristiche tanto diverse a livello neurologico da renderle inconfrontabili e la Cannabis ha effetti incomparabilmente più nocivi.

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Warthegau, il “campo” nazista destinato ai cattolici

La persecuzione di Hitler contro la Chiesa Cattolica in Germania, pur non essendo esente da atti di violenza, ebbe un carattere più lieve rispetto a quella dell’Unione Sovietica di Stalin, dove migliaia di sacerdoti furono uccisi o deportati in campi di concentramento. La ragione è dovuta al fatto che il capo del nazismo riteneva controproducente fare una guerra aperta alle confessioni cristiane, preferendo attuare un’offensiva di tipo amministrativo volta a ridurne lo loro spazio pubblico unita ad una fitta propaganda di discredito del clero.

Come sappiamo dalle confidenze fatte ai gerarchi più vicini, il dittatore tedesco era intenzionato ad attuare una politica più decisa nella lotta contro la Chiesa una volta terminata la guerra: «Il Führer è inesorabilmente determinato ad annientare le chiese cristiane dopo la vittoria» annotava Joseph Goebbels nel suo diario il 24 maggio 1942 (cit. in P.L. Guiducci, Il Terzo Reich contro Pio XII, Edizioni San Paolo 2013).

Vi fu tuttavia una regione in cui i nazisti attuarono una feroce persecuzione contro il clero, assimilabile a quella compiuta in URSS, e questa fu nel territorio del Warthegau in Polonia. Secondo la logica nazista, mentre gli ebrei dovevano essere fisicamente eliminati, i polacchi erano invece considerati dei sottouomini da schiavizzare e attuarono in alcune regioni una vera e propria politica di apartheid. Dopo la conquista del paese, i nazisti colpirono duramente il clero polacco poiché considerato un simbolo dell’identità nazionale polacca e si stima che, durante la guerra, a causa della repressione tedesca, vennero uccisi in quella nazione 6 vescovi, 1932 preti, 580 religiosi, 113 chierici e 289 religiose; mentre la stima delle persone inviate in un campo di concentramento ammonta a 3642 sacerdoti, 389 chierici, 341 fratelli conversi e 1117 suore (R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2002 p. 17).

Tuttavia, molti storici specialisti del Terzo Reich come Michael Burleigh e Ian Kershaw, ritengono che la repressione antireligiosa effettuata nel Warthegau non fu dettata solamente da scopi puramente politici, ma serviva anche come una sorta di banco di prova nella futura politica dei nazisti riguardante la religione. A capo di quella regione, Hitler nominò il Gauleterier Arthur Greiser, fanatico nazista che fu direttamente responsabile della morte di centinaia di migliaia di ebrei e polacchi, e che per questo motivo sarà processato e impiccato nel dopoguerra a Poznan nel 1946. Greiser, pur essendo stato educato nella religione evangelica, aveva abiurato il cristianesimo a causa, a suo dire, della «separazione tra Stato e Chiesa». Nel Warthegau il gerarca nazista, oltre a provocare l’uccisione e l’imprigionamento di centinaia di sacerdoti, monaci e funzionari diocesani, emanò infatti un editto, datato 14 marzo 1940, contenente «13 punti» che rendevano di fatto impossibile il libero esercizio del culto.

Questo documento proibiva l’esistenza di Chiese di diritto pubblico, ammettendo soltanto associazioni di carattere privato che non potevano avere contatti con gruppi esterni alla regione; e i cui componenti potevano essere solamente adulti che avessero fatto richiesta di iscrizione scritta. Queste nuove associazioni non potevano inoltre avere proprietà, raccogliere fondi e neppure svolgere opere di beneficenza. I sacerdoti ammessi dovevano provenire unicamente dal Warthegau ed erano obbligati a svolgere una mansione per provvedere al loro sostentamento. In aggiunta, Greiser fece sciogliere tutte le forme di associazionismo come i gruppi giovanili, proibì di tenere lezioni di catechismo nelle scuole, fece divieto ai tedeschi e ai polacchi di frequentare la stessa Chiesa, e stabilì la chiusura di conventi e monasteri. (A. Duce, Pio XII e la Polonia, Edizioni Studium 2007 p. 154).

La politica antireligiosa di Greiser era guardata con ammirazione dai nazisti, come esempio da seguire in futuro nei rapporti con la Chiesa: «Non c’è posto per le Chiese cristiane – evangelica o cattolica – nel nuovo assetto della Germania. (…) Che questi siano i desideri del Führer lo dimostra il fatto che egli ha incaricato il Gauleiter del Warthegau di seguire tale strada», affermò il responsabile per l’educazione a Francoforte in un discorso tenuto ai funzionari nazisti nel novembre 1940. Frequenti furono le proteste da parte della Santa Sede per la situazione in Polonia, ma queste non ebbero alcun esito. Le rimostranze del nunzio apostolico Cesare Orsenigo ricevevano infatti solo risposte evasive, anche perché formalmente il gauletier Greiser (che sosteneva di avere una missione speciale) non prendeva ordini dal Ministero ma riceveva direttive direttamente da Hitler (si veda R.A. Graham, Il piano straordinario di Hitler per distruggere la Chiesa, da «La Civiltà Cattolica» a. 146, vol. I, pp. 544-552).

L’accusa rivolta a papa Pio XII è quella di non aver fermato l’Olocausto denunciando pubblicamente le atrocità del nazismo; tuttavia, come hanno notato già in passato alcuni studiosi, se il Papa non aveva il potere di salvare i suoi stessi sacerdoti dalla ferocia nazista, che possibilità poteva avere di fermare il genocidio degli ebrei?

Mattia Ferrari

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L’ex nunzio Viganò ha mentito nell’accusa al Papa: ora lo ammette

Nel suo dossier, mons. Carlo Maria Viganò scriveva che solo «a partire dalla elezione di Papa Francesco, McCarrick, ormai sciolto da ogni costrizione, si era sentito libero di viaggiare continuamente, di dare conferenze e interviste». Per questo, l’ex nunzio apostolico ha chiesto le dimissioni al Papa per aver permesso ciò e «non aver tenuto conto delle sanzioni imposte da papa Benedetto». Ieri -a cinque giorni dal suo attacco a Bergoglio- l’ex nunzio apostolico è riapparso, ammettendo che il card. McCarrick viaggiava, dava conferenze e interviste e frequentava liberamente il Vaticano anche prima dell’elezione di Francesco, partecipando alle udienze di Benedetto XVI (e al suo 83° compleanno).

Con grande onestà intellettuale, dunque, mons. Viganò ha riconosciuto, seppur indirettamente, di aver mentito nel formulare la sua accusa al Papa. Non è Francesco ad aver “riabilitato” McCarrickma semmai è stato Benedetto XVI -in primis- a non aver tenuto conto delle stesse (presunte) restrizioni da lui stesso emanate, almeno secondo la versione non provata di Viganò. Come già abbiamo scritto, perciò, si sgonfia e crolla la frettolosa operazione mediatica pensata per chiedere l’impeachment a Bergoglio.

Il solo fatto che l’ex nunzio apostolico Viganò sia dovuto intervenire smentisce i suoi difensori d’ufficio, quelli che assieme ad Aldo Maria Valli avevano liquidato come “irrilevanti” le prove che anche il nostro sito web ha contribuito a rendere pubbliche (ora disponibili anche in inglese). Gli stessi frenetici difensori che stanno cercando con il lanternino prelati che “confermerebbero” il dossier Viganò (dopo aver inventato una conferma di Benedetto XVI, che ha smentito indignato) ma per ora trovano solo qualche vescovo che giura sulla buona fede dell’ex nunzio (negando le prove che mostrano il contrario), accontentandosi del solito abituè dei blog tradizionalisti: Athanasius Schneider, legato alla scismatica Fraternità San Pio X e vescovo ausiliario di una piccola diocesi (34 parrocchie) del Kazakistan. La resistenza, nel frattempo, sta nascondendo che, in queste ore, le conferenze episcopali dell’Argentina, del Perù e della Spagna, il Consiglio delle Conferenze episcopali dell’America Latina, i vescovi del Paraguay, la Chiesa cattolica del Pakistan (i “cristiani perseguitati”), la Commissione episcopati dell’Unione europea, il movimento ecclesiale dei Focolari ecc., stanno esprimendo comunione, fedeltà e vicinanza a Francesco, prendendo le distanze dal subdolo “dossier Viganò”.

Mons. Viganò ha scelto (finalmente) di intervenire su LifeSiteNews, il noto sito web che ben rappresenta la sclerotizzazione della presenza del cattolicesimo quando viene ridotto soltanto alla lotta contro l’aborto e al matrimonio gay. Tematiche -importantissime, ci mancherebbe- di cui sul portale canadese si parla ossessivamente e monotematicamete in decine di post ogni giorno (e per lo meno la guerra aperta a Francesco ha donato un po di variazione sul tema). Nell’articolo si prende atto, seppur con colpevole ritardo, della vita pubblica del card. McCarrick ben prima dell’elezione di Francesco, citando video, foto e documenti che il nostro sito web aveva già mostrato giorni fa.

Giovedì 30 agosto avevamo posto 8 scomode domande a mons. Viganò, dopo aver scoperto che lui stesso -alla faccia delle sue accuse indignate- era risultato complice silente di McCarrick nonostante fosse nunzio apostolico e rappresentante di quel Pontefice che aveva emanato un ordine a vita riservata al cardinale. Venerdì 31 agosto, come già detto, mons. Viganò ha iniziato a rispondere: «Non ero nella posizione di far rispettare» tali direttive, ha spiegato a LifeSiteNews, «soprattutto perché le misure (sanzioni) concesse a McCarrick sono state fatte in modo privato. Questa è stata la decisione di Papa Benedetto». Rispetto al video in cui, nel maggio 2012, mons. Viganò partecipa entusiasta alla premiazione come “Ambasciatore pontificio” di McCarrick, l’ex nunzio apostolico si difende così: «Non potevo dire: “Cosa stai facendo qui?”. Riesci a immaginare? Nessuno sapeva delle sanzioni, è stato un incontro privato. Quindi questo video non ha dimostrato nulla».

Ma la toppa è peggiore del buco. Innanzitutto, Viganò non dimostra in alcun modo l’esistenza di queste restrizioni private emesse da Benedetto XVI: erano scritte? Orali? Nessuno ne era a conoscenza, dice mons. Viganò, per questo non ha potuto farle rispettare. Peccato che mons. Viganò non sia stato solo “silente”, ma abbia perfino celebrato messa fianco a fianco con il cardinale abusatore, dettaglio gravissimo del quale non rende conto. Una cosa è ammettere di non poter fare nulla (e allora avrebbe dovuto dimettersi), un altro è rendersi attivamente complice del tradimento di questo presunto ordine, celebrando la sacralità dell’Eucarestia con un cardinale abusatore, ben sapendo oltretutto che gli era vietato farlo. Anche la sua difesa di quando elogiò pubblicamente McCarrick è risibile: si può anche comprendere che sarebbe stato strano evitare di premiare il cardinale se nessuno sapeva di tali restrizioni a suo carico, ma perché ha sentito la necessità di lanciarsi in quella sperticata manifestazione d’affetto nei confronti del prelato? Poteva scegliere un discorso di basso profilo, una partecipazione sobria ed invece foto e video lo ritraggono in amicizia con McCarrick, stima e affetto manifestati pubblicamente dallo stesso nunzio apostolico davanti ad una platea d’invitati. Evidentemente mons. Viganò non avrebbe mai immaginato di finire sul banco degli imputati per accuse gravi che lui stesso ha ipocritamente rivolto ad altri. Il dossier è un boomerang.

Interessante infine quanto riportato da Edward Pentin, il quale cita una “fonte attendibileˮ vicina a Benedetto XVI la quale ricorda che «l’istruzione» era «essenzialmente che McCarrick doveva tenere un profilo basso. Non c’era stato un decreto formale, ma solo una richiesta privata». Nulla di scritto o di formale, ma una istruzione che, però, fu subito disattesa dato che McCarrick presenziò perfino al compleanno di Ratzinger, il quale lo salutò affettuosamente il giorno delle sue dimissioni. In assenza di una sanzione formale, come invece detto da Viganò nel suo dossier, come si può pensare di accusare Francesco di non averla fatta rispettare? Quando poi, come già detto, il cardinale frequentava il Vaticano ben prima del Papa argentino, davanti agli occhi di Benedetto XVI?

Fin dall’inizio ci siamo occupati quasi esclusivamente dell’impeachment che l’ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò -coadiuvato da Marco Tosatti– ha chiesto per Papa Francesco, il vero scopo di tutta l’iniziativa. Abbiamo così volutamente trascurato il resto del dossier dedicato alla “lobby gay vaticana” che, seppur ben circostanziato con nomi, date e nomine, manca di prove. Ben vengano indagini e approfondimenti in questo senso. Ma si ascolti l’appello di Jim Towey, l’ex assistente conservatore di Bush e attuale rettore della Ave Maria University: «In un momento in cui la Chiesa è turbata dallo scandalo causato da tanti all’interno della deludente gerarchia, gli attacchi personali contro il Vicario di Cristo e la richiesta delle sue dimissioni sono selvaggiamente divisivi e palesemente sbagliati. Quei cosiddetti cattolici conservatori che ora sfidano la legittima autorità del Santo Padre e minano apertamente il suo papato, stanno tradendo i propri principi e ferendo la Chiesa che professano di amare. Ora dovrebbero fermarsi».

La redazione

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Jordan Peterson, un gigante contro i falsi miti del progresso

Genitore 1 e 2, identità fluida, pronomi neutrali e non offensivi, teoria gender, stepchild adoption ecc. Ecco i falsi miti del progresso, ma siamo in pochi a smascherarli come tali: i più non percepiscono la loro pericolosità oppure sono impauriti. E gli intellettuali? Si accodano, evitandosi problemi con i media, ma alcuni resistono. Tra essi Jordan Peterson, uno dei più influenti opinionisti canadesi.

Affermato psicologo clinico, insegna Psicologia all’Università di Toronto e dal 2013 condivide interessanti podcast (serie di video) sul suo canale Youtube, a cui sono iscritte oltre 1 milione di persone. In Canada, la sua opinione sull’attualità è un punto di riferimento fondamentale per migliaia di persone.

E’ raro che un personaggio di questo calibro non si accomodi, ma scelga di inimicarsi il mainstream mediatico ed accademico progressista, eppure è quel che è avvenuto. La sua forte critica al political correctness si è strutturata nell’avversione al postmodernismo, al white privilege (gli inconsapevoli privilegi che la società occidentale offre alle persone di pelle chiara), al femminismo, alla gender identity e alle argomentazioni Lgbt in generale. «Le famiglie, unite, eterosessuali formate da due genitori costituiscono il fondamento necessario per una politica stabile», ha affermato in una recente occasione il celebre psicologo canadese. « La famiglia tradizionale ha funzionato abbastanza bene per tutta la storia dell’umanità, se cambiamo ciò lo faremo a nostro rischio e pericolo. I giovani hanno bisogno di modelli di ruolo per ciascun sesso. So che è una cosa terribile da dire, ma è così. Quando si sostiene che l’unità familiare tradizionale è solo un altro costrutto e non qualcosa di fondamentale per la nostra comunità, non si ha alcuna prova per tale affermazione e, anzi, esistono molte contro-prove».

Nel 2016, ne abbiamo parlato anche noi, ha fatto notizia la sua decisa opposizione ad utilizzare pronomi neutrali (né maschili, né femminili) per indicare gli studenti universitari, così come proposto dal disegno di legge Bill C-16 nel tentativo di evitare presunte discriminazioni di genere alle persone transessuali. I suoi video ed articoli hanno creato grande scalpore, generando manifestazioni e proteste da parte del mondo arcobaleno nell’università di Toronto, la quale gli ha inviato due lettere di ammonimento, chiedendo il suo silenzio.

Sono interessanti le ragioni con cui ha argomentato la sua opposizione. «Un mese fa, ho pubblicato tre video sul mio canale YouTube, per parlare contro la follia politicamente corretta della nostra cultura», ha scritto. «Mi sono opposto in modo specifico al Bill C-16». La cosa più scandalosa che ha dichiarato, ha proseguito Peterson, «è che non avrei usato quelli che sono diventati noti come “pronomi preferiti” per riferirsi a persone che credono che il loro genere non si adatti perfettamente alle categorie tradizionali di maschio e femmina. Non userò mai parole che odio, come le parole di moda e artificialmente costruite “zhe” e “zher”. Esse sono all’avanguardia di un’ideologia postmoderna della sinistra radicale che detesto, e che è, nella mia opinione professionale, spaventosamente simile alle dottrine marxiste che hanno ucciso almeno 100 milioni di persone nel 20° secolo».

Non lo dice da profano: «Ho studiato l’autoritarismo di destra e di sinistra per 35 anni, ho scritto un libro, “Maps of Meaning: The Architecture of Belief”, sull’argomento, che esplora come le ideologie dirottano il linguaggio e le credenze. Dai miei studi sono arrivato a credere che il marxismo sia un’ideologia omicida. Credo che i suoi epigoni, nelle università moderne, dovrebbero vergognarsi di se stessi per continuare a promuovere idee così viziose, insostenibili e antiumane e per indottrinare i loro studenti con queste credenze. Perciò, non ho intenzione di mettere nella mia bocca parole marxiste. Questo mi renderebbe un burattino della sinistra radicale, e non succederà».

Entrando nell’argomento del gender e parlando da professionista della mente umana, Peterson ha spiegato che «il Bill C-16 è basato su assurdità assolute: il sesso è un fatto biologico determinato dall’anatomia e dai cromosomi. Indipendente dal sesso biologico, esisterebbe un’identità di genere (che, secondo la Commissione per i diritti umani dell’Ontario, è il senso personale di essere “una donna, un uomo, entrambi, nessuno dei due o dello stesso genere”). Indipendentemente da ciò, esisterebbe un’espressione di genere (come una persona “esprime pubblicamente il proprio genere”, incluse le scelte di moda, vestiti, capelli e trucco). Questi sarebbero puramente scelte soggettive. Esaminiamo queste affermazioni. Primo, oltre il 99% della popolazione ha un’identità di genere identica al suo sesso biologico. In secondo luogo, esistono prove schiaccianti che indicano che uomini e donne differiscono notevolmente, per ragioni biologiche, nella loro identità di genere, definita in modo più preciso come la loro personalità e i loro interessi. Il sesso biologico e l’identità di genere sono quindi fortemente e causalmente collegati e nessuna legislazione cambierà ciò. In effetti, le differenze tra uomini e donne sono così grandi che non c’è quasi nessuna sovrapposizione. Uomini e donne si differenziano nella loro psicologia per ragioni sociali e biologiche e, se si rimuove l’influenza sociale, l’influenza biologica diventa più forte. Quindi, non solo i tentativi fatti in Scandinavia per sradicare le differenze tra uomini e donne sono falliti, ma si sono ritorti contro. E questi non sono studi di poche centinaia di persone: decine di migliaia di partecipanti hanno fornito informazioni sulla personalità e descrizioni dei loro interessi personali. Ma a chi importa cosa dice la scienza, quando c’è in gioco l’ideologia?».

La minaccia che Peterson percepisce è relativa sopratutto alla libertà cognitiva: le parole sono parte integrante della nostra capacità di pensare e quindi della nostra libertà di dare un senso al mondo: imporle, modificarle o vietarle significa minare tale libertà. La città di New York, ha spiegato ancora lo psicologo, «è pronta a multare fino a 250 milioni di dollari se i cittadini si rifiutano di parlarsi in modo corretto», ovvero non utilizzando una lista con 31 tipi di generi differenti. Recentemente è stato protagonista di un video virale su Youtube (oltre 8 milioni di views): una giornalista contraria alle sue opinioni, Cathy Newman, gli ha chiesto: «Perché la tua libertà di parola dovrebbe prevalere sul diritto di una persona transessuale a non essere offesa?». Risposta di Peterson: «Perché per essere in grado di pensare, devi poter rischiare di essere offensivo. Sicuramente tu sei disposta a rischiare di offendermi nella ricerca della verità. Perché dovresti avere il diritto di farlo? Stai facendo quello che dovresti fare e stai esercitando la tua libertà di parola, sicuramente rischiando di offendermi, e va bene. Più potere a te, per quanto mi riguarda».

Peterson si è descritto come un classico liberale britannico, da qualche tempo ha inaugurato una serie di conferenze sul racconto biblico della Genesi. Alla domanda se crede nella resurrezione di Cristo, ha risposto: «Finirò la mia serie di conferenze sulla Bibbia, e spero di poter approfondire ciò con la profondità che richiede». Ma si definisce cristiano? «Io non lo faccio, gli altri dicono che lo sono. Non mi oppongo, ma è complicato. Non è sbagliato, ma non sono sicuro che ciò che intendo sia generalmente ciò che si intende per essere cristiano. Se sei un cristiano hai una responsabilità etica: imitare Cristo, hai bisogno di assumerti la responsabilità del male nel mondo come se ne fossi responsabile, prendere i peccati del mondo su te stesso. E devi capire che tu determini la direzione del mondo, che sia verso il paradiso o l’inferno, con le tue azioni verbali, e devi assumerti la responsabilità di questo. Direi che se fai queste cose sei un cristiano, ma non penso che sia così che la gente concettualizza in generale il cristianesimo».

Pochi giorni dopo la Pasqua, lo psicologo canadese ha condiviso su Twitter un articolo dello studioso del cristianesimo antico, Gary Habermas, in cui si avanzano argomenti a favore della storicità della morte e della resurrezione di Cristo. Jordan Peterson è un intellettuale di spessore e finora si è dimostrato un grande alleato nello smascheramento dell’ideologia marxista sulla sessualità.

La redazione

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«O rinneghi Gesù o perdi il bambino». La vita dei cristiani in terra islamica.

L’associazione Open Doors USA ha diffuso la storia di Sameda, una donna che vive in un paese asiatico. E’ diventata cristiana tre anni fa abiurando l’Islam. Non potendo rimanere nubile (la cultura locale non lo consente) ed essendo praticamente assenti gli uomini cristiani, Sameda ha sposato un musulmano. Non le restava altra scelta e la pressione sociale ha avuto la meglio.

All’inizio, le differenti religioni non hanno influito sulla loro vita matrimoniale. Anzi, Sameda racconta di un matrimonio riuscito e di una convivenza felice. Ma i problemi sono emersi: dopo poco tempo il marito ha iniziato ad usarle violenza sia verbale che fisica, arrivando a picchiarla addirittura durante la gravidanza. Per Sameda aderire alla religione Cristiana era impegnativo e pregnante, ed agli occhi del marito questo iniziava ad essere insopportabile.

Ma il peggio doveva venire: alla nascita della loro figlia, il marito ha chiesto a Sameda di abiurare e di tornare all’Islam. «Non posso escludere Cristo dalla mia vita», ha risposto la donna. Così è arrivato l’ultimatum: abbandonare il Cristianesimo o essere abbandonata e privata della figlia. All’ennesimo rifiuto, Sameda è stata cacciata di casa, con sua figlia in braccio e senza alcun mezzo di sussistenza sia per lei che per la piccolina. Ora vive con la madre, ma la sua paura non è finita ma semmai accresciuta: difatti il marito ha presentato istanza di divorzio che, se fosse accettata a causa della religione, priverebbe d’ufficio la donna sia della potestà sulla bambina sia della sua custodia: praticamente verrebbe cancellata la sua identità di mamma. La legge islamica infatti in questi casi concede al marito quanti più poteri sulla moglie e sulla prole: in alcuni casi, egli può decidere dove e come farli vivere, ed anche se scegliesse condizioni insopportabili nessuno potrebbe contestarlo. Sameda continua a pregare per l’unità della sua famiglia, ma soprattutto perché abbia la forza di mantenersi fedele a Cristo ed attende la sentenza di divorzio.

A luglio, la stessa Open Doors , che monitorizza le persecuzioni religiose nel mondo, diffondeva la storia di Noami, una Cristiana del Mali che offriva il perdono ai jihadisti inviati dalla sua stessa famiglia per ucciderla: in quei Paesi, purtroppo, la stretta sociale impone anche alla famiglia dell’apostata di prendere posizione pubblica e severissima nei confronti del familiare. Non sono rare le “Noami” uccise a motivo dell’apostasia e, malauguratamente, le leggi di quegli Stati giudicano anche in maniera molto “magnanima” gli assassini che si rendono tali per questi motivi. Al caso di Sameda, che come Cristiana madre e moglie non gode di alcun diritto, si aggiungono casi di convertiti al Cristianesimo perseguitati e spesso uccisi dai loro stessi familiari in quanto l’apostasia è ritenuta dalla legge islamica reato punibile con la pena di morte.

Anche le nostre cronache nazionali hanno riportato casi di donne islamiche uccise soltanto perché troppo occidentalizzate: ed anche qua l’infedeltà formale o sostanziale alla religione islamica non perdona e non si trova misericordia neppure fra padri e madri della persona che si discosta dall’Islam, anche solo nei modi. Spesso, anzi, sono proprio i genitori a dover “riparare gli errori” delle figlie.

L’Islam è una religione che fa del proselitismo forzato un suo punto fondamentale, quindi “cedere” chiunque ad altre religioni, ed in special modo a quelle “del Libro” (Cristianesimo e Giudaismo), è una gravissima mancanza nei confronti di Dio. E’ certo da sottolineare come Sameda e Noami, e chissà quanti altri, offrano al mondo una testimonianza profondamente Cristiana: non vendetta, non abiura, non maledizioni ma perdono, fedeltà ed accoglienza nel Nome di Gesù Cristo il Quale, come ben sappiamo, è motivo di scandalo. Non per nulla in quei Paesi ove Egli è riconosciuto solo come profeta od in altri dove non è riconosciuto affatto, per noi Cristiani la convivenza è difficile se non addirittura pericolosa per la nostra vita stessa.

Vigono violenze a causa del Suo Nome, come ci è stato ampiamente anticipato: la vendetta, la violenza, la sopraffazione, il maltrattamento, la discriminazione, il sopruso si cibano dell’assenza della Parola. Osserviamo un planisfero attraverso la lente della religione praticata in ogni Paese ed avremo questa conferma: anche se temporaneamente, l’anticristo vive dove Cristo non è confessato. Preghiamo per i Cristiani a qualsiasi titolo perseguitati e anche per quelli che vivono ancora nell’ombra della morte.

Carla Vanni

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