Giornalista pro-life sotto scorta dopo minacce di morte, torna la violenza abortista

Aborto e violenza. La giornalista Denise McCallister è tuttora protetta dalla polizia in un luogo segreto dopo la quantità di minacce alla vita ricevute a seguito di un suo tweet contro l’interruzione di gravidanza. Numerosi arresti si sono verificati nei giorni scorsi per altrettanti casi simili.

 

E’ stata vittima di uno stupro e da quel giorno ha conosciuto tante donne che hanno vissuto la stessa brutale esperienza. Molte di esse sono rimaste incinta, dopo quel terribile giorno, e tuttavia hanno scelto di portare a termine la gravidanza. Denise McAllister, giornalista di Fox News, ha stimato a tal punto tale decisione che è diventata una attiva militante pro-life.

Recentemente ha scritto un tweet: «Alla base dell’isteria dell’aborto c’è il desiderio sconvolto delle donne per il sesso irresponsabile. Il sesso è il loro dio. L’aborto è il loro sacramento», ha twittato. «E’ aberrante quando le donne decidono di gettarsi dalle vette della forza civilizzatrice del mondo nella melma e nel fango della depravazione disumanizzante».

Parole dure e forti, forse troppo, che però non possono giustificare quanto è accaduto in seguito. Un’ondata di violenza l’ha investita, fatta da insulti ed esplicite minacce di morte. «Sono messaggi privati, in particolare, in cui gli autori mostrano di sapere dove vivo», ha raccontato McAllister. «Minacce di stupro e strangolamento. Ho appena parlato con la polizia».

La giornalista ha dovuto nascondersi assieme alla sua famiglia in un luogo sicuro e ha ottenuto la scorta armata della polizia. Questo significa che le forze dell’ordine hanno valutato come credibili le minacce del mondo pro-choice. Intervistata dalla stampa, McCallister ha spiegato con altre parole il senso del suo tweet: «Non puoi semplicemente mettere fine ad una vita umana solo perché non hai voluto essere responsabile delle tue azioni, solo perché hai dato un valore più alto al fare sesso che alla vita umana».

A tema comunque ritorna l’incredibile espressione di violenza ed intolleranza degli attivisti dell’aborto. Guardiamo cosa è accaduto soltanto nei mesi scorsi. Solo pochi giorni fa è stato arrestato Laurence Wayne Key, un volontario di Planned Parenthood -la catena di cliniche abortiste più grande degli USA- per aver minacciato di uccidere i figli di un membro del Congresso, un deputato pro-life. Lo stesso è accaduto all’inizio di agosto quando la polizia ha arrestato Dereal Finklin che a sua volta ha minacciato la vita del deputato repubblicano Chris Smith, preso di mira a causa delle sue idee a favore della vita.

Pochi giorni dopo la polizia ha arrestato Kevin M. Brooks, un uomo che ha puntato un fucile addosso ad un manifestante pro-life fuori dalla Hope Clinic for Women, una clinica abortista a Granite City. A dicembre, una ragazza di 15 anni è stata presa a pugni in faccia e gettata a terra da un attivista pro-choice fuori da una clinica abortista a Roanoke (Virginia). Minacce fisiche, con tanto di coltello, si sono verificate in California e in Florida. Più volte abbiamo documentato questa escalation di violenza ai danni di chi difende la vita umana.

«Ogni paese che accetta l’aborto non sta insegnando alla sua gente ad amare, ma ad usare la violenza per ottenere quello che vuole», scrisse Madre Teresa di Calcutta.

La redazione

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Al pranzo con Francesco solo immigrati regolari: un messaggio chiaro

Bergoglio e immigrazione. Accoglienza cristiana, ma che sia prudente e, sopratutto, legale e regolamentata. Durante la visita di ieri alla Missione Speranza e Carità in Sicilia, gli organizzatori papali hanno voluto rimarcare in modo concreto il pensiero del Papa, così spesso travisato, accogliendo nella sala da pranzo solamente gli immigrati con regolare permesso di soggiorno.

 

E’ giunto poco dopo l’ora di pranzo alla Missione Speranza e Carità di Biagio Conte. Nel suo viaggio pastorale in Sicilia in memoria di padre Pino Puglisi, Papa Francesco ha scelto di condividere il pranzo con gli ospiti della struttura: poveri, ex detenuti, volontari e migranti.

A proposito di questi ultimi, la Santa Sede ha voluto lanciare un piccolo messaggio, in coerenza con la predicazione del Papa: dovendo necessariamente operare una selezione tra coloro a cui è stata data la possibilità di pranzare con il Pontefice, si sono preferiti gli immigrati con regolare permesso di soggiorno.

Una chiara disposizione del Vaticano, almeno secondo la ricostruzione del vaticanista di Repubblica, Paolo Rodari. Niente pranzo con il Papa ai migranti irregolari,  anche se poi Francesco ha salutato tutti con affetto. A tavola accanto al Papa, il missionario laico Biagio Conte, padre Pino e alcune delle 160 persone (su 1300) a cui è stato dato il pass. Le fotografie hanno impressionato molti, sopratutto la scelta evangelica di Francesco di sedersi alla stessa mensa degli ospiti, condividendo lo stesso vassoio di plastica trasparente e lo stesso cibo che la struttura ha offerto a tutti. Niente menù d’alta cucina, niente tavolo riservato, nessun trattamento da vip. Spazio anche per una durissima accusa alla mafia, sulle orme di Giovanni Paolo II: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi: chi è mafioso bestemmia con la vita il nome di Dio-Amore», ha detto Francesco.

Solamente pochi giorni fa, il Pontefice confermava il suo pensiero sul delicato tema immigratorio, totalmente differente da quanto falsamente gli viene attribuito dai Marcello Veneziani e altri turiferari anti-papisti. «Accogliere lo straniero è un principio morale», ha spiegato tornando dal suo viaggio in Irlanda. «Ma non si tratta di accogliere “alla belle étoile”, no, ma un accogliere ragionevole. Occorre la prudenza dei popoli sul numero o sulle possibilità: un popolo che può accogliere ma non ha possibilità di integrare, meglio non accolga. Lì c’è il problema della prudenza. E credo che proprio questa sia la nota dolente del dialogo oggi nell’Unione Europea».

Papa Bergoglio si è anche dimostrato ben consapevole che «le rotte migratorie sono spesso utilizzate da trafficanti e sfruttatori per reclutare nuove vittime della tratta». Per questo, ha aggiunto, «si deve accogliere con la virtù della prudenza, perché un Paese deve accogliere tanti rifugiati quanti ne può integrare, educare, dare lavoro». Nella sua intervista a La Croix, ha ribadito: «Non siamo in grado di aprire le porte in modo irrazionale», valorizzando «un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche», il quale «non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione».

Un Paese accolga fino a quanto può, non di più, perché non riuscirebbe ad integrare. Accoglienza, ma prudente e, sopratutto, l’immigrazione dev’essere regolare e con regolare permesso di soggiorno. Nel pranzo di ieri, gli organizzatori papali del viaggio hanno voluto rimarcare tutto ciò in modo concreto, escludendo dal pranzo gli immigrati irregolari, anche rischiando accuse di discriminazione. Eppure, non c’è stata alcuna polemica, forse perché si è ben capito essere stata una scelta simbolica per aiutare a comprendere meglio il pensiero del Papa su questo fenomeno, così (volutamente) travisato e fatto passare per uno sponsor di un immigrazionismo massiccio e privo di regole. Una falsa immagine del Papa creata dai suoi tanti, troppi, nemici.

La redazione

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L’ex boia dell’Isis che ha trovato pace convertendosi a Cristo

La conversione dei musulmani. In Iran il percorso dell’ex terrorista dell’Isis, il gruppo jihadista. Ma sono tante le storie di conversione dall’Islam e molte hanno a che fare con i sogni.

 

Heart4Iran è un’associazione di cristiani dediti all’evangelizzazione in Iran, a stretto contatto con i musulmani. Gestiscono anche un canale televisivo, Mohabat TV, che affronta l’attualità e assiste la chiesa cristiana iraniana. Nel milione di telespettatori quotidiani, però, vi sono anche tanti islamici.

Qualche mese fa al centralino del canale televisivo è arrivata una telefonata particolare. Nazanin Baghestani, supervisior di Mohabat TV, ha raccontato di aver parlato con un uomo che si è rivelato essere uno dei boia dell’Isis, il gruppo terrorista jihadista. Voleva capire qualcosa di più su Cristo, raccontando di sperimentare frequenti incubi e inquietudini.

Nazanin si è incontrato con l’uomo, il cui nome è tenuto riservato, e ne è nata un’amicizia, un dialogo. «Una notte», ha detto, «dopo aver pregato e parlato con lui e aver letto una pagina del Vangelo, finalmente si è addormentato. Al risveglio, mi ha guardato dicendomi: “E’ stata la prima notte in cui ho potuto dormire in pace”». Da quanto ha raccontato il responsabile di Mohabat TV, l’ex boia ha iniziato un cammino di perdono verso se stesso, trovando pace e libertà in Cristo, anche a fronte dell’immenso male che è sempre più consapevole di aver commesso.

Seppur l’uomo rimanga anonimo non c’è motivo di dubitare. Non è certo un caso isolato: sono molti i musulmani che hanno orientato la loro strada verso il cristianesimo, nonostante la severa persecuzione e le difficoltà quotidiane vissute in Medio Oriente. Molto spesso Gesù si svela a questi uomini, compresi combattenti dello Stato Islamico, attraverso i sogni. Sono notizie giunte anche in Italia, come la conversione di Abu Hamza, giudice della Sharia dell’esercito estremista islamico di al-Fath, nonché membro e fondatore di al Qaeda: «Sono figlio di una famiglia musulmana», ha raccontato l’ex jihadista in un video, «e sono nato in Siria. Sin dall’infanzia avevo deciso di percorrere la via del jihad per l’islam». Durante il secondo arresto, mentre era in prigione, ha tuttavia sognato di trovarsi in una chiesa vuota di fronte al crocifisso: «Ero convinto che fosse l’opera del demonio che mi tentava». Venne scarcerato e continuò il ruolo di giudice del Califfato durante la rivoluzione siriana, ma iniziò a dubitare di Allah. L’agnosticismo lo portò a viaggiare in Europa, in Austria e poi in Germania, dove vide l’esterno di una chiesa su una collina, la stessa che faceva capolino nei suoi “incubi” durante la prigionia. Si trovava ad Hannover, vi entrò dentro riconoscendola come tale.

Il fenomeno non è da sottovalutare, perfino il New York Times se n’è occupato raccontando la storia di Bashir Mohammad, ex combattente di Al Qaeda. Scandalizzato dalla morte, si è fermato quando ha visto musulmani uccidere musulmani. «Mentre lui e la moglie, Riashid, iniziavano a considerare di lasciare l’Islam», si legge, «la donna ha riferito di aver sognato una figura biblica che usava i poteri celesti per dividere le acque del mare, e Mohammad interpretò come un segno di incoraggiamento da parte di Gesù».

L’austriaco card. Christoph Schönborn, ha assicurato di aver personalmente battezzato diversi convertiti musulmani, i quali «sono aumentati considerevolmente nell’arcidiocesi di Vienna. Oltre il 50% dei convertiti adulti negli ultimi due anni si è convertito dall’islam». C’è anche uno studio del 2015 pubblicato sul Journal of Research on Interdisciplinary Religion a certificare che effettivamente sono in atto numerose conversioni dall’Islam: Duane Alexander Miller e Patrick Johnstone, gli autori, hanno quantificato una stima di poco meno di 10 milioni di convertiti.

Dudley Woodbury ha studiato l’attrattiva verso il cristianesimo da parte di questi musulmani e ha scoperto che ad affascinare c’è lo stile di vita dei cristiani, l’amore che hanno mostrato nei loro rapporti con i non cristiani e il loro trattamento delle donne da pari a pari. Ed inoltre, la credibilità della Bibbia: ai musulmani viene insegnato che la Torah, i Salmi e i Vangeli provengono da Dio, ma sono stati corrotti. Eppure i neo-convertiti raccontano che la verità di Dio scoperta nella Scrittura divenne per loro una chiave convincente per la loro comprensione del carattere di Dio.

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Un’etica atea? Le inevitabili contraddizioni del filosofo Sam Harris

Un’etica atea che fondamenta può avere? Il libro Il paesaggio morale di Sam Harris (uno degli ultimi nuovi atei), seppur cerchi di dimostrare il contrario, mostra l’impossibilità per chi rifiuta un Assoluto di allontanarsi dal mero relativismo e dal soggettivismo etico.

 

The Moral Landscape è uno dei libri più famosi del filosofo Sam Harris, nonché uno dei tentativi più audaci di definire i confini di una morale laica (o atea). Fallimentare, tuttavia, come vedremo. Lo dimostrano anche le numerose critiche ricevute anche in ambito ateista, come quelle del filosofo Massimo Pigliucci.

Certamente Harris ha cambiato le carte in tavola in quanto, fin dal principio del suo volume (tradotto in italiano con il titolo Il paesaggio morale. Come la scienza determina i valori umani), ha voluto combattere l’idea che un ateo possa soltanto essere un puro relativista e debba abbracciare l’amoralità, in quanto privo di un fondamento razionale su cui definire il Bene e il Male. Nient’affatto, il filosofo statunitense rivendica l’oggettività dei valori e dei doveri morali, ovvero validi e vincolanti indipendentemente dall’opinione umana. L’Olocausto è stato un Male oggettivo, anche se alcuni (i nazisti) lo ritennero un bene e sarebbe rimasto un Male anche se i tedeschi avessero vinto e convinto il mondo intero della bontà delle loro azioni.

E’ quindi inevitabile lo stupore. Cosa rende certe azioni oggettivamente buone o cattive, giuste o sbagliate? Un credente ritiene che l’uomo abbia un insito codice morale, dono del Creatore, a cui fare affidamento, tanto che anche chi sbaglia -se la ragione non è completamente obnubilata- è consapevole di sbagliare. Ma come conciliare la non esistenza di Dio con l’esistenza oggettiva del Bene ed il Male, cioè preesistenti l’uomo stesso? Questo non significa affatto che l’ateo è un essere immorale, ma solamente che le tante azioni buone che compie non sembrano avere un coerente fondamento razionale nel pensiero ateo.

Harris ha quindi imboccato una strada davvero ardua. Dal punto di vista ateo, gli esseri umani sono solo prodotti accidentali dell’evoluzione biologica ed il loro benessere non dovrebbe valere di più di quello degli insetti, dei ratti o dei serpenti, a meno di abbracciare un ingiustificato antropocentrismo. I valori morali altro non sono che sottoprodotti comportamentali della selezione naturale e del condizionamento sociale. L’homo-sapiens, pressato socio-biologicamente- avrebbe casualmente evoluto una sorta di “moralità” che lo aiuta nella perpetuazione della specie, ma nulla rende tale carattere genetico una morale oggettivamente vera. Infatti, il divulgatore scientifico (ateo) Michael Ruse afferma: «La moralità è un adattamento biologico non meno di mani, piedi e denti. L’etica è illusoria: mi rendo conto che quando qualcuno dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, pensa di riferirsi ad un codice al di sopra di sé, tuttavia tale riferimento è veramente senza fondamento, la moralità è solo un aiuto alla sopravvivenza e alla riproduzione e ogni significato più profondo è illusorio» (M. Ruse, in The Darwinian Paradigm, Routledge 1989, pp. 262, 268, 289).

Sempre in un paradigma ateo, pensare che gli esseri umani siano speciali e confidare nella verità del nostro codice morale è un pregiudizio ingiustificato verso la propria specie. Specismo, direbbero i vegani. Senza Dio, non c’è una base al di fuori dell’uomo per definire oggettivamente vera la moralità umana, dato che l’uomo altro non è che una accidentale creatura scimmiesca casualmente apparsa su un minuscolo frammento di polvere del cosmo. Dal suo punto di vista, Richard Dawkins dice il vero: «Non c’è in fondo alcun progetto, nessuno scopo, niente di male, niente di buono, nulla, solo indifferenza insensata. Siamo macchine per propagare il DNA, è l’unica ragione d’essere di ogni oggetto vivente» (R. Dawkins, Unweaving the Rainbow, Allen Lane 1998).

Come pensa, quindi, di uscirne Sam Harris? Il suo trucco è quello di ridefinire il significato di “bene” e “male” in termini non morali, equiparando il Bene a tutto ciò che conduce verso il «benessere delle creature coscienti». «Il bene e il male devono consistere solo in questo: miseria contro benessere […]. Parlando di “verità morale”, sto dicendo che ci devono essere fatti riguardanti il ​​benessere umano e animale» (p. 198). È evidente che si tratta di un mero gioco di parole: Harris ha sostituito i valori morali con ciò che è favorevole alla prosperità della vita senziente su questo pianeta.

Ma qui nascono i problemi: secondo il ragionamento di Harris (che non è un neuroscienziato, avendo solo un dottorato in neuroscienze!), l’uccisione degli esseri umani è ovviamente contro al benessere umano e quindi immorale. Tuttavia, in una società di cannibali, il cannibalismo equivarrebbe alla prosperità umana e, dunque, l’omicidio diverrebbe il Bene. L’approccio naturalistico di Harris, quindi, ritorna ad essere figlio del relativismo che intende combattere. Il benessere umano non sempre coincide con la bontà morale e se lo si vuol far coincidere a tutti i costi allora crolla l’impianto anti-relativistico di Harris. Il filosofo ateo non fornisce infatti alcuna giustificazione o spiegazione del perché l’ateismo dovrebbe appoggiarsi su valori morali oggettivi, se non escogitando un trucco semantico per fornire una ridefinizione arbitraria e idiosincratica delle parole “buono” e “cattivo” in termini non morali.

Il ricorso di Harris al naturalismo scientifico sopravvaluta le potenzialità della scienza. Essa, come ha ben spiegato il filosofo William Lane Craig, ci dice solo ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Sopratutto non ci dice affatto che abbiamo l’obbligo morale di intraprendere azioni che favoriscano il benessere umano. Dal punto di vista naturalistico gli uomini sono animali e gli animali non hanno obblighi morali gli uni verso gli altri: quando lo squalo bianco copula a forza con una femmina, non la sta violentando poiché non c’è una dimensione morale in tali azioni. Né divieti, né obblighi.

Da dove arrivano gli obblighi morali, senza Dio? Chi li impone all’uomo? Tuttalpiù sono un’impressione soggettiva ed arbitraria: i nazisti ritengono un bene l’Olocausto, gli ebrei sono del parere opposto. Niente di più. Se non esiste un Legislatore morale, allora non esiste una legge morale oggettiva; e se non esiste una legge morale oggettiva, allora non abbiamo obblighi morali oggettivi.

«La visione naturalistica di Sam Harris», ha concluso Lain Craig, «non fornisce una solida base per i valori e i doveri morali oggettivi. Se Dio non esiste, siamo intrappolati in un mondo moralmente privo di valore in cui nulla è proibito. L’ateismo di Harris si trova quindi malato di soggettivismo etico. Ciò che il teista offre a Sam Harris non è una nuova serie di valori morali -in linea di massima condividiamo un’ampia gamma di posizioni di etica applicata- piuttosto ciò che possiamo offrire è una solida base per i valori e i doveri morali che entrambi riteniamo cari».

La redazione

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Lucia entra in clausura: «Mi aspetta più vita di quanta ne rinuncio»

Libertà e clausura. Un ossimoro per molti, non per chi ha questa vocazione. Lo testimonia una giovane ragazza di Madrid che pochi giorni fa è entrata nel monastero di Avila.

 
 

Non c’è nulla di più scandalizzante per il mondo di una bella e giovane ragazza che non solo decide di dare la vita a Cristo, ma che sceglie di entrare in un monastero di clausura.

E’ quello che ha fatto pochi giorni fa Lucia Lopez de Aragon Olesti, una giovanissima di Madrid di 22 anni, lasciando gli studi, la carriera e la sua vita quotidiana per entrare nel convento carmelitano di San José ad Avila, il primo monastero fondato da Santa Teresa.

Il 22 agosto scorso, infatti, Lucia ha iniziato la sua forma vocazionale e ha voluto spiegare agli amici e alla sua generazione perché si è lasciata alle spalle la sua vecchia vita. Non pretende di venire capita e, forse, non lo ritiene indispensabile.

 

Dalla vocazione a 22 anni alla pace nel cuore.

«Voglio essere una monaca di clausura, e non un altro tipo di religiosa, perché è lì che Dio mi ha chiamato. Abbiamo bisogno di ogni tipo di vocazione, anche la chiusura», ha spiegato in una video-intervista. «Per me è un modo di rispondere con la stessa radicalità con cui Cristo è morto e ha dato se stesso per noi».

Molti l’hanno avvertita che potrebbe sbagliarsi. «Mi importa del qui e dell’ora», lei risponde. Né ha paura di lasciare la sua vita precedente. «So che all’inizio mi costerà, ma sono convinta che Dio mi renderà felice nel convento, quindi non ho timori». Da quando ha scoperto questa vocazione su di sé «mi sono resa conto della pace così profonda che Dio mette nel tuo cuore quando accetti la Sua volontà».

La prima volta che ha percepito la chiamata è stato durante la Giornata Mondiale della Gioventù nel 2016, soltanto due anni fa. «Fui presa dal panico, quella vita non mi ispirava affatto». Tuttavia, dopo aver a lungo riflettuto con il suo confessore spirituale se questa era davvero la strada che Dio le indicava, «ogni giorno dicevo di sì, dei piccoli sì, e la paura scomparve poco a poco lasciando spazio ad una grande pace nel mio cuore».

 

Lucia risponde ai pregiudizi sulla vita di clausura.

Lucia ha anche affrontato i pregiudizi di molti, anche di tanti cattolici, verso questa scelta. Ma come? Ti chiudi in quattro mura, tutta la vita? «Molte persone credono che la clausura è solo rinuncia e sacrificio, quando in realtà Dio ti dà il centuplo. C’è molto più da guadagnare e molta più gioia da vivere rispetto a quello a cui devo rinunciare». Per questo, dice, «non mi costa nulla lasciare vestiti, trucco o internet, perché l’amore che Dio ti trasmette è davvero molto più grande».

Privarsi della libertà? Affatto, «non sono limitata nella libertà per l’essere rinchiusa, perché la libertà non finisce quando sei tra quattro mura. Quando sei nella tua stanza e devi studiare, non è che hai meno libertà. Semplicemente stai facendo quel che devi fare».

La clausura è una vita di preghiera, innanzitutto. Ritenuta legittimamente inutile da tanti, ma non dalla Chiesa. Papa Francesco pochi giorni fa, incontrando le suore benedettine, ha ricordato che «il motto “Ora et labora” pone la preghiera al centro della vostra vita. Ogni giorno, la vostra preghiera arricchisce, per così dire, il “respiro” della Chiesa. Il valore della vostra preghiera non si può calcolare, ma è sicuramente un regalo preziosissimo. Dio ascolta sempre le preghiere dei cuori umili e pieni di compassione». Preghiera, lavoro ma anche comunità, compagnia con le consorelle.

 

L’enorme equivoco del mondo sul concetto di libertà.

Ma, forse, lo scandalo e l’incomprensione maggiore nasce dal concetto di libertà, da tutti (o quasi), concepito come possibilità di fare quel che si vuole, assenza di limiti o legami, indipendenza totale. Ed è vero il contrario. Innanzitutto lo dimostra la tristezza e l’insoddisfazione, perenne, di chi ha “libertà” di far tutto e vuole sempre di più. E non gli basta mai. «Si, però, liberi da che cosa?».

La vera libertà è, paradossalmente, una dipendenza da Colui che risponde al significato dell’esistenza. La vera libertà è il non dover più scegliere, perché si è già trovato quel di cui si ha davvero bisogno. Tale dipendenza la si può vivere fuori o dentro al monastero, dipende dalla forma vocazionale di ognuno.

Come ha detto la badessa Maria Cecilia, del monastero di clausura delle benedettine di Fermo (Marche): «Nel Monastero c’è quanto è necessario, non di più! “Il di più” ci distrae da Dio». La fonte della libertà.

La redazione

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«Grazie alle migrazioni il cristianesimo non morirà». Parla il prof. Jenkins

Migrazioni in Europa e il futuro del cristianesimo. Lo storico delle religioni Philip Jenkis ha osservato che laddove il cristianesimo rischia di scomparire, come in Europa, riuscirà a rinascere grazie all’emigrazione di tanti fedeli provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, dove i tassi di fertilità stanno esplodendo.

 

The New Anti-Catholicism (Oxford University Press 2003) è un libro che ha cambiato la mentalità di molti. L’autore è un celebre storico delle religioni, Philip Jenkis, cristiano episcopale non troppo devoto (almeno allora), il quale osservò che «l’anti-cattolicesimo è l’ultima forma di pregiudizio bigotto e razzista socialmente accettato». Nelle scorse settimane Jenkis, docente alla Baylor University e alla Pennsylvania State University, è stato ospite al Meeting di Rimini.

Jenkis si è confrontato ieri con il giovane card. Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila (video più sotto). A tema c’è il passato, il presente e futuro del cristianesimo inteso come diffusione demografica. «Il cristianesimo stava per finire nel 1800, e poi nel 1640 al tempo delle grandi guerre di religione», ha spiegato Jenkis. E’ stato dato per morto tante volte ma «Gesù ha detto che questa Chiesa continuerà fino alla fine dei secoli». Sbaglia, infatti, chi collega il cristianesimo all’Europa: «i cristiani stanno passando dall’Europa all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Nel 1900, il 66% dei cattolici vivevano in Europa, nel 2050 passeranno al 16%. Però i cattolici europei includeranno anche molte persone africane e latinoamericane, è il cambiamento più grande dopo la Riforma protestante. Nel 2050 i Paesi più cristiani saranno il Brasile, Messico, Filippine e sopratutto l’Africa: Congo, Nigeria, Uganda. Una Chiesa composta da tutte le razze, una visione biblica».

Impressionanti i numeri che l’eminente studioso offre proprio per l’Africa: «nel 1900 c’erano 10 milioni di cristiani di tutti i tipi, oggi ce ne sono 500 milioni. Nel 2050 ci sarà 1 miliardo di cristiani africani. Il cambiamento più radicale nella storia della religione. Parliamo specificamente del cattolicesimo: nel 1900, l’Africa aveva meno di 2 milioni di cattolici, oggi ce ne sono 200 milioni e nel 2050 ce ne saranno 460 milioni. Ciò significa che nel 2030 ci saranno più cattolici in Africa che in Europa». Ma i numeri sono affidabili? No, non lo sono: sono certamente sottostimati. «Nei Paesi africani», ha proseguito il prof. Jenkis, «le persone che si dichiarano cattoliche sono molto più numerose di quelle ufficiali: la Chiesa, infatti, sottostima del 20% il loro numero, perché è troppo occupata a battezzare le persone che a contarle».

Quali sono i motivi di questi cambiamenti epocali? Molto è dovuto alle conversioni, che ci sono continuamente. Ma è sopratutto il tasso di fertilità: «le persone nel Nord del mondo hanno sempre meno bambini, nel Sud (Africa, Asia), hanno molti più bambini. Questi tassi sono strettamente legati all’impegno verso la religione da parte delle persone. Se il tasso di fertilità è del 2,1,  allora la popolazione stabile, se è più alto c’è una popolazione crescente e noi vediamo che crescono anche i tassi di religiosità. Se la fertilità è minore, allora la società è anche più laica, meno religiosa (la riduzione del tasso di fertilità è iniziata nel 1960). Che legame c’è tra fertilità e religiosità? Non lo sappiamo, forse quando si dimenticano i bambini ci sono meno modi per legarsi alla Chiesa: non si mandano i figli al catechismo, ecc. Ma se c’è una cosa certa è che il tasso di fertilità è legato alla religiosità della società. E’ una magia sociologica. Questi tassi di fertilità stanno calando in Paesi come India, Marocco, Iran e Algeria, che verranno perciò colpiti dalla laicizzazione. La Nigeria, al contrario, sarà uno dei Paesi più cristiani, lo stesso l’Etiopia e tutto il Golfo arabo».

Ma dove vivranno queste persone, questi nuovi cristiani? La risposta di Jenkis è scomoda per molti: «Molti cristiani (ma anche musulmani) andranno nelle società dell’invecchiamento, dove non ci saranno abbastanza persone per lavorare: verranno in Europa e negli Stati Uniti. Ci saranno decine di milioni di nuovi cristiani, e saranno migranti. Tanti Paesi arabi hanno molti cristiani grazie alle migrazioni perché non hanno eretto muri, oggi questi Paesi hanno una popolazione cristiana pari al 10-15%. Alcuni Paesi, tra cui quelli islamici, vivranno una laicizzazione ma in generale il mondo cristiano è in fortissima espansione, una creatura in fortissima espansione». Prima di dare morto il cristianesimo, si guardi al di fuori dell’Europa, ma anche alla sua storia: «Il cristianesimo può rischiare di scomparire, certo, ma rinasce sempre. E’ come la resurrezione», ha concluso lo storico americano. «Pensiamo alla Cina: lì è morto quattro volte ma oggi è più forte che mai».

Significativa anche la conclusione del card. Tagle, che si riallaccia all’esposizione del prof. Jenkis: «Sento dire che la Chiesa italiana è stanca. Ma stanca di che? Ripetere che siamo stanchi, siamo vecchi, fa diventare realmente stanchi e vecchi! Si, c’è qualcosa di vero in questo lamento ma dobbiamo anche vedere i segni della giovinezza. Per esempio, partecipai ad una messa domenicale a Milano invitato dal card. Scola e trovai 20mila filippini: la chiesa non è vecchia, la giovinezza possiamo trovarla nei migranti. Se si includono loro, allora non è stanca! E’ molto giovane!».

 

Qui sotto il video dell’incontro

La redazione

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LumiDolls e la rivoluzione sessuale: della donna oggetto è rimasto solo l’oggetto

LumiDolls ed il sesso con le bambole di silicone. Dopo pochi giorni dall’apertura la polizia chiude la prima casa d’appuntamenti con bambole hot. L’ultima catena della rivoluzione sessuale iniziata con la deresponsabilizzazione del sesso, passata dalla trasformazione della donna in oggetto e finita con l’eliminazione stessa della donna.

 

Volevano creare l’uomo nuovo, lo hanno indebolito. Volevano fare la rivoluzione sessuale e hanno deresponsabilizzato la sessualità. Volevano liberare la donna, l’hanno resa un oggetto. E oggi, i figli dei sessantottardi, la donna, l’hanno direttamente eliminata: sesso con bambole in silicone nella prima casa d’appuntamenti in Italia, aperta nella periferia sud di Torino. LumiDolls, il nome.

Per ora ci hanno pensato i Vigili e l’Asl a chiuderne i battenti pochi giorni dopo l’inaugurazione, a denunciare i titolari e a presentare una multa di 3mila euro. Non certo per il degrado umano e morale dell’iniziativa ma per mancanza di norme igieniche e varie violazioni della legge.

80 euro ogni mezz’ora per chiudersi in una stanza con Cicciobella ed altre bambolotte (ma c’è anche Alessandro, un bambolotto), tra cui una bambola incinta per amplificare la perversione. Così ha raccontato la femminista Marina Terragni: «la si può prendere a calci nel pancione, trascinare per i capelli, eventualmente strangolare, e così via, a piacere. Poi verrà disinfettata e consegnata al malato successivo. Tutto perfettamente legale: la plastica non ha diritti». Nel codice etico sottoposto ai clienti, secondo Wired, c’è il divieto di staccare/strappare gli organi genitali di materiale sintetico. «Siamo pieni per settimane», gioivano pochi giorni fa i titolari, ancora non sapendo che avrebbero chiuso subito. «Abbiamo clienti che hanno prenotato anche dal Veneto e la maggior parte hanno scelto la mattina o il pomeriggio per il loro appuntamento. Anche per questo motivo per il momento non terremo aperto di notte. Abbiamo richieste anche per degli addii al celibato».

Una delle poche a sostenere l’iniziativa è stata la tuttologa bioeticista Chiara Lalli, che si è scagliata contro il «feroce moralismo». Non ha molto di interessante da dire, se non il “proibito proibire”. Più rilevante e benemerita l’opposizione delle femministe: «Queste bambole viventi rappresentano una fantasia fondante della sessualità patriarcale misogina», si legge su Resistenza Femminista. «Poter disporre di donne e bambine come oggetti programmati per i propri bisogni a cui togliere parola e volontà ovvero ogni tipo di libertà. Un sogno di annientamento che è poi il fine ultimo del patriarcato: ridurre al silenzio le donne, cancellarne l’identità». E la già citata Terragni: «Quelle che pensano “meglio le bambole che le donne” hanno le loro ragioni, intendiamoci. Si tratta però di una resa senza condizioni di fronte a una sessualità maschile che si esprime come predatoria, perversa e violenta “per natura”, e che chiede un oggetto da usare in un femminicidio simbolico e non un soggetto con cui entrare in relazione. Più oggetto è e meglio è. Tutto si è compiuto».

Benissimo l’opposizione delle femministe, ma il patriarcato c’entra poco e forse non ci si accorge che il muro è caduto, poco a poco, quando si è creata la prima la crepa con la rivoluzione sessuale. Accettare socialmente, moralmente e culturalmente la separazione del sesso dall’amore è stato il primo passo di disumanizzazione della sessualità, compiuto in nome della “nuova morale”, che avrebbe finalmente liberato l’umanità dalle sue repressioni. Il sesso non più come espressione totale di sé alla persona con cui si condivide la vita, ma trasformato a consumo, a mero bisogno di cui usufruire per quel breve attimo di paradiso. La diffusione libera della pornografia è venuta incontro alle necessità sempre più impellenti e auto-soddisfatte e la sessualità ha iniziato a diventare un monologo egoistico, le perversioni sono esplose e la donna si è trasformata in un oggetto di fantasia, in un gingillo sessuale da esibire ovunque: film, pubblicità, copertine, manifesti.

Oggi siamo ad un altro passo dell’evoluzione: della donna/uomo oggetto ci siamo tenuti solo l’oggetto. Perché fare la fatica di dover dire “buongiorno” e “buonasera” se si può avere a che fare con una bambola, restando zitti, senza nemmeno il rischio di guardare qualcuno negli occhi.

«La verità è comunque che alla fin fine la donna è ora considerata un oggetto più di prima, nonostante le leggi in suo favore ed è libera solo apparentemente», ha scritto la poetessa Bruna Tamburrini. «Ti dico io che non è affatto più libera, venduta al miglior offerente commerciale, è totalmente nelle mani del consumismo e del commercio. Gli spot pubblicitari ne sono un esempio. La donna è vista sempre di più nel suo aspetto fisico e la parte intellettiva (quella che noi all’epoca mettevamo in risalto), è sottovalutata, anzi direi, completamente accantonata. Forse a volte penso che bisognerebbe fare di nuovo un Sessantotto, ma all’incontrario» (B. Tamburrini, Il mio Sessantotto, Edizioni Simple 2016).

La redazione

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Transgender non si nasce, si diventa per influenza sociale: la ricerca è silenziata

Trans si nasce o si diventa? Uno studio ha rilevato che diversi bambini “diventano transgender” a causa della pressione o dell’influenza sociale, e nient’affatto perché sono nati in quel modo. Il 62% aveva inoltre una diagnosi di disturbo psicologico.

 

La ricerca è apparsa su Plos One, firmata dalla prof.ssa Lisa Littman, e ha esaminato numerosi bambini con improvvisa comparsa della cosiddetta disforia di genere, in particolare quella “a insorgenza rapida”, cioè apparsa per la prima volta dopo la pubertà. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, redatto dall’American Psychiatric Association (APA), è definito come il malessere percepito da chi non si riconosce nel proprio sesso biologico (i cosiddetti nati nel corpo sbagliato). O, secondo un linguaggio più ambiguo, quei soggetti che vivono una contraddizione tra l’identità di genere vissuta e il sesso osservato alla nascita (come se davvero potesse esistere un genere separato dal sesso).

Dallo studio è emerso che tale disforia appariva appartenendo ad un gruppo di pari, dove uno, più o anche tutti gli amici hanno iniziato a soffrire di tale disturbo e/o si sono identificati come transgender durante lo stesso periodo di tempo. In altre parole, questi bambini si sono identificati come transgender perché i loro amici lo hanno fatto«I genitori riferiscono anche che i loro figli hanno mostrato un aumento dell’utilizzo dei social network e di internet poco prima della manifestazione di un’identità transgender», ha scritto la ricercatrice.

Il campione non è enorme, ma si parla del 21% dei bambini che aveva uno o più amici identificati come transgender più o meno nello stesso periodo; il 20% di essi che ha riportato un aumento nell’uso dei social media nello stesso periodo in cui hanno avuto i primi sintomi di disforia di genere; e il 45% che ha riferito entrambi i casi. L’enorme pressione dell’influenza sociale spiegherebbe perché fino a poco tempo fa era raro che un adolescente riferisse sensazioni di appartenenza al sesso opposto, al di là di ben noti periodi transitori di assestamento. Soltanto negli ultimi anni, invece, i medici stanno riferendo un drastico aumento dei pazienti con la precisa convinzione di essere a disagio nel proprio corpo, di non essere adatti, che l’unica via per la felicità è attuare la transizione di sesso e che è transfobico chiunque non sia d’accordo con l’adolescente.

La ricerca è stata messa subito sotto accusa dalla comunità Lgbt, tanto che la Brown University ha dovuto rimuovere il comunicato stampa dal suo sito web. Il motivo, oltre a quanto già scritto, lo si apprende sfogliando i risultati: il 62% dei genitori di questi adolescenti ha riferito che il loro figlio aveva una o più diagnosi di un disturbo psichiatrico o di disabilità dello sviluppo neurologico prima dell’insorgere della disforia di genere. Il 48% ha riferito invece che il loro bambino ha avuto un evento traumatico o stressante prima dell’inizio della loro disforia di genere, tra cui essere vittime di bullismo, violenze sessuali o divorzi dei genitori.

Nonostante la polemica si sia infiammata, Jeffrey Flier, ex rettore della Harvard Medical School di Boston, ha scritto: «Questo è un giorno triste per la Brown University per l’accusa di integrità alla loro leadership accademica e amministrativa», affermando di aver trovato “orribile” che l’Università non è riuscita a difendere la sua ricercatrice.

Piuttosto che dare ascolto ed assecondare le convinzioni di questi adolescenti, lo psichiatra americano Paul R. McHugh, Emerito di Psicologia presso la prestigiosa Johns Hopkins University School of Medicine, dove è stato presidente del Dipartimento di Psichiatria, ha spiegato che «i trattamenti devono iniziare con la rimozione del giovane dall’ambiente suggestivo che lo confonde, offrendo a lui un contro-messaggio in terapia familiare». Ma, sopratutto, «gli psichiatri devono sfidare il concetto solipsistico che ciò che è nella mente non può essere messo in discussione. I disturbi della coscienza, dopotutto, rappresentano il dominio della psichiatria. La maggior parte dei pazienti trattati chirurgicamente hanno descritto se stessi come “soddisfatti” dai risultati, ma i loro adattamenti psico-sociali successivi non erano migliori di quelli precedenti l’intervento chirurgico. Per questo alla Johns Hopkins abbiamo interrotto gli interventi chirurgici per cambiare sesso».

La redazione

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Lo chef Rodríguez a sua figlia: «vai a Messa, la miglior cosa che puoi fare nella vita»

Se i cosiddetti vip hanno così influenza oggi sulle persone, bisognerà in qualche modo compensare all’onnipresente nullità di Fedez&Ferragni con qualcosa di più umanamente significativo. Ecco dunque comparire Pepe Rodríguez, lo chef spagnolo più famoso al mondo, una stella Michelin e tra i più amati giudici dell’edizione spagnola di MasterChef.

Se Fedez annuncia all’universo mondo che non ha intenzione di battezzare suo figlio né di sposarsi in chiesa, chef Rodríguez risponde come un qualunque papà: «Insisto spesso perché mia figlia maggiore vada a messa, la domenica. Ma lei non vuole. Mi dice: “Papà, sono molto occupata; Papà, io non ho tempo, devo studiare e non posso sprecare un’ora”. A volte le rispondo: “Non ti rendi conto che io lavoro tutti i giorni della settimana, ma trovato sempre il tempo di andare in chiesa? Lo faccio perché lo voglio, perché ne ho bisogno. Voglio che ti rendi conto che andare a Messa è la cosa migliore che puoi fare nella vita. Se prendi sette o nove nell’interrogazione è secondario, ma spero che il mio esempio possa raggiungerti”».

Pepe Rodríguez, in un’intervista recente, ha raccontato di sé: «Sono un uomo che vive la parrocchia, che va nella chiesa della sua città e vi partecipa. Non tanto quanto dovrei, ma cerco di coinvolgere la mia famiglia, i miei figli e mia moglie per quanto posso. Mi sento anche parte della Caritas. Come non aiutare chi chiede aiuto? Se mi chiedono aiuto, sono lì. Quando sei molto conosciuto ti chiamano migliaia di associazioni chiedendo la tua immagine. Bene, è bello aiutare in questo modo. Ma chiedo di andare oltre la mia immagine. Non valuto migliore la testimonianza di un famoso credente rispetto a quella di un idraulico, un tassista. Sono interessato alla gente comune. Le persone semplici e normali».

La fedeltà alla Messa, accennata dallo chef spagnolo poco sopra, non è un mero rispetto di una tradizione. E’ una necessità profonda, legata da un incontro con un Dio presente. Ma non basta avere la fede, «dobbiamo renderci conto che occorre coltivare quel rapporto giorno dopo giorno, chiedere sempre di più. Io sono una persona che ha fallito molte volte, non sono un esempio da seguire, ma so che quando cado mi posso alzare e Dio mi perdona sempre».

La redazione

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Abusi, per Mancuso la causa è il celibato. Alberto Melloni: «sciocchezze progressiste»

Il mito del celibato sacerdotale come causa della pedofilia. Ma il fenomeno è più diffuso in famiglia, negli ambiti educativi e sportivi. Un tema che mette in contrapposizione anche i due più noti opinionisti religiosi di “Repubblica”, Vito Mancuso e Alberto Melloni. Poi l’intervento di un seminarista di Barcellona.

 

La Chiesa cattolica sta vivendo nelle ultime settimane momenti convulsi a causa dello scandalo degli abusi commessi da diversi ecclesiastici e dall’occultamento dei loro superiori. Un fenomeno prettamente del passato, come ha dimostrato il report del Grand Jury della Pennsylvania, mentre dal 2002 si è progressivamente imposta una linea di tolleranza zero.

Tuttavia, gran parte degli organi d’informazione tratta la vicenda come scandalo d’attualità e puntuali arrivano gli opinionisti che indicano il problema nel celibato sacerdotale. Lo ha fatto recentemente perfino il teologo spretato Vito Mancuso, che ha parlato di «insostenibilità del voto di castità. È il principio di realtà che impone alla Chiesa di vivere il nuovo tempo decretando la rottura».

Mancuso cade sempre nello stesso errore. Se i tempi cambiano, se gli uomini si indeboliscono allora è la Chiesa che deve sottomettersi al mondo, ai tempi, che corrono. Non solo come linguaggio, mutamento necessario e benemerito, ma come dottrina, con proposte più basse. Non è la Chiesa, seppur ferita e zoppicante, a dettare la rotta, la direzione, ma sono le voglie, i capricci, l’indebolita ragione dei moderni a battere il cammino. Il progresso è la verità a cui adeguarsi. Ed infatti questo approccio è il classico peccato mortale dei cosiddetti progressisti.

Ad affermarlo questa volta perfino lo storico della Chiesa, Alberto Melloni, anche’egli -come Mancuso- firma di punta del quotidiano più progressista sulla scena italiana, Repubblica. Solitamente viene incasellato come “cattolico adulto”, emancipatosi dalla dottrina sulle tematiche etiche, di sinistra. Tuttavia, scrivendo prima dell’intervento di Mancuso (suo amico e collega sullo stesso giornale), forse profetizzandolo, Melloni ha riflettuto sul recente report statunitense riguardante la pedofilia nel clero, commentando: «darà corda a quella destra anti-Francesco che vede ovunque la conseguenza di un lassismo morale imputato al concilio e al Papa che lo vive». Aggiungendo: «E che farà ritornare alla ribalta le sciocchezze progressiste sul celibato come “causa” di un delitto che, fuori e dentro i confini cattolici, è invece perpetrato sopratutto da eterosessuali praticanti».

A dimostrare quanto scritto da Melloni –ne avevamo già parlato– c’è la più grande indagine sulla pedofilia nella Chiesa, realizzata dal John Jay College of Criminal Justice di New York. In Italia, un’indagine del Parlamento italiano nel 2000 ha mostrato in modo evidente che l’80% dei casi di pedofilia avviene ad opera di un parente: genitori, nonni o zii (nel 47,3% delle violenze responsabile è il padre, nel 10,5% la madre, nell’11% entrambi, nel 9,8% gli zii, nel 9,5% i nonni, nell’8,9% i conviventi dei genitori). Da parte sua Telefono Azzurro ha rilevato ben 4 casi di violenza sui minori ogni giorno da parte di genitori, insegnanti e allenatori, mentre queste le parole dello psichiatra tedesco Manfred Lütz: «Tutte le professioni e le istituzioni che in qualche modo hanno a che fare con minori sono toccate dal fenomeno», ha commentato l’esperto. «Alcuni dicono che c’è un legame tra pedofilia e celibato. Scientificamente questa teoria non ha nessun fondamento. L’astinenza sessuale, in particolare, non provoca atti di abuso».

Recentemente in Spagna è intervenuto anche un seminarista dell’arcidiocesi di Barcellona, Iñigo de Alfonso Mustienes, che ha inviato una lettera ai direttori di El Periódico e di El País. L’abbiamo tradotta e la riportiamo qui:

«Ho 32 anni e sono un seminarista a Barcellona. Prima del seminario ho studiato giurisprudenza e mi sono dedicato a questioni legali internazionali. In questi anni sono stati resi pubblici disgustosi atti di vescovi, sacerdoti e religiosi che hanno abusato di bambini ed adulti indifesi. Questi abusatori devono essere posti, come è già accaduto, davanti alle autorità giudiziarie. E, naturalmente, come anche viene fatto, devono essere espulsi dai ministeri che svolgono. È un errore pensare che abolendo il celibato o permettendo alle donne di essere ordinate, come alcuni pensano, il problema venga risolto. Ci sono molti più abusi e violenze domestiche in un matrimonio e nessuno pensa di introdurre il celibato opzionale tra gli sposi, che già esiste, secondo la libertà di ciascuno. Ho sentito la chiamata di Dio. Ho scelto liberamente di continuare ad accettare una decisione che so che non viene compresa. È una vita di amore e dedizione. Una vita in cui dobbiamo vedere, ed è per questo siamo formati, il popolo che ci è stato affidato attraverso la Chiesa come nostra vera moglie. Una vita di devozione che soltanto nella pietà e nell’arrendevolezza agli altri può funzionare».

La redazione

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