Le femministe, la Lego e la saggezza materna di Costanza Miriano

La Lego, l’azienda danese che da decenni produce i noti mattoncini colorati con cui diverse generazioni hanno passato i primi anni di infanzia, ha pensato recentemente di espandere i suoi prodotti anche tra le bambine, lanciando una nuova linea chiamata “Friends”. Non l’avesse mai fatto! Le femministe più integraliste sono scese in battaglia denunciando l’orribile complotto della Lego nel voler distinguere i gusti dei maschietti da quelli delle femminucce. Esse vogliono che le bambine mettano da parte le bambole e si cimentino con ruspe e betoniere, mentre i bambini devono pettinare e cambiare i vestiti di Barbie. Chi non obbliga i loro figli a fare questo allora sta promuovendo una visione sessista.

A queste assurdità ha voluto rispondere la giornalista e scrittrice Costanza Miriano, autrice di un bellissimo libro intitolato “Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per donne senza paura” (Vallecchi 2011). Il volume ha avuto (stranamente, per il tema trattato in modo non “politicamente corretto”) un ampio successo nei media, presentato più volte in televisione (“Invasioni Barbariche”, “Mattina in famiglia”, ecc). Attualmente è il lizza (terzo, per ora) come “migliore libro dell’anno” sul sito del TG1. Anzi, invitiamo tutti a dare il proprio voto quotidiano per la vittoria (anche perché si nota nella classifica la presenza di Dacia Maraini, laicissima valorizzatrice della poligamia perché “è così naturale negli animali”).

La Miriano, nel suo articolo sulla Lego, ha portato candidamente la sua testimonianza di mamma, condita da simpatica ironia: «A casa nostra, per carità, di sacro c’è solo Dio. Molto distanziati, diversi gradini sotto ma sempre in posizione ampiamente sopraelevata sulle cose ordinarie ci sono diversi pilastri della nostra esistenza», e tra questi «la Lego». Continua: «leggendo l’attacco in massa fatto alla Lego dalle femministe inglesi, mi è scattato una sorta di orgoglio familiare […], le femministe si sono arrabbiate perché le bamboline sarebbero formose (hanno un accenno di seno appena abbozzato), e soprattutto perché hanno accessori femminili, e sono poche le parti da montare». C’è da aggiungere ovviamente che il colore predominante è il rosa, un’onta insopportabile per le femmine, secondo le nuove paladine della donna. La giornalista descrive le abitudini della sua famiglia, e spiega: «Noi non ci abbiamo trovato niente da ridire. Le mie figlie come hanno visto le Lego friends se ne sono innamorate, e contano i giorni che mancano al loro compleanno (purtroppo in agosto) per avere qualche altra scatola della preziosa serie. Ora, o io e mio marito abbiamo diabolicamente plagiato la mia prole, cercando silenziosamente di coltivare in loro discriminazioni di genere, oppure semplicemente ai maschi piacciono giochi da maschi, alle femmine giochi da femmine […]. Non vedo dunque niente di strano se finalmente sono a nostra disposizione anche piatti, cucinette, cagnolini, cocktail, studi da stilista. Non ci vedo niente di offensivo nei confronti delle donne, non stiamo mica parlando di bamboline accessoriate per il bondage, o siliconate. Anzi, se proprio uno non avesse avuto niente da fare nella vita, ci sarebbe stato da protestare prima, quando gli accessori in vendita erano quasi esclusivamente maschili».

E poi ecco il cuore della questione: «Il problema è che ormai tutto quello che rimanda in qualche modo allo specifico maschile e femminile scatena reazioni scomposte e a volte persino isteriche. Sembra un nervo scoperto, ipersensibile, che in nome della correttezza non si può neanche sfiorare. Non si può dire che uomini e donne sono diversi. Anzi, bisogna dire che sono uguali. E’ obbligatorio. In nome della libertà si diventa tirannici. Non so come altro definire l’atteggiamento di chi si arrabbia perché esiste un gioco che si attaglia a un sesso più che a un altro». Certamente, «lo specifico femminile va oltre i piatti e la cucina e il gusto per i vestiti, ma che volevamo, una pupazzetta di santa Teresa d’Avila? Una Virginia Woolf?». Ma perché tanto livore nel negare lo specifico maschile e femminile? Tutto rimanda inevitabilmente al tentativo di negare Dio, vera ossessione dell’uomo confuso di oggi: «Maschio e femmina li creò, dice la Genesi, a immagine e somiglianza di Dio. Io credo che nella differenza sia celato un grande mistero che dice qualcosa di molto profondo sulla natura dell’uomo. Di profondo e sostanziale. Dice che l’uomo e la donna non possono stare soli, perché c’è un’incompletezza che sarà per sempre la loro qualità distintiva. Dice che l’uomo e la donna esistono in relazione. Dice che questa relazione profonda e vera con una persona dell’altro sesso può anche non esserci, ma allora deve essere Dio che diventa lo sposo o la sposa di quella creatura, che da sola non è piena. Non è bene che l’uomo sia solo. Chi nega la differenza nega che l’uomo è creatura, e quindi figlia di un Padre. Chi nega la differenza nega quindi Dio. E allora la posta in gioco è ben più alta del pupazzetto della Lego. E val bene la raccolta di firme e la campagna sui giornali, che del negare la fragilità, l’incompiutezza, la povertà e il bisogno dell’uomo hanno fatto evidentemente la loro ragione di esistere».

Parole pienamente condivisibili. Sono in molti inoltre, occorre dirlo, gli specialisti (psicoanalisti freudiani, in particolare) che fanno risalire alla parità dei sessi -che poi è naturalmente degenerata trasformandosi in vera e propria confusione esistenziale di ruoli- l’espandersi massiccia dell’omosessualità/bisessualità. Alla faccia dei promotori della bufala del “gene gay”, genitori confusi nei propri ruoli e nella loro identità hanno largamente contribuito (influenza ambientale) all’espandersi di questo comportamento sessuale. Forse è un altro motivo -seppur nascosto- per cui esiste l’interesse violento ad avviare questo tipo di campagne.

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Nuovo studio: gli europei sono felici solo se sono religiosi

Due ricercatori dell’Univeristà di Navarra, Alejo José G. Sison e Juncal Cunado, basandosi sui dati forniti dall’European Social Survey nel 2002/2003, nel 2004 e nel 2006 che hanno coinvolto, complessivamente, 114.019 persone in 24 Paesi diversi, hanno provato a dare una risposta scientifica alla domanda se la fede e la pratica religiosa rendono gli europei felici.

Il primo gruppo di domande della ricerca riguardava il tipo di “fede religiosa” professata, mentre il secondo gruppo si concentrava sulla “pratica religiosa”. Infine c’era la domanda “Quanto sei felice?”, a cui si poteva rispondere indicando un numero su una scala da 1 (non felice) a 10 (completamente felice). Il risultato nei 24 paesi europei è stato, mediamente, 7.26. Naturalmente all’interno di questi 24 paesi si sono riscontrate notevoli differenze ed è questo che ha permesso di capire, secondo i ricercatori, l’esistenza di una correlazione fra religione e felicità.

In generale infatti, chi apparteneva ad una religione ha indicato un livello di felicità maggiore degli altri. Tra le varie religioni, inoltre, gli indici non sono risultati tutti uguali: gli ortodossi e chi segue le religioni orientali hanno segnalato indici di felicità più bassi dei fedeli della religione cattolica, protestante e delle altre denominazioni cristiane. Un altro risultato interessante è stato rilevare che più marcata è la religiosità, più ci si dichiara felici, mentre coloro che si sono dichiarati non religiosi hanno segnalato livelli bassi di felicità. Infine, coloro che hanno affermato di frequentare più assiduamente le celebrazioni religiose sono risultati essere più felici di chi non lo fa mai. Risultati dunque perfettamente in linea con tutta la mole di letteratura scientifica precedente.

La psicologia ritiene che questa relazione positiva fra felicità e religione sia dovuta innanzitutto all’appoggio sociale, il far parte di una comunità, cosa assai sperimentata dalle persone religiose. Inoltre, una fede salda offre un senso unitario e un orientamento preciso nella vita e questo rende, indubbiamente, più felici. In realtà queste spiegazioni seppur valide non esauriscono l’argomento sulle motivazioni che legano così strettamente la felicità alla religione, infatti sembra che sia l’apertura stessa al trascendente ad essere sorgente di felicità. La questione è stata spiegata approfonditamente in Ultimissima 8/01/12, anche distinguendo il tutto dall’effetto placebo.

Davide Galati

 
AGGIORNAMENTO ORE 13:56
Poco tempo fa è anche uscito uno studio in cui gli atei vengono rappresentati come razionali, e non cinici o senza gioia. Un risultato completamente in controtendenza, una buona notizia comunque. Tuttavia un piccolo sospetto è nato quando ci si è accorti che lo studio faceva esplicito riferimento ad una ricerca “scandalosa” in cui è stato dimostrato come negli USA i non credenti siano considerati la categoria di persone meno affidabili (uno stereotipo causato dalla pessima pubblicità dei New Atheist militanti all’ateismo stesso). La reazione è stata immensa, come accade sempre quando una minoranza è “sotto attacco”. Che sia stato “artificialmente realizzato” per combattere politicamente l’ingiusto stereotipo? Il dubbio sulla manipolazione dei dati è cominciato a diventare fastidioso quando si è osservata la presenza, tra i quattro ricercatori, di Benjamin Beit-Hallahmi, un vero e proprio integralista ateo che ossessiona i lettori del “Guardian” sostenendo frequentemente proprio la superiorità della condizione irreligiosa e l’alta diffusione dell’ateismo tra gli scienziati (sempre citando la solita ricerca del 1990). L’ipotesi che in questo caso abbia prevalso il principio d’autorità e non il metodo scientifico è divenuta molto forte quando si è osservata la metodologia utilizzata: i campioni di riferimento utilizzati sono stati 42 atei, 22 cristiani e 18 buddhisti. Questi sarebbero per i ricercatori dei numeri rappresentativi di una Nazione intera, o addirittura della comunità internazionale. Sappiamo purtroppo che questa strumentalizzazione ideologica della scienza è abbastanza frequente, come accade nella promozione dell’omosessualità: su “American Sociological Review” è stato dimostrato che decine di studi sui bambini cresciuti da genitori omosessuali sono stati appositamente male interpretati per ragioni politiche in modo da non attirare le ire degli attivisti omosessuali o incoraggiare la retorica anti-gay.

Luca Pavani

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Il principio antropico e il senso del mondo


di Umberto Fasol*
*docente di scienze naturali in un liceo scientifico

 

I valori possibili delle quattro forze fondamentali e delle particelle materiali (protone, neutrone, elettrone) sono infiniti, perché la loro struttura è “dimensiva”, cioè modulabile. Solo i valori misurati effettivamente consentono a loro di interagire in rete e creare un Universo. Dunque è stata fatta una “scelta” tra le infinite possibilità. Perché? Ascoltiamo due introduzioni alla risposta:

1. “Nonostante il mutamento e la dinamica incessanti del mondo visibile, vi sono aspetti della struttura dell’universo che presentano una irremovibile costanza. Sono questi misteriosi aspetti immutabili che rendono il nostro universo quello che è e lo distinguono da altri mondi che potremmo immaginare. Sono le costanti di natura. Esse sono alla base di ogni identità dell’universo: spiegano perché ogni elettrone sembra essere identico a ogni altro elettrone.” (John Barrow, “I Numeri dell’universo”, saggi Mondatori 2003).

2. “Se la densità dell’Universo 1 sec dopo il big bang fosse stata maggiore della densità critica di 1 parte su 100 miliardi, l’Universo sarebbe collassato dopo 10 anni. Se invece fosse stata minore dello stesso valore, l’Universo sarebbe già vuoto dopo 10 anni di esistenza.” (S.Hawking, “Dai buchi neri all’Universo”, 2001)

Ed ecco ora la vera risposta, ancora una volta dell’autore della più imponente monografia sul principio antropico:
“Provando a immaginare un’intera raccolta di ipotetici “altri universi” in cui tutte le grandezze che definiscono la struttura del nostro universo assumono tutte le possibili permutazioni di valori, scopriremmo che quasi tutti questi possibili universi da noi creati sulla carta sono nati morti, incapaci di generare quel tipo di complessità chimica che chiamiamo “vita”. Questa scoperta ha indotto Brandon Carter a suggerire che possa esistere, nell’universo, qualche aspetto metafisico più speculativo, che egli ha denominato principio antropico forte, per distinguerlo dal poco controverso principio antropico debole (l’esistenza dell’uomo richiede determinate condizioni fisiche e cosmologiche). Il principio antropico forte afferma che, dal momento che sembra esistere un così gran numero di “coincidenze” notevoli e apparentemente sconnesse, cospiranti per permettere che la vita sia possibile, nell’universo, questo deve dar luogo a osservatori, a un certo stadio della sua storia” (John D. Barrow, “Il mondo dentro il mondo”, Adelphi, Milano, 1988, pp. 440; 444-446).

Il principio antropico introduce dunque una “finalità” nello studio scientifico dell’Universo: “ospitare l’uomo”. Se l’affermazione risulta forte, è altrettanto vero che la sua negazione costringe a negare qualunque “senso” all’Universo: come a dire: “esiste, ma senza uno scopo” e ancora: “sono capace di interrogarmi sul senso di un Universo che non ha senso!”. La Scienza depone a favore della ragionevolezza della finalità antropica, pena l’assurdità del tutto, compresa quella di qualunque conclusione che la voglia negare. Nell’ambito di questo principio trova risposta anche la domanda sul senso delle dimensioni quasi infinite dell’Universo: “perché tanto spazio e tanta materia?”. In realtà le misure sono legate al tempo e questo è legato a sua volta alla costruzione dei materiali necessari per creare la vita: solo un Universo “vecchio” e quindi espanso ha permesso alle sue stelle di fabbricare gli elementi chimici come il carbonio per la cellula o come il silicio per il pianeta.

Ora, la sfida è questa: credere nell’assurdo o credere in una Ragione al fondamento di tutto. Si dice: “l’ipotesi di Dio non è scientifica, quindi non puoi dimostrarla”. E se non puoi dimostrarla, è inutile parlarne. Accontentiamoci delle sue alternative, anche se improbabili. Con queste due battute, Dio diventa un fonema, un suono delle labbra e il Caso-Nulla diventa un Totem, certificato anche dalla Scienza. Hawking giunge addirittura al punto di scrivere: “Dal momento che c’è una legge come quella di gravità, l’Universo può crearsi dal nulla e lo fa. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece di nulla. Non è necessario appellarsi a Dio per mettere in moto l’Universo” (“Il Grande Disegno”, Mondadori, pag.170). Ma come può agire la gravità se mancano i gravi? E com’è apparsa una legge così creativa, capace di centinaia di miliardi di galassie? (… e non insegnano poi questi Professori che la Scienza non può occuparsi di Dio, per definizione?). Credo che, in realtà, se non c’è un Logos all’origine di tutto, siamo condannati al non senso. Perfino il nostro ragionamento che giunge alla conclusione che l’Universo non ha nessuna causa trascendente non risulta “garantito”. Infatti chi mi garantisce che il mio cervello funzioni correttamente quando esprime giudizi dal momento che è anch’esso un prodotto di equilibri materiali forgiato dalla mutazione casuale e dall’ambiente selettivo? Perché mai dovrebbe dire “la verità” una mente che non è stata programmata per dirla? L’ambiente infatti suggerisce anche l’opportunità di non dirla, a volte.

Insomma, chi rinuncia ad accettare come scientifica l’ipotesi di un Creatore dell’Universo è in balìa di qualunque “giochino” che l’evoluzione può inventarsi, imprevedibile com’è, per definizione. Dall’altra parte l’ipotesi di Dio è prima di tutto un’intuizione della persona, che dà senso a tutto ciò che scopriamo sempre di più essere finalizzato a funzioni precise e finemente sintonizzate tra loro. E’ sperimentale che dal nulla non si crea nulla e che l’ordine non si crea da solo. Dunque, l’ipotesi di un Creatore appartiene anche al ragionamento di tipo scientifico. Per quanto concerne il principio antropico è lecito comunque porsi un’ulteriore domanda e cioè: “le condizioni per la vita sono sufficienti per la sua creazione?”. A questa domanda bisogna rispondere di no; le condizioni sono necessarie ma non sufficienti. La vita rappresenta un “di più” rispetto ai suoi ingredienti materiali e per questo il mistero dell’uomo si infittisce ulteriormente ed apre al trascendente. Il principio antropico ne esce con una nuova sfaccettatura.

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Corea del Nord: la Chiesa continua a inviare aiuti nonostante l’ateismo di stato

Nonostante l’oppressione del regime nordcoreano la Chiesa cattolica, attraverso la Caritas, spera che «le tensioni politiche non fermino gli aiuti umanitari al Nord per milioni di affamati». Lo ha detto padre Gerard Hammond, Missionario di MaryKnoll e direttore dei Programmi per la Corea del Nord nella Caritas Corea. Il missionario, che ha visitato la Nord Corea circa 30 volte a partire dagli anni ’90, rimarca che «in questa stagione la crisi si fa più acuta e gli aiuti sono urgenti».

Nei giorni scorsi Caritas Internationalis ha pubblicato un appello in cui si esorta la comunità internazionale «a non trascurare milioni di persone che soffrono la fame nel Paese asiatico», mentre nel dicembre scorso il Segretario generale di Caritas Internationalis, Michel Roy, ha tenuto un incontro a Seul per discutere della crisi alimentare in Corea del Nord e pianificare strategie di intervento. Una prossima missione della Caritas di Seul al Nord, sarà organizzata, con ogni probabilità, nella prossima primavera. Tutto questo nonostante la recente classifica pubblicata da Open Doors, abbia rilevato che la Corea del Nord è attualmente il paese con la più grave persecuzione dei cristiani nel mondo, e ultima nella classifica del rispetto dei diritti umani.  In un recente articolo apparso su “La Bussola Quotidiana, viene spiegata l’incredibile discriminazione che subiscono i credenti, relegati in lager e campi di lavoro forzati. E’ chiara l’intenzione da parte del governo di voler distruggere il cristianesimo nel Paese.

Il Paese ha recentemente celebrato i funerali del dittatore Kim Jong-II, molti quotidiani hanno colto l’occasione per parlare della situazione dei diritti umani e dell’ufficialità dell’ateismo di Stato imposto nel Paese, seppur mischiato inevitabilmente al culto della personalità (senza Dio non ci possono essere che idoli da adorare). Lo ha fatto in Italia il quotidiano “La Stampa”,  chiamandolo appunto “ateismo mistico”. All’estero si è spesso sottolineato che «anche se la Corea del Nord è uno stato ateo, il culto del defunto Kim il-Sung e di Kim Jong-il ha di fatto sostituito la religione».  Tuttavia, come spiega questo sito sulla religione in Corea del Nord, le forme religiose «sponsorizzate dal governo esistono per fornire l’illusione della libertà religiosa». Lo stesso viene ribadito dalla pagina inglese di Wikipedia sull’ateismo di Stato: «il governo della Corea del Nord impone l’ateismo di stato sanzionato, il culto della personalità di Kim Il Jung e Kim Il Sung  è descritto come una religione politica. Il governo sponsorizza gruppi religiosi solo per creare l’illusione della libertà religiosa». Sul sito di “Human Rights Watch si legge che «il governo della Corea del Nord è tra i governi più repressivi al mondo». Due rapporti, citati da un’altra pagina di Wikipedia in lingua inglese, spiegano che «la Corea del Nord è ufficialmente uno stato ateo, in cui quasi tutta la popolazione è non religiosa».

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Le neuroscienze decretano la fine del libero arbitrio? (parte seconda)

 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
 

Ricorderete che nel mio ultimo articolo (Ultimissima 13/1/12) avevamo cominciato ad affrontare il problema del libero arbitrio. In particolare, eravamo giunti alla conclusione – suggerita dalle considerazioni del filosofo Eddy Nahmias – che le moderne neuroscienze non decretano affatto la fine della responsabilità personale. D’altro canto, avevamo lasciato in sospeso la domanda più fondamentale di tutte: “Se la mia stessa autocoscienza è il risultato di una mera concatenazione di reazioni chimiche, governate da leggi inderogabili, come posso affermare di prendere decisioni davvero libere?.

Continuiamo, dunque, nel nostro percorso di approfondimento sul libero arbitrio, rimanendo anche stavolta nell’ambito delle neuroscienze. Per inquadrare meglio la questione, è opportuno chiarire innanzitutto alcuni concetti fondamentali. Secondo il determinismo, lo stato dell’Universo materiale a un dato istante definisce univocamente, per mezzo delle leggi fisiche, il suo stato a ogni istante futuro. Insomma, fissata la situazione dell’Universo in un dato momento, la sua evoluzione successiva avverrà seguendo uno e un solo inderogabile percorso. Per l’indeterminismo, invece, a ogni data configurazione dell’Universo può corrispondere una pluralità di possibili futuri: a ogni passo si apre un ventaglio di possibilità tra cui scegliere. Molti sono convinti che il determinismo vieti l’esistenza del libero arbitrio. Infatti, se un solo percorso è possibile per l’Universo, e noi siamo parte di esso… evidentemente non possiamo fare altro che ciò che facciamo: non esiste nessuna possibilità di scelta per ogni nostra azione. D’altra parte, la situazione per la libertà potrebbe non essere necessariamente migliore nel caso dell’indeterminismo. Secondo questa concezione, infatti, da certe fissate condizioni iniziali possono scaturire diversi percorsi (selezionabili in un opportuno insieme di scelta) di cui uno solo sarà quello effettivamente seguito. Se, però, la scelta del percorso fosse attribuibile esclusivamente al caso, non si potrebbe parlare di vera libertà.

Adina Roskies, professoressa di filosofia presso il Dartmouth College, nel capitolo scritto per il libro Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il libero arbitrio (Edizioni Codice, 2010, pagg. 51 – 69), osserva che le tecniche di indagine neuroscientifica non sono in grado di risolvere la questione del determinismo, per un motivo molto semplice: non riescono a discriminare l’attività cerebrale a un dettaglio sufficientemente fine. Per intendersi, ciò che appare casuale alla scala di risoluzione della risonanza magnetica (che è dell’ordine del millimetro) potrebbe risultare deterministico, se solo analizzato a una scala più piccola (quella del singolo neurone o addirittura della singola molecola); viceversa, un’attività apparentemente deterministica potrebbe in realtà essere il risultato di molti eventi casuali aggregati. Magari si tratta solo di un limite delle tecniche attuali; però è probabile che un’analisi conclusiva richiederebbe una risoluzione almeno al livello molecolare… il che, temo, è destinato a rimanere pura fantascienza ancora per un bel po’ di tempo. Ad ogni modo, Roskies sottolinea che una risposta al problema del determinismo – se mai ci sarà – verrà assai più facilmente da una teoria fisica migliore che non dalle neuroscienze.

Cerchiamo ora di inquadrare la problematica da un altro punto di vista, quello del rapporto mente-cervello: è la famosa questione ontologica, trasversale al problema del determinismo. Semplificando molto: o si ammette l’esistenza di una distinzione concreta tra cervello e mente, che però sono in reciproca relazione causale – l’uno ha effetti sull’altra e viceversa (interazionismo); oppure si ammette l’insussistenza della mente come ente autonomo, che viene così considerata solo come un epifenomeno, ovvero come “qualcosa che il cervello fa” (riduzionismo materialista). Per intendersi, in questo caso il cervello è visto come l’hardware di un computer, la mente come il suo software. Quest’ultima concezione è sostenuta – tra gli altri – da Daniel Dennett e Douglas Hofstadter; la prima – per esempio – da Karl Popper e John Eccles. In tale ottica, il discorso sul libero arbitrio assume una dimensione in più.

Filippo Tempia, neurologo e ordinario di fisiologia all’Università di Torino, illustra – nell’articolo scritto per “Siamo davvero liberi?” (pagg. 87 – 108) – lo “stato dell’arte” delle neuroscienze nella prospettiva ontologica. Il famoso esperimento di Libet – ricorda Tempia –  si proponeva di verificare se accada prima l’evento mentale della volontà di agire oppure l’attività neurale che conduce all’azione. Il presupposto, naturalmente, era che quello che viene prima è la causa di quello che viene dopo. I risultati, come è noto, sembrarono smentire la possibilità di un’azione causale dalla mente sul cervello, indicando viceversa che le decisioni siano il risultato dell’attività cerebrale non conscia, e non di un evento mentale volontario. In quest’ottica, la sensazione di essere agenti delle nostre azioni sarebbe equiparabile a una mera percezione sensoriale; il soggetto che decide sarebbe l’organo‑cervello, il cui funzionamento di fondo dipende solo dalle leggi della fisica; pertanto, la possibilità di un libero arbitrio in senso proprio sarebbe totalmente esclusa (sia nella concezione deterministica che in quella indeterministica). Dunque, l’esperimento di Libet sembrerebbe confermare il punto di vista del riduzionismo materialista.

In realtà, però, secondo Tempia la questione non si può considerare affatto risolta. Una serie di esperimenti eseguiti su diverse aree cerebrali ha infatti dimostrato – dice il neurologo – che “il tempo mentale di cui abbiamo coscienza non corrisponde fedelmente al tempo cronometrico, ma viene sovente deformato in modo da creare una rappresentazione mentale della realtà il più possibile coerente”. In altre parole, si osserva “una distorsione della percezione del tempo nelle vicinanze dei movimenti volontari”, che può giungere al punto di invalidare l’interpretazione della successione temporale di causa-effetto (“Siamo davvero liberi?”, pagg. 100 – 101). Perciò, a tutt’oggi non si può affermare che vi sia una qualche prova sperimentale conclusiva a favore del riduzionismo materialista: rimane quindi aperto il problema “se l’uomo possa decidere in maniera non determinata dagli antecedenti fisici del proprio cervello”. A ben vedere, l’idea che un nesso di causalità possa essere svelato da un’analisi della successione temporale degli eventi neurali risente di una concezione strettamente meccanicistica del cervello (visto all’incirca come un orologio, solo più complesso) – si basa, cioè, su un presupposto più o meno arbitrario, non fondato su ineccepibili dimostrazioni scientifiche. Eppure, la fisica del XX secolo ci ha insegnato che la realtà materiale non è riducibile nella sua essenza a fenomeni meccanici (magari con una spruzzatina di fenomeni elettromagnetici per spiegare la chimica). Pertanto – conclude Tempia – “finché non conosceremo la reale natura degli eventi mentali, e la loro relazione con le leggi della fisica della materia, non sarà possibile negare né confermare scientificamente un ruolo causale della mente”.

A questo punto appare chiaro che, per proseguire nella nostra ricerca, sarà necessario chiamare in causa altre discipline scientifiche oltre alla neurologia. In particolare, proveremo a capire se la fisica e l’informatica possono fornire indicazioni utili per la soluzione del problema ontologico, o se esso è destinato a rimanere insoluto… ma di questo parleremo la prossima volta.

 Michele Forastiere
michele.forastiere@gmail.com

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Christopher Hitchens, il paladino “pro-life”

Non ci piace ricordare le persone per i loro aspetti negativi, come invece ha preferito fare Odifreddi parlando di Christopher Hitchens come un “fondamentalista reazionario”. Non ci piace ricordarlo per le incredibili offese ai credenti e neppure per il suo amore, vera e propria macabra passione, per la guerra, come viene sottolineato in parecchi articoli in questo periodo. Vogliamo invece riprendere l’ articolo apparso su Vanity Fair del febbraio 2003 intitolato “Fetal Distraction” quando Hitchens esplicitò la sua posizione controcorrente sull’aborto rispetto al resto dei New Atheists.

Ripercorrendo l’epoca della liberalizzazione della pratica abortiva negli Stati Uniti, così commentò sul periodico statunitense l’ideologia di “Our bodies, Ourselves”, equivalente d’oltreoceano di “il corpo è mio e lo gestisco io”: «C’è stato un tempo in cui il movimento femminista ha risposto con indignazione militante. (…) Se abbiamo bisogno di rimuovere un’appendice o un tumore dai nostri spazi personali non è un problema di nessun altro. Ero abituato a rabbrividire quando sentivo questo, non tanto perché nel senso morale i feti non sono da confrontare con appendici, per non parlare di tumori, ma perché è una sciocchezza evidente dal punto di vista biologico e embriologico. (…) Questa concessione, forse involontaria, al disgusto da allora è diventata più evidente come conseguenza dei progressi in embriologia, e dalla semplice esperienza del sonogramma. Le donne che hanno osservato il battito cardiaco precoce dentro di loro ora hanno qualche difficoltà, diciamo, nel classificare l’esperienza come l’asportazione pianificata di un’escrescenza».

I passi in avanti della scienza, della medicina, dell’embriologia hanno evidenziato «che un feto acquisisce caratteristiche umane prima di quanto eravamo abituati a pensare» e sono per Hitchens da annoverare tra i nemici più deleteri delle argomentazioni degli abortisti: «dato che i progressi in medicina hanno reso sempre più facile anche per un feto prematuro sofferente sopravvivere fuori da sua madre, l’argomento ha mostrato una tendenza allo slittamento. (…) Non c’era più disputa sul fatto che il soggetto non ancora nato era vivo. Di sicuro non poteva essere morto, dal momento che l’intera battaglia consisteva nel come o se fermare la sua crescita e il suo sviluppo (non metastatico). Di tanto in tanto potrebbe esserci una contesa sul fatto che sia una vita pienamente “umana”, ma questa è casuistica. Quale altra specie di vita potrebbe essere?». Che anche l’embrione umano più parzialmente formato è «sia umano sia vivo» è un fatto confermato anche dal dibattito sulla ricerca sulle cellule staminali e la bioetica della clonazione: «Se ad una persona malata o anziana può essere concessa una nuova prospettiva di vita da una trasfusione di questo materiale cellulare, allora non è ovviamente materia organica casuale. L’originale “blastocisti” embrionale può essere un gruppo di 64-200 cellule di soli cinque giorni. Ma ognuno di noi ha cominciato la nostra importante carriera in quella forma, e ogni codifica necessaria per la vita è già presente. Siamo la prima generazione a dover affrontare questo come una conoscenza certa».

Una constatazione ovvia per Hitchens, non così per molti dei suoi lettori abituali, che lo seguirono nella sua virulenta critica antireligiosa, ma non gradirono le sue riflessioni sull’aborto, macchia nera su un brillante curriculum da polemista ateo.

Maurizio Ravasio

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Il veto di Hilbert, ovvero perché l’Universo non è sempre esistito

 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Oggi ricorre il 150° anniversario della nascita di David Hilbert, uno dei maggiori matematici di tutti i tempi. Lo commemoro illustrando una sua tesi, squisitamente “finitista” secondo la sua concezione della matematica ed interdisciplinare com’era la sua visione epistemica. La tesi riguarda un’ampia categoria di strutture (gli insiemi cantoriani) ed ha un corollario con ricadute in fisica ed in filosofia: un intervallo infinito di tempo passato è una contraddizione. Ne consegue che il tempo ha avuto un inizio, ed il mondo con esso: si ritrova così per via logico-matematica il risultato cui erano arrivati Agostino ed i filosofi del Kalam per via metafisica e cui perviene la fisica moderna nella teoria standard del Big Bang e con il teorema di Borde, Guth e Vilenkin (BGV, 2003) nelle speculazioni cosmologiche quanto-gravitazionali.

Prima di enunciare il “veto di Hilbert”, devo analizzare il concetto di “infinito”, perché la parola può essere usata in tre significati distinti che conviene esplicitare. In una prima accezione, infinito significa senza restrizioni. L’attribuzione non è data in positivo attraverso l’assegnazione di una qualità, ma negando limiti ad una qualità. Così si dice che un tale ha una pazienza infinita, a significare che ha una pazienza senza limiti; che Dio è bontà infinita, ecc. Questo tipo di accezione non appartiene alla matematica, perché non è operativa. C’è poi un secondo significato d’infinito, quello d’un processo indefinito che non arriva mai alla conclusione. Hilbert sulla scia di Aristotele lo chiama infinito potenziale. Un esempio è dato dall’operazione di dimezzare un segmento: è chiaro che, dopo averlo dimezzato una volta, posso dimezzare la metà; e poi dimezzare la metà della metà; ecc. Questa procedura di suddivisione può procedere in teoria quanto si vuole. Essa è genuinamente matematica perché è operativa, tanto che un teorema prevede (come risulterà evidente a tutti i lettori) che più si avanza nella procedura, più la lunghezza del risultato si avvicina a zero. Un altro infinito potenziale è la serie numerica 1 – 1/3 + 1/5 – 1/7 +…, dove si procede indefinitamente in operazioni alterne di addizioni e sottrazioni dei reciproci dei numeri dispari. La procedura è matematica perché è operabile, tanto che un teorema di analisi prevede (e ciò risulterà forse sorprendente a qualche lettore) che più si avanza nella procedura più la somma parziale si avvicina a π/4. (Tra parentesi: queste procedure matematiche indefinite non sono eseguibili da un computer, perché un software deve contenere un numero finito di istruzioni! Per quanto sia veloce il suo processore e grande la sua memoria, una macchina non potrà mai eseguire tutte le operazioni d’un infinito potenziale. Così, a differenza della mente umana, nessuna macchina potrà mai predire il risultato π/4 della serie a segni alterni che ho scritto sopra.)

La terza accezione d’infinito è l’infinito attuale. Con ciò s’intende un “insieme cantoriano”, ossia una collezione contenente un numero di elementi superiore ad ogni numero dato. L’alfabeto inglese è un insieme di 26 lettere, pertanto non è un insieme cantoriano; né lo è l’insieme dei granelli di sabbia del mare (come Archimede dimostrò al tiranno di Siracusa), né l’insieme delle particelle dell’Universo, il cui numero non supera 1080, il numero di Eddington. Invece l’insieme dei numeri naturali (che in matematica si indica con N) è un insieme cantoriano, perché contiene un numero di elementi maggiore di qualsiasi numero prefissato. Si può dire che N ha un numero infinito di elementi, dove in questo caso infinito va inteso nell’accezione d’infinito attuale, realizzato. Nella matematica – che è un dominio fuori dallo spazio e dal tempo – esistono molti insiemi cantoriani, anzi il loro numero è un infinito attuale! Oltre ad N, altri insiemi cantoriani sono: Z (l’insieme dei numeri interi), Q (l’insieme dei numeri razionali), R (l’insieme dei numeri reali), C (l’insieme dei numeri complessi), un segmento o la retta o il piano o lo spazio intesi come insiemi di punti, l’insieme di tutte le curve, ecc., ecc.

Il problema che Hilbert si pose fu: nel mondo reale possono esistere insiemi cantoriani? Ovvero: una struttura aggregata fisica può contenere un infinito attuale di elementi? Per gli atomisti greci la risposta era positiva, ed un infinito attuale reale sarebbe il mondo stesso, che immaginavano composto d’infiniti atomi. Nel “De rerum natura” il poeta latino Lucrezio, adepto di Leucippo e Democrito, canta: “Gli atomi delle cose che hanno figure simili tra loro sono infiniti. […] E in verità, dato che l’intero spazio è infinito fuori dalle mura di questo mondo, l’animo cerca di comprendere cosa ci sia più oltre, fin dove la mente voglia protendere il suo sguardo, fin dove il libero slancio dell’animo da sé si avanzi a volo. In primo luogo, per noi da ogni punto verso qualunque parte, da entrambi i lati, sopra e sotto, per il tutto non c’è confine: come ho mostrato, e la cosa stessa di per sé a gran voce lo proclama, la natura dello spazio senza fondo riluce. In nessun modo quindi si deve credere verosimile che, mentre per ogni verso si schiude vuoto lo spazio infinito e gli atomi volteggiano in numero infinito e in somma sterminata, in molti modi, stimolati da moto eterno, soltanto questa terra e questo cielo siano stati creati, e niente facciano là fuori quei tanti corpi di materia”. Dunque, anche i mondi sono infiniti per i filosofi atomisti, precursori del multiverso delle stringhe! Né c’è via logica di scampo per chi, non credendo in un Logos creatore ma nel caso, deve giustificare l’ordine del “nostro” cosmo: “Ammettono vari mondi coloro i quali non stabilirono una sapienza ordinatrice come causa del mondo, ma il caso” (Tommaso, “Summa Theologiae”).

La poesia però è “poìesis” (in greco, fabbricazione), non è matematica (dal greco “màthema”, conoscenza). La risposta alla domanda se una struttura aggregata reale possa contenere un infinito attuale di elementi, trovata per via logica da Hilbert fu “no”: non possono esistere insiemi cantoriani fisici. Nelle parole di Hilbert il veto suona: “Abbiamo dimostrato così che nella realtà non si trova l’infinito in nessun luogo, qualsiasi sia l’osservazione o l’esperienza che facciamo. […] Il nostro principale risultato è che l’infinito attuale non può esistere nel mondo reale, è unillusione” (D. Hilbert, On the infinite, in “Philosophy of Mathematics” – 1964. Edited by Paul Benacerraf and Hilary Putnam. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall). Hilbert stabilì così l’esistenza d’un limite per il numero delle particelle dell’Universo, che Eddington s’incaricò di calcolare.

Ebbene, contro il veto di Hilbert andrebbe un mondo che esistesse da sempre, perché in tal caso il tempo fisico conterrebbe infinite unità di Planck: se ne deduce che gli anni passati dall’inizio del tempo ad oggi sono un numero finito e che il mondo ha avuto un inizio. Se poi la sua età sia di 13 miliardi e mezzo di anni (secondo la teoria del Big Bang) o maggiore (come prevedono teorie non standard per le quali comunque vale il teorema BGV d’incompletezza del passato), questo è un problema della cosmologia scientifica. È notevole rilevare che già Aristotele, nella sua “Fisica”, era arrivato duemiladuecento anni prima, sempre per via logica, allo stesso risultato generale, senza trarne però l’applicazione alla necessaria origine del mondo. A margine segnalo che il veto di Hilbert non vale per un infinito tempo futuro: in questo caso, infatti, l’infinito sarebbe potenziale, non attuale. Nulla ci può dire la matematica sulla fine del mondo!

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Lettere inedite confermano la viscidità ingannatrice di Voltaire

François Voltaire è stato tra i più feroci nemici del cristianesimo che la storia abbia mai visto. A lui risalgono gran parte delle leggende nere contro la Chiesa cattolica che i militanti laicisti tentano ancora oggi di tenere in vita. Lui stesso scrisse in una lettera del 1763 a Thériot: «occorre mentire come un demonio, non in maniera timida e nemmeno per qualche tempo, ma arditamente e sempre».

Diderot lo chiamava l’AntiCristo, mentre lui intanto scriveva: «il cristianesimo è la belva feroce che ha succhiato il sangue dei miei simili». E «i preti che ho odiato, odio e odierò fino al giorno del giudizio». Continuava: «Sono stanco di sentir ripetere che dodici uomini sono stati sufficienti per imporre il cristianesimo; ho voglia di dimostrare che uno solo basta per distruggerlo». E’ sotto questi ideali che si forzò la teoria mitologica su Gesù. Il suo motto preferito era: «Écrasez l’infâme» («Schiaccia l’infame»), e l’infame era la Chiesa o i cristiani alternativamente.

Profondamente anticristiano e dunque non a caso fu razzista, sostenitore dello schiavismo e profondamente antisemita. Léon Poliakov, storico ebreo dell’antisemitismo e del genocidio ebraico, scrive nel suo “Il mito ariano”: «Nessuno come Voltaire ha tanto diffuso e ampliato le aberrazioni della nuova età della scienza». Lo stesso ideatore dell’illuminismo scrisse in Essai sur les moeurs (cap VIII): «Si guardano gli Ebrei con lo stesso occhio con cui guardiamo i Negri, come una specie d’uomini inferiori».

Proprio in questi giorni, come riportato su “Il Corriere della Sera”, è comparsa un’ennesima prova della bassezza e viscidità umana di Voltaire. Un professore di Oxford e direttore della Voltaire’s Foundation, Nicholas Cronk, ha infatti scoperto alcune sue lettere che rivelano come sia riuscito con l’inganno ad ottenere una donazione di 200 sterline dalla famiglia reale britannica. Durante un soggiorno di due anni in Inghilterra agli inizi della sua carriera, Voltaire si comportò come «un grande opportunista» e, anglicizzando il suo nome in ‘Francis’, strinse amicizia con alcuni dei più grandi intellettuali del Regno, le cui idee poi utilizzò nei propri scritti. Come un Galimberti o un Corrado Augias qualunque, insomma. La donazione della famiglia reale, che servì a lanciare la sua carriera di intellettuale, è molto probabilmente un ringraziamento a Voltaire per aver dedicato una delle sue poesie alla futura regina Carolina. «Voltaire arrivò in Inghilterra come un poeta relativamente sconosciuto, con solo una raccomandazione dell’ambasciatore britannico a Parigi e farsi dunque le amicizie aristocratiche che si fece dimostra come fosse un brillante arrampicatore sociale», ha detto Cronk.

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Se Castellucci dice il vero, le proteste contro la pièce non hanno senso

Offensivo o non offensivo lo spettacolo teatrale di Romeo Castellucci, “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, che si terrà al Teatro Parenti di Milano dal 24 al 28 gennaio prossimi? L’opera non appare immediatamente cristiano-fobica, come ad esempio lo è Piss Christ per intenderci, cioè il crocifisso immerso nel piscio di Andres Serrano. Ci sono soltanto alcune scene finali che rientrano al centro dell’attenzione: seguendo le parole di Massimo Introvigne, lo spettacolo parla della decadenza del corpo umano, messa in scena attraverso l’incontinenza di un padre che non riesce a trattenere le proprie feci, di cui la scena si riempie continuamente, accudito con pazienza da un figlio. Sullo sfondo, un grande volto di Cristo tratto dal noto dipinto di Antonello da Messina. Nella versione dello spettacolo presentata al Festival di Avignone,  alcuni ragazzini lanciano finte granate contro il dipinto: il regista ha assicurato che questa scena sarà esclusa dalla versione di Milano per questioni logistiche (non per autocensura). Ha comunque spiegato il motivo della presenza di questa scena quando le condizioni tecniche lo permettono.

Nell’ultima scena, il volto del Cristo è coperto da un liquido nero. Qui nascono le incomprensioni: il regista dice: «E tutto l’inchiostro delle Sacre Scritture qui pare sciogliersi di colpo, rivelando un’icona ulteriore: un luogo vuoto fatto per noi, che ci interroga come una domanda. Devo denunciare qui le intollerabili menzogne circa il fatto che si getterebbero feci sul ritratto di Gesù. Che idea. Niente di più falso, di cattivo, di tendenzioso. Chi afferma queste cose gravissime risponderà alla propria coscienza di avere offeso – lui sì – con questa immagine rivoltante il volto di Gesù». I critici sostengono che si voglia invece rappresentare proprio il liquame di escrementi e che in alcune rappresentazioni questo sia accompagnato da effetti olfattivi. Se fosse vero quest’ultimo particolare, il regista mentirebbe e le proteste sarebbero legittime. Ma è vero? Oppure gli effetti olfattivi vengono diffusi solo durante lo spettacolo, nella vicenda tra il padre incontinente e il figlio? Nessuno lo chiarisce. Dopo la scena del liquido, appare la scritta in inglese «You are my shepherd» (“Tu sei il mio pastore”), con un «not» in caratteri più scuri che è insieme presente e assente, così che in ogni momento la scritta può anche essere letta come «Tu non sei il mio pastore». Antonio Socci, ha apprezzato molto la pièce di Castellucci, ed ha interpretato così questa parte dello spettacolo: «Ma ecco che si può intravedere un’altra piccola parola che si insinua tra le altre, dipinta e quasi inintelligibile: un ‘non’, in modo tale che l’intera frase si possa leggere nel seguente modo: Tu ‘non’ sei il mio pastore. La frase di Davide si trasforma così per un attimo nel dubbio. Tu sei o non sei il mio Pastore?». La fede e il dubbio, quindi. L’ultima dichiarazione in ordine cronologico del regista è questa: «Quest’opera è stata concepita come una preghiera, ed è un lavoro profondamente cristiano. Non ha nulla di blasfemo né di cristianofobo». Ha poi assicurato più volte che non ci sarà nessun lancio di feci e nessuna granata scagliata contro il volto di Cristo: «No, c’e’ il figlio che lava il padre incontinente. Un simbolo tratto dal IV comandamento: onora il padre e la madre. E il figlio lo porta alle estreme conseguenze. Cambiare il pannolone al padre è un atto d’amore, anche se spiacevole».

Lo spettacolo ha avuto un precedente in Francia lo scorso ottobre ed è stato ripetutamente contestato, anche in modo violento, soprattutto da Civitas, un gruppo nazionalista legato agli scismatici lefebvriani. La Chiesa francese ha invece partecipato con moderazione, in particolare l’arcivescovo di Parigi Vingt-Trois ha detto: «Comprendiamo il turbamento di molti davanti ad opere difficili da interpretare», tuttavia questo «non deve e non può trasformarsi in violenza verbale, e ancor meno fisica». Il sociologo delle religioni Jean-Louis Schlegel, documentando i fatti di Parigi, ha sostenuto che «il numero di contestatori di una pretesa “cristianofobia” è stato molto debole: fra 500 e 2.000 manifestanti, piuttosto giovani, a Parigi, Rennes e Tolosa non rappresentano granché». Per l’intellettuale, al di là dei tentativi forse pelosi di gonfiare la portata delle “minacce” contro la libertà d’espressione, la Francia ha assistito soprattutto ad escandescenze isolate firmate dal ramo maurrassiano del «pianeta tradizionalista-integralista». Nemmeno in Francia c’è stato il lancio di granate da parte dei bambini, spiega il teologo P. Hubert Thierry. Non parla invece del liquido nero che copre il Volto, e se questo venisse accompagnato da effetti olfattivi a simboleggiare le feci.

La maggiore responsabilità di questa confusione è del solito potere mediatico, intenzionato a creare continuamente tensioni e favorire incomprensioni. Ognuno sfrutta qualsiasi vicenda per la propria ideologia. Il Giornale” utilizza l’argomento blasfemia per dare addosso a Boeri, assessore alla cultura del comune di Milano, militante nel partito opposto. “Repubblica” ama mistificare continuamente i fatti: la Segreteria di Stato del Vaticano, rispondendo a padre Giovanni Cavalcoli che segnalava l’esistenza «di uno spettacolo blasfemo», ha risposto: «Reverendo Padre, Ella ha voluto esprimere sentimenti di devozione al Sommo Pontefice, segnalando un’opera teatrale attualmente rappresentata in Italia che risulta offensiva nei confronti del Signore Nostro Gesù Cristo e dei cristiani». E ancora: «Sua Santità ringrazia vivamente per questo segno di spirituale vicinanza e, mentre auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i Santi e simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della Comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi Pastori». “Repubblica” ha pensato di titolare: «Il Vaticano: fermate la pièce su Gesù». Il “Corriere della Sera” ha invece voluto dare la parola a Umberto Veronesi, al quale non sembrava vero di avere a disposizione un’occasione così ghiotta per fare del proselitismo e mostrare la superiorità del laicista: «In quanto non credente mi sono sempre pronunciato a favore della tolleranza, che diventa sempre più necessaria in una società multietnica e multiconfessionale». Pur di crogiolarsi con l’equazione laico=tollerante, si è pure finto estimatore della religione e del cardinale Scola. In via Solferino è passato poi l’ordine di dipingere ogni critico come “fondamentalista” o “integralista”, ogni articolo sul tema riporta infatti questi aggettivi per descrivere con violenza coloro che si oppongono allo spettacolo. Da segnalare l’intervento critico del vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Luigi Negri e dello scrittore Francesco Agnoli. Entrambe posizioni sacrosante e condivisibili, ma assumono il fatto che vi siano lanci di escrementi durante la pièce teatrale, quando invece è stato assicurato dal regista che non ci sarà nulla del genere. Vale anche la pena leggere l’intervento di Giuseppe Frangi, presidente dell’Associazione Giovanni Testori.

Alla luce di queste considerazioni, l’opera non appare blasfema o offensiva verso la sensibilità religiosa. Castellucci ha proposto alcune scene sicuramente controverse e provocatorie, da approfondire e valutare. Ma criticare e giudicare un’opera del genere senza averla prima vista, non è molto corretto e saggio. Il regista ha assicurato pubblicamente che le scene finali non corrispondono a quelle che hanno in mente i critici: nessun lancio di granate e nessun liquame sul volto di Cristo, solo inchiostro senza puzzo di escrementi. Ci sarà invece la scritta, che però non pare avere nulla di offensivo (anzi, Socci -come scrivevamo- ne ha dato un’interpretazione molto profonda, all’interno di un articolo che abbiamo trovato tra i più sensati finora pubblicati sul tema). Se le cose stanno davvero così (questa è la condicio sine qua non), riteniamo che le proteste abbiano davvero poco senso di esistere. Sicuramente è comprensibile e condivisibile l’insofferenza dei cattolici per la continua irrisione del cristianesimo da parte di laicisti frustrati che dissacrano quello che più invidiano nei credenti, ma questo spettacolo non sembra essere tra quelli. «Un malinteso spaventoso», dice Castellucci. E questo pensiamo anche a noi.

 
AGGIORNAMENTO 23/01/12
Francesco Agnoli ha pubblicato un articolo dove inserisce un link in cui nel 2010 Castellucci effettivamente parlava di merda sul volto di Dio. Durante la conferenza stampa del 22/01/12 ha invece negato che nella versione milanese vi sia qualcosa del genere, presentando tuttavia un’idea di cristianesimo debole e confuso, ma comunque, naturalmente, legittimo. Davvero stucchevole il suo voler apparire a tutti costi una vittima della società (prima parte, seconda parte).

 
AGGIORNAMENTO 25/01/12
Andrea Tornielli ha intervistato uno spettatore la cui sensazione, al di là degli scritti di Romeo Castellucci, è stata che i liquami che inondano il palco durante lo spettacolo alla fine ricoprano anche il volto di Cristo sullo sfondo. Nessun “lancio” di ma il liquido-liquame finale sì. Castellucci insiste a dire che è solo inchiostro.

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Incredibile ingiustizia: tenta il suicidio ma il macchinista del metrò frena in tempo

Un’incredibile ingiustizia è avvenuta a Milano il 20 gennaio 2011: una persona ha tentato il suicidio gettandosi sotto un treno della metropolitana ma quell’oscurantista intollerante del conducente ha avuto l’arroganza di frenare ed evitare così il compimento della volontà dell’aspirante suicida. Dev’essere stato un integralista religioso! Mario Staderini e il partito radicale non sembrano ancora sul piede di guerra per far incriminare il macchinista, reo di non aver voluto rispettare la volontà di un uomo che ha deciso liberamente e volontariamente di uccidersi. Uno sporco e vile obiettore di coscienza, direbbe disgustato Stefano Rodotà.

Il “Corriere della Sera” ieri celebrava il suicidio di Lucio Magri e di Monicelli, mentre oggi nel riportare questa notizia parla di lucidità del conducente nel «frenare miracolosamente in tempo».  E ancora continua: «Grazie alla prontezza del conducente del treno in arrivo la tragedia è stata evitata». Il suicida dunque non è più un eroe da elogiare, ma chi si è rifiutato al suo suicidio ad essere oggi celebrato. Eppure si è opposto con forza al così tanto decantato diritto di morire di una persona. Alla sua (presunta) autodeterminazione. Con quale autorità, chiederebbe Peppo Englaro?

Si legge anche preoccupazione sul fatto che il suicida non sia in pericolo di vita.  Ma come? Non voleva mica uccidersi? E ora lo si porta in ospedale assicurandosi che non sia ferito gravemente? Quante contraddizioni in questa cultura pro-death!

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