L’antropologo René Girard tra violenza delle religioni e rivoluzione cristiana

Violenza e religione. L’antropologo francese René Girard smentisce che i conflitti abbiano un’origine religiosa e, anzi, valorizza la rivoluzione cristiana che ha introdotto l’interesse per le vittime e la tutela del debole.

 

«Molti atei od agnostici sono giunti alla conclusione che un’umanità senza culti vedrebbe la scomparsa della violenza organizzata», così si legge su “L’Occidentale” Tuttavia, «la storia del Novecento ha come nefasti protagonisti sistemi di pensiero che negavano il trascendente o lo mettevano fra parentesi. Ed è noto cosa abbiano combinato».

La tesi che vedrebbe nei conflitti un’origine religiosa trova comunque una valida confutazione nel pensiero di René Girard, critico letterario ed antropologo, professore emerito all’Università di Stanford negli Stati Uniti e membro dell’Académie Française dal 2005. Secondo Girard, «la violenza religiosa riguarda in primo luogo la natura umana. Più che determinata dalle credenze, lo è da tensioni sociali e antropologiche». I culti arcaici pre-cristiani «non erano nati per svelare i misteri dell’universo, come pretende la forma mentis illuminista. L’urgenza primaria era quella di armonizzare, sedare, neutralizzare le tensioni violente della comunità. Per sopravvivere ai contrasti fra i desideri degli uomini, che avrebbero annientato la civiltà, si dovette ricorrere al sacrificio rituale. La tribù, il clan e la città trovavano un capro espiatorio contro il quale coalizzarsi, da uccidere, spesso da divinizzare dopo l’esecuzione. Il sangue versato garantiva una catarsi, un sollievo che cementava la comunità; era possibile continuare a vivere in relativa pace, fino al prossimo sacrificio».

Le religioni antiche, quindi, esorcizzavano la guerra e, se non potevano evitarla, la «facevano rientrare in una maggiore armonia universale. La violenza non era mai fine a se stessa, ma sempre sacrificio, non causa di violenza, ma effetto». 

La tradizione giudeo-cristiana fu radicalmente differente da tutto ciò che l’ha preceduta: «Se le narrazioni pagane ed arcaiche sono scritte dal punto di vista della folla che si crede innocente, si fa giustizia da sé e lincia il capro espiatorio, i protagonisti dei salmi, i profeti dell’Antico Testamento e ovviamente Gesù Cristo sono proprio le vittime»ha proseguito l’antropologo francese. La violenza viene demistificata, il sacrificio diventa obsoleto, superato dalla scelta divina di incarnarsi e patire la violenza umana che pretende di essere giustizia: «Il moderno interesse per le vittime, la tutela del debole, è il vero lascito della cultura giudaico-cristiana, non la giustificazione della guerra per motivi religiosi». Quello cristiano è «un Dio che chiede e dà amore sacrificandosi per l’umanità ed insegnando la colpa reciproca e la conseguente necessità di perdono».

Filippo Chelli

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Gli scienziati ancora oggi non hanno idea di come sia iniziata la vita

Il giornalista scientifico John Horgan, firma nota di “Scientific American” e “New York Times”, ha scritto un articolo dal titolo veramente simpatico su “Scientific American”: “Pssst! Non ditelo i creazionisti, ma gli scienziati non hanno idea di come la vita sia iniziata”. Horgan, dichiaratamente agnostico, ha citato il resoconto fatto sul “New York Times” di una conferenza tra scienziati sull’origine della vita: «Geologi, chimici, astronomi e biologi sono perplessi come sempre sull’enigma della vita», ha scritto.

Dopo che Francis Crick e James Watson hanno dimostrato che il DNA è la base per la trasmissione genetica (1959), molti ricercatori capirono che il DNA non può realizzare né proteine, né copie di se stesso senza l’aiuto di enzimi. E’ dunque diventato centrale il ruolo dell’RNA, aiutante del DNA, il quale può agire come enzima diventando in grado di replicarsi senza l’aiuto di proteine. Tuttavia la spiegazione è problematica dato che «l’RNA è difficile da sintetizzare in laboratorio, per non parlare sotto plausibili condizioni prebiotiche. Le probabilità che si sia trovato nella giusta sequenza per guidare l’evoluzione darwiniana sembrano molto piccole».

Così gli scienziati si sono rivolti direttamente agli alieni, come ad esempio il Premio Nobel non credente (in Dio, ma in tantissime altre cose), Francis Crick, il quale ha ipotizzato che «essi sono venuti sulla Terra miliardi di anni fa con una navicella spaziale e hanno piantato i semi della vita». Questa nozione è chiamata panspermia guidata. Nelle versioni meno surreali, si vuole che i microbi siano arrivati sul nostro pianeta attraverso asteroidi, comete o meteoriti, o alla deriva giù come coriandoli. Ma anche questa è una risposta a cui in pochi realmente aderiscono (di recente anche Richard Dawkins, come riporta questo interessante blog)

La conclusione di Horgan è comunque sorprendente, ma allo stesso tempo sbagliata. Egli dice correttamente: «naturalmente, la teoria della panspermia semplicemente sposta solo più in là il problema dell’origine della vita nello spazio. Se la vita non è cominciato qui, come è iniziata là fuori?». Peccato che però poi confonda i creazionisti con i credenti in generale, riesumando inspiegabilmente un concetto assolutamente obsoleto dal punto di vista filosofico: «I creazionisti sono senza dubbio entusiasti del fatto che la ricerca sull’origine della vita ha raggiunto un punto morto, ma non dovrebbero esserlo. Le loro spiegazioni soffrono dello stesso difetto: chi ha creato il Creatore divino?». Oltre al fatto che “credere in Dio” non è per nulla il tratto distintivo dei creazionisti ma è condiviso anche da tantissimi evoluzionisti, il giornalista introduce il falso dilemma che Dio eterno e creatore dello spazio e del tempo, debba venire da qualche parte. Chi avanza questa antica obiezione di Russell non si accorge che oggi moltissimi anti-teisti (e forse loro stessi) sono tornati a sostenere un Universo senza inizio per rendere inutile la domanda “Chi ha creato l’Universo?”, negando la necessità di un Creatore. Dunque è altrettanto insensato domandarsi “Chi ha creato Dio”, in quanto Ente eterno e sovrannaturale, ovvero al di sopra delle leggi dello spazio e del tempo.

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Studio USA: gli atei sono la categoria di persone meno affidabili

Uno studio statunitense arriva come un macigno in questi giorni a lacerare l’illusione della forma di proselitismo promosso oggi dalla cultura laicista. Quella forma estrema di ateismo diventata oggi una vera e propria religione, basa il suo stesso esistere e la sua propaganda sull’attacco plateale e sistematico verso le altre religioni, il rancore e l’odio verso i leader religiosi, la diffamazione e la derisione delle persone credenti, l’enfatizzazione delle loro incoerenze e debolezze. Tutto il pensiero laico si è ridotto ad una sorta di gossip laicista, che tiene occupate quotidianamente decine e decine di persone (ovviamente nella realtà virtuale del web), le quali pensano davvero di promuovere la loro ideologia soffermandosi sulle (presunte) debolezze degli odiati credenti. Basta osservare l’inconsistenza delle notizie pubblicate dall’UAAR (la parrocchia degli atei integralisti), ridottasi ormai al regno del pettegolezzo sulle religioni.

La ricerca, pubblicata sul “Journal of Personality and Social Psychology” mostra con evidenza che gli atei sono diventati la categoria di persone meno simpatiche, particolarmente per la scarsità di fiducia che la gente ripone in loro. Questa visione è generalizzata ed è presente, si legge, anche nelle popolazioni più liberali e laiche. La ricerca realizzata dallo psicologo Will Gervais dell’University of British Columbia, coincide perfettamente con i risultati di quella realizzata nel 2006 e pubblicata sull’American Sociological Review. Il profilo dell‘individuo inaffidabile è stato visto come rappresentante degli atei e degli stupratori, ma non dei cristiani, musulmani, ebrei, femministe e omosessuali. «Le persone usano la religiosità come un segnale di fiducia», scrivono i ricercatori, e dato che «l’affidabilità è il tratto più apprezzato nelle persone», questa equazione mentale genera oggi un atteggiamento decisamente negativo nei confronti dei non credenti.

Per realizzare i test, i ricercatori hanno sottoposto a 105 studenti la lettura di una vignetta di un uomo che non riesce a prendersi la responsabilità del suo gesto dopo aver urtato un furgone parcheggiato con la sua auto, e un’altra in cui l’uomo mette in tasca dei soldi presi da un portafoglio che ha trovato sul marciapiede. Ai partecipanti è stato chiesto se pensavano che l’uomo fosse più probabilmente (a) un insegnante, o (b) un insegnante e un secondo fattore di identificazione. La risposta più scelta è stata: “Un insegnante e un ateo”, sorprendentemente maggiormente preferita  della risposta: “un insegnante e uno stupratore”.

Un altro esperimento ha visto impegnati quaranta studenti universitari, invitati a scegliere tra un candidato religioso e uno ateo per due posti di lavoro: un lavoratore in un asilo nido e una cameriera. Al di là della loro appartenenza o non appartenenza religiosa, i candidati avevano medesime qualifiche per la posizione. «I partecipanti hanno significativamente preferito il candidato religioso al candidato ateo per il posto di lavoro in cui serviva una elevata dose di fiducia -quello all’asilo nido-. Al contrario, i partecipanti hanno marginalmente preferito il candidato ateo al candidato religioso per un posto di lavoro in cui non occorre grande fiducia, come la cameriera», ha spiegato lo psicologo. Per dirla semplicemente: il candidato religioso è stato preferito al candidato ateo per un lavoro in cui è richiesto un individuo particolarmente affidabile, questo significa, continua Gervais, una forma di sfiducia verso gli atei.

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Venezuela: 72% di cattolici e 8% di non credenti (come 20 anni fa)

Domenica 30 ottobre Roberto Briceño León ha pubblicato un articolo in cui ci informa che il 92% dei venezuelani asserisce di aderire ad una religione, e solo l’8% è diviso tra agnostici e atei. Può sembrare un dato di poco conto; è sorprendente invece, se si pensa che da più di un secolo si predica che le religioni siano destinate a sparire, che con l’incremento dell’alfabetizzazione e della conoscenza scientifica, con l’universo sempre più alla nostra portata, la spiritualità sarebbe dovuta divenire superflua. Questo processo, conosciuto in sociologia come secolarizzazione, doveva essere universale e in crescita perpetua e ininterrotta; tutta la Terra prima o poi, in un lontano futuro, avrebbe visto sparire le religioni. La perdita dei poteri temporali da parte delle religioni con separazione tra Stato e Chiesa, e la politicizzazione dell’idea di origine marxista per cui la religione è strumento di dominio sociale da abbattere, avrebbero contribuito a ciò.

In Venezuela, la secolarizzazione ebbe impulso dai tempi di Antonio Guzmán Blanco (1829-1899), presidente del Venezuela per ben tre distinti mandati. Allora i tre riti essenziali della vita (nascita, matrimonio, morte) smisero di essere in mano alla Chiesa e passarono in esclusiva alle autorità civili. In sèguito, con il divorzio e l’espansione dell’educazione pubblica laica a partire dagli anni ’40, si è pensato che nel paese la religiosità avesse i giorni contati. La realtà invece, come abbiamo visto, è diversa, nonostante tutti gli sforzi compiuti per creare una realtà a-religiosa.

La religiosità in Venezuela ha sviluppi singolari, in quanto riunisce diverse tendenze sociali: da un lato, mai c’è stato il crollo dello spirito religioso come è avvenuto in Europa, e dall’altro ci sono stati i fenomeni di espansione religiosa e di de-secolarizzazione tipici del mondo globalizzato. Tutto ciò mostra una società ampiamente religiosa che convive benissimo col progresso e la scienza. Per quanto riguarda la fede religiosa professata, in questi anni c’è stata una grande serie di mutamenti. Vent’anni fa, quando il sociologo Alberto Grusón indagò sull’appartenenza religiosa dei venezuelani, circa l’85% si professò cattolico; oggi sono scesi a quasi il 75%. In vent’anni, il 10% delle persone ha cessato di dichiararsi cattolico. Ma questo non è da imputarsi a un “declino della fede” perché la percentuale di atei e agnostici è identica a vent’anni fa.

E allora questo 10% cosa ha fatto? E’ entrato in quella percentuale di cristiani non cattolici che è in aumento, oggi al 13%. Sono in aumento anche credenti di Yoruba, Santería e altre forme di religiosità popolare di origine africana. Nel paese c’è gran varietà di correnti cristiane: evangelici, anglicani, pentecostali, testimoni di Geova, Luce del Mondo, mormoni, Tabernacolo della Rivelazione. La secolarizzazione ha solo portato un pluralismo religioso, non ha fatto altro che moltiplicare la presenza religiosa nella società.

La redazione

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Nuovo studio: il feto umano partecipa attivamente al suo sviluppo

Mentre il feto umano cresce e si sviluppa, è costantemente in comunicazione con la madre. Non solo ascolta il battito cardiaco e qualunque musica che arrivi al ventre, ma percepisce anche segnali chimici attraverso la placenta. Lo dimostra un nuovo studio dell’Università californiana, che sarà pubblicato su Psychological Science, una rivista della Association for Psychological Science.

Negli ultimi decenni, i ricercatori hanno rilevato che l‘ambiente fetale è molto importante, al contrario di quanto sostengono abortisti e riduzionisti. Alcuni effetti sono evidenti: fumare e bere in gravidanza, per esempio, può essere devastante per il bimbo, altri sono più sottili. «Dobbiamo ammetterlo, la forza di questo risultato ci ha sorpreso», ha dichiarato la psicologa responsabile, dr Sandman.

Quello che è importante per il feto, come è emerso dallo studio americano, è che l’ambiente “prima” e “dopo” la nascita sia coerente, ovvero, è paradossalmente bene che una persona depressa in gravidanza lo sia anche dopo, anche se ovviamente è molto meglio (per entrambi) curare questa patologia prima della gravidanza. Un aborto comunque sradica alla radice questa intensa e continua relazione (anche inconsapevole) tra madre e figlio, sopprimendo uno dei due soggetti.

«Crediamo che il feto umano partecipi attivamente al suo sviluppo e raccolga informazioni per la vita dopo la nascita», hanno dichiarato i ricercatori. «Si prepara alla vita in base ai messaggi che la mamma sta fornendo».

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Le banalità ottocentesche di Sam Harris: «dalla scienza ricaviamo valori morali»

Sul blog dell’Università di Oxford è apparso un articolo molto critico verso Sam Harris, uno dei quattro cavalieri del movimento religioso dei “New Atheist” capeggiati da Richard Dawkins. L’autore dell’articolo è un dottorando della stessa università in psicologia sperimentale, Brian Earp. Il ricercatore ha recensito il libro di Harris intitolato “The Moral Landscape”, nel quale il fondamentalista promuove ancora l’argomento che la scienza possa determinare i valori umani, ci possa dire cosa è oggettivamente vero sulla moralità, ci dia risposte su cosa è moralmente giusto o sbagliato ecc.. Insomma un imbarazzante tuffo nel positivismo ottocentesco.

Earp non va per il sottile: «Ciò che realmente fa nel suo libro -nemmeno molto bene- è il semplice e vecchio laico ragionamento sulla morale e afferma di stare usando la scienza per decidere il bene dal male. Che Harris sia veramente così ingenuo da pensare di poter ignorare il famoso “is/ought” pare incredibile, e così io sospetto che lui stia esagerando per vendere più copie del libro. Provo vergogna per lui».

Chiunque sa benissimo che non è possibile ricavare dei valori morali dai dati scientifici, e il ricercatore propone un esempio molto banale per spiegarlo: lo stupro avviene in natura – tra gli scimpanzé, per esempio-. Ma questo fatto non significa che sia giusto stuprare la gente. Questo perché “naturale” non comporta “corretto moralmente”, anzi, la risposta corretta è che è sbaglaito, e questo è un giudizio che diamo basandoci sulla filosofia morale e sul buon senso: non è un potere della scienza. Il compito della scienza, continua, è quello di descrivere la natura basandosi in termini di modelli o leggi. La scienza non può dirci come vivere, non può dirci cosa sia giusto e sbagliato. «Se un sistema di pensiero sostiene di fare questo, non può essere scienza. Se uno scienziato ci dice che ha delle istruzioni su come dovrebbe comportarsi, non possono essere affermazioni scientifiche. Domande su “Come dobbiamo vivere?” non rientrano nelle competenze della scienza “oggettiva”». Insomma Harris ha fatto davvero un buco nell’acqua.

L’articolo, data la facilità con cui si può rispondere al quarto cavaliere del “nuovo ateismo”, appare a tratti anche ironico: «per superare il principio “is/ought” ci vorrebbe un lavoro di un genio filosofico, e il libro Harris non è proprio un’opera di un genio filosofico». L’argomentazione di Earp è molto interessante e vale la pena leggerla integralmente, quel che resta è ancora una volta l’evidenza del bassissimo livello in cui versano gli esponenti del “New Athesim”.

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Filosofi e scienziati continuano a criticare Richard Dawkins

L’ex zoologo Richard Dawkins, uno degli ultimi promotori dell’ateismo scientifico e del positivismo filosofico, nonché il leader del movimento religioso dei “New Atheist” è ormai visto sempre più dalla stampa come un personaggio negativo. Recentemente si era espresso il biologo Colin Tudge, smontando completamente l’ultima fatica del noto pensionato. Ma tra ottobre e novembre ci sono state tante altre prese di posizione, ne segnaliamo tre.

Lo storico e filosofo Tim Stanley su “The Telegraph” ne ha parlato così: «Richard Dawkins è un idiota o un codardo». Il motivo è l’ormai noto rifiuto di Dawkins a confrontarsi con un filosofo e teologo cristiano molto importante, William Lane Craig, preferendo personaggi con un profilo più basso. Ha anche citato il suo “vuoto intellettuale”.

Il filosofo Daniel Came, docente presso l’Università di Oxford, ha spiegato  sul “Guardian” come Dawkins non abbia mai detto nulla di significativo: «Nonostante il suo tono di autocompiacimento, “L’illusione di Dio” non contiene argomenti originali per l’ateismo. Dawkins sostiene che non siamo giustificati a postulare un progettista come la migliore spiegazione della comparsa dell’universo, perché poi emergerebbe un nuovo problema: chi ha progettato il progettista? Questo argomento è vecchio come le colline e ogni studente del primo anno di filosofia saprebbe sottolineare è palesemente invalido. Una spiegazione, per avere successo, non ha bisogno di una spiegazione della spiegazione. Si potrebbe anche dire che l’evoluzione per selezione naturale non spiega nulla, perché non fa nulla per spiegare perché ci sono stati gli organismi viventi sulla terra, oppure che il big bang non riesce a spiegare la radiazione cosmica di fondo perché il big bang è di per sé inspiegabile». L’unica cosa nuova di Dawkins, continua il filosofo, è la volontà «di sminuire i credenti e la furia delle sue polemiche. Il nuovo ateismo è certamente ben lontano dal modello di interlocuzione civile tra il “vecchio ateo” Bertrand Russell e Padre Copleston, trasmesso su BBC Radio nel 1948. I nuovi atei potrebbero imparare molto da autori del calibro di Russell, il cui complesso approccio era più potente, filosofico e nello stesso tempo rispettoso». E ancora: «c’è qualcosa di cinico, minacciosamente paternalistico, e anti-intellettualistico nel loro modus operandi».

Il docente di biochimica presso l’University College Cork, William Revill, ha sostenuto sull'”Irish Time” che la diffusione del creazionismo è dovuta sopratutto «dall’aggressiva campagna contro la religione condotta dai “New Atheist”, guidati da Richard Dawkins. Questo movimento è l’altra faccia della medaglia fondamentalista al creazionismo. Ha lo scopo di sbarazzarsi di tutte le forme di religione, non importa quanto moderate o diffidenti siano, e sviscera pubblicamente i credenti, definendoli “deliranti e irrazionali”.

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Perché il disagio degli omosessuali aumenta anche nelle società gay-friendly?


 
di Adamo Creato*
*ex omosessuale

 

Tutta la ricerca focalizzata sullo studio della salute degli omosessuali, porta ad un dato universalmente riconosciuto: gli omosessuali attivi (uomini e donne che adottano uno “stile di vita gay”) soffrono di patologie fisiche e mentali di gran lunga più degli eterosessuali. Sul sito ufficiale dell’A.P.A. (American Psychological Association), del Vital Statistics (che “fornisce un unico punto d’accesso ai dati derivanti dalla ricerca in merito alla sessualità maschile gay”) o su qualsiasi altro sito dedicato alla salute degli omosessuali, sono pubblicati i risultati di decine di ricerche che mostrano alti livelli di disturbi depressivi e dell’alimentazione, elevato consumo di alcol, tabacco e droghe, alta incidenza di suicidio e tentato suicidio tra gli adolescenti gay, numerosi casi di autolesionismo e comportamenti sessuali rischiosi tra omosessuali. Inoltre si moltiplicano siti che offrono assistenza medica e legale a gay e lesbiche che subiscono abusi d’ogni genere all’interno della coppia omosessuale: il dato della violenza “domestica” omosessuale è drammatico.

Gli omosessualisti confermano sostenendo che l’elevato livello di problemi psichiatrici e disagi all’interno delle comunità lesbiche e gay è dovuto all’oppressione sociale, all’eterosessismo e alla “omofobia” ma non ad un particolare “stile di vita gay”. Urlano che non esiste alcuno “stile di vita gay” e che, invece, il loro stile di vita è perfettamente sovrapponibile a quello eterosessuale: è classica la frase “lo fanno anche gli etero”.  Da questo dovremmo trarre la conclusione, quindi, che laddove lo stigma sociale diminuisce e “l’omofobia” si riduce, i livelli di disturbi della psiche dovrebbero attenuarsi di conseguenza.

In realtà già un importante studio ha dimostrato l’inconsistenza di tale resistenza ideologica, mostrando che l’elevato livello di disagi psichiatrici, tra gay e lesbiche, non diminuisce affatto quando essi vivano in contesti ove l’omosessualità è perfettamente accettata. I ricercatori hanno confrontato società molto tolleranti con i gay, come l’Olanda e la Danimarca, con società più ostili all’omosessualità. Lo studio, che è stato progettato proprio per misurare se il disagio diminuisce nelle società in cui gli omosessuali godono di un elevato livello di tolleranza, ha rilevato che il livello di disturbi tra gli uomini gay (compreso il “minority stress”) è molto elevato in tutte le culture e non solo in quelle che disapprovano l’omosessualità.  “La depressione è una norma nella nostra comunità“, spiega Tom Moore, psicologo di Castro Street, il distretto gay della città più gay del mondo: San Francisco. “C’è già la barzelletta che auspica di mettere l’antidepressivo Prozac nell’acqua del quartiere” afferma allegramente.

Invece ciò che ha preso piede in mezzo alla confusione (e che favorisce l’avanzamento di carriera degli psicologi) è che l’oppressione sociale è l’unica fonte dell’alto livello di disturbi psichiatrici e dei problemi relativi al consumo di alcol e droghe tra i gay. Dovrà pur esserci qualche fondamento di verità in quest’affermazione. Tuttavia, può essere l’oppressione sociale l’unica causa di una così elevata diffusione di fattori negativi che si moltiplicano, e non si riducono, in città gay friendly come San Francisco? E’ proprio vero che non esiste uno “stile di vita gay”? La promiscuità, l’infedeltà, il consumo di alcol e sostanze, la difficoltà di mantenere relazioni amicali sincere e durature sono da considerare dei miti anti-gay? Sarebbe sufficiente una superficiale conoscenza della letteratura, della cinematografia e della produzione musicale e televisiva gay friendly per rendersi conto della visione che gli stessi gay hanno del loro stile di vita. A questo possiamo aggiungere le dichiarazioni di alcuni attivisti gay, come ad esempio Gabriel Rotello che è considerato un conservatore dalla comunità gay: “Penso che per molte persone, la parola promiscuità può essere piena di significato, essere liberatoria e gioiosa“. Oppure del nostrano Mario Mieli, considerato il padre fondatore della comunità GLBT italiana: “Tra noi omosessuali, la propensione a formare coppie chiuse è molto meno forte che non tra gli etero: e i pregi della gaia promiscuità sono parecchi, anzitutto poiché essa apre il singolo alla molteplicità e alla varietà dei rapporti, e quindi positivamente gratifica la tendenza di ognuno al polimorfismo e alla «perversione», facilitando, di conseguenza, il buon andamento di ogni rapporto tra due persone (perché né l’uno né l’altro si avvinghia disperatamente al partner, pretendendo la sua rinuncia a rapporti totalizzanti contemporanei con altre/i)” (M. Mieli, “Elementi di critica omosessuale” 2002). Oppure possiamo avvicinarci ancora di più verso l’esperienza quotidiana di tanti omosessuali che si confidano sui forum a loro dedicati: chi non si allinea al pensiero “noi gay non siamo più promiscui degli etero” viene pubblicamente redarguito. Infine, per quello che può contare, la mia esperienza personale: da un lato  si cerca di diffondere una visione molto “free” del comportamento sessuale e dall’altro si criminalizza quel comportamento così “allegro”. E’ innegabile che  “l’ambiente gay” (inteso come rete di locali, saune, luoghi di ritrovo o manifestazioni) venga percepito come negativo dagli stessi gay perchè considerato spesso “immorale” o “insano”. Il fatto che discussioni su questo argomento siano molto frequenti tra i gay (c’è chi dichiara “non frequento l’ambiente” e chi invece domanda “che male c’è a frequentarlo?“) significa quantomeno che molti, tra coloro che si definiscono gay, avvertono qualche disagio o fastidio. In genere, però, il pensiero dominante è quello che “il sesso è un divertimento e dev’essere liberato da qualsiasi influenza moralistica o bigotta“.

Lo stesso vale per il concetto di fedeltà: nonostante la quasi totalità del “mondo gay” ricerchi spasmodicamente una relazione monogama e stabile, lamenta poi una scarsa qualità dei legami affettivi che spesso si rivelano estremamente brevi a causa della scarsa fedeltà. Non sono rare le situazioni di profonda sofferenza causata dall’infedeltà all’interno della coppia. E, come al solito, le organizzazioni omosessualiste, invece di comprendere le motivazioni di questo disagio, diffondono il concetto di “coppia aperta” come terapia contro il senso d’abbandono e di solitudine. Essi definiscono la monogamia un retaggio eterosessualista negativo in quanto denota “appartenenza” sessuale del partner. Naturalmente anche in questo caso non mancano le eccezioni che, per definizione, servono a confermare la regola: che esista una percentuale trascurabile di coppie omosessuali fedeli e di lunga durata lo sappiamo tutti. “Ma gli etero fanno lo stesso” è la frase magica che serve, quando l’evidenza non può essere contestata, a giustificare o “normalizzare” un comportamento che ha qualche difficoltà ad essere considerato accettabile dalla stessa comunità gay.

A mio avviso ci sono argomenti sufficienti per poter supporre che determinati comportamenti (se non peculiari, molto frequenti tanto da poter essere considerati uno “stile di vita gay”) potrebbero collaborare all’aumento del livello di quel disagio psicologico presente in molti omosessuali attivi. E’ indubbio che chi non conosce nulla dell’omosessualità potrebbe sviluppare “sentimenti irrazionali di paura, odio, ansietà, disgusto, avversione che alcune persone eterosessuali sperimentano nei confronti delle persone omosessuali” (Weinberg 1972). Questi sentimenti, definiti omofobici, possono determinare dei comportamenti violenti nei confronti delle persone omosessuali, tanto che, in alcuni casi, spingono addirittura alla persecuzione e all’omicidio. Le organizzazioni omosessualiste cavalcano la questione dell’omofobia per proporre l’offerta “prendi due al prezzo di uno“:  disprezzare le persone omosessuali è socialmente deprecabile e quindi è deprecabile stigmatizzare il loro “stile di vita”. Questa che sembra una sottigliezza, in realtà, è il punto focale della strategia degli attivisti gay. Non è consentito criticare l’imposizione del loro punto di vista perchè questo significa discriminare e perseguitare i gay. Questo sofisma è assolutamente falso e subdolo perché, approfittando della confusione, tende alla sovrapposizione tra “persona” e “comportamento”. Sfruttando questo equivoco gli attivisti gay stanno lentamente, ma inesorabilmente, modificano le coscienze per raggiungere i loro obiettivi ed imporre la loro visione della società.

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Ultimi Khmer rossi processati all’Onu: impararono l’ateismo in Francia

In Cambogia hanno governato per anni personaggi che avevano appreso il loro ateismo a Parigi, innamorandosi della rivoluzione francese. Tornati in patria, dal 1975 al 1979 hanno realizzato oltre 2 milioni di morti su 7 milioni di abitanti. Dopo aver imposto l’ateismo di Stato, fecero bruciare libri, religiosi e non, fotografie e ricordi personali perché scomparisse letteralmente il ricordo del mondo precedente al comunismo. Tutte le forme religiose vennero abolite ed era espressamente vietato credere a Dio, proibito ogni segno di affetto in pubblico, proibito utilizzare le parole “padre” e “madre”, anche per i bambini. In alcune regione venne proibito addirittura leggere, ridere o cantare (qui e qui trovate tante altre forme di persecuzione umana avvenute in Cambogia in quegli anni).

Lo stesso ateissimo dittatore cambogiano, Pol Pot, diretto ispiratore e responsabile della tortura e del massacro di circa un milione e mezzo di persone (compresi bambini, donne e anziani), a cui vanno aggiunti centinaia di migliaia di morti a causa del lavoro forzato, della malnutrizione e della scarsa assistenza medica, studiò a Parigi ed entrò in contatto con i grandi leader dell’ateismo di quegli anni, come Jean-Paul Sartre che fu suo mentore ed ispiratore. Morì nel 1998, ma i suoi fedeli compagni, leader dei Khmer Rossi sono ancora vivi e tre di essi stanno partecipando in questi giorni alla prima udienza apertasi nel tribunale misto delle Nazioni Unite, a trenta anni dalla fine del regime.

Diversi i capi di imputazione: crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa verso i credenti (per il solo fatto di essere credenti), omicidio, genocidio e tortura. Nuon Chea, 85 anni, considerato l’ideologo; l’ex capo di Stato Khieu Samphane, 80anni; l’ex ministro degli Esteri Ieng Sary, 86 anni. Su Il Giornale si può leggere un breve profilo dei tre soggetti.

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In Africa il numero di cattolici cresce del 6-7% all’anno

Dal 18 al 20 novembre 2011, papa Benedetto XVI ha fatto il suo secondo viaggio in Africa e ha visitato il Benin. Come abbiamo più volte sottolineato, il Continente nero sta osservando una vera e propria esplosione del numero di cattolici (cfr. Ultimissima 29/4/11) e anche del numero di cristiani in generale (cfr. Ultimissima 9/5/10 e Ultimissima 17/4/10).

La questione viene confermata da padre Gérard Chabanon, già superiore generale dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi) e vice rettore del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (PISAI) durante un’intervista a Mark Riedemann: i cattolici erano circa 2 milioni nel 1900, ora sono più di 140 milioni.

«I cristiani sono sicuramente il più grande gruppo nella maggior parte dei Paesi in Africa», spiega padre Chabanon, «ad eccezione, ovviamente, della parte settentrionale, che è musulmana al 100%». Rispetto al cattolicesimo, si assiste ad una crescita del 6-7% all’anno: «Ci sono diversi fattori, che sono stati molto importanti per lo sviluppo del cattolicesimo. Il primo è l’istruzione. I primi missionari hanno costruito quasi da subito scuole ed insegnato la fede cattolica attraverso le scuole. C’era anche l’impegno per lo sviluppo sociale: l’assistenza sanitaria, lo sviluppo dell’agricoltura ed altri progetti. Gli africani hanno visto che non era solo una conquista coloniale. Nella maggior parte dei Paesi africani, i missionari avevano in mente, soprattutto, il benessere della popolazione locale. La gente se ne è resa conto. L’Africa è molto grata a Papa Giovanni Paolo II e i suoi numerosi viaggi fatti nel continente. Il Pontefice à venuto. Ha visitato. Si è intrattenuto con la gente. Ha parlato con loro. Ha cercato di parlare con loro nella loro lingua. E’ stato molto apprezzato per questo e penso che abbia fornito un’immagine molto buona agli africani».

Il religioso parla anche del suo ordine religioso, i Padri Bianchi, presente in Africa: «L’80-85% dei nostri candidati al sacerdozio proviene dall’Africa. Ora abbiamo più o meno 200 fratelli africani. La maggior parte delle nostre case di formazione si trovano in Africa. Sento che questo è uno sviluppo molto importante per la nostra congregazione, che fin dall’inizio era prevalentemente europea e canadese. Vediamo che giovani africani stanno occupando lentamente gli incarichi di maggiore responsabilità. Questo avviene grazie alla formazione autentica che la Chiesa cattolica offre ai giovani. I seminari sono pieni e sento molti vescovi che chiedono “formatori”, cioè persone in grado di accompagnare lo sviluppo spirituale dei giovani seminaristi».

Facciamo presente che entro il 2050, tre nazioni africane saranno tra i primi 10 più grandi Paesi cattolici del mondo: Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e Uganda. Quest’ultima è l’unico Stato africano che è riuscito ad abbattere sensibilmente il numero di contagiati da AIDS grazie ad un programma basato su fedeltà al matrimonio e castità, senza una distribuzione capillare di preservativi.

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