Consiglio d’Europa: l’eutanasia deve essere sempre proibita


di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Con la risoluzione n. 1859/2012 del 25 gennaio, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, cioè dell’organizzazione intergovernativa che raggruppa 47 paesi per la tutela, la promozione e la salvaguardia della democrazia e dei diritti dell’uomo, ha così sancito: «L’eutanasia, nel senso di uccisione intenzionale di un essere umano, per il suo presunto beneficio, mediante azione od omissione, deve sempre essere proibita» ( punto 5 ). La risoluzione tende a precisare la portata della propria stessa finalità ( punto 6 ), cioè assicurare il progresso nella tutela dei diritti umani su tutto il territorio del continente europeo.

La risoluzione del resto si richiama espressamente alla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la bio-medicina, con ciò riferendosi al primato della persona e della sua dignità su ogni altro interesse sociale, scientifico, economico. La persona umana e la sua dignità vengono anteposte ad ogni altra considerazione così che l’eutanasia non può essere giustificata, come si evince dalla chiarezza del brano riportato all’inizio, nemmeno per il presunto beneficio del soggetto a cui si dovrebbe somministrare, nemmeno se l’avesse chiesta esplicitamente. La risoluzione, infatti, richiama gli obblighi professionali ed etici del medico, il quale deve intervenire nel rispetto della persona così come delineato dalla Convenzione di Oviedo.

Del resto il medico, così come è specificato dalla natura della sua prestazione e dalle fondamenta ippocratiche della stessa, non può adoperarsi per elargire la morte, ma sempre per salvaguardare la vita, prendendosi cura dei propri pazienti e rispettando la propria e l’altrui umanità. L’eutanasia, infatti, tutto è tranne che un atto di libertà e di rispetto della dignità umana. E’ contraria alla libertà poiché pone in antitesi la vita che è il diritto basilare per ogni altro con la libertà che è il diritto che la vita stessa presuppone, ben potendosi avere una vita, un’esistenza non libera, ma giammai una libertà priva di vita. E’ contraria alla dignità dell’essere uomini poiché scardina il principio di intangibilità ( e non sacralità ) della vita umana, così come, tra i tanti, acutamente delineato da un razionale illuminista quale è stato Kant, per il quale l’umanità dell’uomo, del prossimo come quella di se stessi, deve essere sempre un fine e mai un mezzo. Con l’eutanasia, infatti, l’umanità del medico viene coartata per la soddisfazione delle proprie impellenze tanatologiche; la propria dignità, cioè di colui cioè richiede l’atto eutanasico, viene invece piegata alla volontà assoluta del proprio dominio, cadendo nel paradosso suicidiario, quello per cui viene affermata l’esistenza di un presunto diritto ( quello ad uccidersi o a richiedere la propria uccisione ) che in quanto tale è le diretta negazione del diritto stesso, poiché è abdicazione di quella relazionalità umana che si costituisce come unica dimensione fondativa e di senso dell’orizzonte giuridico, tanto del diritto quanto della giustizia.

Non è allora un caso che la risoluzione del Consiglio d’Europa si concluda stabilendo che « in case of doubt, the decision must always be pro-life and the prolongation of life ». Da questo punto in poi, dunque, gli Stati europei saranno tenuti a considerare l’eutanasia ed il suicidio assistito per ciò che sono, cioè non già l’affermazione della tutela della dignità e dei diritti umani, ma la loro più subdola negazione, poiché dietro la facciata umile della pietà celano la crudeltà. Del resto Minosse ammonì Dante: «Non t’inganni l’ampiezza de l’intrare», cioè, le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni, o di soluzioni più facili, di scorciatoie, come ammonisce Mt. 7,13: «Spatiosa est via quae ducit ad perditionem». Si spera allora che questo sia il primo passo per frenare l’ondata di proposte legislative sulla legalizzazione dell’eutanasia che sta dilagando tra tutti i legislatori europei, e che, ancor di più, possa rappresentare il momento di ripensamento della sua depenalizzazione per quei Paesi ( Belgio, Olanda e Svizzera ) che hanno già intrapreso questa sciagurata ed antigiuridica via.

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Don Roberto, da tossico lontano da Dio a sacerdote vicino agli ultimi

Nel giugno scorso ci siamo occupati di John Pridmore, ex criminale londinese le cui uniche certezze erano la stupidità della polizia e l’inesistenza di Dio. Oggi è cattolico e dedica il suo tempo ad aiutare bambini in difficoltà. In questi giorni su  Oksalute (ripresa stranamente anche da “Il Corriere della Sera”), è comparsa la testimonianza di un’altra conversione sui generis. E’ quella di don Roberto Dichiera, ex tossicodipendente.

Il sacerdote descrive la sua adolescenza spericolata e disperata: «a 12 anni le prime sigarette, per sentirmi grande e per il gusto del proibito. Poi i superalcolici e le canne, a 14 anni erano già un’abitudine. Ero in cerca di sensazioni forti, cercavo la trasgressione e pensavo solo a divertirmi. Non avevo ideali, ambizioni. Dopo le medie ho chiuso con la scuola e mi sono arrangiato con piccoli lavoretti. Aspettavo con ansia il fine settimana per andare in giro a sballarmi. Frequentando i rave-party e le discoteche più eccessive ho iniziato a farmi di altro, gli spinelli non mi bastavano più. Mi sono messo anche a spacciare: ero il punto di riferimento di tanti ragazzi che, come me, cercavano una dose effimera di felicità, lo stordimento, una scarica di emozioni fasulle. Ho provato di tutto: ecstasy, acidi, cocaina, perfino il popper, un solvente che si inala. Mi sentivo forte, padrone del mondo […] sapevo di essere diventato dipendente, ma avevo la consapevolezza (sbagliata) di poter controllare il consumo e non avevo nessuna intenzione di smettere».

Nessuna intenzione di smettere, nonostante «sono stato male diverse volte […]. In alcune occasioni ho perso momentaneamente la vista, non riuscivo a distinguere più niente, vedevo solo rosso. Ho avuto allucinazioni tremende, ho vomitato spesso per intossicazione. Una ragazza a cui avevo ceduto degli acidi ha rischiato di morire: me la sono ritrovata per terra, collassata, col volto cianotico. L’ho soccorsa, è vero, ma niente mi scuoteva, rimanevo un incosciente e un menefreghista. Volevo continuare a sentirmi euforico e riempire quel vuoto che mi attanagliava». Tutto si fa per riempire quel vuoto, così descritto bene dai più grandi pensatori della storia. O lo si riempie oppure lo si elimina illudendosi di distrarsi da esso. Per lo meno don Roberto cercò -seppur disperatamente– di colmarlo in tutti i modi, senza successo.

Dopo il militare, in cui ha continuato l’attività con la compiacenza dei commilitoni, la svolta: «In treno, durante un permesso, ho incontrato Manuela. Volevo coinvolgerla nella mia vita di eccessi, ma è stata lei che ha avuto la meglio e mi ha riportato sulla retta via. Per un po’ ho continuato a drogarmi, e a 21 anni ho anche avuto paura, seriamente. Avvertivo dei brividi fortissimi in testa, come scariche elettriche. Per la prima volta mi sono reso conto che l’uso di sostanze rischiava di bruciarmi il cervello. L’amore di Manuela, la sua fede, hanno lentamente fatto breccia dentro di me. Non mi ero mai innamorato, avevo molte compagne, una marea di rapporti occasionali. Lontanissimo dalla chiesa e dalla preghiera, ho iniziato ad accompagnarla a messa, solo per compiacerla, senza alcun interesse. E dire che bestemmiavo in continuazione e disprezzavo i preti». Nel giro di un anno le cose sono cambiate, «ho cominciato a pregare, a riavvicinarmi a Dio. Ho scoperto una forza di volontà che non pensavo di avere e ho smesso di assumere sostanze». Quel “vuoto” dell’animo, evidentemente cominciava ad essere per la prima volta davvero “riempito”.

Ma non finisce qui: «A 22 anni la vocazione, leggendo il Vangelo: il calore di un abbraccio paterno e una luce piena d’amore. Ho sperimentato una pienezza di gioia traboccante, di contro al paradiso artificiale prodotto dalla droga, e ho scelto di dedicare la mia vita al Signore, come prete di strada. L’incontro con la Comunità Nuovi Orizzonti è stato l’occasione per mettermi a servizio degli ultimi, di testimoniare la gioia autentica, di coinvolgere i giovani, proponendo loro un modo nuovo di intendere la vita. Lontano dall’autodistruzione, in cerca della vera libertà».

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Sondaggio USA: maggioranza americani crede nell’importanza del matrimonio

Secondo Rasmussen Report, una delle più importanti società americane specializzate in sondaggi d’opinione pubblica, la maggior parte degli americani ritiene che per i bambini sia meglio crescere in casa con due genitori e che il matrimonio sia importante per la società statunitense.

È quanto emerge da un sondaggio telefonico condotto a livello nazionale, in cui il 78% degli intervistati ha risposto di reputare il matrimonio quantomeno “abbastanza importante” per la cultura americana, e il 60% di questi dice di sentire l’istituto del matrimonio come qualcosa di “molto importante“; soltanto il 17% degli americani dice di non credere al matrimonio come “istituzione molto importante”, mentre addirittura solo il 3% lo reputa “per niente importante“. Il sondaggio ha inoltre messo in evidenza come il 95% degli intervistati ritenga che sia almeno “abbastanza importante” per i bambini crescere in una casa con entrambi i genitori e, di questo 95%, ben il 73% pensa che avere due genitori sia “molto importante” per bambini.

Questi risultati arrivano proprio poche settimane dopo che il sociologo e direttore del National Marriage Project, Dr. W. Bradford Wilcox, a proposito di un sondaggio che indica che solo il 51% degli americani è attualmente sposato, ha affermato che, statisticamente parlando, le coppie sposate sono quelle più felici e che i bambini che vengono cresciuti da due genitori hanno meno probabilità di essere depressi o di fare uso di droghe.

Raffaele Marmo

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Luca Cavalli Sforza scivola sul riduzionismo: «sola la scienza ha consistenza»

 

di Enzo Pennetta*
*biologo

 

Secondo il famoso genetista evoluzionista Luca Cavalli Sforza «gli unici discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza». Questo è quanto egli  ha dichiarato il 25 gennaio scorso in un’intervista rilasciata al quotidiano “la Repubblica” in occasione del proprio novantesimo compleanno.

 E così, migliaia di anni di storia e di cultura sono spazzati via: l’umanità degli eroi omerici, la tragedia greca, il diritto romano, lo slancio religioso del monachesimo, l’arte rinascimentale, la poetica dantesca, leopardiana e manzoniana, la teologia, la filosofia classica, teoretica e analitica ecc… sono tutti argomenti “privi di consistenza”.

L’ultimo grande evento curato dal prof. Luca Cavalli Sforza è stato la mostra Homo Sapiens,” tuttora in corso presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, una mostra il cui sottotitolo è “La grande storia della diversità umana.” Un sottotitolo che rivela l’intenzione di spiegare le differenze tra gli uomini e quelle tra l’essere umano e le altre specie, intento specificato sullo stesso sito della mostra: “Questa Mostra, curata da Luigi Luca Cavalli Sforza stesso e da Telmo Pievani, filosofo della scienza ed esperto di evoluzione, racconta da dove veniamo e come siamo riusciti, di espansione in espansione, a popolare l’intero pianeta, costruendo il caleidoscopico mosaico della diversità umana attuale”. Ma come è possibile che comprenda la “storia della diversità umana” qualcuno che afferma che  “gli unici discorsi che val la pena affrontare sono quelli scientifici, gli altri sono privi di consistenza”? Al massimo con un approccio di questo tipo si potranno affrontare gli aspetti strettamente biologici della specie umana primitiva: cosa mangiavano; quanto erano alti; quale era l’età media; erano più o meno pelosi…? Ma null’altro. Per Luca Cavalli Sforza non c’è nient’altro di cui valga la pena parlare.

Ma poi Cavalli Sforza si lancia in una serie di affermazioni sull’uomo che non si sa con quale metodo scientifico possano essere ottenute: “Si muovevano (un milione di anni fa n.d.r.) sapendo di imbattersi talvolta  in gruppi ostili, che potevano rappresentare una limitazione importante agli spostamenti. Ma al tempo stesso esistevano ampie zone abitate da gente pacifica”. E inoltre non si sa quale metodo scientifico possa permettere di giungere ad affermazioni che non siano almeno dubitative (agnostiche) nei confronti della morte e della spiritualità: “L’aldilà è un’invenzione intelligente e niente più. Il cristianesimo gli ha dato una forma compiuta”. Ed ecco che infine, questa presunta inconsistenza degli argomenti non scientifici, porta alla coerente presa di posizione sul contenuto di un testo come la Bibbia: “Ho il massimo rispetto e considerazione per quel testo. Ma come membro della specie umana posso affermare che la sua narrazione dice ben poco sulle nostre origini. Anzi non dice un accidente di niente”. Ci permettiamo di dissentire con Luca Cavalli Sforza: la Bibbia, anche nel caso in cui fosse considerata solo come un’opera letteraria, sulle origini e sulla natura dell’uomo avrebbe da dire molto di più della mostra su “Homo sapiens” al Palazzo delle Esposizioni. Così come sull’Uomo hanno da dire molto di più anche i miti greci e la letteratura di ogni epoca. E forse non è mai troppo tardi per interessarsi alla letteratura, cosa che come lui stesso afferma nell’articolo non ama fare: “Non sono assolutamente bravo a leggere i romanzi. Preferisco le storie vere. Meglio i giornali”. 

Le parole di L.C. Sforza vanno in definitiva a rafforzare la consapevolezza che un approccio riduzionista alla conoscenza dell’Uomo non può che essere non solo incompleto, ma profondamente fuorviante, e che sentiamo di dover guardare con diffidenza ad affermazioni analoghe, come quelle del paleontologo George Gaylord Simpson fatte proprie dall’ateologo Richard Dawkins“…la vita ha un significato? Che cosa ci stiamo a fare al mondo? Che cos’è l’uomo? Dopo aver posto quest’ultima domanda, l’eminente zoologo G.G. Simpson così scrisse: ‘La mia opinione è che tutti i tentativi di rispondere a questa domanda compiuti prima del 1859 sono totalmente privi di valore e che faremmo meglio a ignorarli completamente’.” (R. Dawkins, “Il gene egoista”, Oscar Monadadori, pag. 3).

Ma come dicevamo le cose non stanno così, se vogliamo davvero conoscere cosa è l’Uomo, faremmo bene ad ascoltare le risposte scaturite anche prima di quella data e non soltanto quelle scientifiche. Anche perché, come ha suggerito Albert Einstein “La scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici […]. La scienza può solo accertare ciò che è, ma non ciò che dovrebbe essere, ed al di fuori del suo ambito restano necessari i giudizi di valore di ogni genere” (A. Einstein, “Pensieri degli anni difficili”, Boringhieri 1965)

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La Nixon afferma: «ho scelto io l’omosessualità», ma questo non si può dire!

Cynthia Nixon ha imparato sulla sua pelle cosa voglia dire la furia della lobby omosessualista. L’attrice, nota per aver recitato nella serie “Sex and the city”, è stata travolta in una grossa polemica dal “New York Times”, che ha pubblicato una sua dichiarazione in cui spiegava che per lei essere omosessuale è stata una scelta consapevole. Oggi, anche se nessuno ha mai trovato un “gene gay”, è proibito dire che l’omosessualità non è determinata geneticamente, pena la gogna mediatica. L’estrema necessità di sostenere questa posizione antiscientifica è stata spiegata bene dall’ex omosessuale Adamo Creato nell’ottobre scorso.

La Nixon è omosessuale da otto anni, ma prima è stata per 15 anni con un uomo da cui ha avuto due figli. E’ abbastanza frequente infatti che un eterosessuale diventi omosessuale (come è stato per Cecchi Paone o Franco Grillini), ma è assolutamente proibito dire che possa esistere qualcuno che da omosessuale diventi (ritorni, meglio) eterosessuale. Questo è il secondo divieto, ma la Nixon non lo ha rispettato e ha osato dire qualcosa di diverso: «So che per molte persone non è stato così, ma per me è stata effettivamente una scelta». E ancora: «Molte persone sono preoccupate del fatto che l’omosessualità sia vista come una scelta perchè questo vorrebbe dire poter essere o non essere gay a proprio piacimento. Io credo che questo in realtà non sia importante, l’unica cosa fondamentale è che veniamo rispettati e non discriminati». Orrore! Sacrilegio!

Si dice che l’onorevole Paola Concia sia entrata nel panico più completo e abbia cominciato ritualmente e meccanicamente ad accusare Giovanardi di essere un omofobo. Altri attivisti gay, come Wayne Bese, letteralmente terrorizzati dalle conseguenze hanno dichiarato: «Cynthia non ha misurato le sue parole che potrebbero essere usate per guidare e influenzare i giovani omosessuali affinché tornino su quella che da molti viene considerata la retta via». “Tornino?” Un piccolo e significativo lapsus freudiano, forse?

Esistono comunque decine e decine di studi in cui si dimostra la grande responsabilità dei fattori familiari/ambientali nella nascita del comportamento omosessuale in una persona, come questo. D’altra parte, è la stessa American Psychologycal Association, politicamente e ideologicamente “gay-friendly”, a riconoscere che non vi sia alcun consenso sulla genesi dell’omosessualità, esaminando cause genetiche, ormonali, ambientali, sociali e culturali ha concluso che non è determinata da nessuno di questi fattori in modo specifico e predominante. Nel suo libro “When Wish Replaces Thought: Why So Much of What You Believe Is False” (Prometheus Books 1992), il prestigioso sociologo, Steven Goldberg , presidente del Dipartimento di Sociologia al City College di New York, ha scritto un capitolo sulla bufala del “gene gay”, dicendo: «Praticamente tutte le prove che abbiamo sono contro l’argomento che vi sia un determinante fattore fisiologico causale dell’omosessualità e non conosco nessun ricercatore che crede nell’esistenza di un tale fattore […]. Esistono fattori che svolgono un ruolo di predisposizione, non un ruolo determinante […], non conosco nessuno nel campo che sostiene che l’omosessualità possa essere spiegata senza fare riferimento a fattori ambientali».

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La scrittrice Fattorini: l’importanza delle donne e la libertà nel cristianesimo

«È, il suo, un approccio che sembrava controcorrente fino a poco tempo fa ma che ora molti sono costretti a condividere e che però contiene un significato specifico preciso: sarebbe irrealistico prima che immorale, parlare di una nuova cooperazione se essa si limitasse al solo piano economico-materiale». Si riferisce alle parole di Papa Benedetto XVI del 9 Gennaio 2012 in occasione del 50° anniversario del Concilio Vaticano II, in particolare riferimento all’enciclica Gaudium et Spes, la scrittrice Emma Fattorini con il suo articolo comparso su “l’Unità” del 10 Gennaio 2012.

Nell’articolo la scrittrice elogia il messaggio di inizio anno del Papa: «C’è un senso molto unitario, nel suo appello affinché l’umanità trovi le strade di una nuova cooperazione. Unitario in quanto tutti gli aspetti dell’umano si integrano senza scissioni o preferenze tra chi pensa sia più importante l’aspetto economico e chi quello morale. Unitario in quanto una comune umanità implica la difesa materiale dei più poveri e non di meno condanna la selezione prenatale del sesso». Con il medesimo atteggiamento ricollega poi quest’unitarietà al (perenne) invito del Papa ad investire sulle “istituzioni educative”, all’evitare di trascurare l’aspetto “spirituale” scindendolo da quello economico delle opportunità lavorative, ed in questo alla famiglia, intesa come «nucleo di affettività solidale al proprio interno e mai escludente l’esterno. Quello della famiglia» -continua la Fattorini- «è il nodo da cui occorrerà ripartire tutti. Per ridisegnarne il senso, per non appiattirla al familismo egoistico che è la versione più ingannevole di quella degenerazione individualistica così lontana da una vera, matura soggettività libera».

In chiusura invita, poi, la Chiesa a riconoscere le donne come punto dal quale ripartire per parlare di famiglia, in qualità di “ponte tra esperienza materiale e sapienza del cuore”, sottolineando che «nei Paesi più oppressi, quelli nei quali le religioni sono causa principale della soppressione dei diritti, sono proprio le donne a convertirsi in maggior numero al cristianesimo perché trovano lì, nel suo senso di eguaglianza e di giustizia, una superiore occasione di affrancamento e di liberazione». L’articolo si conclude infine così: «Insomma, quello del Papa è stato un discorso rivolto a tutti i Paesi del mondo con l’occhio fisso alla singola persona nella sua unitarietà e interezza. Per ridisegnare un’idea di genere umano nella quale davvero si possano ormai riconoscere credenti e non credenti, tutti gli uomini di buona volontà, indispensabili, per i difficili tempi che ci aspettano».

Eppure la Fattorini, con il suo stesso articolo, sembra volerci ricordare, magari inconsciamente, che insieme “alla singola persona nella sua unitarietà e interezza” c’è bisogno di qualcosa che questa persona sappia educarla a mantenersi “unita ed intera”, qualcosa che dev’essere anch’esso, necessariamente, unito ed intero, aggiungiamo noi. “Il nodo da cui occorrerà ripartire tutti” è la famiglia, che si fa a partire dalle donne, e nei tempi più recenti abbiamo potuto chiaramente notare quanto sia pericoloso perdere di vista questo principio: proprio il Papa, nello stesso discorso del 9 Gennaio, ha nuovamente affermato che «le politiche lesive della famiglia minacciano la dignità umana e il futuro stesso dell’umanità»

Michele Silvi

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«Dawkins ha incattivito l’ateismo», ora i non credenti moderati si ribellano

Lo scrittore Alain de Botton è un tipo strano. Forzato all’ateismo dai suoi genitori, oggi è un “cristiano non credente”. Decisamente critico verso una società laicista, ha preso una strana iniziativa: erigere un “tempio per gli atei” da 1,5 milioni di dollari nel cuore di Londra,  tra le banche internazionali e le guglie delle chiese medievali, con tanto di torre alta 46 metri per raggiungere un cielo senza Dio, come pensa lui.

Ma da dove nasce quest’idea? Vuole forse essere una ennesima provocazione al cristianesimo? Assolutamente no, il suo desiderio è quello di combattere l’ateismo aggressivo di Richard Dawkins e delle associazioni umaniste (razionaliste, diremmo in Italia). Vuole infatti celebrare un “nuovo ateismo”, come un antidoto «all’aggressivo e distruttivo approccio di Dawkins alla miscredenza». L’iniziativa appare bislacca nel contenuto, ma l’intenzione è davvero ottima: era ora che i non credenti moderati si ribellassero alla violenza fondamentalista dei “New Atheist”. Spiega de Botton su “The Guardian”: «Questo tempio è dedicato all’amore, l’amicizia, alla calma. A causa di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, l’ateismo è diventato noto solo come una forza distruttiva. Ma ci sono un sacco di persone che non credono, ma non sono aggressive verso le religioni».

Ovviamente l’ex zoologo Dawkins è andato su tutte le furie, anche perché si sa che il fuoco amico è quello più doloroso. Egli ha criticato il progetto, dicendo che il denaro è stato speso male e un “tempio all’ateismo” è una contraddizione di termini. Chissà cosa ne direbbe allora del “Tempio laico” costruito a Genova dal sindaco Marta Vincenzi… Dawkins ha detto: «Gli atei non hanno bisogno di templi. Penso che ci siano cose migliori in cui spendere queste somme di denaro. Se si ha l’intenzione di spendere soldi per l’ateismo, si potrebbe migliorare l’istruzione laica e non religiosa, costruire scuole che insegnano il pensiero razionale, scettico o critico». Insomma, puntare sull’indottrinamento.

De Botton ha trovato parte dei soldi da un gruppo di promotori immobiliari che vogliono mantenere l’anonimato e conta di far iniziare i lavori entro la fine del 2013. Anche la British Humanist Society ha criticato l’iniziativa, mentre il Rev. George Pitcher, un prete anglicano di St Bride ed ex consigliere dell”arcivescovo di Canterbury si è “rallegrato” dell’idea: «Esprime un senso di trascendenza umana, c’è qualcosa di più della nostra esistenza viscerale», ha detto. Apprezza «un monumento che riconosce che siamo qualcosa di più della polvere. Questo è un ateismo più costruttivo di quello di Dawkins, che è la distruzione delle idee piuttosto che contribuire a crearne di nuove». 

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Perché una mamma e un papà sono indispensabili per ogni bimbo

La docente di psicologia sociale e psicologia dell’adozione, dell’affido e dell’enrichment familiare, Raffaella Iafrate, assieme allo psicologo Giancarlo Tamanza, hanno scritto un interessante articolo per «Vita e Pensiero», bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ripreso integralmente da “La Bussola Quotidiana”Si sono soffermati in particolare sull‘importanza dell’avere entrambi i genitori, di sesso opposto. Dovrebbe essere una cosa normale e condivisa, eppure -dicono- «in un clima di individualismo e di relativismo, anche tale tema è ampiamente messo in questione». In particolare, la «forte instabilità coniugale, con conseguente diffusione di famiglie monogenitoriali, l’esperienza della genitorialità sempre più vissuta come una scelta e un diritto individuale, la diffusione di forme familiari alternative e il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali mettono in discussione l’affermazione da sempre condivisa secondo la quale “un bambino per crescere ha bisogno di un papà e di una mamma”».

Si chiedono allora: perché due genitori? E perché diversi?
Innanzitutto, occorre osservare che «tutta la letteratura psicologica metta da sempre in evidenza il ruolo differenziale delle due figure genitoriali, mostrando come madri e padri giochino ruoli e funzioni diversi e complementari nell’educazione dei figli e nella trasmissione di competenze e valori». Per crescere, «un individuo ha bisogno di fare esperienza della differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e imparare dall’altro, la non omologabilità delle funzioni del maschile e del femminile appare decisiva».  E’ necessaria una «compresenza di un “codice affettivo materno”, improntato alla cura, alla protezione e all’accoglienza incondizionata e di un “codice etico paterno”, espresso dalla responsabilità, dalla norma, dalla spinta emancipativa», fondamentali «per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale». Infiniti sono gli studio in cui si sottolinea l’importanza del legame di attaccamento con la madre, così come, «soprattutto negli studi più recenti, è stata enfatizzata la centralità della funzione paterna man mano che il figlio cresce». Numerosi gli studi che attestano anche come «in situazioni familiari peculiari caratterizzate dall’assenza di un genitore, o dalla carenza di una delle due funzioni genitoriali (specie con l’impallidimento della figura paterna, tipico del nostro contesto fondamentalmente “matrifocale”) si possano riscontrare non poche difficoltà, anche a lungo termine, per i figli».

I due psicologi mettono le mai avanti descrivono tre possibili obiezioni:
1)  L’esperienza positiva di numerose famiglie in cui è venuta a mancare una figura genitoriale testimonia che, pur nella fatica, i figli possono crescere sani e sereni anche con la sola madre o il solo padre.
2) La funzione “differenziante” può essere assunta anche da altre figure di riferimento, nonni, amici, reti di sostegno esterne, così come l’esercizio delle funzioni educative può essere condiviso con altri che non siano l’altro genitore.
3) Le funzioni materna e paterna sono sempre più spesso interscambiabili: madri che esercitano alcuni aspetti della funzione paterna e viceversa padri che svolgono parte della funzione materna.

Per rispondere a queste obiezioni, occorre però capovolgere la prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio, dato che «le differenze di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica». Solo allora ci si rende conto che «il figlio è sempre generato da due, e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi familiari, da due storie intergenerazionali e sociali. La differenza (di genere, di stirpe, di storia) non solo consente la procreazione, ma permette anche che nel tempo il figlio diventi a propria volta generativo da più punti di vista». Così come nasce da due “diversi”, così «il figlio, per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato e che consentirà di inserirsi in una storia intergenerazionale e sociale» che «gli permetterà di realizzare pienamente se stesso e la sua umanità»Senza un’origine non c’è identità, tengono a precisare, e l’origine «non può che riguardare sia una madre sia un padre». La donna mette al mondo, ma non genera da sola: «perché il processo della nascita sia compiuto occorre spostarsi da un piano puramente biologico a uno simbolico-sociale che il riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di introdurre». È fondamentale che, anche nella crescita, «nella relazione madre-figlio/a ci sia il riferimento a un terzo, il padre appunto. È il padre che istituisce la differenza/ differenziazione dall’originaria simbiosi con la madre (come ha sempre affermato la psicoanalisi) e, nominandolo, “taglia”, “separa” “de-finisce” il figlio sottraendolo dallo stato di onnipotenza e introducendo il senso del limite e contemporaneamente il senso e la direzione della sua crescita, favorendo così la sua piena umanizzazione».

Le ricerche sociologiche e psicosociali hanno da tempo messo in evidenza alcuni caratteri tipici della genitorialità contemporanea, che deriva poi da una mutazione culturale che a sua volta ha trasformato la strutturazione dell’identità personale, «segnata da un’accresciuta e ormai prevalente centratura sulla ricerca dell’affermazione individualistica del Sé e sulla prevalenza di istanze narcisistiche che inducono a una ricerca immediata e superficiale della soddisfazione personale». Questo ha due ripercussioni gravi sulle forme della genitorialità:
1) Figlio perfetto: ovvero l’accesso alla genitorialità risulta essere sempre più contrassegnato «da tratti di intensa idealizzazione e da elevatissime aspettative di conferma del proprio valore personale, tanto da rendere poco tollerabile e riconoscibile l’irriducibile scarto che l’unicità della realtà personale del figlio porta con sé». In parole semplici, «è sempre più diffuso il bisogno che il figlio sia conforme non solo all’immagine del “figlio desiderato”, ma che esso sostenga e confermi il senso che il diventare genitori assume nell’economia psichica del padre e della madre». Questo porta al voler vedere legittimato il “diritto alla genitorialità”, «inteso non più come possibilità o disponibilità dell’adulto ad accogliere un figlio, ma come opzione del tutto incondizionata e soggetta unicamente alla libera scelta dell’adulto». Questo, al posto che produrre un rafforzamento della posizione del genitore rispetto al figlio, «comporta in realtà anche un suo indebolimento, nel senso che amplifica gli aspetti di dipendenza del genitore nei confronti del figlio e riduce la sua capacità di porsi come guida autorevole, capace di tollerare le inevitabili frustrazioni e i conflitti che l’emergere dell’autentica e originaria realtà del figlio produce».
2)  Qualità dei legami:  essi sono «meno riconosciuti nella loro valenza di significazione e di vincolo, poiché ciò è avvertito come un ostacolo o un limite all’affermazione delle proprie istanze individuali», si nota un rafforzamento di «una visione sostanzialmente riduzionistica della realtà genitoriale, laddove continua ad attribuire un rilievo pressoché esclusivo al determinismo intrapsichico o, al più, al “modellamento” determinatosi nell’originaria interazione diadica con le figure di attaccamento». Invece, spiegano i due ricercatori, la genitorialità non può che «dispiegarsi in un “gioco a tre” e il fondamento dell’identità del figlio, in quanto figlio, non può che risolversi in un’unica e specifica collocazione spazio-temporale, cioè in un posto specifico all’interno della storia e della geografia familiare», in altre parole: «potersi misurare mentalmente con due genitori, nella loro essenziale unicità, e soprattutto potersi identificare e riconoscere nel legame, come elemento “terzo”, eccedente gli individui, è una condizione necessaria per parametrarsi in modo congruo e realistico con le proprie coordinate di origine», per dare «un fondamento reale e non immaginario alla propria identità».

Gli psicologici concludono sostenendo che a fronte di una cultura spesso spaventata dai limiti e dal rifiuto della differenza, centrata su valori individualistici e poco interessata a dare senso e a indicare obiettivi alle esperienze di vita delle persone, «la famiglia, con le sue categorie di paternità, maternità, filiazione, propone dunque la sua sfida presentandosi come il luogo per eccellenza dell’incontro-relazione tra le differenze fondative dell’umano (quelle tra genere, generazione e stirpi) e dunque orientato a un fine generativo, com’è propria dell’incontro tra differenze, sia sul piano biologico, sia su quello culturale». Per questo «la necessità di riconoscersi in un padre e in una madre è un’istanza originaria dell’umano e, al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, il diritto inalienabile di chi è figlio, ciò che non può essere censurato e che pretende di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica alla propria origine, il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre lo definirà come persona pienamente umana».

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Gli autori dei Vangeli sono attendibili?


di Marco Fasol*
*docente di storia e filosofia

 

Nel mio ultimo articolo ho esposto alcune ragioni sul perché i Vangeli possono essere ritenuti un’opera di grande attendibilità storica. Ora ci occupiamo dei loro autori: un criterio importante per dimostrare l’attendibilità degli evangelisti ci viene dato dalla filologia. L’analisi linguistica rivela infatti  che i vangeli canonici, anche se scritti in greco, hanno numerosi termini, frasi e costruzioni di derivazione ebraica o aramaica, le lingue parlate da Gesù. L’aramaico era il dialetto parlato, l’ebraico, molto simile, era la lingua scritta.

Gli autori dei vangeli dovevano essere proprio testimoni diretti dei suoi discorsi, delle sue frasi tipiche, perché i testi conservano alla lettera questo originalissimo stile aramaico. Jean Carmignac ha così riassunto la sua esperienza di filologo, specializzatosi per trent’anni nell’ebraico di Qumram:  “Vidi che il traduttore ebreo-greco (del vangelo di Marco) aveva trasportato parola per parola conservando in greco l’ordine delle parole voluto dalla grammatica ebraica… L’anima invisibile era semitica, ma il corpo visibile era greco”. E’ ormai unanime tra gli studiosi il consenso su questo sottofondo semitico, dopo gli studi di J. Jeremias, J. Dunn, J. P. Meyer.

 
Alcuni esempi dimostrano che gli autori parlavano proprio la stessa madrelingua di Gesù e ci hanno conservato le originali creazioni linguistiche del maestro:

a)   Il testo greco mantiene numerose parole aramaiche, non tradotte: amèn = in verità, almeno 50 volte.  Abbà = papà”, unicum in tutta la letteratura rabbinica. Nessuno aveva mai osato esprimersi con questo vocativo in una preghiera rivolta a Dio. Osanna (salvaci), sabbath (sabato), talita qumi (“ragazza, alzati”) effatà (apriti), Eloì, Eloì lammà sabactani (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) , mammona (denaro) raka (stolto),… sono 26 le parole aramaiche nei Vangeli (Joachim Jeremias), senza contare i nomi propri (Golgotha, Getsemani, Bethsaida, Bethlem…)

b)   Parallelismo antitetico: un’unica idea viene espressa con due frasi, una negativa e l’altra positiva. Viene così facilitata la memoria: “Non sono venuto per essere servito // ma per servire”.   “Non sono venuto per i sani // ma per i malati.”    “I cieli e la terra passeranno // ma le mie parole non passeranno”.   “Vi è stato detto: ama il prossimo ed odia il nemico // ma io vi dico: amate i vostri nemici”. Più di cento esempi nei Vangeli! E’ uno stile tipico dell’ebraico. Nell’ebraico, però, è la prima frase la più importante. Gesù ha introdotto una novità: ha voluto concentrare il messaggio forte, più significativo, nella seconda frase, come si vede dagli esempi. E’ la seconda frase che annuncia la luce, la novità del vangelo, come in chiaroscuro. E rimane nella memoria.

c)   Passivo teologico: per osservare con il massimo scrupolo il secondo comandamento che vieta qualsiasi abuso del nome di Dio, Gesù ricorre almeno sessanta volte alla costruzione passiva della frase, lasciando il complemento d’agente sottinteso: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (da Dio). “Beati gli affamati di giustizia… perché saranno saziati” (da Dio). “Chiedete e vi sarà dato. Bussate e vi sarà aperto” . “Ciò che legherai sulla terra, sarà legato nei cieli…” E’ una novità linguistica senza corrispettivi nella letteratura ebraica dell’epoca.

d)   Costruzione ebraica della frase: rare le subordinate (paratassi, più che ipotassi); la struttura è spesso sovrabbondante, secondo lo stile semitico, molto lontano dal periodare greco: “ha aperto la bocca ed ha parlato”,… “ha alzato gli occhi ed ha visto”…”ha preso la parola ed ha detto”…  Anticipazione del predicato e di complementi al soggetto: “in principio era  il  Verbo”.

e)   Le parabole: più di quaranta creazioni originalissime di Gesù. Si distinguono da tutti gli esempi simili nelle letterature antiche. I protagonisti, infatti, sono uomini comuni, con messaggi morali indimenticabili, grazie alla concretezza delle immagini, molto più incisive rispetto a norme universali. La paternità misericordiosa di Dio, il perdono, l’amore agapico… sono novità assolute. Le parabole sono anche un’arma polemica che stigmatizza l’ipocrisia del ceto dirigente. Il testo greco è spesso strutturato con stilemi aramaici quali parallelismi, assonanze, ripetizioni ritmate ecc.

f)    Espressioni ebraiche tipiche: figlio della luce (Lc 16,8) , figlio delle tenebre, figlio della pace, figlio del banchetto…

g)   Assonanze e ripetizioni, per facilitare la memoria. E’ uno stile estraneo al greco. “Il seminatore uscì a seminare e mentre seminava una parte del seme…”. “Temettero di grande timore”, “gioirono di grande gioia”, “desiderai con grande desiderio”.

In conclusione, il testo greco dei Vangeli è scritto da testimoni oculari diretti di Gesù, fedeli ai suoi ipsissima verba.  Un’origine tardiva dei Vangeli è improponibile a livello linguistico. Solo gli ascoltatori diretti delle parole di Gesù potevano scrivere un testo così pieno di aramaismi. L’esperienza diretta, per ogni testo storico, è evidentemente un criterio di grande attendibilità.

 

Questa attendibilità degli autori è ulteriormente avvalorata anche dalle seguenti considerazioni.

  • Martiri   per   testimoniare   quanto   avevano   scritto. Quasi tutti gli autori del Nuovo Testamento: Pietro, Paolo, Luca, Matteo, Marco, Giuda Taddeo, Giacomo … morirono martiri per quello che avevano scritto. Diedero la vita pur di non rinnegare quello che avevano predicato e scritto.

  •  Raccontano colpe e difetti.  Gli evangelisti hanno presentato anche fatti che avrebbero potuto tacere per rendere umanamente più verosimile il racconto (verosimile secondo una logica naturale).   Ad esempio hanno sostenuto la concezione verginale di Maria, hanno descritto il pianto di Cristo, il suo sudar sangue, hanno evidenziato i loro difetti personali e le loro colpe (il rinnegamento di Pietro, la loro mancanza di fede durante la passione), hanno descritto le sofferenze e le umiliazioni  del Maestro… Hanno riferito che alcune donne furono le prime testimoni della risurrezione, benché la testimonianza femminile non fosse giuridicamente accettata in quell’epoca.   Si tratta di tanti episodi che secondo una logica “umana” avrebbero potuto sminuire Gesù e la sua comunità. Invece si ha l’impressione che agli evangelisti interessasse il fatto oggettivo, realmente accaduto, anche se questo andava contro le aspettative umane e sembrava essere “imbarazzante” (criterio dell’imbarazzo, indica l’oggettività del racconto).

  • La   sobrietà   dello   stile   narrativo. Il racconto evangelico non presenta toni epici o spettacolari. La nascita di Gesù è narrata in due righe, così la guarigione del cieco nato. Gesù è presentato in tutta la sua umanità, umiliato fino alla morte di croce. Il momento della risurrezione non viene descritto; solo le apparizioni del risorto vengono raccontate, e la descrizione presenta toni tutt’altro che epici ed esaltati.  Da queste considerazioni si ricava una fedeltà al dato storico, anche quando questo potrebbe incontrare difficoltà ad essere creduto. Il grande teologo Karl Barth nota come l’annuncio di un Dio fatto uomo, che si lasciava umiliare e crocifiggere, e che addirittura risorgeva da morte, doveva essere uno scandalo difficilissimo da accettare per la ragione e in particolare per la mentalità ebraica che si aspettava un Messia vincitore e capace di sconfiggere militarmente i nemici d’Israele.  Ed anche per i pagani fu uno scandalo, come risulta dal discorso di Paolo all’Areopago (Atti 17). Gli evangelisti non volevano, insomma, “adattare” il racconto agli ascoltatori, ma raccontare i fatti per quello che erano, anche se ciò costava loro derisioni, incomprensioni e persecuzioni.

  • Un popolo intero di testimoni. Un popolo intero era stato testimone dei fatti narrati nei Vangeli, eppure nessuna smentita dei fatti. E’ chiaro che, ad esempio, l’annuncio della risurrezione non avrebbe potuto reggere neppure un pomeriggio se non ci fosse stato davvero il sepolcro vuoto, visibile a tutti e se non ci fossero state le apparizioni del Risorto.  E così i miracoli della moltiplicazione dei pani, o della guarigione del cieco nato, o della risurrezione di Lazzaro, erano tutti facilmente smentibili dagli abitanti di Gerusalemme che avrebbero coperto di ridicolo un racconto falso e inventato.    Migliaia furono poi i martiri contemporanei a Cristo, che hanno testimoniato con la vita quello che affermavano. Tacito parla di una “ingens multitudo” di martiri sotto Nerone (64-67 d. C.). Questo martirio in nome della fedeltà alla propria coscienza è un fatto assolutamente nuovo per la mentalità greco-romana, in cui si riteneva che la legge politica avesse un’autorità inderogabile.  Questa novità, questa “obiezione di coscienza”  (di cui furono protagonisti non individui eccezionali come Antigone o Socrate, ma enormi moltitudini) non è storicamente spiegabile senza una motivazione oggettiva e storicamente fondata.

 

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Ecco perché l’ateismo può solo essere amorale

Il rabbino Moshe Averick, impegnato nel dialogo con le altre religioni,  ha scritto un articolo davvero molto interessante, intendendo dimostrare un’altra area di contraddizione sulla concezione della vita priva di Dio.  In particolare, si è concentrato sul rilevare che l’amoralità degli atei (ovvero l’impossibilità ad affermare qualcosa come perennemente giusto o perennemente sbagliato, ma sempre relativo) si trasforma in una forma di debolezza sociale nel contrastare terribili mali che attanagliano la nostra società. Il  “relativismo morale” infatti può gettare le basi filosofiche, ad esempio, per aprire la strada all’accettazione e all’approvazione della pedofilia (e altro).

E’ assiomatico, dice, che in una società priva di Dio non vi è qualcosa di morale o di immorale, ma solo l’amoralità. Questo è spesso frainteso col fatto che gli atei non hanno valori, ma tale conclusione è chiaramente errata. L’amoralità è un giudizio, non sulla esistenza di valori, ma sul significato di quei valori. Nella visione atea del mondo, infatti, l’essere umano non è “nient’altro che” un primate dalla posizione eretta, e i nostri sistemi di valori hanno un significato identico a quello degli abitanti della giungla. Immaginare che l’uomo sia qualcosa di “più” è quasi una bestemmia per l’apparato culturale riduzionista-neodarwinista. La morale dunque, è vista semplicemente come un termine che viene utilizzato per descrivere il tipo di sistema che un individuo (o una società di individui) preferisce soggettivamente. Ogni società -dicono- stabilisce, mantiene e modifica i suoi valori in base alle proprie esigenze. Lo scrittore Samuel Butler disse: «La moralità è il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei. Il cannibalismo è morale in un “paese cannibilista”». I valori dunque non sono altro che riflessi delle preferenze soggettive prevalenti, i quali ovviamente si adatteranno alle mutevoli esigenze, così ci spiegano i guru del laicismo. Non c’è nulla di perennemente giusto o perennemente sbagliato, di prescritto nell’uomo, tutto dipende dal bias degli appartenenti ad una data società. Averick ha voluto sottolineare la gravità di questa concezione attraverso l’argomento sull’accettazione della pedofilia nella società, che per ora è ancora uno dei pochi temi su cui esiste una (quasi) unanimità di giudizio (negativo, ovviamente). «Le conseguenze logiche e filosofiche dei sistemi di credenza degli atei sono inevitabili», ha affermato.  «Se non esiste nulla di giusto o sbagliato in modo oggettivo, allora l’abuso di bambini non può essere sbagliato in modo definitivo, ma dipenderà dall’opinione della società».  La conferma arriva dal pensiero dei noti esponenti di questa visione.

Ad esempio, il docente di bioetica Peter Singer presso l’Università di Princeton, alla domanda su cosa pensasse della pedofilia, ha risposto: «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale». Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, in un articolo del 2010 dal titolo “An Amoral Manifesto” ha detto: «ho rinunciato del tutto alla moralità […] da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io ora credo che non ci sia […].  Mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità […]. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità». Ecco, tra l’altro, un esempio di dogma “laico”. Marks ha quindi continuato: «Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità». Il ragionamento pare coerente: senza Dio, nulla è letteralmente giusto e sbagliato, neppure la pedofilia è per forza sbagliata. Dipende dall’opinione sociale, dai media, da cosa ne dice “Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano” o “Il Giornale”. L’opposizione alla pedofilia, ha continuato il filosofo non credente, si basa solo su una sorta di preferenza: «come per la non esistenza di Dio, noi esseri umani possiamo ancora utilizzare un sacco di risorse interne completamente spiegabili per motivare determinate preferenze. Così, abbastanza di noi sono abbastanza contrari al maltrattamento di bambini, e probabilmente continueremo ad esserlo». Interessante che Marks riconosca che i principi morali non possono avere un significato oggettivo se non provengono da Dio, i valori etici (inclusi quelli sulla pedofilia), senza Dio sono destinati ad essere in mano al capriccio di coloro che li sposano: non hanno alcuna realtà oggettiva, ma tutto è basato su preferenze personali o condizionamento sociale. Prendendo l’esempio dell’omosessualità, il tentativo fino ad oggi nei Paesi secolarizzati è stato quello di condizionare la società verso la sua approvazione, è sufficiente infatti -in assenza di una cultura cristiana fortemente radicata- che il “potere” modifichi artificialmente l’opinione generale per rendere qualcosa morale o immorale, accettabile o non accettabile (così come avvenne con l’approvazione sociale del nazismo, del comunismo, del razzismo, dello schiavismo, dell’eugenetica ecc.). «Per dirla in un modo diverso», continua correttamente Averik, «in un mondo ateo, i termini “moralità” e “preferenze personale” sono identici e intercambiabili». La valutazione esclusivamente soggettiva è comunque in balia del “più forte” (condizionamento sociale) ed è notoriamente capricciosa: c’è chi preferisce il gelato al cioccolato e chi alla vaniglia, chi preferisce il jazz e chi invece l’hip-hop, c’è chi preferisce che i bambini possano avere rapporti sessuali con gli adulti e chi invece preferisce averli con gli animali domestici ecc., la maggioranza decide arbitrariamente cosa è moralmente accettabile o non accettabile. Ieri era accettabile l’insegnamento dell’eugenetica nelle università, oggi si tenta di far diventare la pedofilia un “normale orientamento sessuale“, con tanto di pressione sul DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association. In Olanda i pedofili hanno dal 2006 anche un partito politico.

Michael Ruse, professore di filosofia presso la Florida State University, ha discusso con Jerry Coyne e Jason Rosenhouse (tutti e tre non credenti) sulla moralità. Ruse ha dichiarato sorprendentemente che la pedofilia è immorale e questa è una verità oggettiva e non soggettiva (o preferenza personale): «(l’abuso di) ragazzi nelle docce è moralmente sbagliato, e questo non è solo un parere o qualcosa “sulla base di giudizi di valore soggettivo”».  E ancora:  «La mia posizione è che la biologia evolutiva pone su di noi alcuni assoluti. Si tratta di adattamenti proposti dalla selezione naturale. E’ in questo senso io sostengo che la moralità non è soggettiva».  In un altro articolo si contraddice (o meglio, torna nella normalità della visione laicista):  «La morale allora non è una cosa tramandata a Mosè sul monte Sinai. E’ qualcosa forgiata nella lotta per l’esistenza e la riproduzione, qualcosa modellato dalla selezione naturale. La morale è solo una questione di emozioni, come il piacere per il gelato o il sesso e l’odio verso il mal di denti e i compiti degli studenti […] ora sapete che la morale è un’illusione che è stata messa in te per farti diventare un cooperatore sociale, cosa ti impedisce di comportarti come un antico romano? Beh, niente in senso oggettivo». Non essendoci nulla di pre-scritto,   di tramandato da Dio agli uomini attraverso una rivelazione, arrivando integralmente dalla selezione naturale, il fatto che una cosa sia giusta o sbagliata, dunque, è puramente una scelta emozionale del momento. L’unica cosa che rende sbagliata una crudeltà sterminata è il fatto che ora sia personalmente spiacevole (e domani?).

Il neodarwinista ateo Jerry Coyne ha voluto rispondere: «Ruse sembra affermare che le azioni di un pedofilo sono realmente e veramente sbagliate perché la selezione naturale ci ha programmati a credere che siano sbagliate. Qualcuno può spiegare che cosa mi manca? I concetti di giusto e sbagliato variano tra le culture contemporanee e si evolvono nel tempo. Fare appello alla psicologia e alla selezione naturale ci aiuta a risolvere le questioni di aborto o omosessualità?».  Coyne, per una volta, ha perfettamente ragione:   Ruse non può appellarsi alla selezione naturale. Egli è terribilmente confuso perché da una parte capisce che non può accettare che l’unica cosa sbagliata nelle molestie sui bambini sia il fatto che a lui non piacciono (e non piacciono alla società di oggi), e dall’altra parte deve negare Dio, in quanto non credente. Quindi si appella a qualcosa che renda oggettiva la negatività verso la pedofilia, ma commette un errore ingenuo. Coyne ha visto giusto: in una visione atea della vita, non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato, non è oggettivamente sbagliata la pedofilia come non lo è qualsiasi altra cosa. La “morale laica” non può che basarsi unicamente su preferenze personali del momento e condizionamento della società: oggi la pedofilia è sbagliata, ma non è detto lo debba essere sempre. Dipenderà dai gusti che avremo domani e dalla capacità della “società” di condizionarci.

Una volta che l’ateo realizza che tutti i suoi nobili principi morali non sono altro che sensazioni soggettive – “non diversamente dal gradimento o non gradimento degli spinaci” -, si accorge anche che i valori morali cambieranno secondo il capriccio della società. E se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla storia terribilmente sanguinosa del 20° secolo, è che non c’è nulla che gli uomini e la società non siano in grado di fare. Senza una legge morale trascendente e oggettiva, l’essere non può che perdersi nella spirale dell’artificiale inferno della giungla umana.  Michael Ruse pare averlo capito e infatti ha cercato una via d’uscita: «La morale è, e deve essere, una sorta di divertente emozione. Ma deve far finta di non esserlo affatto! Se pensassimo che la moralità non è altro che piacere o non piacere degli spinaci, poi non reggerebbe […] La morale deve apparire come obiettiva, anche se in realtà è soggettiva». E in un altro articolo«Se metto il “soggettivo” in opposizione all'”oggettivo”, poi chiaramente il tipo di etica che propongo è soggettivo… ma non può essere soggettivo il male se penso alle molestie sui bambini!»E infine:  «le regole della morale devono essere vincolanti su di noi come se fossimo figli di Dio e Lui abbia deciso le regole». Ruse pare avere inconsapevolmente accolto l’invito che il teologo Joseph Ratzinger fece nel 2005 ai non credenti: «anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita come se Dio ci fosse».

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