L’inedito Michel Houellebecq: «I cattolici? Salveranno l’Occidente dal suicidio»

Houellebecq, i suoi libri e il suicidio dell’Occidente. Il celebre romanziere francese dimette i panni del libertino e si mostra compiaciuto della crescente fertilità dei cattolici e della determinazione delle nuove generazioni.

 

E’ nel 2015 che anche in Italia si iniziò a parlare abitualmente del saggista francese Michel Houellebecq, grazie al suo bestseller Sottomissione (Bompiani 2015).

Parla della vittoria di un partito islamico radicale che vincerà le elezioni in Francia nel 2022 grazie all’alleanza con il Partito Socialista: un libro provocatorio, chiaramente, e per macabra coincidenza pubblicato il giorno della strage nella redazione di Charlie Hebdo.

Houellebecq venne definito «l’enfant terrible della letteratura francese», ogni suo romanzo è un evento nazionale ed è oggetto di apprezzamenti ma anche critiche spietate: islamofobo, misogino, razzista ecc. In una famosa intervista ha risposto: «Sono islamofobico? Sì, probabilmente. Si può aver paura, la parola fobia significa paura piuttosto che odio. Temo che tutto vada storto in Occidente; si potrebbe dire che già sta andando male. Sono spesso le minoranze più risolute a fare la storia, è quello che sta accadendo con l’Islam radicale». Il romanziere si è guadagnato la difesa del filosofo Alain Finkielkraut e di Marine Le Pen, leader del Rassemblement national (ex Front National), seppur Houellebecq sia un socialista convinto.

Socialista e ateo, eppur accusa l’Occidente di «suicidio economico, demografico e sopratutto spirituale». Nel weekend scorso ha tenuto una conferenza a Bruxelles, tutta dedicata all’Occidente, durante la quale ha fatto delle affermazioni piuttosto insolite e significative:

«Una società senza religione, una società secolarizzata conduce una vita infelice e breve. Questa era la tesi di Auguste Comte ma mi ha sedotto perché ho avuto l’opportunità di scoprire nella mia vita che privata che la religione è in grado di cambiare il comportamento di un essere umano, in effetti è l’unica cosa in grado di farlo».

Ha sempre sostenuto l’impossibilità per la società a sopravvivere senza religione perché, assieme la famiglia, è l’unica in grado di rispondere adeguatamente alla necessità esistenziale di dare un senso all’esistenza. Si conferma però l’impressione che da due anni a questa parte il celebre romanziere francese abbia anche personalmente dismesso i panni dello scrittore edonista e libertino, tanto che qualche tempo fa ha constatato compiaciuto «un curioso ritorno del cattolicesimo» in Francia, sopratutto dopo la celebre manifestazione della Manif pour tous contro il matrimonio omosessuale.

«È un fenomeno che constato senza capirlo veramente, ed è meno reazionario di quanto si pensi. I cattolici in Francia sono diventati così consapevoli della loro forza. Era come una corrente sotterranea che improvvisamente è venuta alla luce. Per me è uno dei momenti più interessanti della storia recente. Il fatto è che i fedeli cattolici mettono al mondo più bambini degli altri. E trasmettono i loro valori ai bambini. Cioè, il loro numero aumenterà».

Rispetto alla crisi demografica, secondo lui è errato legarla alla crisi economica ma piuttosto sostiene l’idea che vi sia una incompatibilità tra benessere e natalità, quando cresce uno decresce l’altro, seppur consapevole di sfidare il buon senso. Ma le religioni sono un’eccezione, come è stato per l’Islam all’inizio del ‘900: sembrava sull’orlo della scomparsa ma è riuscito a rinascere grazie all’alto tasso di fertilità. «Quello che è successo con l’Islam, potrebbe succedere oggi con il cristianesimo?», si domanda.

L’ipotesi di Houellebecq coincide con quella di un grande storico delle religioni, Philip Jenkis, docente alla Baylor University e alla Pennsylvania State University, di cui abbiamo parlato poco tempo fa. Ha constatato che «se la fertilità è minore, allora la società è anche più laica, meno religiosa. E’ una magia sociologica». Per questo Jenkis ha risposto positivamente alla domanda di Houellebecq: sì, il cristianesimo salverà l’Occidente dal suo suicidio poiché le famiglie cristiane sono fertili, educano i figli con valori forti e questo accade in Europa ma, sopratutto, in Nigeria, in Etiopia e in tutto il Golfo arabo. Popolazioni cristiane che, volenti o nolenti, arriveranno presto all’interno dei confini europei, si stabiliranno, lavoreranno e faranno famiglia: «Il cristianesimo può rischiare di scomparire, certo, ma rinasce sempre. E’ come la resurrezione».

La redazione

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«Vivere in terra islamica? Ci aiuta ad essere cristiani più vivi e coscienti»

Cristiani tra gli islamici. Una bellissima testimonianza di Paul Hinde, vescovo ad Abu Dhabi, sulla positività della realtà e sulla vivacità dei cattolici nella penisola arabica: «questa gente lavora tutto il giorno e ha ancora fiato di venire a messa la sera. È qualcosa di straordinario».

 

Abbiamo stima e ammirazione per chi sa cogliere nel reale, così difficile e avverso, un’opportunità per sé. Purtroppo molti crollano nel disfattismo, passano la vita a rincorrere un passato che non c’è più, si deprimono nella nostalgia. Ed invece la realtà è misteriosamente positiva, qualunque essa sia.

Questo ci insegna l’irriducibile speranza di Asia Bibi e dei cristiani perseguitati e l’assenza di odio verso quella parte dell’Islam che vorrebbe la loro distruzione, rancore viscerale malamente vissuto molto di più dai cattolici europei che dai fratelli in Medio Oriente. Pensiamo alla piccola Myriam, rifugiata nel campo profughi di Qaraqosh (Iraq) e alla sua gigante testimonianza quando così rispose durante quell’intervista con Sat7, la tv cristiana del Medioriente: «Non voglio far niente a coloro che ci hanno costretto ad abbandonare casa nostra, chiedo solo a Dio di perdonarli».

 

Un altro testimone della autentica posizione cristiana nel mondo è quella monsignor Paul Hinder, frate cappuccino e vescovo ad Abu Dhabi, nella penisola arabica. In un’intervista recente ha parlato della vita dei cristiani in terra islamica, dando alcuni giudizi davvero interessanti che abbiamo scelto di mantenere in forma originale, senza commento.

«Il 30 gennaio 2014 fui ordinato vescovo ad Abu Dhabi. Non ci sono statistiche affidabili sui cattolici. Direi almeno due milioni e mezzo. Molti vivono in Arabia Saudita dove, com’è noto, non esistono luoghi di culto ma soltanto una pastorale interna discreta.

«Ogni anno mi reco in tutte le parrocchie, di solito le visite pastorali prendono da fine gennaio a inizio giugno. Durano dai 4 agli 8 giorni, come per esempio a Dubai: è una delle parrocchie più grandi del mondo, ha oltre 300mila fedeli, anche se non tutti possono venire in chiesa. Incontro i gruppi e le persone che vogliono parlare al vescovo. Impartisco migliaia di cresime, 800 soltanto a Dubai. Incontro tutti i preti, individualmente e in gruppo, vediamo i problemi e prendo decisioni quando necessario. Dico qualche parola in ogni messa. Dal venerdì mattina alla domenica sera parlo in più di 20 celebrazioni a migliaia di persone. Non ho mai predicato tanto come nei Paesi del Golfo. È un lavoro enorme. Ad Abu Dhabi diciamo 3 messe al giorno, in inglese, dal lunedì al giovedì, 6 il venerdì, 3 il sabato e 8 la domenica. Chi lavora può venire a messa soltanto il venerdì, giorno festivo dei musulmani. Poi ne diciamo altre in 15 lingue diverse: i miei preti sono frati cappuccini provenienti da 20 province diverse del mondo»

È difficile vivere la fede in quei Paesi?

«Non è facile da nessuna parte. Però l’ambiente musulmano ci aiuta a essere più coscienti. Ascoltare cinque volte al giorno la chiamata alla preghiera musulmana è un richiamo anche per noi, per la nostra pratica. Vedere come loro vanno alla moschea è uno stimolo: non dobbiamo prendere la nostra fede come scontata. La gente che ci visita dall’India o dalle Filippine dice che la propria gente è più attiva nel Golfo che in patria. Noto che la Chiesa per molti è una patria di appartenenza, in senso spirituale ma anche come luogo dove si incontrano persone di diverse etnie che credono nelle stesse cose. La partecipazione di tanti gruppi è stupenda e mi stupisce ancora dopo tutti questi anni. Quando sono tornato dopo 2 mesi di assenza a causa di un intervento chirurgico in Svizzera, ho celebrato messa la sera di un giorno feriale e la chiesa era piena, saranno state mille persone. Quando penso ad altre regioni del mondo, mi dico che lì hanno tutte le libertà ma non le usano per coltivare la fede: da noi questa gente lavora tutto il giorno e ha ancora fiato di venire a messa la sera. È qualcosa di straordinario».

Com’è la sua esperienza con l’islam?

«Non esiste soltanto un islam. In Arabia predominano i sunniti, nell’Oman gli ibaditi, nello Yemen si trovano sunniti e il ramo sciita degli huthi. Negli Emirati almeno l’80% dei musulmani è straniero: pakistani, indiani, indonesiani, bengladesi. Anche se si chiamano tutti fratelli tra di loro, come del resto anche noi, un musulmano pakistano non è allo stesso livello di quello emiratino: malgrado la umma, la famiglia islamica, rimangono differenze sociali e forse anche di ordine razziale».

I cattolici sono rispettati?

«Mi è capitato di essere invitato durante il ramadan in qualche famiglia per la festa della sera dopo il digiuno, è uno scambio di familiarità e amicizia che ho sempre ammirato. Poi magari esagerano perché vanno avanti quasi tutta la notte e di giorno sono stanchi e devono digiunare di nuovo. Vado come religioso, non mi nascondo, e non posso lamentarmi. Non ho timore di incontrare gli ufficiali del governo e i diplomatici. È chiaro, quando si arriva al punto loro sono il top della religione. A volte qualcuno mi domanda come mai una persona può essere buona e perbene senza essere musulmano: per loro le due cose coincidono. Un dialogo interreligioso fatto a Riad o Abu Dhabi è diverso da quello che si fa a Roma, Vienna o New York, è evidente. Ci si esprime più liberamente altrove. Però è importante conoscere le persone, vedersi e parlarsi a faccia a faccia. La pratica religiosa può avvenire soltanto all’interno dei terreni concessi alle parrocchie. Però io non devo presentare la mia omelia al governo, a differenza dell’imam che deve recitare il testo ufficiale del ministero o presentare il suo testo in anticipo: in questo senso siamo quasi più liberi. Tuttavia, non possiamo agire fuori dei luoghi che ci sono attribuiti, nemmeno nei villaggi distanti centinaia di chilometri da una chiesa. Se qualche volta ci rechiamo nei villaggi lontani, per incontrare i nostri fedeli, lo facciamo a nostro rischio. Ma è impressionante vedere la gente all’interno, isolata ma felice anche solo di vedere il vescovo che non ha paura di recarsi da loro. I cristiani possono diventare musulmani, sono i benvenuti, ma a noi è vietato convertire. Non è facile ottenere i permessi per costruire chiese. Ci vuole molta pazienza e anche insistenza. Siamo obbligati a non esporre nessun segno esplicitamente cristiano all’esterno, nulla di visibile da fuori: croci, campanili, statue. I divieti sono esplicitati nei contratti di concessione dei terreni. Ci vengono concessi per lo più con una forma di comodato gratuito. La costruzione è a carico nostro. E se un giorno l’emiro decide che in quel posto sarebbe meglio fare altro, dobbiamo sloggiare».

È contento del suo percorso?

«È stato duro all’inizio. Ricordo la prima volta che venni negli Emirati come visitatore, quando non c’era ancora il rischio di diventare vescovo. Mi dicevo: mai potrei sopravvivere da queste parti. È andata diversamente. Ma ho detto sì e ora sono grato. Non avrei mai avuto una vita così ricca, interessante, in un punto strategico per la politica internazionale e per la religione».

La redazione

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Irlanda del Nord, le donne contro i politici britannici: «tenetevi pure la legge sull’aborto»

Irlanda del Nord e aborto. Migliaia di donne nordirlandesi appartenenti a tutti gli schieramenti politici sono scese in strada contro il parlamento britannico, intenzionato a fare pressioni per una legge sull’interruzione di gravidanza meno restrittiva.

 

La legge sull’aborto vigente nel Regno Unito è molto diversa da quella nell’Irlanda del Nord, dove l’interruzione di gravidanza è vietata in quasi tutte le circostanze, a parte quando è a repentaglio la vita della donna. Il Regno Unito, invece, consente l’aborto “a piacere”, ossia il bambino si “fa fuori” senza troppe condizioni.

Il Parlamento britannico ha qualche mese fa tentato di allineare le due disposizioni legislative. Ed è proprio contro questo allineamento che le donne nord-irlandesi hanno marciato: unioniste, repubblicane e nazionaliste sono andate a Londra per chiedere di mantenere le restrizioni in vigore.

La delegazione era formata dalle parlamentari irlandesi senza distinzione di ideologia: Sinn Fein, Partito democratico unionista (DUP), nonché consigliere socialdemocratiche e laburiste locali. Manifestando una coesione degna di plauso, la delegazione ha chiesto ai parlamentari britannici di ascoltare la voce delle donne e di mantenere “restrittiva” e non “più liberale” la legge nordirlandese. Nel frattempo, la Corte Suprema del Regno Unito aveva già respinto il ricorso presentato dalla solita organizzazione “per i diritti umani”, che chiedeva l’abrogazione della legge irlandese “lesiva dei diritti delle donne”. Anche la premier Theresa May non ha voluto metterci le mani e, interpellata, si è rifiutata di esprimersi su un tema così scivoloso per un politico di professione.

Qualche settimana fa un caso simile in Italia. Il leghista Alberto Zelger, consigliere comunale di Verona, in occasione del 40° anniversario dell’entrata in vigore della legge 194, è riuscito ad impegnare il sindaco e la Giunta a sostenere iniziative per la prevenzione dell’aborto: fondi appositamente dedicati, allargamento e varo di nuovi progetti provita. Verona è “città a favore della vita”.

La votazione ha provocato la solita risibile reazione delle femministe che, per l’occasione, si sono presentate nell’aula comunale indossando i panni delle note “ancelle” di Handmaid’s Tale: l’intento loro era evidente, ma a noi è piaciuto pensare che si vergognassero e quindi si rendessero irriconoscibili per quel motivo. Naturalmente hanno disturbato, schiamazzato e riproposto il ben noto gesto, di cui dovrebbero essere stanche da un pezzo.

L’aspetto “clamoroso” di questa vicenda, come sappiamo, è stata la firma a favore apposta da Carla Padovani, capo gruppo del Partito Democratico, che si è fatta contare fra i ventuno consiglieri a favore, lasciando a sei il numero di quelli contro. Sembrerebbe quindi che si sia creato un pericoloso precedente per i “pro-aborto”: la difesa della vita è trasversale e gli indifesi sono tutelati da chiunque, a prescindere dal colore politico: affermazioni inaccettabili per chi ritiene che la salute di una donna passi anche per l’omicidio del proprio figlio.

Si comincia dunque ad intravedere una coesione sulle questioni fondamentali da parte di chi non potrebbe essere più lontano dall’altro in materia di procreazione e difesa della vita. E’ come se la lampada accesa finalmente sia stata tolta da sotto il moggio e messa sul candelabro, per illuminare chiunque nella stanza a prescindere dalle sue idee e convinzioni. Tutti per la vita e la vita per tutti.

Carla Vanni

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Isabella di Castiglia, la regina cattolica che difese la libertà degli Indios

Il testamento di Isabella la Cattolica e i popoli nativi. Una regina piena di fede ed umanità che finanziò Cristoforo Colombo cercando di impedirgli di creare schiavi, ritenendoli liberi e degni di rispetto.

 

Settimana scorsa si è tenuto a Valladolid (Spagna) un Simposio Internazionale su Isabella I di Castiglia, conosciuta anche come Isabella la Cattolica, per favorire l’apertura della causa di beatificazione. Vi ha partecipato anche Guzmán Carriquiry Lecour, accademico e vice presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina.

Finalmente si è parlato delle virtù eroiche e della fede esemplare di Isabella, così come testimoniata da diversi suoi contemporanei, come il suo confessore Hernando de Talavera o il beato Giovanni de Palafox. Un modello anche per le sue doti amministrative avendo contribuito in modo considerevole a costruire il concetto di Stato moderno.

Il suo nome è legato al fenomeno della colonizzazione delle Americhe e spicca rispetto ad altri re e regine per la sua ferrea decisione ad affermare il diritto naturale dei nativi americani a non essere ridotti in schiavitù. Se confrontiamo la mentalità di Isabella di Castiglia con quella di Elisabetta I d’Inghilterra o di Giacomo I d’Inghilterra emerge che la prima ha fatto razzia e schiavitù senza mai occuparsi dei nativi americani, mentre Re Giacomo ha obbligato l’evangelizzazione dei popoli colonizzati, ignorando la loro sorte.

Se leggiamo invece il famoso testamento della regina Isabella, datato 12 ottobre 1504, c’è un intero paragrafo di norme sul trattamento degli indiani. La richiesta è di «indurre», non forzare, «i popoli del mare alla conversione alla nostra santa fede cattolica, e di inviare in dette isole religiosi e sacerdoti per istruire i residenti e insegnare loro le buone abitudini». In particolare il matrimonio monogamico indissolubile, l’abolizione dell’infanticidio e di altri omicidi, abolizione dei quotidiani e cruenti sacrifici umani, l’abolizione del cannibalismo e l’introduzione di un’efficace economia con arti e mestieri. La sanguinosa violenza dei popoli indigeni si interruppe proprio grazie all’introduzione della morale cristiana.

Isabella la Cattolica invitò calorosamente re Fernando, la figlia Giovanna la Pazza e il genero, Filippo il Bello, «di usare molta diligenza» verso i popoli nativi (lo ripeté due volte), per evitare che «ricevano qualche danno alle loro persone e ai loro beni». E aggiunse: «ordino che siano trattati bene e con giustizia. E se qualche torto è stato da loro ricevuto, rimediatelo e risolvetelo».

Da quelle linee guida di Isabella del 1504, la Spagna realizzerà un intero corpo di leggi che cercano di proteggere gli abitanti del Nuovo Mondo, purtroppo spesso con poco successo. Nel 1512 furono emanate da Ferdinando il Cattolico le Leggi di Burgos in cui i nativi vennero definiti “liberi” e gli si garantiva un lavoro tollerabile e correttamente stipendiato; nel 1542 Carlo V promulgò le Nuove Leggi, che posero i nativi sotto la protezione della Corona.

Isabella finanziò la spedizione che portò Cristoforo Colombo a scoprire il continente americano e appena iniziò il fenomeno di schiavitù intervenne, il 20 giugno 1500, ordinando che gli indios fossero rimpatriati alle loro famiglie (cioè in America), a sue spese. Lo storico spagnolo e premio Nobel per la Pace, Rafael Altamira, ha affermato: «è una data memorabile per il mondo intero, perché essa segna il primo riconoscimento del rispetto per la dignità e la libertà di tutti i popoli, pur ignoranti e primitivi che siano; principio che fino ad allora non era stato proclamato in nessuna legislazione, molto meno era stato praticato in qualsiasi paese».

Isabella ordinò quindi a Colombo di «non fare mai più schiavi», anticipando di 35 anni i sermoni infuocati del domenicano Francisco de Vitoria che, assieme al vescovo Bartolomé de Las Casas, è considerato uno dei padri fondatori del diritto internazionale poiché formulò ed esplicitò i diritti degli indios, tra i quali la nativa libertà, la loro dignità umana, la capacità giuridica.

La redazione

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«Omosessuale, ma vivo in castità. La proposta della Chiesa mi ha reso libero»

Chiesa, omosessuali e castità. Daniel Mattson racconta di aver accolto la proposta della Chiesa alle persone omosessuali e di come sia rinato, come persona e come cristiano.

 

“Impossibile!”. Così viene liquidata la proposta della Chiesa alle persone con tendenza omosessuale, ovvero la chiamata alla castità. Ma il musicista del Michigan, Daniel Mattson, ribalta gli schemi: «Ho accolto la parola della Chiesa sulla castità e ho trovato la pace».

Avere inclinazioni omosessuali non è affatto incompatibile con la fede cristiana, né tanto meno con la vocazione alla santità. La questione è il disordine generato dagli atti sessuali, si chiamano “peccato” poiché sono inciampo, limite alla felicità stessa dell’uomo. Non per chissà quale capriccio teologico.

La prova vivente di ciò è appunto Mattson che ha messo per iscritto la sua biografia (introdotta dal card. Robert Sarah) in Perché non mi definisco gay. Come mi sono riappropriato della mia realtà sessuale e ho trovato la pace (Cantagalli 2018). Cresciuto come cristiano, ha vissuto con dramma le attrazioni sessuali per lo stesso sesso fino a ritenere inutile un’armonizzazione, cedendo alle sue pulsioni. L’infelicità era la sua croce, almeno fino all’incontro con Courage, l’apostolato di persone omosessuali fondato dal card. Terence Cooke, arcivescovo di New York. Da allora Mattson rifiuta di etichettarsi come “gay” avendo scoperto, grazie alla Chiesa, di essere più che la sua omosessualità.

Condizione che oggi ha accettato pienamente senza sentirsi in colpa, in quanto vive nella castità. «Ho trovato la libertà nell’insegnamento della Chiesa», ha raccontato di recente in un convegno svoltosi ad Angri (SA), alla presenza del vescovo Giuseppe Giudice. «Il Papa ci ha insegnato l’importanza di accompagnare le persone e dobbiamo cominciare là dove sono nel loro percorso. Gesù mi dice che non sono condannato. E questo è un dono, ma è anche un dono che mi dica: “vai e non peccare più”».

Una bella testimonianza, indicata prevedibilmente come “omofoba” dai cattocomunisti di Adista, legati a Vito Mancuso, Luca Kocci e all’associazione progressista Noi Siamo Chiesa, scomunicata da Bergoglio. Arrabbiati per l’importante presenza del vescovo Giudice, lo stesso che ha chiesto di «sintonizzarsi con l’orologio di Papa Francesco». Curioso, per questi “cattolici” anche seguire alla lettera l’indicazione del Catechismo cattolico sarebbe un atto di omofobia. Quanti altri Mattson serviranno perché il pregiudizio possa essere davvero sconfitto?

La redazione

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Carlo Rovelli elogia lo spinello libero ma in Colorado la situazione è disastrosa

Rovelli, cannabis e Colorado. Il fisico sessantottino elogia ingenuamente la decisione del Canada di liberalizzare la marijuana ma trascura i preoccupanti dati che arrivano dal Colorado.

 

«Quasi quasi mi accendo una canna nostalgica per festeggiare!». Così il fisico Carlo Rovelli ha celebrato la liberalizzazione della marijuana in Canada, dimostrando nel suo articolo quanto sia forte lo sdoppiamento di personalità: così autorevole nel suo campo di specializzazione (la gravità quantistica) quanto ingenuo, banale ed inattendibile in tutto il resto.

Lo aveva già notato Umberto Minopoli commentando il “manifesto elettorale ideale” di Rovelli, rimasto evidentemente ai suoi tanto amati anni ’70, tra Peace&Love e capelloni lunghi, quando «fumare insieme marijuana era un piccolo rito collettivo per dirsi l’un l’altro: crediamo nella possibilità di un mondo migliore di questo». In realtà la droga, prima di diventare una dipendenza, è sempre stata una debolezza esistenziale di fronte ad un mondo, una realtà che si ritiene inadeguata rispetto alle proprie aspettative, noiosa o crudele e, per questo, si cerca una fuga, per quanto momentanea e psicologicamente ingannevole.

Qualcuno avverta Rovelli che a Woodstock hanno smesso di suonare 49 anni fa e forse è il caso di risalire sul Volkswagen Bulli a fiori e ritornare a casa. O, per lo meno, provare ad informarsi prima di scrivere sul Corriere della Sera un elogio allo “spinello libero”, ignorando che l’Università di Washington ha mostrato che la marijuana è oggi 30 volte più forte e pericolosa rispetto a decenni fa, misurando i livelli di THC. Eppure, per lui «uno spinello non porta necessariamente alla rovina» e può dimostrarlo scientificamente perché «due degli ultimi presidenti degli Stati Uniti, la maggioranza dei miei colleghi nei dipartimenti di fisica, la pressoché totalità dei miei amici di gioventù e una lunghissima lista di popolazioni tradizionali del mondo hanno fumato marijuana senza esagerati danni». Così, continua ironico: «Ora i giovani canadesi moriranno tutti di overdose di spinelli, diventeranno tutti intontiti e scemi, gli si brucerà il cervello, si butteranno tutti dalla finestra pensando di saper volare, e diventeranno tutti banditi e tutti eroinomani, come si aspettano i bigotti nostrani».

In realtà, inconsciamente, sta prefigurando più o meno quanto è puntualmente avvenuto in Colorado, dove la cannabis è stata liberalizzata nel 2012. Lo mostriamo in tre punti sintetici piuttosto significativi.

Iniziamo con il cavallo di battaglia dei “pro-legalizzazione”, ovvero la legalizzazione per combattere il mercato nero. Una emerita sciocchezza per i procuratori antimafia italiani (qui citati), ed infatti già nel nel 2014 il capo della Divisione narcotici della polizia del Colorado Springs, Mark Comte, ha riconosciuto: «La legalizzazione non ha fatto altro che migliorare l’opportunità per il mercato nero». Il tutto confermato nel 2015 dal procuratore generale Cynthia Coffman, che ha rivelato: «I criminali vendono ancora sul mercato nero. Abbiamo un sacco di attività di cartello in Colorado e un sacco di attività illegali che non sono affatto diminuite». Il Colorado Springs Gazette ha dimostrato che «il mercato nero è fiorente e sta crescendo in modi nuovi e imprevedibili». Ed infatti nel 2016, sempre in Colorado, si è dovuti ricorrere ad una guerra ufficiale al dilagante fenomeno della marijuana illegale e ai mercati extra-statali, tanto che gli arresti legati al mercato nero di marijuana sono aumentati del 380% nel periodo 2014-2016.

Nel 2017 un gruppo di scienziati dell’Università di Harvard ha scritto al governatore del Colorado, John Hickenlooper, preoccupati per l’impatto negativo seguito alla liberalizzazione della marijuana «per la salute pubblica, per i giovani e per le forze dell’ordine». La lettera aperta è stata firmata da numerose autorità e specialisti in campo medico, coadiuvati dallo psichiatra Stuart Gitlow, già presidente della American Society of Addiction Medicine. Semplici “bigotti nostrani”, secondo Rovelli. I dati sono stati confermati in un report dell’American College of Pediatricians, datato aprile 2018, in cui si forniscono «nuove informazioni a sostegno dei significativi effetti negativi della legalizzazione della cannabis in Colorado su adolescenti e giovani adulti». Si sottolinea, inoltre, che «con la legalizzazione esiste una percezione minore del rischio di utilizzo della droga da parte sia degli adolescenti che dei loro genitori». Ovvero, la “legge crea costume” e ciò che è legalizzato lo si percepisce come “positivo”, abbassando inevitabilmente i livelli di attenzione e prudenza.

Sempre nel 2017 un documentatissimo report governativo sull’impatto della legalizzazione della cannabis in Colorado ha sinteticamente dimostrato che, dal 2013 sono: aumentati del 145% gli incidenti mortali che hanno coinvolto conducenti risultati positivi alla marijuana; aumentati del 66% i decessi dovuti al traffico illegale di marijuana; aumentato del 20% il consumo giovanile di marijuana, trasformando il Colorado nel paese con più giovani che vivono sotto l’effetto di droga; aumentati esponenzialmente i reati nelle scuole da parte di giovani risultati positivi all’uso di cannabis (1.766 nel 2012, 1.980 nel 2013 e 2.363 nel 2014); aumentati esponenzialmente i ricoveri ospedalieri d’emergenza per danni da consumo di marijuana (6.305 nel 2011, 6.715 nel 2012, 8.272 nel 2013 e 11.439 nel 2014); aumentati esponenzialmente i cittadini curati nei centri tossicologici per esposizione alla marijuana (da 43 nel periodo 2009-2012 a 134 nel periodo 2013-2016); aumentati del 206% i minori di 9 anni curati nei centri tossicologici per esposizione alla marijuana; aumento significativo degli adolescenti suicidi risultati positivi alla marijuana (13,5% nel periodo 2006-2008, 13,8% nel periodo 2009-2011 e 16% nel periodo 2012-2014); aumentati del 109% i residenti fuori dal Colorado ricoverati al pronto soccorso a causa di sintomi correlati alla marijuana; aumentate del 914% le libbre medie di marijuana derivanti dal mercato nero sequestrate ogni anno ecc.

Esistono molti altri dati e rapporti ma la panoramica è sufficientemente chiara. Questo è l’esempio di quanto sta accadendo in un Paese che ha liberalizzato la cannabis, modello di riferimento di Carlo Rovelli e Roberto Saviano.

La redazione

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«Gesù è risorto? Da storico laico parlo di un evento straordinario»

Giorgio Jossa e il libro “Voi chi dite che io sia”. Il professore di Storia del Cristianesimo all’Università di Napoli affronta gli eventi successivi alla morte di Gesù e a resurrezione, parlando di un “evento straordinario”. Un approccio laico ma coerente con i dati storici.

 
 
 

Di Giorgio Jossa, professore di Storia del Cristianesimo e Storia della Chiesa Antica presso l’Università degli Studi di Napoli, abbiamo letto ed apprezzato il libro intitolato Il cristianesimo ha tradito Gesù? (Carocci 2008).

Impostazione dichiaratamente laica, quella di Jossa, la quale lo porta comunque a smentire categoricamente che gli apostoli e i discepoli, a partire da San Paolo, si siano allontanati dal messaggio originario del Cristo.

In questi giorni è uscito un secondo libro di Jossa, il titolo è Voi chi dite che io sia? (Paiedia-Claudiana 2018).

In attesa di offrire una recensione approfondita, critica o positiva che sia, ci accontentiamo per ora di quella apparsa oggi sull’inserto culturale di Repubblica.

 

Lo studioso laico e le antiche fonti evangeliche.

Al di là del controverso e discusso dato sui fratelli e le sorelle di Gesù, l’approccio dello storico italiano si conferma davvero interessante.

Tratta dei dati storici sull’infanzia di Gesù, delle testimonianze extrabibliche, della non totale dipendenza dei vangeli sinottici tra loro (Marco, Matteo e Luca) grazie a fonti comuni e specifiche (quindi almeno 3 testimonianze storiche indipendenti su Gesù) e dell’antichissimo racconto della Passione.

«E’ una parte molto diversa dal resto del Vangelo, per stile, lingua e contenuto teologico», spiega Jossa. «Vi si riconosce chiaramente una fonte più antica, che potrebbe risalire ad un periodo molto vicino alla morte di Gesù».

Argomenti, da noi trattati più volte, che annullano la convinzione di alcuni che i Vangeli sarebbero scritti a troppa distanza dai fatti narrati.

Fin qui tutto nella norma, i dati riportati da Jossa sono condivisi da gran parte degli studiosi moderni della Third Quest, la ricerca contemporanea del Gesù storico ben distante dal romanticismo letterario di Rudolf Bultmann e dalla sua critica delle forme.

L’idea forte dello storico italiano è che vi sarebbe stato un mutamento, un’evoluzione di pensiero in Gesù, il quale soltanto verso la fine del suo ministero proclamò l’avvento di un Regno celeste mentre all’inizio annunciava una trasformazione radicale solamente terrena.

Ci sarebbe «una resistenza teologica ad ammettere che Gesù abbia potuto cambiare opinione». In realtà non è del tutto vero, bastano gli studi di alcuni biblisti statunitensi cattolici per veder condivisa questa impressione, ovvero che Gesù di Nazareth sarebbe stato un mistero anche a lui stesso e solo nella relazione con il Padre a avrebbe visto svelarsi progressivamente il suo compito.

Tuttavia, altri importanti studiosi smentiscono questa visione e se da un lato ritengono possibile argomentare a favore di un’enfatizzazione da parte del Gesù storico di un’imminenza dell’avvento del Regno di Dio, sostengono che non fissò alcuna scadenza per la comparsa del Regno. In secondo luogo, come spiega molto bene l’eminente biblista J.P. Meier, Gesù parla di «un Regno che in un certo senso è già presente nelle sue parole e nelle sue azioni»1J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol. 2, Queriniana 2003, p. 467.

 

«Qualcosa di straordinario dopo la morte di Gesù»

C’è però un colpo di scena, un’affermazione sorprendente dello storico laico che l’autrice della recensione, Giulia Villalonga, ha tenuto per il finale dell’articolo.

Il tema è quello del periodo immediatamente successivo alla morte del Cristo, quando i discepoli scappano delusi ed impauriti, fingono di non aver mai conosciuto quell’Uomo (rinnegamento di Pietro) ed il popolo si era già pronunciato scegliendo Barabba. Eppure, pochissimo tempo dopo, gli stessi uomini sono pronti al martirio pur di testimoniare quel che hanno visto con i loro occhi: Gesù risorto dalla morte. E sono tanto convincenti da diffondere il cristianesimo per tutto l’impero romano.

Un dato eccezionale, non spiegabile in termini di coerenza storica. «E’ successo qualcosa dopo la sua morte», appunta infatti il laico Jossa. «Per il credente, Gesù è resuscitato. Lo storico non può affermarlo. Può dire: i discepoli hanno avuto un’esperienza straordinaria; si è verificato un evento che ha ridato senso alla loro missione».

Così, anche attraverso un approccio puramente laico, lo storico onesto non può negare che qualcosa di eccezionale, di straordinario dev’essere accaduto. La storia, come la scienza, non può certificare o sostenere il miracolo della Resurrezione, però solamente dando credito ai discepoli si riesce a dar pienamente ragione dei fatti accaduti. E’ l’ipotesi più attendibile: un’esperienza straordinaria, in termini laici e un miracolo, in termini religiosi.

Come abbiamo già mostrato, Jossa non è l’unico storico non credente ad essere giunto a questa convinzione.

Prima di lui, la liberal Paula F. Fredriksen, dell’Università ebraica di Gerusalemme: «Conosco le loro parole, quello che hanno visto era il Gesù innalzato. Questo è quello che dicono e tutte le prove storiche che abbiamo attestano la loro convinzione su quello che hanno visto. Non sto dicendo che davvero hanno visto Gesù risorto. Non ero lì. Non so cosa abbiano visto. Ma so, come storica, che devono aver visto qualcosa»2P.F. Frederickson, Jesus of Nazareth: King of the Jews, Vintage 2000.

Così, allo stesso modo, anche l’ateo Gerd Lüdemann: «Può essere considerato storicamente certo che Pietro e i discepoli abbiano avuto esperienze dopo la morte di Gesù, in cui Gesù apparve loro come Cristo risorto»3G. Lüdemann, What Really Happened to Jesus?, Westminster John Knox Press 1995, p. 80.

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Lourdes, la guarigione dev’essere istantanea e non spiegabile: la serietà della Chiesa

Lourdes, scienza e miracoli. Il direttore del centro medico Bureau, Alessandro De Franciscis, spiega i criteri utilizzati per analizzare i casi che gli vengono sottoposti. Una griglia strettissima ed un equipe di specialisti credenti e non.

 

La guarigione dev’essere istantanea e completa, inspiegabile scientificamente, analizzata per lungo tempo da equipe di specialisti credenti e non credenti. Questo, in estrema sintesi, il procedimento utilizzato dal Bureau des Constatations medicales per i casi di guarigione che avvengono nelle piscine di Lourdes.

A rivelarlo è il dott. Alessandro De Franciscis, 15° presidente del centro medico posizionato nel santuario francese, specializzato in pediatria con interesse in Epidemiologia. Il Bureau è la prima griglia da cui passano coloro che affermano di aver ricevuto una grazia, solo se il caso risulta interessante e ben documentato viene aperto un fascicolo su cui si studierà per anni. In un anno, mediamente, sono un centinaio i casi che arrivano alla sua scrivania ma pochi (il 20%) superano il primo step di valutazione.

La griglia è strettissima, la serietà è massima e non c’è alcuna “corsa al miracolismo”, questo spiega perché dal 1883, anno in cui fu istituito il Bureau, solo 70 guarigioni sono state dichiarate ufficialmente inspiegabili. Se c’è un caso degno di essere approfondito De Franciscis convoca un gruppo variegato di medici, «non sono tutti credenti», specifica. Se il caso supera la prima fase, viene inoltrato al Comitato medico internazionale di Lourdes (CMIL), composto da 27 medici rappresentativi delle varie specializzazioni mediche. «La diagnosi», spiega De Franciscis, «deve riguardare una malattia precisa e avere una prognosi grave, non necessariamente mortale. La guarigione dev’essere imprevista, senza segni premonitori; istantanea; completa e durevole nel tempo. E dev’essere inspiegata alla luce delle attuali conoscenze mediche».

Un esempio significativo: «Ieri ho chiuso il fascicolo di un signore che seguivo da cinque anni», rivela il medico di Lourdes. «Ho convocato un gruppo di 42 professionisti, esperti in diversi settori della medicina. Abbiamo fatto una lunga riunione, analizzato le lastre, studiato tutte le informazioni necessarie e alla fine abbiamo concluso che il signore ha vissuto una bellissima storia, ma non si è trattato di un miracolo».

Ovviamente la parola “miracolo” è, giustamente, bandita. E’ un termine teologico e non medico, «compete solo al vescovo della diocesi dove risiede la persona guarita. Noi medici ci limitiamo a definire la guarigione come “inspiegata”». E’ capitato che nonostante il via libera dal punto di vista medico, la commissione teologica abbia bloccato l’iter.

Personalmente, ha aggiunto il direttore del Bureau, «credo ai miracoli, li ho visti». Iniziò a pensarla così anche un suo collega, il premio Nobel per la Medicina Alexis Carrel quando, recatosi alla grotta di Lourdes deciso a smentire “questa farsa”, assistette ad una guarigione improvvisa ed istantanea e si convertì al cattolicesimo. Qualche anno fa un altro premio Nobel per la Medicina, il francese Luc Montagnier, dopo essersi informato sui fatti di Lourdes, ha dichiarato: «Molti scienziati fanno l’errore di rifiutare ciò che non comprendono. Riguardo ai miracoli di Lourdes che ho studiato, credo effettivamente che si tratti di qualcosa non spiegabile. Io non mi spiego questi miracoli, ma riconosco che vi sono guarigioni non comprese allo stato attuale della scienza».

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Quando il socialista El Pais celebrò l’elezione di Wojtyla: «liberale e progressista»

40 anni fa l’elezione di Giovanni Paolo II. Il giornale del socialismo spagnolo, El Pais, presentò Wojtyla come “moderno” sui temi etici e “amico” del socialismo polacco. Non sapevano che avrebbe fatto crollare il blocco sovietico in soli in 13 anni di pontificato.

 

Il quotidiano spagnolo El Pais è oggi, in Spagna, quel che in Italia è La Repubblica, giornale progressista e laicista. Ma nel 1978 il periodico iberico era considerato addirittura il portavoce del socialismo spagnolo e firma del Partito Socialista Operaio Spagnolo. Negli anni passati ha ampiamente sostenuto la candidatura dell’ex presidente José Luis Rodríguez Zapatero.

Questo rende ancora più impressionate l’enorme cantonata presa nel commento dell’elezione al soglio pontificio di Giovani Paolo II, messo in prima pagina il 17 ottobre 1978, esattamente quarant’anni fa. Il titolo dell’editoriale, scritto da Felix Bayón, dice già tutto: «Il nuovo Papa, un giovane polacco: aperto in politica e moderato nel dogma». Wojtyla venne presentato come «moderatamente progressista» e lo si mise a confronto con il card. Stefan Wyszyński, allora primate polacco e criticato da El Pais per le sue posizioni chiare e non ambigue sulla dottrina cattolica.

Il quotidiano spagnolo allora aveva solo tre anni di vita, impregnato di ideologia, eppure entusiasta per Giovanni Paolo II. Anche perché, si legge, «gli esperti sottolineano la sua collaborazione con il regime socialista». Peccato che in soli 13 anni il Papa “progressista e collaborazionista” fu una delle principali cause scatenanti la caduta improvvisa e imprevista del regime rosso in Polonia e nell’Europa dell’Est, finanziatore di Solidarność, il primo sindacato indipendente dal blocco sovietico, fondato due anni dopo la sua elezione dal suo fraterno amico Lech Wałęsa, che arrivò a rappresentare 10 milioni di cittadini.

Continuando la lettura dell’editoriale del 1978 si leggono ironie verso i fedeli che, dopo la morte di Giovanni Paolo I, avevano atteso con trepidazione la nomina del successore di Pietro: «degno della psicoanalisi». Non venne invece inteso il simpatico e famoso errore di Wojtyla: «Se sbaglio mi corrigerete», d’altra parte solo noi italiani possiamo comprenderlo a fondo.

Come sempre accade, El Pais intervistò alcuni opinionisti per comprendere meglio il profilo del nuovo Pontefice e perfino l’allora ambasciatore della comunista Polonia in Spagna, Eugenio Noworyta, parlò di «grande gioia e soddisfazione, come per tutti i polacchi». Altri opinionisti lo definirono un “intellettuale militante” e un “anti-nazista”, «per aver svolto un ruolo durante l’occupazione tedesca come attore di un gruppo teatrale il cui obiettivo era mantenere il sentimento nazionale contro l’invasore». Un apprezzamento diffuso tra «credenti e non credenti, marxisti, socialisti e cattolici», perché «la storia della nostra nazione è caratterizzata da grande tolleranza e questa tradizione continua oggi nel nostro stato socialista».

L’allora capo della sezione internazionale del Le Nouvel Observateur, settimanale francese social-democratico, era KS Karol, un polacco. Anche a lui venne chiesto un giudizio su Karol Wojtyla: «E’ stata una grande sorpresa», rispose. «Dal mio punto di vista, il nuovo Papa ha uno spirito molto più moderno e liberale rispetto al primate Wyszynski. Nel mio paese la Chiesa è più preoccupata dell’egemonia spirituale che delle questioni strettamente politiche o sociali. In questo senso è notevole la capacità del nuovo Papa, che non ha mai sfidato frontalmente il regime attuale, a differenza di Wyszynski, su temi come il divorzio, l’aborto, e così via». «La Chiesa polacca», aggiunse Karol, «è stata molto conservatrice fino al 1956. Da allora fino ad oggi nel suo seno ci sono correnti avanzate. Infine, rilevo che l’arcivescovo di Cracovia, ora Papa, era a Parigi un anno fa e si è incontrato con una delegazione polacca nel Club del Dialogo, un locale di orientamento progressista. La semplice presenza del cardinale Wojtyla in quel luogo ha dato pieno conto del suo carattere aperto e moderno».

Eppure Giovanni Paolo II divenne il più grande combattente del 20° secolo dell’divorzio e dell’aborto, in pochi anni di lotta aperta all’ideologia comunista -unendo intellettuali e operai-, riuscì ad abbattere il muro di Berlino e a portare la democrazia in Polonia tramite Wałęsa, divenuto presidente nel 1990 e poi vincitore del Nobel per la pace. Un evento che fu l’effetto domino per l’Ungheria e la Bulgaria (i cui dittatori comunisti, Janos Kadar e Jaruzelsky chiesero l’estrema unzione prima di morire), che ottennero l’indipendenza, fino alle storiche dimissioni di Mikhail Gorbaciov nel 1991 e la conseguente fine dell’Unione Sovietica.

Il fisico italiano Antonino Zichichi ha riportato oggi una frase del suo collega Pëtr Leonidovič Kapica, Nobel per la Fisica, su Giovanni Paolo II: «Luce del Mondo, accesasi per cacciare le tragiche tenebre del nazismo e dello stalinismo».

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Razzismo e misoginia: così è imploso il “nuovo ateismo”

Il nuovo ateismo (new atheism) guidato da Sam Harris e Richard Dawkins è progressivamente uscito di scena. Alcuni ex seguaci ed adepti ricostruiscono le vicende e rivelano i motivi per cui è imploso.

 

Un movimento apparentemente impegnato per la scienza, la ragione ed il progresso si è progressivamente trasformato in un oscuro ambiente razzista, misogino ed intollerante. A riconoscere l’epilogo del nuovo ateismo (new atheism) è stato recentemente il filosofo Phil Torres, un ex seguace di Sam Harris e Richard Dawkins, i due leader del fenomeno ateista in voga tra il 2001 e il 2014.

«Per molti anni sono stato tra i più grandi alleati del nuovo movimento ateo», ha ammesso Torres su Salon. «Il “nuovo ateismo” aveva molto da offrire». Sopratutto l’amministrazione Bush e la pubblicazione dei tre bestseller –The End of Faith (2004) di Sam Harris, The God Delusion (2006) di Richard Dawkins e God Is Not Great (2007) di Christopher Hitchens-, hanno dato una scintilla di aggressività ed entusiasmo ad un folto gruppo di umanisti secolarizzati che hanno strutturato un violento attacco mediatico ai credenti, cristiani in particolare.

«Per un po’ le cose sono andate a gonfie vele», ha aggiunto la femminista laica Amanda Marcotte. «L’ateismo riceveva grande copertura mediatica, le conferenze si espandevano in termini di dimensioni e numero, si scherzava dicendo che andava così bene “da non credere”. Si è verificata una rapida ascesa nel numero di giovani americani che affermano di non avere affiliazioni religiose». Fino a quando qualcosa ha iniziato a non funzionare. I contenuti, già di per sé fragili, hanno cominciato ad essere ripetitivi e i leader «evitavano problemi di giustizia sociale più ampi». In aggiunta al malcontento, ha proseguito Torres, «le gaffe iniziarono a venire a galla, al punto che nessuna persona razionale poteva semplicemente ignorarle».

I vari scandali di abusi sessuali durante i raduni atei, la loro giustificazione da parte di Richard Dawkins, la sua richiesta di tappare la bocca alle donne molestate per non far sfigurare il movimento agli occhi dei media ed il legame con i suprematisti bianchi, non hanno certo migliorato la situazione. Il movimento ateo internazionale si è sgretolato proprio a causa del razzismo e della misoginia dei leader e di gran parte degli adepti.

«La censura della voce e delle esperienze vissute da persone di colore e dalle donne di tutte le etnie è stato qualcosa di assolutamente endemico per la comunità», ha affermato Sikivu Hutchinson, fondatore di Black Skeptics Los Angeles. «Le donne che si presentavano agli eventi atei sono state trattate come carne da macello anziché come partecipanti al movimento», ha aggiunto Stephanie Zvan, co-conduttrice di Atheists Talk nel Minnesota. Se Christopher Hitchens, allora uno dei grandi sacerdoti del movimento, scriveva i motivi per cui «le donne non sono affatto divertenti», contemporaneamente il caso di Rebecca Watson ha fatto il giro del mondo: dopo aver denunciato in modo soft gli abusi verbali subiti durante una conferenza atea, al posto di ricevere sostegno è stata pubblicamente derisa da Dawkins e la comunità maschile le si è scagliata contro accusandola di cattiva pubblicità, sostenendo che le donne non avevano il privilegio di subordinare i maschi. «Si è verificato un incremento di persone che hanno giustificato le molestie alle femministe», ha denunciato Monette Richards, presidente di Secular Woman, associazione nata come risposta all’ostilità vissuta dalle femministe che denunciavano gli abusi subiti nel movimento ateista. La cosa peggiore, commenta Amanda Marcotte, fu che i «leader manifestavano la totale complicità con le molestie».

«Se alcuni hanno persistito nella convinzione che, nel complesso, il nuovo movimento ateo era ancora una forza positiva nel mondo», ha commentato il già citato Torres ricostruendo a sua volta le vicende di quegli anni, «personalmente ho vissuto un enorme imbarazzo. Siamo andati oltre al limite. Come filosofo -cioè qualcuno che si preoccupa profondamente dell’onestà intellettuale, delle prove verificabili e del pensiero critico- ora mi trovo in diretta opposizione con molti dei nuovi leader atei. Cioè, vedo la mia stessa difesa per la scienza e del pensiero critico come opposizione diretta alle loro posizioni». «Dovrei ancora essere il più grande alleato del nuovo movimento ateo», ha confessato, «ma oggi non voglio assolutamente aver nulla a che fare con esso».

Già nel 2014, Mark Oppenheimer su Buzzfeed si domandava se la misoginia avrebbe fatto crollare il movimento ateo: «come può una importante comunità intellettuale e progressista comportarsi così male nei confronti dei suoi membri femminili?». L’occasione furono le accuse di abusi sessuali su Michael Shermer, fondatore de The Skeptics Society ed editore capo del magazine Skeptic. Ma, si leggeva già allora, «la realtà del sessismo nel “libero pensiero” non si limita a pochi leader famosi, ha implicazioni in tutto il movimento. Quasi tutti gli incontri sono a maggioranza maschile, e le donne con cui ho parlato hanno affermato di essere regolarmente oggetto di attenzione sessuale. Negli ultimi anni Twitter, Facebook, Reddit e vari forum online sono diventati luoghi ostili per le donne che si identificano come femministe o esprimono preoccupazione per il sessismo ampiamente diffuso nel movimento ateo. Alcune donne», ha proseguito Oppenheimer, «denunciano di essere state molestate o derise alle convention e gli attacchi online che ricevono -che includono antisemitismo, minacce di stupro e altri convenevoli- sono così viziose che a due attiviste con cui ho parlato è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico». Tra esse Melody Hensley, femminista presa d’assalto per sei mesi dai troll atei: minacce di morte, di stupro, immagini di donne decapitate e violentate le hanno invaso quotidianamente il computer.

Contemporaneamente il filosofo Sam Harris ha affermato che l’ateismo era dominato da uomini perché mancava la «capacità di coltivare estrogeni che sarebbero utili se si desiderava attirare più donne che uomini», e, subito dopo, ha rinnovato la sua convinzione razzista che i bianchi sono più intelligenti delle persone di colore, venendo sostenuto apertamente dallo stesso Michael Shermer. Ciò ha generato ulteriori scismi, litigi, divisioni ed imbarazzi nella comunità secolare anglofona.

Quando lo stesso Torres ha tentato di opporsi sui social alle sparate di Harris, ha ricevuto a sua volta la visita dei tolleranti devoti dell’ateismo, che «mi hanno invitato a suicidarmi, proponendo nuovi soprannomi come “Phil Hitler Torres” (sul serio!). Dichiarano a gran voce di sostenere la libertà di parola e ancora vietano regolarmente i dissidenti dai social media, dai blog e dai siti web. Dicono di preoccuparsi dei fatti, ma si rifiutano di cambiare le loro convinzioni quando vengono presentati dati scomodi. Denunciano persone che fanno affermazioni forti al di fuori del loro ambito e tuttavia si sentono perfettamente legittimate a fare affermazioni pungenti e fiduciose su questioni di cui sanno poco. E a quanto pare hanno una maledizione per le donne e le persone di colore. Questo è il nuovo movimento ateo oggi, nel complesso. Il grande nemico del pensiero critico e dell’integrità epistemologica, cioè il tribalismo, è diventato il collante sociale della comunità atea».

Le recenti e pesanti accuse di molestie sessuali piovute addosso al fisico Lawrence Krauss, una celebrità nella comunità ateista americana, hanno aumentato le ripercussioni negative. Molto scalpore ha avuto un ulteriore fatto di cronaca, quello di un ateo australiano che, dopo aver ucciso una donna, è entrato in una libreria cristiana di Melbourne chiedendo dove fossero la Bibbia e i libri sulle prove scientifiche dell’esistenza di Dio. Si è quindi avventato sulla commessa e l’ha violentata urlandole: “Dov’è il tuo Gesù? Dov’è il tuo Gesù, adesso?”.

Si potrebbe continuare a lungo ma già molto è stato detto. Probabilmente è sufficiente per mostrare il paradosso di una comunità di sedicenti illuminati che da sempre autocelebra le proprie visioni progressiste in opposizione ai retrogradi religiosi. Aridatece Nietzsche.

La redazione

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