“Sento dunque sono”: il feto umano percepisce i suoni precocemente

Sul sito Zenit.it è stato tradotto un articolo di Barbara S. Kisilevsky, docente presso la Queen’s University School of Nursing in cui l’autrice espone un breve excursus sulla storia delle ricerche scientifiche riguardo la capacità dei feti di sentire i suoni, per poi arrivare a trattare dei risultati da lei ottenuti sull’argomento.

Molto suggestivo come parta da Luca 1, (39-44), brano in cui è possibile leggere che il piccolo Giovanni sobbalza in grembo a Elisabetta non appena sente il saluto di Maria alla cugina. I primi studi sulle capacità uditive del feto, a fine Ottocento avevano dato esiti contrastanti, ma già le ricerche di poco successive confermarono la presenza di reazioni fetali in presenza di suoni. La Kisilevsky iniziò ad occuparsi dell’argomento solo agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con l’unico obiettivo di comprendere se il feto fosse in grado di udire e da quando, senza alcun condizionamento politico o religioso.

Nei suoi primi esperimenti veniva prodotto un forte suono, simile al rumore statico della radio, dietro la testa del feto, il quale provocava un aumento della frequenza cardiaca e dei movimenti del neonato. Vennero poi fatte diverse prove modificando l’intensità dei suoni e il risultato fu sempre che un’esposizione, anche di breve durata, a suoni forti provocava l’aumento della frequenza cardiaca e dei movimento del feto. Questo indicava in maniera inequivocabile che il feto era in grado di udire.

Il passo successivo fu quello di capire quando compariva per la prima volta la facoltà uditiva. Venne così ripetuto l’esperimento con feti sempre più giovani, questo permise di collocare l’inizio della facoltà uditiva a circa 29 settimane e stimare lo sviluppo dell’apparato uditivo tra la ventiseiesima e la ventottesima settimana (verso la ventinovesima settimana si ha la trasmissione rapida dei segnali uditivi dall’orecchio al tronco cerebrale). La capacità di sentire i suoni permette al feto di adattare e affinare i tratti neurali del cervello ed è interessante sottolineare come i suoni siano percepibili sia dall’interno (il battito cardiaco della madre, ad esempio) che dall’esterno dell’utero. Per approfondire la questione si consiglia la lettura del libro: Sento dunque sono. Sensi e sensazioni del feto(Cantagalli 2011).

Davide Galati

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Il filosofo Possenti espone qualche ragione contro la fecondazione eterologa

Il noto filosofo Vittorio Possenti, docente di filosofia politica presso l’Università Cà Foscari di Venezia e autore di oltre 25 volumi e centinaia di saggi di ambito politico, etico e ontologico, membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e direttore resso l’Università Cà Foscari di Venezia del Centro interdipartimentale di ricerca sui diritti umani (Cirdu), ha offerto qualche ragione circa l’opposizione alla fecondazione artificiale eterologa. E’ sempre bene fare un ripasso e rimanere preparati sulle ragioni.

La Fivet, spiega Possenti, è vietata dalle legge 40 e pone delicati problemi morali e giuridici che riguardano l’esistenza o meno di un diritto al figlio, il mercato dei gameti, la (ir)responsabilità del genitore biologico, l’interesse del nato a conoscere le proprie origini, e l’appropriatezza del termine di «donatore», poiché la «donazione» è spesso a pagamento (forse sarebbe meglio parlare di cedente o di fornitore). Tra i motivi più fondamentali rientra sicuramente la distruzione di decine e decine di embrioni umani, il cui impianto è reso altamente difficile proprio dall’artificiosità del processo. Inoltre, su questo si concentra il filosofo, vi è la violazione dell’etica della responsabilità da parte del genitore biologico. Tale etica, nell’accezione resa canonica da Max Weber, stabilisce di rispondere delle conseguenze prevedibili delle proprie azioni e conseguentemente di assumersi le responsabilità che vi si connettono. L’irresponsabilità morale oggettiva del cedente nei confronti del figlio generato col proprio gamete è palese, continua Possenti, nel senso che il primo non assume alcun obbligo verso il figlio: il genitore biologico taglia consapevolmente sin dall’inizio ogni relazione con quest’ultimo e non assume doveri verso di lui, lasciandolo deprivato della conoscenza e della relazione con chi gli ha dato origine, nonché della conoscenza della modalità della propria procreazione, eventi che non possono essere recuperati se non molto parzialmente da tardive acquisizioni sulle modalità della propria generazione e l’identità del cedente.

In altri termini, continua Possenti, la Fivet eterologa assume a propria base non detta proprio quel criterio di irresponsabilità che nega alla radice l’etica della responsabilità quale fondamento della società e principio adeguato alla persona umana e alla sua dignità. La fecondazione eterologa finisce dunque per rafforzare l’irresponsabilità – specialmente maschile – nella procreazione, la quale viene aggravata dal rimborso spese/compenso che spesso è riconosciuto al cedente. Questo elemento fa entrare la procreazione umana nell’area strumentale del valore economico, introducendo un ulteriore criterio di disordine morale alla radice dell’evento procreativo. Certamente riconoscendo il diritto del nato a conoscere le modalità della propria origine e l’identità del genitore biologico, la questione migliora, tuttavia non viene sanato il vulnus al principio di responsabilità operato dalla Fivet eterologa proprio sulla relazione umana primaria e fondante tra tutte, quella tra genitore e figlio. Dico primaria e fondante, conclude il filosofo, in quanto tra le molteplici figure sociali la più universale in assoluto si concentra nel figlio: se non tutti sono padri o madri, rigorosamente tutti sono figli, e di per sé figlio dice relazione al genitore e dovere/responsabilità di questo verso quello. In merito, a livello costituzionale soccorre l’art. 30 della nostra Carta sul dovere dei genitori di prendersi cura dei figli, anche se «illegittimi».

In sostanza la Fivet eterologa, separa genitorialità biologica e genitorialità sociale, favorendo un’inammissibile irresponsabilità del genitore biologico, operata nella più fondamentale e universale tra le relazioni umane.

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Homo sapiens: l’uomo venuto dal nulla

 

di Enzo Pennetta*
*biologo

 

Un libro scolastico di storia afferma che Homo sapiens non aveva punti di contatto genetici con le specie più antiche. E c’è subito chi grida allo scandalo.  La questione è stata sollevata dal sito oggiscienza in un articolo intitolato “Riscrivere Darwin? L’uomo venuto dal nulla… pubblicato il 5 dicembre. Il tutto prende origine dal racconto di una giornata scolastica nella quale uno studente rivolge una domanda al suo professore di scienze: “Prima liceo, ore 9, lezione di scienze. Davide Sassi, il prof, sta parlando di evoluzione, mentre Andrea, in fondo alla classe, sbuffa: “Prof, ma queste cose non sono superate? A me risulta che secondo le ultime scoperte sul DNA l’uomo non sia imparentato con alcun ominide preesistente. È scritto nel nostro libro di storia”. Sassi non crede alle sue orecchie, sicuramente Andrea ha capito male. Ci scommette una pizza. Perde”A parte il danno economico derivante dalla perdita della pizza, l’esterrefatto insegnante e la redazione di oggiscienza corrono subito ad analizzare le possibili implicazioni delle affermazioni del libro di storia: “Sassi è esterrefatto (e noi con lui): “Non si tratta solo di enormi stupidaggini. Sono anche scritte in modo molto sapiente, mischiando informazioni più o meno corrette con affermazioni del tutto errate. Una tecnica del panino che mi fa supporre che ci sia dietro un’intenzione ben precisa, quella di far entrare nella scuola idee di stampo creazionista. Se diciamo che Homo sapiens non è parente di nessuno, allora l’unica conclusione logica che possiamo trarre è che sia stato creato”.

Ecco l’insidia, se diciamo in giro che non ci sono prove certe dei collegamenti tra i vari ominidi potrebbe insinuarsi l’eretico pensiero creazionista. Convinti a questo punto di trovarsi di fronte ad un’operazione di “intelligence” delle temute “divisioni vaticane all’attacco di Darwin”, oggiscienza corre ai ripari interpellando chi di divisioni vaticane se ne intende, l’antropologa molecolare Olga Rickards la quale interviene per chiarire come stiano effettivamente le cose: “È giusto dire che Homo sapiens non derivi da H. habilis, H. erectus o H. neandertalensis, ma questo non significa che non abbia legami di parentela, e dunque genetici con loro. Il punto è che negando ogni parentela, nego anche la possibilità che abbiano un progenitore comune, cioè nego un percorso evolutivo. E rimango con la patata bollente in mano: da dove è saltato fuori Homo sapiens?”, afferma la Rickards.

In sostanza la prof. Rickards conferma quanto sostenuto dal manuale di storia: i vari Homo non derivano l’uno dall’altro. Ma questo, secondo la prof, non significa che essi non abbiano legami di parentela tra loro. Insomma, sembra che l’errore imputato al manuale di storia non sia nelle premesse ma nelle conclusioni: i vari Homo non derivano l’uno dall’altro ma vanno considerati parenti per salvare l’attuale ricostruzione dei fatti. E qui ci sarebbe davvero da non credere alle proprie orecchie. Le risultanze paleontologiche vengono piegate alla dimostrazione della teoria, quanto di più antiscientifico potremmo immaginare. La ricostruzione dell’evoluzione umana è infatti frutto di una sovrapposizione tra dati reali e collegamenti ipotizzati, come si può vedere dal seguente grafico del prof. Giorgio Manzi riportato sul sito paleontologiaumana.it.  Ma se si eliminano i collegamenti tratteggiati restano solo delle linee isolate. Come si può vedere sullo stesso sito, i dati disponibili non autorizzano a trarre conclusioni di parentele (nel grafico sotto quello citato sono più evidenti le incertezze e gli autentici spazi vuoti tra i vari ominidi).

Sembrerebbe proprio che tutto sommato lo studente, e il suo libro di storia, non abbia torto, che a differenza di quanto sostenuto da oggiscienza, le mancanze di parentela non siano solo “enormi stupidaggini“. L’unico torto dell’alunno del prof. Sassi sembra essere stato quello di aver gridato che “il re è nudo”. Ma visto che si parla di libri scolastici vorrei sottoporre al prof. Sassi e ad oggiscienza, quanto scritto su un recentissimo testo di scienze per il biennio dei licei: “Circa dieci milioni di anni fa, una lunga fascia di territori orientali dell’Africa (dall’odierna Etiopia al Sudafrica) venne colpita da un clima piuttosto arido. I discendenti delle antiche scimmie dovettero adattarsi a fare a meno della foresta e a cercare il cibo nella savana. Così impararono a camminare sulle zampe posteriori in posizione eretta. La capacità di camminare con due gambe offrì il grandissimo vantaggio di liberare le mani per afferrare sassi e bastoni, o per portare ai propri piccoli il cibo raccolto”.

Che ne dice prof. Sassi, e che ne dicono la prof. Rickards e i redattori di oggiscienza di questa affermazione. Qui sì che c’è da rimanere esterrefatti. Che prove ci sono per questa ricostruzione? Perché mai le antiche scimmie anziché adattarsi alla savana non si sono spostate insieme alla foresta? Giustamente a questa considerazione un mio studente ha così commentato: se veramente discendiamo da quelle scimmie che, anziché fare qualche metro e spostarsi nella foresta, sono rimaste nella zona dove gli alberi si stavano seccando, i nostri antenati erano davvero gli esseri più stupidi dell’epoca. Come dargli torto? E poi, come si fa a dire “così impararono a camminare sulle zampe posteriori in posizione eretta”. Come sappiamo è impossibile imparare a camminare in posizione eretta, perché ciò avvenga sono prima necessarie delle forti modificazioni dell’articolazione dell’anca e dell’inserzione tra capo e colonna vertebrale. Non trovate che ci sia da indignarsi per queste affermazioni e non per quelle oggetto dell’articolo su oggiscienza?

L’articolo su oggiscienza poi si conclude così: “siamo una specie nuova, certo. Ma è altrettanto certo che ci siamo evoluti da specie preesistenti (anche se non conosciamo di preciso tutti i passaggi e forse non li conosceremo mai, visto che non si è trattato di una sequenza lineare di eventi). E che continuamo a evolvere. Dire il contrario, dirlo a dei ragazzini e dirlo in un libro di testo (strumento in cui loro hanno piena e totale fiducia: quello che dice è il libro è verità assoluta) è soltanto una svista banale, un errore che può capitare?”. Su una cosa concordo pienamente, i libri scolastici sono una cosa troppo importante per permettere che vi siano riportati racconti fantastici come quello della scimmia che si alza sulle zampe posteriori e diventa bipede per via dei cambiamenti climatici. Troppe favole vengono raccontate  e spacciate per scienza, questo dovrebbe provocare la reazione dei media che si occupano di scienza. E che dire poi della grande opera di divulgazione ideologica fatta in nome della scienza che compie un personaggio come Richard Dawkins nel suo ultimo libro dedicato proprio ai ragazzi “The Magic of Reality“? (vedi CS- L’evoluzione secondo Richard Dawkins). E che dire degli errori scientifici compiuti dallo stesso Dawkins nello stesso libro? Scommettiamo che né oggiscienza né la prof. Olga Rickards denunceranno gli errori che ho segnalato?

Articolo pubblicato anche su www.enzopennetta.it

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Il biologo Biava: «l’embrione è una persona, la scienza lo conferma»

Il dr. Pier Mario Biava, ricercatore presso l’Irccs Multimedica di Milano, da anni studia i processi di differenziazione e riprogrammazione cellulari con risultati rilevanti: grazie alle sue ricerche, infatti, sono state messe a punto nuove terapie contro il cancro utilizzando proteine ricavate da embrioni animali.

Docente per numerosi anni alla Scuola di Specializzazione di Medicina del Lavoro di Trieste, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche, presidente onorario della Fondazione per la Ricerca delle Terapie Biologiche del Cancro e vice presidente della Società Scientifica International Academy of Tumor Marker Oncology. Recentemente ha voluto commentare per “Avvenire l’incredibile dietrofront di Ian Wilmut, il pionere della clonazione e “papà” della pecora Dolly, riguardo la ricerca con le staminali embrionali. Biava ha detto: «con questa dichiarazione, Wilmut ha ammesso sostanzialmente tre cose: le staminali embrionali sono troppo rischiose perché negli animali hanno dimostrato di generare tumori; la clonazione è un processo altamente insicuro e fallibile; dunque, meglio occuparsi di riprogrammazione, con l’opportuna prudenza legata al fatto che nemmeno l’assoluta sicurezza delle cellule riprogrammate è stata testata. Aggiungo io: ricordiamoci che esistono anche meccanismi di riprogrammazione fisiologici che, senza toccare i geni, agiscono con successo mediante i fattori di regolazione dell’ambiente in cui vive la cellula».

Esprimendosi sulla sentenza della Corte europea sulla non brevettabilità ha poi affermato: «per la biologia non valgono le regole economiche: non è ammissibile il principio di brevettare sostanze che fanno parte del vivente, e questo vale in modo particolare per le cellule staminali. Non è vero che le staminali sono “solo cellule”: nelle mie ricerche ho ampiamente dimostrato come fin dal momento dell’impianto avviene la comunicazione fra organismo materno ed embrione, che capisce che quelle “poche cellule” vanno protette. A livello biologico, non c’è bisogno di un cervello per comunicare: c’è già tutto. Ecco perché l’embrione è una persona, la scienza lo conferma chiaramente. La posizione della Corte è l’unica possibile per proteggere gli interessi della collettività e, al tempo stesso, rispettare la vita».

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L’ateismo non esiste: o Dio o una religione sugli idoli

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Francesco Agnoli, scrittore e giornalista, collaboratore de “Il Foglio”, “Avvenire”, “Il Timone”, “Radici Cristiane” e “Radio Maria”, autore di diverse pubblicazioni, come:  Roberto Grossatesta. La filosofia della luce (EDS 2007); Chiesa, sesso e morale (Sugarco 2007); Indagine sul cristianesimo. Come si costruisce una civiltà (Piemme 2010);  Chiesa e pedofilia – Colpe vere e presunte(Cantagalli 2010) e  Case di Dio e ospedali degli uomini (Fede e Cultura 2011). Il prof. Agnoli ha concesso la pubblicazione qui sotto di alcune parti del primo capitolo del suo libro:  Perché non possiamo essere atei” (Piemme 2009)»

 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 

E’ abbastanza strano cimentarsi nello scrivere un saggio storico-filosofico su qualcosa che in realtà non esiste, che non appartiene alla natura dell’uomo: l’ateismo. Ateismo significa negazione di Dio, in senso lato: vuol dire negazione di un orizzonte di senso, di una Origine delle cose che esistono, di un principio, su cui l’uomo, animale incompiuto e imperfetto, costruisca dinamicamente e liberamente la sua vita. Dio, a prescindere dai mille significati che questa parola può assumere, è oggetto della ricerca dell’uomo da sempre, perché significa Verità , Bene, Felicità, Giustizia, Amore, tutto ciò verso cui tendiamo, in un modo o nell’altro, consapevoli o meno. Tutti, credenti o meno in un Dio personale, attendiamo che avvenga qualcosa che ci dia il senso della nostra esistenza, che salvi la nostra vita dall’inutilità e dal nulla. Tutti, come Samuel Beckett e i suoi personaggi, aspettiamo “Godot” e lo cerchiamo, chi nella politica, chi nel denaro, chi scegliendo per sé altri idoli e altri dei. Perché se Godot non c’è, se non si rivela capace di soddisfare le esigenze del nostro cuore e della nostra mente, rimane l’assurdo di una esistenza senza meta, senza direzione, e la vita personale si rivela una parentesi di tempo nello scorrere dei secoli, una commedia di burattini alla fine della quale cala un sipario, che non si alzerà mai più.

Più che tra atei e credenti, la storia occidentale degli ultimi secoli può essere divisa tra chi crede in un Dio personale, Creatore, trascendente, e chi affida al mondo, o a se stesso, il compito di contenere e di fornire la risposta esauriente ad ogni domanda di significato e di compiutezza; tra monoteisti, per cui Dio esaurisce nella sua unità e unicità il senso di ogni cosa, e panteisti-politeisti, per i quali Dio -e il senso dell’esistenza- si ha tutto ed esclusivamente nelle vicende del mondo; tra chi crede nella Provvidenza e chi nella Fortuna, chi in un Essere Intelligente e chi nel Caso onnipotente creatore di ogni cosa o, che è lo stesso, in una divina Necessità cosmica che regola a modo suo, senza concedere alcuna libertà, tutto ciò che esiste. In realtà, infatti, si può credere in un Dio personale oppure, non credendo in lui, si possono inventare altre divinità ed altri idoli. Non me ne abbiano i vari Piergiorgio Odifreddi, Edoardo Boncinelli, Eugenio Scalfari, Corrado Augias, Umberto Veronesi, Giulio Giorello, Telmo Pievani, Richard Dawkins, Sam Harris, Michel Onfray e quanti perseguono con tenacia e continuità la loro battaglia per l’ateismo: l’ateo, per chi scrive, è colui che nega assolutamente un Dio creatore, personale, legislatore universale di ciò che è fisico e di ciò che è spirituale, non per togliere all’universo e all’umanità la possibilità di un senso, ma per creare, implicitamente o meno, una nuova fede, un nuova religione, un religamen con altre credenze, altri riti, altri dogmi. Questo tipo di ateo è dunque, per chi scrive, più che un “non credente”, un “diversamente credente”, si chiami Dawkins, Onfray o Giuseppe Stalin. Come diceva Dostevskij, infatti, “vivere senza Dio è un rompicapo e un tormento. L’uomo non può vivere senza inginocchiarsi davanti a qualcosa. Se l’uomo rifiuta Dio, si inginocchia davanti ad un idolo. Siamo tutti idolatri, non atei”.

In questo libro dunque non parlerò dell’ateismo che potremo definire “tragico”, quello, ad esempio, di grandi personalità dell’Ottocento, da Baudelaire a Verlaine, passando per Huysmans, Oscar Wilde, Giovanni Pascoli, Eugenio Montale, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti, ecc… L’ “ateismo” di costoro, come quello di tutti coloro che pur ricercando ancora non conoscono e non credono, è in realtà la ricerca di un senso, la volontà di “capire” e di penetrare nelle profondità della vita, senza riuscirci, o forse, meglio, senza riuscirci interamente. Nasce da domande fondamentali, impossibili da evadere, che possono magari rimanere senza risposta, ma che non cessano comunque di “torturare” il cuore, come dimostrano le crisi religiose di tutti questi personaggi, alcuni dei quali – come Huysmans, Wilde, Ungaretti – approdati poi a una Fede forte e convinta. Questi grandi autori che ho citato sono rappresentativi perché incarnano la crisi delle certezze religiose di un tempo, ma non la sostituzione di esse con una ideologia, atea nell’apparenza, perché negatrice di Dio, ma religiosa nei modi e nelle manifestazioni, perché idolatrica.

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La provincia di Corrientes (Argentina) diventa ufficialmente pro-life

La provincia di Corrientes in Argentina, ha dichiarato di essere ufficialmente “pro-life”, in una dichiarazione firmata dal governatore Riccardo Colombi. Secondo il documento, dal titolo “Decreto 2,870”, verrà difesa la vita dal momento del concepimento e la famiglia è affermata come una politica di Stato.

Il decreto aggiunge che “l’effettiva tutela del diritto alla vita dal suo concepimento è un obbligo fondamentale di governo, e quindi il feto ha il completo godimento di questo diritto e della sua conseguente protezione”. Il Governatore Colombi ha firmato il decreto in una conferenza tenuta dai rappresentanti locali della chiesa cattolica ed evangelica, chiamato “Incontro ecumenico e multisettoriale a favore della Vita”.

“Tutti gli uomini e le donne sono chiamati a far parte di questa lotta”, ha commentato il governatore dopo aver notato con molta gioia la presenza di molti giovani alla conferenza nella città capoluogo di provincia di Corrientes. “Mi congratulo con questi giovani che sono su questa strada”, ha detto Colombi, chiedendo loro di “fare uno sforzo e avere il coraggio di portare avanti questa campagna, e di esprimere una difesa feroce della concezione della vita”.

Pochi giorni fa il governo della provincia spagnola delle Isole Baleari ha deciso che interromperà, a partire dal 2012, il finanziamento per le interruzioni di gravidanza effettuate in cliniche private destinando i fondi al sostenimento delle donne in gravidanza che ne facciano richiesta.

Emiliano Amico

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Ian Wilmut, il pionere della clonazione: «stop alla ricerca sulle embrionali»

Il pioniere della clonazione, Ian Wilmut, “papà” della pecora Dolly, si è dichiarato perplesso sull’opportunità di insistere nell’uso delle cellule staminali embrionali, dicendosi piuttosto favorevole a scommettere su quelle adulte. Attualmente responsabile del gruppo di Riprogrammazione cellulare del centro di Medicina rigenerativa presso l’Università di Edimburgo, Wilmut non è nuovo a clamorose marce indietro: nel 2007 annunciò il suo addio alla clonazione, dopo che era salito alla ribalta delle cronache mondiali proprio per aver fatto nascere con tale tecnica la pecora Dolly nel 1996. Definì «più accettabile socialmente ed eticamente» la tecnica messa a punto dal professore giapponese Shinya Yamanaka, che permetteva di ottenere cellule staminali senza passare dalla distruzione di embrioni, partendo da tessuti adulti.

Ora, in occasione del meeting annuale sulle cellule staminali in California, Wilmut è tornato a parlare espressamente della ricerca sulle cellule adulte come della più promettente nell’ambito delle staminali. Quella contraria alle embrionali, o meglio, quella favorevole alla ricerca sulle adulte è una posizione in forte aumento nel campo scientifico,  come abbiamo accennato in Ultimissima 24/10/11. Ma questo cambio di rotta da parte di Wilmut era decisamente inaspettato. Anche lui ha confermato che le staminali embrionali non sembrano mostrare prospettive positive a causa del rischio di sviluppare tumori, evidenziatosi dopo aver proceduto all’iniezione in animali. Si è detto inoltre favorevolmente impressionato dalla tecnica detta “programmazione diretta”, che prevede l’uso di cellule da tessuti adulti riprogrammate per usi specifici, senza dunque il sacrificio di embrioni, indicandola ai colleghi quale strada da seguire.

Lo scorso ottobre una sentenza della Corte di giustizia europea ha sancito la non brevettabilità di tecniche che prevedono l’uccisione dell’embrione, definendo nel concepimento l’inizio di una vita umana. Tuttavia l’ottavo Programma quadro sembra voler andare nella direzione di finanziare la ricerca che implica la distruzione di embrioni umani, ponendosi così in contrasto con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia. Negli USA, con la presidenza Obama, le staminali embrionali sono divenute nuovamente oggetto di ricerche finanziate con fondi federali, dopo lo stop che Bush aveva imposto. Ma i dubbi sono aumentati, come dimostra la recente decisione della californiana Geron, importante azienda del settore delle biotecnologie, la quale ha annunciato di voler abbandonare i propri progetti riguardanti le staminali embrionali a favore di altri filoni di ricerca che fanno intravedere maggiori probabilità di successo.

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Aumentano i lettori di libri religiosi, anche grazie agli editori laici

Dal 2000 al 2007 la crescita del numero dei lettori di libri religiosi (almeno un testo l’anno) in Italia è stata del 2% annuo, ma dal 2007 al 2010 la percentuale è cresciuta fino al 6%. In totale, nel decennio 2000-2010 i lettori del libro religioso sono cresciuti di quasi un milione di persone. A riportare il dato (Istat) è l’Osservatorio dell’editoria religiosa italiana in un rapporto, dal quale si evince anche che è la fascia di età fra i 18 e 54 anni a registrare una maggiore crescita, dunque persone che esercitano nel proprio ambito di azione anche un ruolo di decision maker. Queste responsabilità non privano del tempo necessario alla lettura di un libro religioso, probabilmente perché proprio al libro religioso si chiede un aiuto riflessivo per le proprie scelte di vita e di responsabilità sociale.

Nel 2010 il 39% della produzione di libri a tema religioso è stata realizzata da editori laici, ormai entrati a pieno diritto nel mondo editoriale religioso e anche gli editori cattolici si stanno impegnando per conquistare una visibilità nelle librerie laiche. Gli editori cattolici esaminati dallo studio sono il 25% e producono nel 2010 il 79% dei titoli, mentre gli editori laici sono il 72% degli editori e rappresentano il 18% della produzione. È evidente il sovraffollamento nel segmento laico, che conferma la forte attenzione al libro religioso da parte degli editori laici negli ultimi anni. Nel 2010 si sono pubblicati 4.326 libri religiosi, di cui il 18% è spettata agli editori laici. Sempre nel 2010 la classifica per numero di libri editi sulla storia della Chiesa in Italia è questa: Lindau, Newton Compton, Fazi, Rizzoli, Vita e Pensiero.

Giovanni Peresson, quale responsabile dell’Ufficio studi dell’Associazione italiana editori (Aie), ha diretto la ricerca in prima persona: «Il processo è cominciato anni fa e oggi è diventato tale che nessuno si stupisce più di trovare come ospiti nelle trasmissioni tv di successo alcuni autori di saggi sul Gesù storico o sulla Riforma protestante… Anzi, la presenza dell’editoria laica è destinata a crescere pure in alcuni settori tradizionalmente appannaggio della “sorella” religiosa». Anche Giuliano Vigini professore di Sociologia dell’editoria contemporanea alla Cattolica, segnala che all’analisi Uelci andrebbe aggiunto il riscontro del mercato: «l’inchiesta documenta inoltre una presenza nelle librerie di varia “laiche” di prodotti dell’editoria cattolica che arriva ormai a un incoraggiante 15%», tuttavia «nell’Italia dei 25.000 campanili e delle 225 diocesi, si potrebbe fare molto di più. I credenti dispongono di una rete di media locali e di centri culturali che nessun’altra nazione ha, e andrebbe sfruttata meglio». Comunque «l’ingresso degli editori non confessionali è positivo, uno stimolo a fare meglio».

Antonio Tedesco

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Continuità e salti: la chiusura ideologica del mondo biologico


 
di Alessandro Giuliani*
*biostatistico e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità

 
 

Nel suo bellissimo libro ‘Ai miei figli’ , Pavel Florenskij, martire nei Gulag staliniani e insieme una delle menti più lucide del ventesimo secolo che spaziava dalla matematica, alla storia dell’arte, alla teologia ed alla chimica, coglieva con chiarezza la potenza disumanizzante del positivismo nel concetto di ‘continuismo’. Se ogni forma della natura (vivente o non vivente) poteva essere totalmente compresa in termini di variabili e leggi evolutive che variavano con continuità (in matematica si dice differenziabili), senza punti singolari, catastrofi, brusche discontinuità, allora semplicemente tali forme erano solo un’illusione o al più una gradevole curiosità senza valore conoscitivo e tutte le nostre idee di bellezza, di vita buona, di giustizia puri accidenti storici.

Non casualmente Florenskij prende le mosse dal concetto matematico degli ‘infiniti di diversa potenza’, sviluppando alcune idee del matematico Georg Cantor e curiosamente convergendo con il concetto di ‘diversi ordini di realtà’ che aveva affascinato secoli prima un altro genio profondamente cristiano e a lui sorprendentemente simile: Blaise Pascal. La cosa può sembrare astrusa ma non lo è affatto: se una particolare legge di crescita a spirale (si pensi ad esempio a certe conchiglie, ma anche a certe reazioni chimiche oscillanti che generano delle spirali nel mezzo in cui avvengono, o a certe formazioni rocciose..) non è un puro accidente di una continuum di forme tutte ugualmente possibili ma risponde invece a dei criteri di ottimalità nella sua relazione con l’ambiente e/o nella sua formazione, allora, indipendentemente da variazioni del sostrato (mutazioni che influenzano i ritmi di espressione genica per la conchiglia, cambiamenti nella concentrazione di prodotti e reagenti nella reazione chimica oscillante, variazioni di temperatura e pressione nell’orogenesi nel caso delle rocce) la spirale rimarrà praticamente identica a sé stessa. In fisica un tale comportamento si denota con la fascinosa parola ‘attrattore’, una certa forma, una certa modalità o ritmo è un ‘attrattore’ se il sistema continua ad adottarlo anche quando sottoposto a perturbazioni. Tanto più vasto è ‘il bacino di attrazione’ di un certo attrattore, tanto più resistente (e frequente) sarà la modalità corrispondente. In presenza di ‘attrattori’ il costante ed immemore flusso della continuità che tutto travolge e tutto trasforma si spezza e deve ‘chinare la testa’ a dei vincoli generali di ottimalità che ‘impongono certe soluzioni’ rispetto ad altre, il progresso non è più un flusso continuo ma un ‘saltabeccare’ da una ‘forma ammessa’ ad un’altra. La causalità ‘top-down’ (il finalismo avrebbe detto Aristotele, ma non ci impelaghiamo in termini sdrucciolevoli) si sovrappone al puro ‘costruire dal basso’ in termini di ‘forme privilegiate’ che indicano semplicemente delle ‘condizioni globali’ favorite dall’ambiente. Allora non avrà molto senso elucubrare sull’effetto di quel piccolo cambiamento (gene in più o in meno, mutazione X o Y) che con tutta probabilità verrà ‘riassorbito’ dal vincolo ‘top-down’, dalla stabilità cioè della forma generale in cui si inscrive.

 Ora, se non andiamo troppo a fondo con le conseguenze generali, nessuno scienziato crede ragionevolmente ad un’ ipotesi continuista assoluta e onnipresente, vista la dovizia di contro-esempi che la natura ci propone; per rimanere nel mondo della biologia, potremmo considerare come i livelli di espressione di circa 30.000 geni, ciascuno potenzialmente variabile su quattro ordini di grandezza (e quindi con la possibilità di generare un numero praticamente infinito di configurazioni) si risolva in solo 200 ‘pattern stabili’ corrispondenti ai diversi tessuti del nostro corpo, circa mille forme ‘ideali’ di configurazioni tridimensionali di proteine spiegano l’universo praticamente infinito di possibilità di ripiegare nello spazio stringhe di una lunghezza variabile da circa trenta a diecimila aminoacidi, e potremo continuare con l’esistenza di sole tre possibili simmetrie per il corpo degli animali ecc. ecc. Quando però si entra nel campo dell’evoluzionismo questo semplice buon senso viene subito meno e l’ipotesi continuista deve essere difesa a spada tratta contro tutte le possibili evidenze contrarie.

Ho potuto sperimentare di persona la forza di questo pregiudizio in quasi due anni di ‘contesa’ con gli anonimi revisori di un saggio scientifico che ho scritto in collaborazione con il mio amico israeliano Eli Reuvenidal titolo: “Emergent properties of gene evolution: species as attractors in phenotypic space”: il fatto che il saggio sia stato alla fine accettato da una rivista di fisica e non da una di biologia non è per nulla casuale, infatti solo i revisori di Physica A (una rivista di meccanica statistica) hanno avuto un atteggiamento ‘laico’ nei confronti del nostro lavoro sollevando obiezioni e commenti (a cui abbiamo risposto soddisfacentemente visto che poi il lavoro è stato accettato) sulla congruità tra ipotesi di lavoro e risultanze sperimentali e sulle metodiche di calcolo utilizzate e non, come i revisori di ben cinque riviste di biologia a cui era stato sottomesso in precedenza, sull’ideologia sottesa al nostro lavoro. Insomma la rivista di fisica ha avuto un atteggiamento scientifico, quelle di biologia un atteggiamento dogmatico. La conclusione della contesa ci ha fatto sicuramente piacere anche se rimane il rammarico della rigida chiusura delle riviste biologiche che sarebbero state un foro molto più rilevante per il nostro lavoro (la rilevanza non ha a che vedere con la caratura scientifica che al contrario è forse maggiore nel caso di Physica A ma della capacità di incidere del nostro lavoro nel campo della biologia dove è effettivamente innovativo, laddove sotto l’aspetto della meccanica statistica, si tratta di niente di più di un’applicazione elegante di metodi assodati).

Senza entrare troppo nei dettagli (chi fosse interessato può collegarsi al sito della rivista o chiedermi il pdf), il lavoro ha dimostrato, attraverso l’analisi di circa 1300 geni codificanti di lievito (Saccharomyces Cerevisiae) che una distanza genetica continua (misurazione delle differenze in termini di numero di mutazioni del DNA tra due diverse varietà ed un loro ibrido) andava di pari passo con un fenotipo discreto (le popolazioni ibride, indipendentemente dal genotipo assumevano solo uno di due possibili ‘pattern’ di ‘malleabilità’ delle proteine corrispondenti). La presenza di poche forme vincolate da una parte era conseguenza del fatto che un organismo funziona se e solo se le sue proteine lavorano di concerto e dall’altra indicava le specie come ‘attrattori’ (forme privilegiate) nello spazio biologico e non semplici accidenti lungo un flusso continuo di variazione. Insomma ogni specie (varietà) è una configurazione ‘ottimale’ e bilanciata tra i ruoli svolti da ogni proteina nell’armonia globale che indirizza la variabilità genetica continua di fondo. Le risposte dei revisori ‘biologici’ sono state a volte di semplice incredulità (non può essere ci deve essere qualcosa di sbagliato), di disprezzo (gli autori non capiscono niente di genetica di popolazione), di accusa (chissà dove hanno preso i dati..), a volte si alzavano obiezioni astruse ed inconsistenti (qualcuno non si è neanche accorto che la nostra distanza era sull’intero profilo dei 1300 valori di rapporto e non su uno solo..). Se si pensa che ogni rivista dava da leggere il nostro lavoro ad un numero variabile da due a quattro revisori si può immaginare quanti rospi abbiamo dovuto ingoiare… Comunque io avevo già intenzione di lasciar perdere, ma Eli che è più testardo di me (e di questo lo ringrazio) ha voluto comunque andare avanti e in qualche modo ci siamo riusciti…

Perché tanto accanimento? Nel libro del mio amico Enzo Pennetta sul darwinismo (recensito su questo sito) c’è uno specchietto molto bello sul perché l’ideologia positivista del progresso continuo abbia bisogno di un paradigma continuista e rimando il lettore interessato al bellissimo libro di Enzo. Io, in maniera un po’ subdola istillerò il dubbio che troppe imprese biotecnologiche, con troppi denari investiti, implicano un paradigma continuista di ‘piccoli cambiamenti migliorativi’ (OGM, terapia genica, singoli bersagli molecolari di farmaci, spiegazione genetica delle malattie..) perché il dubbio magari infiltratosi proprio dalla parte più ‘sacra’ (e tutto sommato meno finanziariamente rilevante) come la biologia evolutiva possa minare dalle fondamenta il castello della tecnoscienza.

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Il filosofo Plantinga: «il teismo cristiano è più razionale del naturalismo»

Finalmente anche in Italia è arrivato il libro “Dio esiste. Perché affermarlo anche senza prove” (Rubbettino 2011) scritto dal prestigioso filosofo Alvin Plantinga. Egli è tra i più grandi pensatori americani, professore emerito di filosofia analitica presso la University of Notre Dame e già presidente dell’American Philosophical Association.

Ma mentre questo volume esce in Italia, negli USA contemporaneamente ne esce un altro, intitolato “Where the Conflict Really Lies: Science, Religion and Naturalism” (Oxford University Press 2011). Il testo ha trovato recensione sul “New York Times, dove il filosofo cristiano (calvinista) viene lungamente celebrato: «quando Plantinga ha iniziato l’università ad Harvard, c’erano statisticamente pochi credenti nei dipartimenti di Filosofia Accademica […]. Ma il signor Plantinga è riuscito a creare un movimento di filosofi apologeti del cristianesimo che, se non sono ancora riusciti a persuadere i loro colleghi, almeno hanno reso il teismo filosoficamente rispettabile. “Ci sono molti più filosofi cristiani ed è molto più visibile e assertiva la filosofia cristiana oggi rispetto a quando ho lasciato l’università”, ha dichiarato recentemente Plantinga. Aggiungendo con caratteristica modestia: “non ho idea di sia successo”. Il quotidiano americano attribuisce a lui l’origine di questo “new theism” tra i filosofi.

Per adesso, si legge, ha messo il teismo in sicurezza per la filosofia, ma ora il passo che vuole compiere è quello di rendere il teismo sicuro per la scienza. Per troppo tempo, sostiene il filosofo, i teisti sono staticamente sulla difensiva, limitandosi a confutare l’accusa secondo cui le loro credenze siano irrazionali. «E’ il momento per i credenti nel Dio creatore della Bibbia», dice, «di passare all’offensiva». Nel libro uscito in America, Plantinga prende di mira i soliti Dawkins & Dennett, ironizzando su loro e confutando le loro argomentazioni principali. Afferma in una intervista: «Mi sembra che molti naturalisti, i super-atei, cercano di cooptare la scienza affermando che essa supporti il naturalismo. Penso che sia completamente un errore e si deve sottolinearlo». Addirittura invece per Plantinga, il teismo cristiano «è molto più ospitale alla Scienza rispetto al naturalismo. E’ il teismo, e non il naturalismo, che merita di essere definito “la visione scientifica del mondo”». Non c’è bisogno di alcuna prova, la Fede in Dio è ciò che i filosofi chiamano “convinzione di base”: non c’è bisogno della prova della convinzione che il passato esiste, o che altre persone hanno una mente, o che uno più uno fa due, afferma.

Nel suo libro c’è spazio anche alla trattazione dell’evoluzionismo, sostenendo che Dawkins & co. abbiano frainteso Darwin. Ritiene infine che l’ateismo e l’agnosticismo siano posizioni irrazionali. «Penso che ci sia una cosa come un “divinitatis sensus”, e in alcune persone esso non funziona correttamente», ha detto, riferendosi all’innato senso del divino. «Quindi se si pensa alla razionalità come la normale funzione cognitiva, sì, c’è qualcosa di irrazionale in questo tipo di atteggiamento». Per approfondire il pensiero di Plantinga consigliamo “Alvin Plantinga. La razionalità della credenza teistica” (Morcelliana 2006) e “Alvin Plantinga: conoscenza religiosa e naturalizzazione epistemologica” (Firenze University Press 2011).

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