La Chiesa destina 60 milioni di euro al Corno d’Africa

La Chiesa cattolica in prima fila anche nella lotta contro l’emergenza umanitaria nei paesi del Corno d’Africa. Dopo i ripetuti appelli di Benedetto XVI la Chiesa Cattolica, tramite i suoi organismi umanitari, ha raccolto per l’emergenza carestia e siccità nel Corno d’Africa ben 60 milioni di euro.

Lo stesso Papa Ratzinger ha devoluto personalmente 400 mila euro. Anche una delegazione della Comunione Anglicana, riporta “Il Sole 24 Ore”, ha aderito alla mobilitazione lanciata da Ratzinger.

Michel Roy, segretario generale di Caritas internationalis ha riferito che la Chiesa Cattolica sta aiutando un milione di persone e ha già messo a disposizione 31 milioni di euro, raccolti tramite collette e offerte in tutto il mondo. La Chiesa nel Corno d’Africa, ha spiegato Roy, interviene con «aiuti alimentari e supplementi nutrizionali per bambini, tende, medicine, acqua per persone, animali e coltivazioni. Ma anche servizi igienici, cure sanitarie, assistenza ai più vulnerabili, distribuzione di sementi, sostegno spirituale e psicologico».

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Nuovo studio: la convivenza prima del matrimonio aumenta il tasso di divorzio

Ancora una volta gli studi scientifici arrivano a confermare ciò che la dottrina cattolica insegna ininterrottamente da oltre 2000 anni. Questa volta si tratta del tema della convivenza prima del matrimonio.

Nel giungo scorso, Benedetto XVI durante la messa conclusiva della sua visita in Croazia, si è rivolto alle famiglie dicendo: «Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita e ad una crescente disgregazione della famiglia. Si assolutizza una libertà senza impegno per la verità, e si coltiva come ideale il benessere individuale attraverso il consumo di beni materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi; si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita […]. Care famiglie, siate coraggiose! Non cedete a quella mentalità secolarizzata che propone la convivenza come preparatoria, o addirittura sostitutiva del matrimonio! Mostrate con la vostra testimonianza di vita che è possibile amare, come Cristo, senza riserve, che non bisogna aver timore di impegnarsi per un’altra persona! Care famiglie, gioite per la paternità e la maternità! L’apertura alla vita è segno di apertura al futuro, di fiducia nel futuro, così come il rispetto della morale naturale libera la persona, anziché mortificarla! Il bene della famiglia è anche il bene della Chiesa».

Il quotidiano La Repubblica diede spazio alla replica delle associazioni omosessuali (Comitato Roma Europride, Circolo Mario Mieli, Arcigay, Agedo, Mit, Famiglie Arcobaleno), le quali dichiararono: «Oltre che incomprensibile e falso il suo discorso è al di fuori dalla realtà».  Tuttavia sono passati pochi mesi e la ricerca scientifica ha dato ragione al Pontefice, ponendo fuori dalla realtà i suoi detrattori. I ricercatori dell’Università di Denver hanno infatti rilevato che le coppie che convivono prima di sposarsi (o le coppie di fatto) hanno una maggiore probabilità di divorziare rispetto a coloro che scelgono di aspettare a vivere insieme fino a dopo il matrimonio. Inoltre, queste coppie hanno riferito una soddisfazione più bassa rispetto al loro matrimonio.

Già nel 1988, tuttavia, sul “Journal of Family Issues” si respingeva l’idea che la convivenza migliorasse la scelta del partner. I ricercatori trovarono che la convivenza era negativamente correlata all’interazione coniugale e positivamente correlata al disaccordo coniugale e alla propensione al divorzio. Sempre nel 1988, l’American Sociological Review pubblicava una ricerca secondo cui il tasso di divorzio o scioglimento della coppia per coloro che avevano convissuto prima del matrimonio era superiore dell’80% rispetto a coloro che non lo avevano fatto. Nel 1992 invece i sociologi dell’Università del Wisconsin-Madison hanno pubblicato uno studio attraverso il quale si dimostrava che le coppie che avevano convissuto prima di sposarsi riferivano una peggiore qualità del loro matrimonio, un minore impegno, una visione più individualistica ed una maggiore probabilità di divorzio rispetto alle coppie che non avevano convissuto. Gli effetti negativi crescevano al crescere del periodo di convivenza. Sempre nel 1992 la moltitudine di dati ha portato i ricercatori della Bowling Green State Univeristy a concludere che la probabilità maggiore di divorzio dopo la convivenza «sta iniziando ad assumere lo status di una generalizzazione empirica». Addirittura nel 1995 sul “Journal of Family Issues” si affermava che il ruolo della convivenza pre-matrimoniale è determinante per la successiva interruzione coniugale. Nel 2002 i ricercatori della Pennsylvania State University hanno anche loro pubblicato sul “Journal of Marriage and Family” i risultati di uno studio secondo cui le coppie che convivono prima del matrimonio hanno una maggiore instabilità coniugale rispetto alle coppie che non convivono. Infine, una metanalisi complessiva del 2010 ha concluso a sua volta che la convivenza presenta una significativa associazione negativa con la stabilità coniugale e la qualità coniugale. Studiando tutti i principali studi sul tema si è anche scoperto che gli effetti negativi della convivenza sono rimasti costanti nel tempo, nonostante che essa sia diventata un comportamento più diffuso nella società.

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Londra: scritte sugli autobus prendono in giro Richard Dawkins

Come informavamo in Ultimissima 31/5/11, il militante ateista Richard Dawkins è stato attaccato dalla stampa e accusato di “codardia” per essersi rifiutato di discutere con un dotto teologo americano, William Lane Craig, considerato un “mangia-atei-a-colazione” (rivelatosi tale nel confronto con Christopher Hitchens), privilegiando troppo spesso soggetti di minor profilo.

In molti a Londra hanno dunque pensato di ironizzare sulla sua paura, riproponendo la goffa iniziativa degli “ateo-bus” che Dawkins stesso organizzò con le parrocchie di atei militanti della capitale inglese (e che l’UAAR subito pensò subito di scimmiottare, fallendo clamorosamente). Nel 2009, infatti, su 200 autobus della città apparve per qualche giorno la scritta: “Probabilmente Dio non esiste. Ora smetti di preoccuparti e goditi la vita”. Alcuni ironizzarono subito, sostenendo che il pulpito non era credibile dato che non si è mai visto un ateo militante che si goda davvero la vita e metta da parte le sue ossessioni anti-teiste.

In questi giorni la “Premier Christian Radio”, ha annunciato di aver ripreso l’iniziativa di Dawkins, ma in versione opposta. Dato che il noto anti-clericale non vuole accettare di discutere pubblicamente con il filosofo William Lane Craig quando egli visiterà la città di Londra a fine mese, sugli autobus della capitale tutti potranno leggere per due settimane: «Probabilmente non c’è alcun Dawkins. Ora smetti di preoccuparti e goditi il 25 ottobre presso il Teatro Sheldonian».

Il filosofo americano Lane Craig sarà infatti al teatro Sheldonian il 25 ottobre per discutere della razionalità della fede con alcuni pensatori non credenti (e andrà anche a Cambridge, Birmingham e Manchester). Egli ha commentato: «la campagna d’affissione lascia un briciolo di speranza che Dawkins possa presentarsi». Dopo gli “ateo-bus” siamo dunque arrivati ai “Dawkins-bus”. Chissà se l’UAAR clonerà anche questa volta l’iniziativa inglese…

Sempre in questi giorni, Richard Dawkins è stato descritto come un “ateo fondamentalista” in un editoriale sul Dailymail dall’intellettuale e opinionista inglese Steven Glover, co-fondatore di “The Independent”.

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Sondaggio Ipsos: il 77% dei francesi è molto attaccato alla famiglia tradizionale

I francesi danno grande importanza alla famiglia, desiderano sposarsi una sola volta nella vita ma difficoltà economiche, lavoro femminile e minore investimento nel rapporto di coppia rendono la vita familiare sempre più difficile. Per questo chiedono ai politici, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2012, un maggiore impegno per le politiche familiari.

E’ quanto emerge in estrema sintesi da un sondaggio realizzato dall’Istituto Ipsos, tra i più importanti e attendibili enti di ricerca in Europa, e commissionato dal quotidiano “La Croix”.  Nell’estratto apparso sul sito web dell’Ipsos si può leggere che il sondaggio (realizzato su un campione di 940 persone dai 18 anni in su) stabilisce che il 77% dei francesi desidera costruirsi una famiglia restando sempre con la stessa persona. Questa percentuale sale all’84% dei giovani di 18-24 anni e all’89% di quelli di 25-34 anni. Un desiderio dunque – dicono i ricercatori dell’Ipsos – che attraversa tutte le generazioni, gli ambienti sociali e le appartenenze religiose e politiche: «non c’è cioè alcuna differenza tra i cattolici praticanti e gli altri».

Inoltre, separazioni e divorzi sono molto temuti e appaiono legati a ragioni individuali e psicologiche. Per rimediare all’aumento di separazioni, i francesi ritengono innanzitutto che sia necessario “un cambiamento globale di mentalità” (33%) oppure un “aiuto esterno perché le coppie possano discutere dei loro problemi”. Il 25% reclama anche sostegni materiali (casa, lavoro e possibilità di conciliare vita professionale e vita privata).

Infine, per il 55% dei francesi e il 77% dei cattolici, le proposte in materia di politica familiare che presenteranno i candidati alle elezioni presidenziali del 2012 cambieranno l’orientamento di voto.

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Aborto: un triste primato non riconosciuto




di Stefano Bruni*
*pediatra e ricercatore scientifico



I Centers for Disease Control and Prevention (Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, abbreviati in CDC, www.cdc.gov) sono un importante organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America. Il loro compito più noto al pubblico non specialistico (anche per via di romanzi e film catastrofici su epidemie virali a diffusione globale) è quello di monitorare, prevenire e suggerire gli interventi più appropriati in caso di contagio diffuso ed epidemie. Tuttavia i compiti di questo organismo sono anche molti altri e molto diversificati.

Tra gli altri, i CDC pubblicano anche report relativi ai dati sulla mortalità, sulla natalità e sul numero di aborti negli Stati Uniti. Come sempre accade, i dati definitivi relativi ad un determinato periodo sono resi disponibili a distanza di alcuni anni in quanto questi dati vengono elaborati con severi criteri statistici e il dato aggregato scomposto in tanti sottogruppi di dati più o meno correlati gli uni agli altri. Al momento sono disponibili i dati definitivi, ad esempio, delle principali 10 cause di mortalità negli Stati Uniti per l’anno 2007 (non stiamo parlando dunque di secoli fa ma dell’altro ieri).

Ebbene, se andiamo a leggere la suddetta relazione (ahimè è in Inglese ma, se vi interessa leggerlo, lo trovate completo a questo link) scopriamo che nel 2007 negli Stati Uniti sono morte 2.423.712 persone. Se andiamo a vedere le principali 10 cause di morte nel 2007 negli Stati Uniti (che insieme rappresentano più o meno il 76% di tutti i morti del 2007), il report ci dice che la causa di morte più frequente è stata la patologia cardiaca (616.067 morti), seguita da cancro (562.875 morti), stroke cerebrovascolare (135.952 morti), malattie croniche delle basse vie aeree (127.924 morti), incidenti (123.706 morti), malattia di Alzheimer (74.632 morti), diabete (71.382 morti), influenza e polmonite (52.717 morti), nefrite, sindrome nefrotica e nefrosi (46.448 morti), setticemia (34.828 morti).

Ho voluto leggere anche un altro paio di rapporti ufficiali e così ho trovato, nel primo, dati molto interessanti sulla natalità nel 2007 negli Stati Uniti dove sono venuti al mondo 4.316.233 bambini. Questa è certamente una buona notizia, perché negli Stati Uniti evidentemente nascono molte più persone di quante ne muoiano (la differenza positiva è di poco meno di 2.000.000).

Mi sono poi documentato, sempre attingendo a dati ufficiali, su quanti siano stati gli aborti negli Stati Uniti nel 2007 ed ho scoperto che purtroppo in quell’anno sono state interrotte un totale di 827.609 gravidanze, un numero agghiacciante. Ho fatto due calcoli e ho scoperto che, benché non riportato tra le prime 10 cause di morte negli Stati Uniti, in realtà l’aborto è la prima causa di morte, prima delle malattie cardiache, visto che l’aborto uccide circa 200.000 vite più che le malattie cardiache.

Che fine ha fatto allora l’aborto nel report relativo alle prime 10 cause di morte? È triste ma, evidentemente, queste vite (perchè si tratta di vite umane, anche se non ancora nate) non contano nemmeno per le statistiche sulla morte.

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Nuovo studio: l’Oms diffonde l’AIDS in Africa con un contraccettivo

Il contraccettivo ormonale più diffuso in Africa, il “Depo Provera”, creato nel 1969 e autorizzato negli Stati Uniti solo dal 1992, utilizzato massicciamente in Africa per la pervicace volontà dell’OMS, l’Organizzazione mondiale della sanità, raddoppia il rischio di contrarre l’Aids sia da parte di donne sane che hanno rapporti con uomini infetti, sia da parte di uomini che hanno rapporti con donne infette che stanno facendo uso del Depo Provera.

Lo ha scoperto, come riportano i quotidiani internazionali, un nuovo studio di alto livello, condotto dai ricercatori della University of Washington su 3.800 coppie in Botswana, Kenya, Ruanda, Sudafrica, Tanzania, Uganda e Zambia e appena pubblicato su “Lancet Infectious Diseases”. Finalmente anche i responsabili dell’OMS ne hanno voluto prendere atto, come si desume dalle dichiarazioni di Mary Lyn Gaffield: «Abbiamo intenzione di rivalutare le raccomandazioni cliniche dell’Oms sull’uso dei contraccettivi».

Il settimanale Tempi informa che il Depo Provera è stato lo strumento di politiche sanitarie fondate sul pregiudizio razziale: destinato a donne analfabete e ignoranti, incapaci di rispettare la posologia e i tempi di assunzione dei normali anticoncezionali ormonali. Associazioni per i diritti delle donne e dei consumatori hanno ripetutamente accusato la casa di produzione Pfizer e i servizi sanitari di vari paesi per casi di coercizione e di mancanza del consenso informato. Anche le prime sperimentazioni del farmaco sono state condotte con donne povere e analfabete nei Paesi in via di sviluppo, e negli Stati Uniti risulta somministrato quasi esclusivamente a donne disagiate, di colore, semianalfabete o addirittura ritardate mentali non sessualmente attive, come precauzione per evitare gravidanze conseguenza di abusi. Inoltre, uno studio condotto in Italia, ha dimostrato che il 40% di giovani donne che utilizza il contraccettivo presentava una densità ossea inferiore alla media. Finalmente nel 2004 la multinazionale Pfizer ha inserito nelle confezioni un “black box warning”, una messa in guardia rafforzata sugli effetti collaterali dell’uso del medicinale, che l’ha messa al riparo da nuove cause giudiziarie.

Tuttavia l’OMS ha continuato imperterrita a diffondere nei Paesi in via di sviluppo, principalmente nell’Africa sub-sahariana, il contraccettivo. Eppure il legame con la diffusione dell’AIDS risale ad uno studio nel 2004, opera del National Institutes of Health, mentre già nel 1996 era stata evidenziata l’associazione fra applicazione del farmaco e incremento dell’Aids nelle scimmie. Negli anni ’90 invece, l’UNFPA (l’ente dell’ONU per il controllo demografico, recentemente accusato di avere anche promosso l’aborto selettivo in India), metteva a disposizione 20 milioni di dosi di Depo Provera all’anno, inviandone massicce unità nei Paesi africani, più che in qualunque altra parte del mondo.

Non è la prima volta che si dimostra come la lotta all’Aids e il controllo delle nascite in Africa siano difficilmente integrabili. Come riporta Avvenire, uno studio recente sulla prevenzione dell’AIDS in Zimbabwe, pubblicato sulla rivista “Plos Medicine”, aveva confermato le tanto discusse parole di Benedetto XVI: il preservativo non è la soluzione dei mali dell’Africa. Gli stessi ricercatori di Harvard, come Daniel Halperin, hanno preso posizione: per combattere l’Aids serve l’educazione, non tanto il preservativo. E’ stato poi più volte dimostrato attraverso studi peer-review che l’Aids si combatte in modo vincente con l’educazione sessuale ad un comportamento responsabile e alla fedeltà di coppia, i quali devono prevalere ai rimedi esclusivamente tecnici. Matthew Hanley, ricercatore in Sanità Pubblica alla Emory University di Atlanta (USA), con diretta esperienza sul campo in diversi paesi africani, ha ad esempio pubblicato per l’American Public Health una relazione in cui ha quantificato il numero di infezioni che avrebbero potuto essere evitate in Africa se si fossero attuate politiche per promuovere l’astinenza e la fedeltà, piuttosto che attuare politiche per la distribuzione di massa di preservativi. L’Uganda è l’unico Paese in cui si è riusciti a ridurre del 10% il numero di persone infette, seguendo un programma basato su “fedeltà” e “castita” e senza una distribuzione diffusa del condom. Un altro studio, svolto dalla United States Agency for International Development, ha preso in esame le variabili associate all’incidenza dell’Hiv in Benin, Camerun, Kenya e Zambia: gli unici fattori associati a una minore incidenza dell’Hiv sono il minor numero di partner (fedeltà), un debutto sessuale meno precoce (astinenza) e la circoncisione maschile. Non rientrano, invece, tra i fattori lo status socio-economico e l’uso del preservativo. In Sudafrica invece, essendosi concentrati soprattutto sulla promozione massiccia del preservativo, si è verificato un aumento della dffusione dei rapporti multipli, mantenendo i tassi di infezione a un livello di “incidenza allarmante”.

Edward Green, direttore (agnostico) dell’AIDS Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies, ha dichiarato: «Diffondevo contraccentivi in Africa. Oggi dico che solo la fedeltà coniugale batterà l’Aids». E ancora: «il Papa ha davvero ragione. Le prove che abbiamo dimostrano che, in Africa, i preservativi non funzionano come intervento per ridurre il tasso di infezione da HIV. Quello che si riscontra in realtà è una relazione tra un più largo uso di preservativi e un maggiore tasso di infezione […]. Chi usa i preservativi è convinto che siano più efficaci di quanto realmente sono, finendo così per assumere maggiori rischi sessuali […]. Una conseguenza dell’incremento nell’uso dei preservativi può essere anche un aumento del sesso occasionale […]. Si è cominciato a notare qualche anno fa che, in Africa, i paesi con maggiore disponibilità di preservativi e tassi superiori di loro utilizzo avevano anche il più alto tasso di infezione da HIV».

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E se l’evoluzione fosse prevedibile?


di Michele Forastiere*
*insegnante di matematica e fisica in un liceo scientifico.

 

A quanto pare, i paladini del neo-darwinismo non se la stanno passando troppo bene, ultimamente. Uno smacco recente è venuto dall’Australopithecus sediba, un ominide che pare dare fastidio comunque lo si classifichi: se fosse un nostro antenato diretto, infatti, metterebbe in dubbio il gradualismo darwiniano sullo sviluppo cerebrale; se non lo fosse… farebbe fare una figura barbina ai divulgatori che l’avevano già definito – un po’ troppo frettolosamente – il mitico “anello mancante” tra Australopithecus e Homo.

Nel mese di agosto, poi, è apparso su Nature un articolo dal titolo apparentemente innocuo (“L’evoluzione parallela di specie domestiche di “Caenorhabditis” si concentra sui geni dei recettori feromonici”), ma dal contenuto alquanto fastidioso per i seguaci di Dawkins. Il concetto chiave, qui, è “evoluzione parallela”: in pratica, il lavoro dimostra che popolazioni distinte di una stessa specie – o addirittura specie diverse – evolvono in maniera identica a parità di condizioni ambientali. Il che porterebbe a concludere che l’evoluzione biologica sia, in qualche misura, scientificamente prevedibile. Vediamo dunque come sono andate le cose per i nostri vermetti, secondo quanto riportato da ScienceNow.

Cinquanta anni fa, alcuni biologi americani cominciarono ad allevare una specie di vermi nematodi, la Caenorhabditis elegans. Ora, un verme neonato ha davanti a sé due possibili strade: o matura in tre giorni, si riproduce e poi muore in capo a due settimane; oppure entra in uno stato di animazione sospesa, detto “larva dauer”. Le larve dauer non mangiano, e possono sopravvivere a condizioni ambientali estreme per mesi, prima di diventare adulti. Normalmente sono la carenza di cibo, la temperatura sbagliata o l’affollamento eccessivo a provocare questa trasformazione. I vermi si accorgono di essere in tanti grazie alle particolari molecole emesse dai propri simili, i feromoni: quando c’è troppo feromone in giro, diventano larve dauer.

Nel 2009, i ricercatori della Rockfeller University di New York notarono che una certa varietà da laboratorio di Caenorhabditis elegans aveva iniziato a comportarsi in maniera diversa: i giovani maturavano rapidamente nonostante l’affollamento, e non diventavano quasi mai larve dauer. In natura, l’affollamento corrisponde in genere a carenza di cibo, perciò ha senso che un verme “entri in letargo” in attesa di tempi migliori. In laboratorio, dove c’è sempre nutrimento in abbondanza, gli individui di maggior successo sono invece quelli che ignorano il segnale di “troppa folla” e si riproducono velocemente. Gli scienziati della Rockfeller sono riusciti a scoprire una particolare mutazione genetica che elimina due geni responsabili di un certo recettore di feromoni; la perdita di questi geni ritarda la riproduzione, mentre il recupero di uno dei due spinge i vermi alla maturazione. Si è così scoperto che la presenza o l’assenza di questi geni determina la velocità di maturazione e riproduzione dei vermi. Soddisfatti di aver trovato la causa genetica del cambiamento evolutivo, i ricercatori hanno cercato di capire se la stessa eliminazione di geni fosse coinvolta in altri casi di sparizione dello stato dauer. È saltato fuori che un gruppo di Caenorhabditis elegans, preparate per un esperimento da eseguire sullo Space Shuttle Columbia, si adattava all’affollamento seguendo esattamente la stessa strada genetica. Ma la sorpresa maggiore è venuta dall’analisi di un’altra specie di nematodi da laboratorio, la Caenorhabditis briggsae, che a sua volta aveva recentemente perso lo stadio dauer. Il fatto è che la specie C. briggsae si è separata dalla C. elegans ben venti milioni di anni fa, abbastanza da avere geni dei recettori feromonici diversi. Ciononostante, è risultato che ai vermi della C. briggsae mancavano i geni che sono gli equivalenti più prossimi a quelli mancanti alla C. elegans.

Lo studio pubblicato su Nature, in definitiva, sembrerebbe suggerire una considerazione “pericolosa”: l’evoluzione, lungi dal procedere a tentoni, in qualche modo sa esattamente dove andare. Questo punto di vista, nettamente in contrasto con la filosofia neo-darwinista, è in realtà confortato da altre ricerche indipendenti: qui si può vedere, per esempio, un lavoro su specie affini alla Drosophila Melanogaster, che conferma l’evoluzione genetica parallela sotto identiche pressioni ambientali.

Cosa si può arguire, in generale, dalle ricerche citate? Secondo alcuni, come Simon Conway Morris, se ne potrebbe addirittura dedurre che la comparsa dell’Uomo non sia affatto il risultato inaspettato di una storia totalmente contingente, ma che sia invece in qualche modo implicita nelle leggi dell’Universo – quindi inevitabile. Praticamente, il contrario di quanto va sostenendo il filosofo Telmo Pievani. Altri, come gli esobiologi della Stanford University, sembrano avvicinarsi alle posizioni di Conway Morris, rimanendo però possibilisti sull’effettivo ruolo della contingenza nell’evoluzione dell’Uomo – un ruolo che sarebbe comunque significativo, ma non preponderante. D’altra parte, essi riconoscono francamente che la comparsa di esseri intelligenti nell’Universo deve essere in ogni caso un evento rarissimo, se non unico. Insomma, sembrerebbe quasi che le leggi fisiche fondamentali, le leggi dell’evoluzione biologica e l’intreccio di innumerevoli eventi contingenti (in proporzione ancora sconosciuta) abbiano concorso alla comparsa necessaria di almeno un organismo vivente capace di comprendere l’Universo – e forse di non più di uno. Comunque stiano le cose, però, a quanto pare la scienza sta ormai cominciando seriamente a chiedersi se davvero il neo-darwinismo sia l’unico, e definitivo, schema in cui è possibile inquadrare lo studio dell’evoluzione.

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Il “grande disegno” di Hawking: quando il cosmologo perde il contatto con il mondo

Nel suo ultimo libro, “Il grande disegno” (Mondadori, pag.192, euro 20)scritto insieme a Leonard Mlodinowil prof. Stephen Hawking afferma che Dio non è necessario per creare l’Universo, perché “le leggi della fisica lo possono fare da sole”. E la filosofia, che nacque dalla curiosità di rispondere alle domande sull’origine del mondo e sul posto dell’uomo in questa terra, “è morta, perché non ha tenuto il passo delle scienze, in particolare della fisica”. Il laicismo militante di tutto il mondo applaude, nel silenzio assordante di quei professori di filosofia delle accademie (per l’accesso alle quali non c’è più l’obbligo platonico di conoscere la geometria), i quali dopo essersi trasformati in cantori dell’onnipotenza della tecnica, sono ora scaricati nel cestino della storia.

Hawking asserisce che “come recenti progressi della cosmologia dimostrano, le leggi della gravità e della meccanica quantistica ammettono la possibilità che molti universi appaiano spontaneamente dal nulla. L’auto-creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa piuttosto che niente, perché l’Universo esiste, perché noi esistiamo. Non è necessario scomodare Dio”. Vedremo più avanti in che cosa consistano questi “recenti progressi della cosmologia”. Osserviamo intanto che il “nulla” di Hawking, da cui sarebbe apparso spontaneamente l’Universo, non è il niente, ma una varietà di mondo platonico in cui da tutta l’eternità sono scolpite alcune equazioni matematiche: “le leggi della gravità e della meccanica quantistica”. Un mondo platonico che vive ab aeterno, perché per le leggi della relatività generale il tempo appartiene all’Universo e, come si sa, anche il tempo apparve insieme allo spazio, alla materia e all’energia, in coincidenza con la nascita spontanea di quello. In questa visione, però, il problema dell’origine è da Hawking solo spostato dalla macchina dell’Universo al suo progetto, e noi ci chiediamo: qual è l’origine delle “leggi della fisica che hanno fatto da sole” l’Universo? Ancora, ci chiediamo: può un’equazione matematica “fare da sola” qualcosa?

Nel Timeo, Platone racconta del demiurgo che, ispirandosi a leggi matematiche preesistenti, plasma la materia informe e forgia l’Universo ordinato (il cosmo). Ma questa teoria – in cui la matematica prescrive alla fisica come comportarsi – è una metafora poetica. La scienza moderna nacque quando Galileo, invertendo i ruoli tra matematica e fisica, mise come punto di partenza per l’indagine scientifica i fenomeni fisici osservati ed assegnò alla matematica il compito di descriverli, entro leggi e teorie che sarebbero state poi, di volta in volta, verificate o falsificate dalla sperimentazione delle loro predizioni. Nella visione scientifica moderna, nessuna equazione matematica può creare una sola particella! Avere il progetto, anche il più dettagliato, di un prodotto, non significa averne garantita la produzione, se mancano l’apparato costruttivo e le materie prime. Tale evidenza era stata ricordata alcuni anni fa proprio da Hawking (e senza per la verità che da allora sia intervenuto alcun “progresso” specifico della cosmologia) con la famosa frase che chiudeva un altro suo libro: “Che cosa ha spirato il fuoco nelle equazioni della fisica e ha dato loro un Universo da descrivere?”. Il cosmologo dei buchi neri dovrebbe rimeditare sul problema che egli stesso s’era posto: la differenza tra descrizioni matematiche e prescrizioni fattuali. Le prime ci dicono quali relazioni quantitative esistono tra fenomeni osservabili, le seconde perché sono stati effettivamente osservati i fenomeni descrivibili dalle prime. Così l’equazione di Pitagora a2 = b2 + c2 descrive la relazione intercorrente tra i tre lati di un triangolo rettangolo, ma non prescrive che oggi nel mio ufficio ci sia un tavolo a forma di triangolo rettangolo con i lati di 50, 120 e 130 cm. Se questo tavolo sia o meno fattualmente presente dipende da una prescrizione (una mia personale decisione) che non ha nulla di scientifico. Nel Timeo Platone era comunque cosciente dell’insufficienza della matematica, tanto da sentire il bisogno di prevedere per la creazione del cosmo anche la preesistenza di una materia informe e di un artigiano che la lavorasse. Hawking e Mlodinow, invece, sembrano trarre il loro discorrere da un’epoca pre-filosofica e pre-scientifica, quella delle magie in cui una formula pronunciata dallo stregone aveva la potenza di produrre un accadimento.

Parmenide, il “maestro venerando e terribile” della filosofia greca, ammoniva i pensatori a maneggiare con estrema delicatezza il termine “nulla”. I neo filosofi Hawking e Mlodinow, però, non ne seguono il consiglio, perché, in un’altra pagina del loro libro, tornano a giocare in maniera allegra con questo termine, stavolta confondendolo col vuoto fisico. Il “nulla è instabile” – scrivono – e può così oscillare tra il non essere e l’essere e produrre casualmente l’Universo. Ma il “nulla” è ni-ente, non essere: niente materia, niente antimateria, niente energia, assenza di struttura spazio-temporale; in quanto tale, non ha senso assegnare al nulla alcun attributo, in particolare l’instabilità fisica, che richiederebbe all’oggetto di avere relazioni quantistiche con se stesso. Il vuoto fisico, invece, ovvero quello stato fisico di campo quantistico, presente nello spazio-tempo, in cui l’assenza di particelle materiali si accompagna all’autovalore minimo dello spettro energetico, è fisicamente instabile, nel senso che può dare luogo (a prezzo della sua energia) alla creazione di nuove particelle e antiparticelle. Vuoto fisico e zero/nulla sono in fisica due concetti tanto diversi da richiedere l’uso di due simboli distinti per rappresentarne i vettori di stato. E le diverse proprietà matematiche dei due vettori rispecchiano la distinzione fisica dei due stati.

Veniamo ora alle ricerche cosmologiche più recenti. Secondo la teoria standard del Big Bang, l’Universo nacque 13.7 miliardi di anni fa da una singolarità. Certo, un evento di questo tipo – piuttosto che un universo che esiste da sempre – richiama la Genesi biblica e pone un serio problema agli scienziati antireligiosi. Un problema aggravato dall’osservazione dell’incredibile, a priori estremamente improbabile, sintonia di una ventina di costanti cosmologiche con le condizioni esattamente necessarie per l’emergenza della vita in almeno un pianeta: se anche uno solo di questi numeri – che essenzialmente stabiliscono i rapporti tra le diverse forze attrattive e repulsive che regolano il gioco della fisica, della chimica e della biologia – fosse minimamente diverso da quello che è, l’Universo sarebbe un singolo buco nero, oppure una collezione di buchi neri, o una polvere di particelle non interagenti, o sarebbe costituito di solo elio, o non si sarebbe sintetizzato il carbonio, e così via. In tutti i casi non ci sarebbero le condizioni per la nascita e la sopravvivenza della vita, né tanto meno dell’intelligenza umana.

“I recenti progressi della cosmologia” richiamati da Hawking, che hanno occupato la ricerca teorica degli ultimi quarant’anni, hanno scandito i tentativi di risolvere le questioni della singolarità del Big Bang e della sintonia antropica delle costanti lungo due filoni speculativi: la teoria degli infiniti universi (il multiverso) e la teoria delle stringhe. Vediamone i risultati. Per quanto riguarda il superamento dell’unicità del Big Bang, ogni teoria orientaleggiante di scenari pre-Big Bang, ovvero di infiniti eoni in cui ad ogni ciclo di espansione succede un ciclo di contrazione in un’eterna fisarmonica di universi che nascono e muoiono, si scontra finora con il teorema di Borde, Guth e Vilenkin (2003), il quale sancisce, sotto condizioni molto estese, che ogni successione di universi di questo tipo deve avere comunque un inizio e non può allungarsi indietro nel tempo all’infinito. Ascoltiamo Vilenkin: “Si dice che un’argomentazione basta a convincere un uomo ragionevole, mentre una prova serve a convincere anche un uomo irragionevole. Con questo teorema, i cosmologi non possono più nascondersi dietro la possibilità di un universo eterno nel passato. Non c’è via di scampo, essi devono guardare in faccia il problema di un inizio cosmico”. Ancor più fallimentare si presenta la situazione della teoria delle stringhe (e della sua estensione, la teoria M) volta a spiegare la sintonia antropica delle costanti cosmologiche: tutte le proposte finiscono col poggiarsi su ipotesi matematiche ad hoc che contengono più assunzioni – campi scalari, proprietà topologiche, parametri appositi, ecc. – di quante questioni intendano risolvere. Per giunta, l’evidenza sperimentale di queste teorie è del tutto assente. Nel marzo scorso, ad un congresso scientifico a New York, il prof. Brian Greene, fisico alla Columbia University e uno dei massimi esperti di queste teorie, iniziò il suo intervento dicendo: “Non chiedetemi se credo alla teoria delle stringhe. La mia risposta sarebbe quella di 10 anni fa: no. E questo perché io credo solo a teorie che possono fare predizioni controllabili”.  L’ultima invenzione della teoria delle stringhe sta nel congiungere questi sport matematici estremi per affermare che viviamo in un megaverso di (10 elevato a 500?!) universi-bolla disgiunti, ognuno con differenti leggi e costanti: nel megaverso il numero degli universi è predeterminato al fine di far crescere un po’ la probabilità della presenza di almeno una bolla antropica come il nostro Universo, ma ciò avviene al prezzo di abbandonare la prima legge della razionalità scientifica, la parsimonia del rasoio di Occam. Dall’evidenza fisica dell’inizio assoluto di ogni universo (o multiverso) consegue logicamente che il nostro Universo è contingente. Qui finisce la fisica e comincia, se si vuole continuare a pensare, la metafisica.

Ebbe a dire il premio Nobel per la Fisica Arno Penzias, scopritore della radiazione cosmica di fondo: “L’astronomia ci conduce ad un evento unico, un universo creato dal nulla e finemente progettato per fornire le esatte condizioni necessarie a supportare la vita. Si può dire che le osservazioni della scienza moderna appaiono suggerire l’esistenza di un sottostante piano soprannaturale”. È la logica, prof. Hawking! L’unica comprensione possibile di un Universo, che – secondo le attuali conoscenze dell’astronomia – ha l’evidenza fisica di avere avuto inizio col tempo e di essere antropico, è di far dipendere il mondo fisico dello spazio, del tempo, della materia e dell’energia da un’agenzia non fisica che trascende lo spazio, il tempo, la materia e l’energia. Questa agenzia trascendente non può essere una gazzetta platonica di leggi matematiche, perché ha esibito la capacità di agire sul mondo fisico creandolo, mentre le formule matematiche sono entità causalmente inerti che non lo toccano. Solo un’agenzia trascendente di questo tipo può “spirare il fuoco nelle equazioni della fisica e dare loro un universo da descrivere.”  Hawking parla di morte della filosofia, ma pensa piuttosto, con la teoria M, alla cosiddetta Teoria del Tutto che, presa alla lettera, coinciderebbe con la fine della fisica galileiana, sostituita da una metafisica matematizzata ed ipertrofica. È più probabile però che nuove e più accurate osservazioni sperimentali (come quelle in corso al Cern di Ginevra, che stanno già fornendo risultati del tutto inattesi) portino gli scienziati a sempre nuove teorie; e che queste, a loro volta, se non saranno esercizi matematici sterili ma capaci di predittività falsificabili, portino a nuove domande.

Giorgio Masiero

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Regno Unito: si abortisce anche chi ha il labbro leporino

Il noto settimanale inglese “The Spectator” ha presto una forte posizione nel dibattito sull’aborto nel Regno Unito dedicandovi la sua ultima copertina. Scrive: «Ci ritroviamo con 189.574 feti uccisi in un anno, alcuni solo perché presentavano labbro leporino o piede equino. Avrebbero dovuto operarli e fargli una cicatrice. Da male necessario, l’aborto è diventato una cosa bella e giusta». Ecco una piena dimostrazione del cosiddetto “piano inclinato”, ovvero aperta una breccia è ben difficile che non si apra la porta intera. Si parte dal caso estremo per poi arrivare a tutti i casi minimamente problematici, così come accade da tempo nei Paesi Bassi rispetto alla questione eutanasia (cfr. Ultimissima 21/3/11).

Nei giorni scorsi è stato infatti bocciato nel Regno Unito un emendamento che avrebbe arginato le interruzioni di gravidanza, una delle tante iniziative che fortunatamente cominciano ad emergere in tutto il mondo (per ora senza centrare l’obiettivo, per ora). L’articolo del settimanale, firmato da Mary Wakefield, s’intitola “Who cares about abortion?”, usando come immagine l’ecografia di un bambino spezzata in due, affronta la questione dal giusto punto di vista: non soffermandosi sul diritto (“presunto”) della donna di mettere fine ad un’altra vita umana, ma sottolineando che il bambino «ha una vita autonoma, non è parte del tuo utero. Bisogna quindi chiedersi se non abbia gli stessi diritti di quelli che pensano che si possa buttare via: chi è il suo padrone?», scrive Wakwfield.

Riporta Tempi: nessuno in questi giorni di dibattito politico si è mai interrogato sull’essere del bambino, la questione è sempre incentrata sulla madre, presupponendo implicitamente che il diritto della donna debba venire prima di quello del nascituro. Oggi, continua la Wakefield, «ci ritroviamo con una gravidanza su cinque che termina con l’aborto, con 189.574 feti uccisi in un anno – di cui sette con il labbro leporino e otto, che ormai avevano passato la 24° settimana, con piede equino». Così, sottolinea la giornalista, «si è arrivati a un punto estremo», in cui i pro choice non hanno più remore ad argomentare «che l’aborto non è un male a volte necessario, come dicevano prima, bensì una cosa giusta e bella». L’aborto viene celebrato in Parlamento come un successo e quindi gli aborti non sono mai troppi, anzi. L’opinionista non ha remore nello scrivere che il diritto di decidere della vita di un altro, ritenuta meno valida, sia degenerato nella sua opzione eugenetica ormai dichiaratamente espressa: «C’è dell’orribile tragicomico in una società in cui solo pochi mettono al mondo figli e in tanti li “buttano via”, anche solo per una piccola membrana piegata male. Perché, anche la si correggesse con un’operazione, al piccolo potrebbe sempre rimanere la cicatrice».

Nel Regno Unito si vorrebbe abortire perfino chi ha la coroideremia, la talassemia o la sindrome di Marfan, come la ebbero Abramo Lincoln, Charles de Gaulle e Rachmaninoff. Nel Regno Unito viene abortito il 92% dei bambini affetti dalla Sindrome di Down. Come mai tutto questo? Perché qualcuno si arroga il diritto di decidere quanta qualità abbia la vita umana di un altro o, ancora peggio, quanta qualità possa dare all’umanità. Su questo sito viene ammesso spudoratamente: «Parlare di assassinio perché si strappa dalla terra una carota mi sembra fuori luogo. È irrealistico pensare che un bambino Down possa dare a una famiglia la stessa qualità della vita che un bambino normale. Basta pensare al fatto che la mortalità di chi è soggetto alla sindrome di Down è altissima e spesso non sopravvive ai genitori. Certo se uno è un martire e si inorgoglisce nell’impresa di aiutarlo, può anche trovare uno scopo di vita, l’amore non ha confini, ma bisogna dirsi la verità».

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Serbia: il 95% della popolazione è credente (l’85% è cristiano)

Un sondaggio nazionale in Serbia ha rilevato che durante il recente censimento il 95% degli abitanti si è dichiarato “persona religiosa“. La statistica ha fatto ovviamente diventare lo Stato uno tra i “più religiosi dell’Europa”.

Il quotidiano Vecernje Novosti ha chiesto alla Chiesa Ortodossa Serba (SPC) di commentare questi “dati stupefacenti”, dove appare evidente che la nazione serba sia oggi “religiosa nella sua essenza”. L’esponente religioso intervistato ha dichiarato: «Dopo decenni di ateismo forzato nella nostra società, le persone si sono rivolte alla Chiesa».

Anche il ministro per la religione, Srdjan Sreckovic, ha commentato la relazione, dicendo che lo Stato e la Chiesa sono e rimarranno separati, ma -ha osservato- per i serbi, l’identità nazionale e religiosa sono di fatto la stessa cosa.

Ovviamente, riporta ancora la fonte, la parrocchia locale di “atei e liberi pensatori” (eh si, i liberi pensatori ci sono pure lì) ha sostenuto che i dati ufficiali sono scorretti e che si è attivato un complotto teista durante il censimento della popolazione.

La popolazione serba è oggi composta dall’85% di cristiani ortodossi, il 5% di cattolici, 3% di musulmani e l’1,5% di protestanti. Statistiche del genere è possibile ritrovarle anche negli Stati Uniti dove un recente sondaggio ha verificato che il 92% della popolazione è credente, di cui l‘81% è cristiano (cfr. Ultimissima 6/06/11).

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