Corte Suprema britannica, sentenza storica a favore dei pasticceri perseguitati dalla lobby LGBT

Lgbt e libertà d’espressione. Una decisione storica della Corte Suprema del Regno Unito sul “caso Ashers”, in cui per la prima volta viene legittimata la libertà di coscienza anche in un Paese notoriamente gay-friendly.

 

La Corte Suprema del Regno Unito ha emesso ieri una sentenza storica a favore della libertà di coscienza e di espressione, negli ultimi anni minacciata sopratutto dalla lobby LGBT.

È il caso di una coppia di pasticceri dell’Irlanda del Nord, Daniel e Amy McArthur (nella foto a sinistra), responsabili della catena Ashers Baking Company, che si sono rifiutati di eseguire la commissione di una torta con l’immagine di Bert e Ernie, due pupazzi (nati per trasmettere il valore dell’amicizia ai bambini, ma che la lobby gay considera omosessuali), accompagnata dal messaggio: “Sostengo il matrimonio omosessuale”.

Il caso risale al 2014 e la torta è stata commissionata da un noto attivista gay, Gareth Lee, che ha avviato contro loro una feroce battaglia legale dopo che i pasticceri di Belfast non hanno accettato l’incarico in quanto il messaggio era contrario alle loro convinzioni religiose e morali. Lee ha sostenuto di essere stato discriminato in base al suo orientamento sessuale e la polemica è arrivata alla Corte Suprema.

Aiutati dagli avvocati de The Christian Institute, sia legalmente che economicamente, i pasticceri si sono difesi e hanno incredibilmente vinto. Cinque giudici della più alta corte del Regno Unito hanno infatti emesso una sentenza definita “storica”, sopratutto per un Paese considerato gay-friendly. E’ stato infatti sostenuto che i responsabili di Ashers hanno agito legalmente, senza discriminazione alcuna. Daniel McArthur, assieme alla moglie, hanno espresso gioia e sollievo, aggiungendo: «so che molte persone saranno felici perché questa decisione protegge finalmente la libertà di espressione e libertà di coscienza di tutti. Non abbiamo detto di “no” al cliente ma al messaggio che il cliente voleva veicolare attraverso la nostra arte».

Il caso Ashers è stato chiaramente dibattuto a livello nazionale ed è costato alle casse pubbliche circa 500mila sterline (570mila euro), a cui vanno aggiunte 250mila sterline investite dalla Equality Commission for Northern Ireland per difendere l’attivista Lgbt. Un organismo che è finito sotto il fuoco della polemica per aver sperperato decine di migliaia di sterline per una battaglia ideologica, tanto che viene definita la “torta più costosa della storia del Paese”.

La sentenza è significativa non solo per l’Irlanda del Nord, ma per l’intero Regno Unito. «Nessuno deve essere costretto ad avere o esprimere un’opinione politica in cui non crede», ha concluso la Corte Suprema. Il caso è sovrapponibile a quello del giugno 2018, da noi raccontato, del pasticcere di Denver, Jack Phillips: anche lui rifiutò una torta per un matrimonio gay e fu difeso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti che, anche in quel caso, si pronunciò storicamente in questo modo: «Le obiezioni religiose e filosofiche al matrimonio gay sono idee protette e in alcuni casi forme di espressione protette». E’ possibile che i giudici inglesi abbiano tenuto conto anche di questo precedente aperto dalla Corte americana.

Auguriamo ai McArthur, così come avvenuto al pasticcere Phillips, che la loro pasticceria si riempia di nuovi clienti e di tutti i sostenitori della libertà d’espressione contro quella che si sta sempre più caratterizzando come una dittatura arcobaleno. Il “caso Barilla”, in Italia, è lì a dimostrarlo.

La redazione

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E dopo Ratzinger, ora La Sapienza vuole cacciare anche i pro-life?

Universitari pro-life aggrediti all’Università La Sapienza. Il coordinamento studentesco Link ha rivendicato l’aggressione e invita a cacciare chi manifesta idee legate alla salvaguardia della vita nascente. Dieci anni dopo l’intolleranza verso Benedetto XVI.

 

Era il 2008 e all’Università La Sapienza di Roma si creò un fronte anti-Ratzinger, formato da professori e studenti, per opporsi all’invito verso Benedetto XVI. L’umiltà del Pontefice e la rabbia anticlericale fecero in modo che l’incontro effettivamente saltò, l’indignazione ebbe un eco internazionale e il prestigio dell’ateneo romano venne macchiato di intolleranza .

Oggi, dieci anni dopo, una simile intolleranza torna a La Sapienza. Il Coordinamento universitario Link, nato proprio nel 2008, vuole cacciare gli Universitari per la Vita, un’associazione studentesca presente in particolare proprio presso La Sapienza. Ieri i giovani sono stati aggrediti da un gruppo di femministe e militanti per l’aborto mentre distribuivano volantini agli studenti, come fanno tante altre realtà universitarie. Al contrario di quelli di altre associazioni studentesche, sui manifesti non si celebrava la droga libera, l’eutanasia o la censura del Papa, ma si parlava della vita umana, della sua sacralità e di alternative all’interruzione di gravidanza.

Ecco la denuncia degli Universitari per la Vita:

«Oggi dei nostri ragazzi UpV si sono recati al dipartimento di Lettere della Sapienza e, con regolare permesso, hanno fatto un aperitivo/volantinaggio per la sensibilizzazione delle persone sul tema dell’aborto. In seguito ad un pacato dialogo con delle ragazze pro-choice femministe, si è scatenato l’inferno. I nostri amici UpV si sono ritrovati circondati almeno da una ventina di persone che con molta nonchalance si sono avvicinate al tavolino e hanno cominciato a strappare i nostri volantini, i nostri opuscoli e a sperperare le vivande che avevano portato per condividerle con gli altri. Hanno insultato le nostre ragazze dicendo loro parole offensive e irripetibili, questa sarebbe la loro idea di “difesa della donna”? Ci chiediamo, perché, se pensano che le loro idee sono così forti da non poter essere contrastate, hanno bisogno di ridurre al silenzio persone che la pensano diversamente da loro? La violenza che è stata manifestata nei confronti dei nostri amici UpV è inaccettabile. Probabilmente se fossimo stati noi ad interferire con una delle loro iniziative femministe pro-aborto, non avrebbero esitato ad aggredirci anche fisicamente».

Poche ore dopo è uscito il farneticante comunicato in stile “anni di piombo” del Coordinamento Link, intitolato “Fuori i pro-life dall’Università”, in cui si rivendica l’aggressione e si annunciano altri attacchi: «Continueremo a lottare per la nostra libertà di autodeterminarci e per un’università laica e transfemminista». La violenza è stata rivendicata anche delle femministe di Non una di meno. Ma il post su Facebook è stato sommerso da critiche veementi e sta diventando un caso nazionale.

Il rettore Eugenio Gaudio vuole che un altro episodio d’intolleranza macchi La Sapienza? Desidera che la violenza del Coordinamento Universitario Link danneggi la reputazione dell’Università? E’ d’accordo con la censura di idee ed opinioni di chi ha ricevuto un regolare permesso per manifestarle da parte degli organi amministrativi della sua stessa università? Le stesse affermazioni contro l’aborto, ben più “forti”, sono state oltretutto pronunciate poche ore fa da Papa Francesco: «Ma come può essere terapeutico, civile, o semplicemente umano un atto che sopprime la vita innocente e inerme nel suo sbocciare? Io vi domando: è giusto fare fuori una vita umana per risolvere un problema?. È come affittare un sicario». L’Università censurerà anche il successore di Benedetto XVI?

L’indirizzo email del rettore Gaudio è rettore@uniroma1.it Oltre a commentare sui social sarebbe opportuno porre a lui stesso queste domande, chiedendo un suo deciso intervento.

La redazione

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Il premier Conte, schiaffo a “La Verità”: «le accuse di Viganò? Assurde e meschine»

Giuseppe Conte e Papa Francesco. Il premier italiano si schiera con il Papa e respinge come “vili” gli attacchi di mons. Viganò, sconfessando così la linea editoriale de “La Verità”, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro che ha lanciato il dossier.

 

I crampi allo stomaco di cui soffre da qualche giorno Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, nascono dopo un’intervista non rilanciata dai grandi media, realizzata da Famiglia Cristiana al Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte.

Noto devoto di Padre Pio, il leader della coalizione giallo-verde ha risposto a varie domande del vicedirettore Luciano Regolo e, tra esse, anche una riguardante Papa Francesco e «gli attacchi che ha ricevuto nelle ultime settimane da correnti della destra radicale e sovranista e da prelati come monsignor Viganò». Conte non si è sottratto, non ha svicolato la domanda, pur potendo non ha risposto in modo formale:

«Non ho elementi di conoscenza diretta e per questo non sono in grado di esprimere una puntuale valutazione nel merito della vicenda. Osservo però che le accuse rivolte a papa Francesco appaiono visibilmente assurde e pretestuose. Il Santo Padre ha sempre svolto il suo apostolato e interpretato il suo ruolo con profonda umanità, sensibilità e umiltà. Il suo spessore religioso e umano lo pongono ben al di sopra di questi vili e meschini attacchi»

Parole esplosive, sopratutto perché il Premier è l’uomo su cui il viceministro Matteo Salvini ha riversato tutta la sua fiducia, ed il leader leghista -suo malgrado- è l’attuale riferimento etico-morale di gran parte dei cattolici anti-Papa che in lui hanno trovato il padre spirituale perduto da quando è iniziata la loro ribellione alla Chiesa. Il premier salviniano Conte, stimato anche dall’opposizione, è l’intoccabile uomo politico di quotidiani e blog della destra che si autodefinisce “sovranista” e neo-anticlericale, da Libero a La Nuova Bussola Quotidiana, da Il Tempo a La Verità.

Sopratutto quest’ultimo, La Verità, è il più esposto: ha rilanciato il dossier di mons. Viganò e da diversi mesi ospita le ricostruzioni antibergogliane di Lorenzo Bertocchi e Marco Tosatti e gli editoriali sulle carenze morali, teologiche e spirituali del Pontefice scritti dal direttore Maurizio Belpietro. Condannato più volte per diffamazione e “procurato allarme” per aver lanciato una delle tante colossali bufale, Belpietro ha ironicamente chiamato il suo quotidiano La Verità (pochi giorni fa ha mentito e gonfiato le vendite del mese di agosto parlando di 26mila copie definendolo “un successo editoriale”, ma sono 90mila -tre volte tanto-, le persone che vorrebbero radiarlo dall’Ordine dei giornalisti -che lo ha sanzionato per “odio etnico”- e le reali copie vendute sono state 23mila, in decrescita rispetto al 2016-2017).

Oggi Giuseppe Conte ha sconfessato la recente linea editoriale de La Verità (e non solo), definendola “un attacco vile e meschino” al Papa. E si è voluto anche sottrarre, una seconda volta, dall’ingombrante abbraccio schierandosi con il Pontefice anche sul tema immigratorio, fumo negli occhi per Belpietro&Co: «Anche papa Francesco, alcuni giorni or sono, ha osservato che bisogna accogliere i migranti nella misura in cui si integrino, con la prudenza dei governi, e che non sia una minaccia contro la propria identità. È un principio a cui ispiriamo la nostra azione di governo».

La redazione

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“La scienza spiegherà i miracoli”: ecco perché è una fallacia logica

La scienza e i miracoli. Molti scettici si affidano al motto “la scienza spiegherà tutto” quando non riescono a liquidare un evento prodigioso ben documentato, non accorgendosi di cadere nello stesso errore di chi usa il “dio delle lacune”.

 

L’errore di molti credenti, quando si imbattono in tematiche scientifiche, è quello di introdurre la “spiegazione di Dio” ogniqualvolta nessuna teoria sperimentale è in grado di fornire una spiegazione a qualcosa che non si conosce (o che ancora la scienza non conosce). Viene così introdotto un “dio” per mascherare l’ignoranza ed è giustamente definita la fallacia del “dio delle lacune” o “dio tappabuchi”.

Chiaramente il cristianesimo non è certo una spiegazione alternativa alla scienza e non può puramente essere inteso come “dio delle lacune”. Al contrario, si potrebbe dire, è la ragione di ogni spiegazione. Il filosofo Richard Swinburne, ad esempio, ha magistralmente spiegato: «Io sto presupponendo un Dio allo scopo di spiegare perché la scienza spiega; io non nego che la scienza spieghi, ma presuppongo Dio per spiegare perché la scienza spiega. Proprio il successo della scienza nel mostrarci quanto profondo sia l’ordine del mondo fornisce valide ragioni per credere che tale ordine abbia una causa ancora più profonda» (Esiste un Dio?, Lateran University Press 2013, p. 79).

Anche gli scettici, tuttavia, commettono frequentemente a loro volta un errore. Lo ha fatto il filosofo Larry Shapiro, dell’Università del Wisconsin, pubblicando un approfondimento sui “miracoli”, in particolare sulla risurrezione di Gesù. Nel suo The Miracle Myth (Columbia University Press 2016), dopo aver scritto che tali prodigi sono “estremamente improbabili” (p. 58), “vanno contro a tutto ciò che conosciamo” (p. 25), “non sono mai giustificati” (p. 57), “hanno origine fuori dalla natura” (p. 31) e “possono persino violare le leggi della natura” (p. 149), ha tentato di teorizzare alternative naturalistiche, prendendo ampio spunto dai testi dei due principali studiosi scettici del primo cristianesimo, Richard Carrier e Bart D. Ehrman (anche se quest’ultimo ha negato qualunque validità storica agli argomenti di Carrier: cfr. Did Jesus Exist?, Harper Collins 2012, p. 2-3, 17-19, 167).

Shapiro ha dichiarato che le contro-spiegazioni ai miracoli possono sempre essere postulate, e che c’è «sempre una causa naturale, anche quando attualmente non la comprendiamo» (p. 49). Incredibilmente, è arrivato a postulare l’esistenza di extraterrestri che avrebbero indotto le statue della Vergine a piangere sangue (p. 51). Dopo aver ammesso l’inspiegabilità di numerosi eventi ritenuti miracolosi dal cattolicesimo, il suo suggerimento è stato di attendere future spiegazioni naturalistiche, dato che su diversi prodigi attualmente non ne esistono di esplicative.

Al filosofo ha replicato Gary Habermas, storico americano ed eminente studioso di Nuovo Testamento, probabilmente il più autorevole sulle “prove storiche” della resurrezione di Cristo. Restando nel campo dei miracoli evangelici, Habermas ha fatto notare come Shapiro sia costretto ad ammettere che spesso l’ipotesi miracolosa è l’unica in grado di rendere soddisfacentemente conto dei fatti accaduti e delle loro conseguenze. La quasi totalità degli storici del primo cristianesimo, infatti, concorda sul fatto che Gesù era considerato effettivamente un guaritore miracoloso. Lo scettico Marcus Borg, ad esempio, ha scritto: «Nonostante la difficoltà che i miracoli comportano per la mente moderna, per motivi storici è virtualmente indiscutibile che Gesù fu un guaritore ed esorcista» (Jesus: A New Vision, Harper Collins 1987, p. 61). Anche Dale Allison del Seminario Teologico di Princeton, che si definisce “deista criptico”, ha scritto: «Sono sicuro che i discepoli hanno visto Gesù dopo la sua morte» (Resurrecting Jesus: The Earliest Christian Tradition and its Interpreters, T&T Clark 2005, p. 346).

Ma non è questo il punto, già in passato ci siamo soffermati sulla storicità dei miracoli di Gesù. La questione è la decisiva risposta del prof. Habermas al comportamento degli scettici quando si imbattono nel tema dei miracoli, sopratutto quando sono sufficientemente studiati (ad esempio le guarigioni inspiegabili di Lourdes). Non potendoli liquidare frettolosamente, in quanto ben documentati (a prescindere dalla loro autenticità), solitamente utilizzano la strategia del «”naturalismo delle lacune“. Questa posizione presuppone che il naturalismo debba essere automaticamente vero, perciò abbraccerebbero di cuore qualsiasi altra spiegazione piuttosto che l’opzione soprannaturale». Tale approccio, ha proseguito Habermas, «confida ciecamente e fideisticamente in non specificate future ricerche che saranno usate per respingere molte idee religiose o spiegazioni razionali indesiderate». Così, affermare che “la scienza spiegherà tutto”, pur di non prendere sul serio ipotesi scomode, seppur capaci di dare una spiegazione coerente del fatto misterioso, equivale a presupporre un “dio delle lacune”. Una fallacia logica.

Infine, ultima riflessione, la smisurata fiducia accreditata alla scienza andrebbe utilizzata non solo per una futura smentita degli argomenti a favore dei miracoli, ma anche per gli argomenti contro ai miracoli: «anch’essi si basano su determinati presupposti filosofici e scientifici che più avanti nel tempo potrebbero essere abbandonati» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, Vol. 2, Queriniana 2003, p. 604).

La redazione

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Trans nei carceri femminili, stupri assicurati

Trans in carcere. Nel Regno Unito possono essere trasferiti nelle prigioni femminili le persone che dicono di essere “in un corpo sbagliato”. Ma si sono verificate alcune prevedibili conseguenze, non tenute in considerazione per convenienza ideologica.

 

Quello che è successo nella prigione femminile di New Hall, nel nord dell’Inghilterra, è significativo di come molti stati occidentali siano disposti a trascurare i diritti delle donne pur di non limitare desideri e capricci del mondo arcobaleno.

In molti avevano protestato per la volontà di trasferire le persone transessuali, uomini che si ritengono “nati in corpi sbagliati”, nelle carceri femminili, preoccupati per la sicurezza delle carcerate. Tra essi anche Andrea Albutt, presidente della Prison Governors Association: «Ho visto le donne molto spaventate nella situazione di qualcuno che ha un corpo maschile, ma si identifica come una donna, che entra in una prigione femminile o che potenzialmente può entrare in una prigione femminile». Ma tali voci non sono state prese in considerazione e, in molti casi, liquidate come “transfobiche”. Tuttavia, è proprio quanto si è puntualmente verificato.

Uno stupratore trans ha aggredito sessualmente quattro donne nel carcere inglese tra settembre e novembre dell’anno scorso. Il suo nome è Stepehn Wood ed è stato condannato e incarcerato per aver aggredito sessualmente un bambino. Dopo aver iniziato la riassegnazione di genere, si è fatto chiamare Karen White e gli è stato concesso il trasferimento in una prigione femminile, dove ha aggredito sessualmente quattro donne. Le autorità si sono giustificate con le nuove regole del Servizio penitenziario, le quali impongono che «un detenuto deve essere messo in prigione in conformità con il suo genere legalmente riconosciuto», e non quello biologicamente assegnato.

Alcune femministe sono state invece subito indagate per “crimine d’odio” quando, qualche settimana prima, avevano protestato tramite adesivi rosa a forma di falli maschili con lo slogan: “Le donne non hanno il pene. Questo non è un discorso di odio, non è transfobia, è un semplice dato di fatto biologico”. Gli adesivi sono stati apposti dai membri delle ReSisters di Liverpool, le quali hanno dichiarato di volere sensibilizzare in merito alla «potenziale minaccia ai diritti e ai diritti delle donne», che vengono calpestati dalle legge sul riconoscimento di genere.

La notizia è stata inclusa nel dibattito statunitense sulla concessione che i trans utilizzino il bagno opposto al loro sesso biologico, dando ragione alle preoccupazioni del senatore repubblicano Ted Cruz: «Se la legge dice che qualsiasi uomo può entrare nel bagno delle donne, nel bagno di una bambina perché semplicemente dice che in quel momento si sente come una donna, allora stiamo aprendo la porta ai predatori sessuali». Ed è ciò che è avvenuto, anche in questo caso: la nuova politica dei bagni scolastici aperti ai transgender ha già portato allo stupro di una studentessa.

Anche l’editorialista del quotidiano britannico The Spectator, James Kirkup, ha sorprendentemente commentato:

«C’è una ragione per cui quasi tutte le società nella storia umana moderna hanno tracciato linee che differenziano gli adulti con corpi maschili da adulti con corpi femminili. Sono gruppi diversi, con caratteristiche diverse. Indipendentemente dalle parole che usiamo per descriverle, le persone con corpi maschili si comportano in modo diverso rispetto a quelli con corpi femminili, e le persone di corpo maschile possono rappresentare una potenziale minaccia per la dignità e la sicurezza delle persone di sesso femminile. Ecco perché abbiamo prigioni riservate a uomini e prigioni riservati alle donne. La distinzione tra persone di sesso maschile e persone di sesso femminile non riguarda solo le convenzioni sociali, riflette le loro differenze fisiche fondamentali e le implicazioni di tali differenze. Abbiamo prigioni femminili per la stessa ragione per cui abbiamo servizi igienici femminili, spogliatoi per donne, ostelli per donne. E’ per tenere le donne al sicuro da quelle persone con un corpo maschile che potrebbero fare loro del male. Questi sono i principi in gioco quando si tratta della gestione dei prigionieri transgender, ed in particolare delle persone che nascono maschi e hanno corpi maschili e affermano di identificarsi come donne. Così com’è, il sistema carcerario consente ad alcune persone che si adattano a quella descrizione di alloggiare nelle carceri femminili, confinati con detenute donne. Questo è qualcosa che ha turbato alcuni medici, personale carcerario, gruppi di donne».

La correttezza politica e/o ideologica effettivamente apre scenari pericolosi e, per timori di essere nel mirino delle associazioni Lgbt, anche i numerosi oppositori rifiutano di prendere posizione. Così ad esempio è avvenuto sempre nel Regno Unito quando una coppia omosessuale è stata lasciata libera di abusare sessualmente dei bambini a loro affidati perché gli assistenti sociali -a conoscenza dei fatti- temevano di essere accusati di discriminazione e omofobia se avessero inoltrato denunce e segnalazioni.

La redazione

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Desideriamo l’infinito: una mancanza che suggerisce una Presenza

 
di Costantino Esposito*
*ordinario di Filosofia presso l’Università degli studi di Bari

da Gazzetta Filosofica, 28/09/18
 

Se è vero che la filosofia non è un insieme di teorie astratte, a maggior ragione non possiamo costruire un sistema puramente teorico riguardo ad un tema come quello del desiderio o limitarci a richiamare delle nozioni che lo definiscano astrattamente. Piuttosto, l’invito che questo tema rivolge a ciascuno di noi è quello di riflettere su come si presenti nella nostra esperienza questo stranissimo fenomeno. Il desiderio è infatti un fenomeno felicemente ambiguo ed enigmatico. Proverò a spiegarne il perché attraverso tre passaggi.

1) Innanzitutto il desiderio, come nell’esperienza accade, denota una mancanza: si desidera qualcosa perché non la si possiede. E non è una mancanza qualsiasi, occasionale o opzionale, ma piuttosto strutturale: più specificatamente, è una mancanza che ferisce, nella misura in cui viene avvertita in quanto tale e che più al fondo permette di scoprire la nostra stessa persona in quanto costitutivamente mancante. La mancanza dell’oggetto desiderato innesta la nostalgia e la tendenza a desiderare ciò di cui ci sentiamo mancanti e origina la coscienza della nostra permanente incompiutezza.

2) Al tempo stesso non riusciremmo a cogliere l’esperienza del desiderare, se ci fermassimo alla denotazione di una mancanza, cioè se non avvertissimo che il desiderio annuncia anche una presenza che ci attrae. Non è soltanto una mancanza che ci ferisce, ma è anche il presentimento o l’annuncio di qualcosa che non è in nostro possesso, ma di cui dobbiamo in qualche maniera avere una certa nozione, per poterla desiderare. Ignoti nulla cupido: non si potrebbe desiderare ciò che non si conosce. Dall’altra parte ciò che desideriamo non è conosciuto così bene da non volerlo possedere, o da non volerlo conoscere, ancora di più. Quindi il fenomeno del desiderio si attesta sulla soglia di una mancanza che al tempo stesso annuncia una presenza. Con i miei studenti faccio sempre l’esempio di quel semplicissimo fenomeno dell’attrazione che un pezzo di ferro ha verso un magnete. Anche se noi non vedessimo il magnete, il fatto stesso che vi sia un movimento verso qualcosa indica che vi è un punto di attrazione. Così il regime della penuria o della mancanza non basterebbe, empiricamente, a spiegare il moto della tendenza, se non ipotizzando un fattore che attragga.

3) Ultima notazione, che andrebbe sviluppata e approfondita ma a cui è prezioso accennare, è il fatto che il desiderare non è semplicemente una delle azioni della nostra vita cosciente, ma in una qualche maniera è tra i fenomeni che vengono a costituire il nostro stare al mondo, persino come radice nascosta della socialità tra di noi. Per comprendere questo punto basti pensare al rapporto tra il bisogno e il desiderio. Se c’è una cosa che tutti più o meno avvertiamo è che il bisogno (fame, sete, bisogno sessuale, etc.) è una mancanza a cui dobbiamo dare soddisfazione. Ma il bisogno rinasce sempre dalle sue ceneri: la sua soddisfazione non è mai compiuta, eppure il compimento che si cerca è sempre lo stesso. Come un meccanismo che si ripete, appunto una coazione a ripetere. Perciò se dovessimo scegliere tra il bisogno e la compiuta soddisfazione del bisogno, non avremmo dubbi e sceglieremmo la seconda rispetto al primo. È evidentemente meglio vivere la soddisfazione del bisogno che essere in qualche maniera dipendenti da esso. Ora, proviamo a fare lo stesso test con il desiderio: tra il desiderio e il suo totale compimento, cosa sceglieremmo? Probabilmente non vorremmo smettere di desiderare perché una soddisfazione compiuta ed esauriente del desiderio sarebbe in definitiva la morte. Possiamo pensare a una vita senza tanti bisogni, ma una vita senza desiderio sembra la condanna a una perdita. Tanto è vero che il soddisfacimento di un desiderio è tale che, proprio quando il desiderio viene soddisfatto, esso non cessa, ma anzi si moltiplica. Ed è un amplificarsi non come nel loop del bisogno, nella coazione del ripetere uno stesso meccanismo che deve ridare allo stesso bisogno lo stesso appagamento (come spegnimento), ma come il riconoscimento della natura tendenzialmente incompibile del desiderare e insieme della natura tendenzialmente indefinita o infinita del desiderato.

È qui che la grandezza di Cartesio, ci aiuta nel capire come mai questo fenomeno del desiderare è così unico: perché il suo oggetto è infinito. Come è scritto nella III Meditazione di filosofia prima, il filosofo, dopo aver fondato la certezza autoreferente del cogito, che può persino rinunciare al suo stesso corpo, ma non all’idea del suo sé, arriva a scoprire che, se l’io si inoltra nella vita del sé, trova dentro di sé, innata, l’idea di infinito, senza la quale non potrebbe percepire neanche l’idea di sé come essere finito. Ed è un’idea sui generis, perché essa dice di qualcosa, di una realtà, di una presenza desiderabile. Se non avessi quell’idea dell’infinito – continua infatti Cartesio – non potrei né desiderare né dubitare. Quindi il desiderio e il dubbio sono della stessa famiglia, perché il dubbio non è semplicemente astensione dalla certezza e rinuncia a una verità, ma indica quel movimento della ragione che, per così dire, vuole godere del vero. L’infinito abita nella nostra coscienza nella forma di ciò che possiamo desiderare come origine e come compimento di noi, ma al tempo stesso come ciò che ci permette di mettere in questione criticamente tutto il mondo del finito.

 

Qui sotto la magistrale lezione del prof. Esposito

 

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«L’Intelligenza Artificiale fallirà se vorrà trasmettere l’umanità ai computer»

La coscienza umana e l’intelligenza artificiale. La luminare di Scienze cognitive, Margaret Boden, spiega l’unicità umana e il fallimento dell’Intelligenza artificiale «fin quando sarà convinta della possibilità di trasmettere l’”umanità” ai computer».

 

Le discussioni sull’intelligenza artificiale (IA) spesso suggeriscono che se si continua ad aumentare l’IA debole -la capacità delle macchine di elaborare informazioni e risolvere problemi- ad un certo punto avremo un’intelligenza artificiale forte, ovvero la capacità di pensiero indipendente. Cioè, se potenziamo i nostri computer alla fine emergerà la coscienza.

Ma davvero arriverà un giorno in cui i computer saranno indistinguibili da un agente umano intelligente? Le cose non sono così semplici. Innanzitutto, come ha spiegato il filosofo John Searle, dell’Università della California, attraverso il suo famoso esempio della “camera cinese” (Chinese Room Argument), i computer altro non fanno che trovare soluzioni a seconda delle informazioni che l’uomo offre loro (come tradurre simboli cinesi grazie a delle istruzioni date in inglese). Essi forniscono indicazioni perfette senza però capire nulla di ciò a cui stanno rispondendo (ovvero, secondo l’esempio, inviano indicazioni per comprendere la lingua, nonostante non capiscano una parola di cinese).

Il filosofo analitico Jay Wesley Richards ha affrontato in modo simile la questione, ovvero ridimensionando i poteri dell’intelligenza artificiale: «Solitamente parliamo di computer che apprendono, commettono errori, diventano più intelligenti e così via. Dobbiamo ricordare che stiamo parlando in senso metaforico. Certo, se noi umani fossimo solo computer fatti di carne che ad un certo punto siamo divenuti esseri consapevoli, cosa impedisce ai computer di seguire la stessa strada? La domanda ha senso solo se si accetta la premessa e questo fanno molti ricercatori dell’IA. In realtà», ha proseguito Richards, «non c’è una buona ragione per supporre che la coscienza emerga per caso ad una certa soglia di velocità e potenza computazionale nei computer. Sappiamo per introspezione che siamo esseri coscienti e liberi, anche se non sappiamo davvero come funzioniamo. Tuttavia attribuiamo naturalmente la coscienza ad altri umani. Sappiamo anche in generale cosa succede all’interno di un computer, poiché li costruiamo e non ha nulla a che fare con la coscienza».

L’errore fatale, dunque, è formulare ipotesi semplicistiche sulla natura umana. E’ quello che sostiene anche una luminare dell’intelligenza artificiale, Margaret Boden, docente di Scienze cognitive presso l’Università del Sussex, una delle poche scienziate ad accettare che lo studio della coscienza umana non solo non ha un futuro roseo, ma nemmeno è campo esclusivo della scienza (d’altra parte è laureata in filosofia, psicologia e scienze mediche). II suo pensiero è chiaro: se l’Intelligenza Artificiale cerca di fare in modo che i computer facciano cose che le menti umane possono fare, il problema è sapere come la mente umana fa il genere di cose che fa, per essere in grado di replicare quelle stesse cose in un computer.

«I neuroscienziati che vogliono conoscere la coscienza rimarranno delusi», ha risposto Boden in un’intervista. «Stanno ponendo domande di base, materialistiche – come quali cellule si connettono a cosa o quali sostanze chimiche si diffondono- ma queste domande non sono le uniche importanti. I problemi fondamentali non sono solo scientifici – sapere cosa succede nel cervello quando siamo consapevoli e così via – ma domande filosofiche, in particolare sul fenomeno della coscienza. Ciò riguarda il difficile problema di come l’esperienza cosciente emerga dalla materia, e perché sperimentiamo, ad esempio, il “rossore del rosso”. Non è solo che non siamo sicuri di quali domande scientifiche porre; è che non sappiamo quali domande porre perché non sappiamo di cosa stiamo parlando». Nel suo libro AI: Its Nature and Future (Oxford University Press 2016), la Boden è stata più diretta: «Ciò che l’AI non potrà mai fare è corrispondere all’intelligenza generale umana».

La Boden critica anche il termine intelligenza artificiale, poiché «crea profondi problemi filosofici e neurologici. L’intelligenza implica la coscienza e cos’è la coscienza? Non c’è accordo nemmeno su cosa sia la coscienza e su come l’uomo l’abbia acquisita (qualunque cosa essa sia), quindi determinare se una macchina informatica raggiunge o meno uno stato cosciente è problematico. Se non lo comprendiamo in noi stessi, come lo riconosceremo?». Questo non significa che l’Intelligenza Artificiale abbia fallito, tutt’altro, ma che non farà progressi fin quando sarà convinta della possibilità di trasmettere l'”umanità” ai computer.

La coscienza resta così un mistero filosofico e scientifico. E proprio «l’intelligenza artificiale ci dà davvero buoni concetti per pensare alla mente e al cervello», ha detto la Boden. «La lezione più importante che l’IA ci ha insegnato è di apprezzare e riconoscere per la prima volta l’enorme potere e la sottigliezza della mente umana».

La redazione

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Il ratzingeriano Ouellet smonta le accuse di Viganò: «false e blasfeme»

Caso Viganò e Ouellet. Le accuse a Papa Francesco dell’ex nunzio definite “false” e “blasfeme” da uno stretto collaboratore di Benedetto XVI e da un pupillo di Giovanni Paolo II, il card. Marc Ouellet. Risposte ben documentate, al contrario delle accuse di Viganò, dopo lo studio degli archivi vaticani.

 

E dopo il dossier Viganò, da poche ore è uscito il dossier Ouellet che, basandosi su approfondite conoscenze di documenti d’archivio, smonta le accuse e la ricostruzione dell’ex nunzio apostolico. Ma chi è Marc Ouellet? Un fedelissimo di Giovanni Paolo II e, sopratutto, di Benedetto XVI. A testimoniarlo, in tempi non sospetti, perfino il vaticanista antibergogliano Sandro Magister, che riportò come tra Ouellet e Ratzinger, «il sodalizio è di lunga data, temprato da battaglie comuni». In un secondo articolo, datato 2013, Magister definì Ouellet «un cardinale di salda matrice ratzingeriana e ricco di talenti».

Effettivamente, dopo essere stato creato cardinale nel 2003 da Giovanni Paolo II, da lui nominato prefetto della Congregazione per i vescovi, presidente della Pontificia commissione per l’America Latina, arcivescovo metropolita di Québec e primate del Canada, Ouellet partecipò al conclave che elesse l’amico Benedetto XVI (alcuni dicono che Ratzinger votò per lui, come successore di Wojtyla), di cui divenne stretto collaboratore. Pochi mesi fa Ouellet dimostrò di mantenere un rapporto riservato con il Papa emerito ancora oggi.

Come dicevamo, in una lettera aperta all’ex nunzio Viganò, il card. Ouellet ha definito il dossier «una montatura politica» priva di fondamento. Ha premesso di scrivere la sua testimonianza «in base ai miei contatti personali e ai documenti degli archivi della suddetta Congregazione, che sono attualmente oggetto di uno studio per far luce su questo triste caso», riferendosi all’incredibile carriera del prelato abusatore Theodore McCarrick, nonostante molti sapessero di lui dal lontano 2001. Ecco alcuni stralci della sua testimonianza, da noi commentati e contestualizzati.

Se l’accusa di Viganò a Papa Francesco è quella di essersi fatto influenzare da McCarrick nonostante il suo avvertimento durante un’udienza del 2013 sul controverso passato del prelato in questione, il card. Ouellet replica così:

«Francesco, il 23 giugno 2013, ha concesso a te un’udienza, come a tanti altri rappresentanti pontifici da lui allora incontrati per la prima volta in quel giorno. Immagino l’enorme quantità di informazioni verbali e scritte che egli ha dovuto raccogliere in quell’occasione su molte persone e situazioni. Dubito fortemente che McCarrick l’abbia interessato al punto che tu vorresti far credere, dal momento che era un Arcivescovo emerito di 82 anni e da sette anni senza incarico. Inoltre le istruzioni scritte, preparate per te dalla Congregazione per i Vescovi all’inizio del tuo servizio nel 2011, non dicevano alcunché di McCarrick, salvo ciò che ti dissi a voce della sua situazione di Vescovo emerito che doveva obbedire a certe condizioni e restrizioni a causa delle voci attorno al suo comportamento nel passato. Dal 30 giugno 2010, da quando sono Prefetto di questa Congregazione, io non ho mai portato in udienza presso Papa Benedetto XVI o Papa Francesco il caso McCarrick, salvo in questi ultimi giorni, dopo la sua decadenza dal Collegio dei Cardinali. È falso presentare le misure prese nei suoi confronti come “sanzioni” decretate da Papa Benedetto XVI e annullate da Papa Francesco. Dopo il riesame degli archivi, constato che non vi sono documenti a questo riguardo firmati dall’uno o dall’altro Papa, né nota di udienza del mio predecessore, il Cardinale Giovanni-Battista Re, che desse mandato dell’obbligo dell’Arcivescovo emerito McCarrick al silenzio e alla vita privata, con il rigore di pene canoniche. Il motivo è che non si disponeva allora, a differenza di oggi, di prove sufficienti della sua presunta colpevolezza. Di qui la posizione della Congregazione ispirata alla prudenza e le lettere del mio predecessore e mie che ribadivano, tramite il nunzio apostolico Pietro Sambi e poi anche tramite te, l’esortazione a uno stile di vita discreto di preghiera e penitenza per il suo stesso bene e per quello della Chiesa. Il suo caso sarebbe stato oggetto di nuove misure disciplinari se la Nunziatura a Washington o qualunque altra fonte, ci avesse fornito delle informazioni recenti e decisive sul suo comportamento».

Marc Ouellet, dunque, al contrario di quanto scritto dall’ex nunzio, svela che da parte di Viganò non c’è mai stata alcuna comunicazione scritta sul card. McCarrick. E, anzi, studiando gli archivi vaticani, afferma che non esiste alcun archivio o dossier su questo prelato. Per questo, aggiunge Ouellet, «la tua attuale posizione mi appare incomprensibile ed estremamente riprovevole, non solo a motivo della confusione che semina nel popolo di Dio, ma perché le tue accuse pubbliche ledono gravemente la fama dei Successori degli Apostoli».

 

Il cardinale canadese sospetta anche che lo stesso mons. Viganò sia stato fatto oggetto di indebite pressioni, pur senza nominare i vaticanisti Aldo Maria Valli e Marco Tosatti, che molti dicono essere i veri ghostwriter di Viganò:

«Ti dico francamente che accusare Papa Francesco di aver coperto con piena cognizione di causa questo presunto predatore sessuale e di essere quindi complice della corruzione che dilaga nella Chiesa, al punto di ritenerlo indegno di continuare la sua riforma come primo pastore della Chiesa, mi risulta incredibile ed inverosimile da tutti i punti di vista. Non arrivo a comprendere come tu abbia potuto lasciarti convincere di questa accusa mostruosa che non sta in piedi. Francesco non ha avuto alcunché a vedere con le promozioni di McCarrick a New York, Metuchen, Newark e Washington. Lo ha destituito dalla sua dignità di Cardinale quando si è resa evidente un’accusa credibile di abuso sui minori».

 

L’ex nunzio Viganò, nel suo dossier, scrive che Francesco «non ha tenuto conto delle sanzioni a McCarrick che gli aveva imposto papa Benedetto e ne ha fatto il suo fidato consigliere». Per il card. Ouellet è un’accusa aberrante:

«Non ho mai sentito Papa Francesco fare allusione a questo sedicente gran consigliere del suo pontificato per le nomine in America, benché Egli non nasconda la fiducia che accorda ad alcuni prelati. Intuisco che questi non siano nelle tue preferenze, né in quelle degli amici che sostengono la tua interpretazione dei fatti. Trovo tuttavia aberrante che tu approfitti dello scandalo clamoroso degli abusi sessuali negli Stati Uniti per infliggere all’autorità morale del tuo Superiore, il Sommo Pontefice, un colpo inaudito e immeritato. Ciò non può venire dallo Spirito di Dio. Ho il privilegio di incontrare a lungo Papa Francesco ogni settimana, per trattare le nomine dei Vescovi e i problemi che investono il loro governo. So molto bene come egli tratti le persone e i problemi: con molta carità, misericordia, attenzione e serietà, come tu stesso hai sperimentato. Leggere come concludi il tuo ultimo messaggio, apparentemente molto spirituale, prendendoti gioco e gettando un dubbio sulla sua fede, mi è sembrato davvero troppo sarcastico, persino blasfemo!».

Blasfemia. Un pesantissimo giudizio sull’azione di mons. Viganò, che coincide con le ripetute richieste di Francesco di pregare per l’unità della Chiesa, che il Diavolo vorrebbe compromettere. L’ultima risale a oggi, durante l’Angelus.

 

In un altro importante passaggio, il card. Ouellet chiede la conversione e il pentimento al confratello Viganò per la sua rivolta e per aver insinuato il dubbio malevolo e trascinato lontano dalla Chiesa centinaia di fedeli:

«Caro confratello, vorrei davvero aiutarti a ritrovare la comunione con colui che è il garante visibile della comunione della Chiesa Cattolica; capisco come delle amarezze e delle delusioni abbiano segnato la tua strada nel servizio alla Santa Sede, ma tu non puoi concludere così la tua vita sacerdotale, in una ribellione aperta e scandalosa, che infligge una ferita molto dolorosa alla Sposa di Cristo, che tu pretendi di servire meglio, aggravando la divisione e lo sconcerto nel popolo di Dio! Cosa posso rispondere alla tua domanda se non dirti: esci dalla tua clandestinità, pentiti della tua rivolta e torna a migliori sentimenti nei confronti del Santo Padre, invece di inasprire l’ostilità contro di lui. Come puoi celebrare la Santa Eucaristia e pronunciare il suo nome nel canone della Messa? Come puoi pregare il santo Rosario, San Michele Arcangelo e la Madre di Dio, condannando colui che Lei protegge e accompagna tutti i giorni nel suo pesante e coraggioso ministero?»

Il cardinale ratzingeriano mette a nudo la complicata e confusa situazione spirituale dei tanti piccoli Viganò che in questi anni hanno fatto della guerra al Successore di Pietro la loro battaglia quotidiana. Cattolici che creano scandalo innanzitutto in loro stessi, imbarazzati durante l’Eucarestia. Alcuni, per uscire da tale scisma interiore, hanno aderito a sette alternative, come quella di Alessandro Minutella.

 

La conclusione del card. Ouellet è che il dossier Viganò è una montatura politica priva di un reale fondamento.

«In risposta al tuo attacco ingiusto e ingiustificato nei fatti, caro Viganò, concludo dunque che l’accusa è una montatura politica priva di un reale fondamento che possa incriminare il Papa, e ribadisco che essa ferisce profondamente la comunione della Chiesa. Piaccia a Dio che questa ingiustizia sia rapidamente riparata e che Papa Francesco continui ad essere riconosciuto per ciò che è: un pastore insigne, un padre compassionevole e fermo, un carisma profetico per la Chiesa e per il mondo. Che Egli continui con gioia e piena fiducia la sua riforma missionaria, confortato dalla preghiera del popolo di Dio e dalla solidarietà rinnovata di tutta la Chiesa assieme a Maria, Regina del Santo Rosario».

 

Siamo dunque di fronte ad una (prima?) testimonianza di fondamentale importanza che contribuisce a smontare le falsità dell’ex nunzio Viganò, già emerse nei primi giorni dopo la pubblicazione del suo dossier. Per questo le sue parole stanno giustamente facendo il giro del mondo. Non solo Ouellet è stato collaboratore dello stesso Carlo Maria Viganò quando quest’ultimo era nunzio apostolico a Washington, ma parla per conoscenza di causa e a nome di documenti di archivio, quelli che mons. Viganò non ha mai voluto citare. E’ un cardinale ritenuto di “stampo conservatore” (ci scusiamo con lui per questa etichetta politica che riteniamo errata e riduttiva), un amico personale di Benedetto XVI e un fedele servitore della Chiesa.

Così come lo è il segretario personale di Benedetto XVI, Georg Gänswein, immediatamente intervenuto per smentire la falsità di Timothy Busch, avvocato e amico dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, quando diffuse la notizia che Ratzinger aveva confermato il dossier, e come lo è l’ex portavoce del Papa emerito, padre Federico Lombardi, che smentì la falsa ricostruzione di Viganò sull’incontro tra il Papa e Kim Davis, avvenuta durante il viaggio pastorale negli Stati Uniti.

Poche ore fa Michele Brambilla, l’editorialista del quotidiano conservatore italiano, Il Giornale, ancora non era a conoscenza della lettera del card. Ouellet. Eppure ha scritto un giudizio chiaro che condividiamo: «Monsignor Viganò non fa altro che ripetere, ad ogni inizio delle sue invettive, che parla “per il bene della Chiesa”, che segue il “dovere di battezzato”, e tutte queste premesse hanno il marchio evidente di excusatio non petita. Se si ricordasse davvero di essere un battezzato, monsignor Viganò non chiederebbe le dimissioni del Papa, perché saprebbe che il Papa è il Vicario di Cristo. Chiedere le dimissioni di un Papa perché non avrebbe punito abbastanza un cardinale (peraltro da lui rimosso) è un’assurdità che si commenta da sola. La verità palese, evidente, è che queste pubbliche polemiche sono fatte per il male, non per il bene della Chiesa».

La redazione

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La differenza profonda tra speranza cristiana e l’utopia del mondo

La speranza cristiana, su quali basi poggia? Si differenzia dall’utopia? Il suicidio di un militante sessantottino permette di coglierne le profonde diversità.

 

Due amici al bar, uno cattolico e l’altro comunista. Il secondo estrae dalla tasca un vecchio numero di Lotta Continua, datato 1968. Contiene la drammatica lettera di un militante della sinistra extraparlamentare che piange il suicidio di un compagno, Roberto.

Fu un caso noto all’epoca, l’autore di quel testo scrisse: «quando si muore così non si può neanche gridare “poliziotti assassini”. Ce l’avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno: ucciso dai fascisti, dalla polizia e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore. Ma morire così, da solo, in una giornata d’agosto, in un’auto piena di gas di scarico… No!».

La ferita per l’amico che non c’è più porta a galla l’utopia della “rivoluzione”, l’ingenuità della ribellione, la “lotta per la libertà”. Ma liberi da che? «Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l’angolo ad attenderci cortese e sorridente», scrive il militante sessantottino. «Si avanzava decisi verso lo ‘scontro decisivo’. Ma molti ‘scontri decisivi’ passavano e tutto pareva rimanere immutato. Quel piccolo ritardo, irrilevante sul calendario della storia, diventava per alcuni la misura di un fallimento. In contrasto con questa esasperante lentezza, la nostra vita, quella sì, correva veloce e senza intoppi: ti toglieva la giovinezza, ti spingeva ad un lavoro che non c’era o in ogni caso quasi sempre ad un lavoro schifoso». Così, resta «il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così: c’è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi».

In questo testo, così reale e lucido, viene tolta la maschera a quel che chiamiamo l’ideologia del progresso. Sprecare la vita per un domani sicuramente, certamente roseo, che però non arriva mai. Questo è stato l’inganno marxista che ha soffocato milioni di uomini, abbandonandoli nelle loro illusioni di cambiamento. Il comunismo ha interiorizzato la speranza cristiana nell’avvenire, privandola però di Dio e caricandola, invece, sulle spalle degli uomini. Un fallimento, un tragico fiasco.

L’ideale cristiano è un’altra cosa. Dato che la mia vita è cambiata oggi, si è illuminata in questo istante, qui ed ora, grazie all’incontro cristiano, allora è su tale ragionevole certezza morale che posso autenticamente sperare, confidare nel domani. Ciò che ha cambiato me, oggi, potrà cambiare altri domani, trasformando lentamente il mondo. L’ideale, in sintesi, si basa, si verifica e si gioca interamente sull’istante, l’ideologia secolare è invece un vuoto percepito che si trascina nella illusoria speranza di essere riempito domani.

La famosa lettera appena citata colpì anche i cattolici di allora, così venne commentata da un sacerdote durante un’assemblea universitaria: «Parto da una constatazione. L’ideale cristiano parla a me, oggi: il presente è anticipazione del futuro. L’ideologia non risponde alle mie esigenze del presente ma a quelle, presunte, della società futura. Il vuoto di oggi è riempito dalla lotta per il domani: ma le mie domande di senso e di felicità non aspettano. Il mio presente non ha risposte e il futuro della società si trasforma col tempo da immagine a miraggio. Ecco dove nasce la tragica delusione: ciò che si è già rivelato menzogna per il mio presente appare come possibile menzogna per il futuro della società. Questa è, in estrema sintesi, la storia dell’extraparlamentare Roberto».

La redazione

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Verona, “schifati” da chi offre alternative all’aborto? Ma lo chiede la legge 194

Mozione contro l’aborto a Verona? In realtà offre un’alternativa all’interruzione di gravidanza, applicando pienamente la legge 194 ma che Cirinnà e Boldrini ritengono vergognosa e schifosa. Per loro l’aborto deve restare l’unica possibilità per le neo-mamme per non “tornare al Medioevo”.

 

«In Italia è in corso una battaglia che sta minacciando i diritti conquistati» scrivono i grandi quotidiani. Cosa sarà mai successo? Semplicemente l’applicazione integrale della legge abortista 194, che all’articolo 2 prevede che si contribuisca «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».

Il consiglio comunale di Verona ha infatti approvato con 21 voti a favore e 6 contrari, una mozione della Lega sottoscritta dal sindaco Federico Sboarina, che dichiara Verona «città a favore della vita», sostiene i progetti chiamati “Gemma” e “Chiara” e promuove il progetto regionale chiamato “Culla segreta”.

Nonostante abbia votato a favore anche la capogruppo del Partito Democratico in consiglio comunale, Carla Padovani, i rappresentanti nazionali del PD (assieme al Movimento 5 Stelle) hanno dato il meglio di loro stessi. Monica Cirinnà si è detta subito “schifata”, Laura Boldrini ha parlato di “vergogna”, Michela Marzano ha tuonato contro i “nemici delle donne”, Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, lo ha definito un “attacco alla 194”, Barbara Pollastrini ha ordinato alla Padovani di chiedere scusa al mondo intero, Mattia Fantinati (M5S) ha parlato di “ritorno al Medioevo” e di “mammane”.

Eppure i progetti “Chiara” e “Gemma” prevedono entrambi l’aiuto economico per un anno alle mamme in difficoltà e ai loro bambini, offrendo un’alternativa concreta a chi accede all’interruzione di gravidanza per difficoltà economiche e permettendo loro di portare a termine con serenità il periodo di gestazione. Il progetto “Culla segreta” permette invece alle mamme gravide, che non hanno possibilità di tenere il bimbo, di partorire in ospedale in modo sicuro e in anonimato e valutare la possibilità dell’adozione.

Sono dunque tre progetti di aiuto alle neo-mamme. Ma evidentemente per Cirinnà, Boldrini e compagni “anti-vita” le donne devono e possono solamente abortire, senza aver alcuna alternativa. I consiglieri del PD, a partire da Maurizio Martina, stanno obbligando la capogruppo PD Padovani a dimettersi ma lei non ha alcuna intenzione di pentirsi: «Ho votato a favore perché sono favorevole a qualsiasi iniziativa a sostegno della vita che può essere in questo caso sostegno della vita nascente oppure dell’immigrazione. Questo è un classico voto di coscienza. La difesa della vita è un valore universale».

Il commentopiù decisivo è stato quello del direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: «Se si cerca di tutelare la vita nascente offrendo un aiuto alle donne, sarebbe plausibile pensare che tutti coloro che hanno a cuore i valori fondanti della nostra società si associno. O, per lo meno, non si mettano di traverso. Ma il Pd nazionale, ieri, ha perso un’occasione importante, scagliandosi contro la sua capogruppo in Comune a Verona, “rea” di avere votato a favore di una mozione tesa a limitare il ricorso all’aborto. Si è dimenticata la libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili. Soprattutto, si è data la nefasta impressione di volere difendere un diritto a “escludere” e a “sopprimere” proprio quando si contesta ad altri, su altri fronti, la volontà di “escludere” e “rifiutare”. Un errore, è il caso di dirlo, mortale».

La redazione

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