Piergiorgio Odifreddi: «la bestemmia? Se ferisce provo anche piacere»

Pierpippa OdifreddiAvevamo parlato di Piergiorgio Odifreddi quest’estate, trascrivendo ampie citazioni di un suo libro in cui erano presenti insulti e offese verso decine di personaggi pubblici, dai politici agli scienziati. A quell’articolo è seguita una reazione un po’ goffa del matematico, il quale ha tentato di dissociarsi dal contenuto del volume, che però -abbiamo scoperto- pubblicizzava sul suo sito web fino al giorno prima. Ha così accusato il co-autore, Sabelli Fioretti, e l’editore, Francesco Aliberti, di aver ordito un complotto nei suoi confronti, i quali però lo hanno pubblicamente smentito (qui Sabelli Fioretti e qui Aliberti), minacciando  anche azioni legali.

Finita l’estate, Odifreddi ha preso le difese dei black bloc che hanno devastato Roma in ottobre mentre in dicembre ha definito i medici cristiani “inaffidabili” e “malati di mente“. Ha poi dichiarato, in un altro articolo che lo Stato dovrebbe intervenire «forzando all’uso di anticoncezionali. E poi, quando la prevenzione avesse fallito, imponendo la cessazione della gravidanza».

La prima odifreddura dell’anno 2012 riguarda invece il tema della bestemmia. Sul suo blog ospitato da “Repubblica” -intitolato appropriatamente “Il non senso della vita di Piergiorgio Odifreddi”-, frequentato da persone oggettivamente violente, l’utente “didinna” ha cominciato a postare una serie di commenti colmi di bestemmie verso Dio, alla Madonna e ai Santi, giustificandosi con il fatto che altro utente –Milla11f– ha insultato la scienza sostenendo tesi incompatibili con essa.

Nonostante la bestemmia sia considerata, in Italia, un illecito amministrativo, Odifreddi ha fatto finta di nulla. Senonché, dopo pressanti richieste, ha deciso di intervenire bannando dal blog l’utente bestemmiattore (ma anche l’altra, non si sa perché), eppure, passati pochi giorni, l’utente è ricomparso con il beneplacito del padrone di casa. Le proteste comunque non si sono placate, arrivando perfino sul quotidiano “Avvenire”. Le richieste a Odifreddi, responsabile del blog, sono quelle di cancellare il turpiloquio, una richiesta legittima e civile, al quale il matematico impertinente (o, incontinente) ha risposto dicendo chiaramente come la pensa circa la bestemmia:

Il “rispettoso” laico gode quindi nel vedere la sofferenza di una persona quando viene insultato e deriso quel che a lui è caro. Le convinzioni di tutti vanno rispettate, nessuno deve essere discriminato: tranne i credenti, i quali non solo devono subire -possibilmente in silenzio- gli sfoghi laicisti, ma si devono anche sorbire la goduria sadica di Odifreddi.

La bestemmia non è affatto espressione di libertà di pensiero, a questa amenità ha già risposto la Corte di Cassazione nel 1992, sostenendo che è «assurdo e fuori di luogo è il voler ricondurre la bestemmia alla manifestazione del pensiero e alla libertà costituzionalmente garantita di tale manifestazione (sia sotto il profilo dell’art. 21 che dell’art. 19 che, del primo, costituisce specifica enunciazione). Ciò che, invero, vien sanzionato, con la norma in questione, è il fatto di bestemmiare con invettive e parole oltraggiose: non la manifestazione di un pensiero, ma, una manifestazione pubblica di volgarità. Ed è pur superfluo il rilievo che, comunque, il diritto di libera manifestazione del pensiero trova il suo limite proprio nel divieto delle manifestazioni contrarie al buon costume (art.21 ultimo comma, Cost.): le manifestazioni, cioè, perseguite, appunto, in concreto, dalle norme sulla polizia dei costumi».

La redazione

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Cannabis: la verità scientifica contro l’insostenibile “leggerezza” dei radicali


di Stefano Bruni*
*pediatra e ricercatore scientifico

 

Mentre il mondo radicale continua ad agitarsi scompostamente nella difesa di improbabili diritti da salvaguardare senza se e senza ma, anche a costo di mentire alla comunità sulla portata delle conseguenze di certe azioni sull’individuo e la collettività, la comunità scientifica seria, quella libera da ideologie di qualsiasi tipo, quella che guarda alla sostanza e alla ripetibilità dei dati scientifici ed alla loro significatività statistica, esce allo scoperto dimostrando l’inconsistenza di talune teorie e la contraddittorietà di certe tesi.

Dopo che l’embriologia moderna ha distrutto la tesi secondo la quale una cellula uovo fecondata e un embrione nelle prime settimane del suo sviluppo sono un “grumo di cellule” senza vita, con ciò ponendo le basi per un “contro-diritto” del prodotto del concepimento sulla madre; dopo che psicologia e medicina hanno evidenziato chiaramente come, a fronte di nessuna dimostrazione scientifica dei vantaggi che l’aborto determina sulla salute della donna, sono al contrario moltissime le evidenze dei problemi psichici e fisici che possono residuare nel breve, medio e lungo periodo in una donna che ha scelto di interrompere volontariamente una gravidanza; dopo che diversi studi, a supporto del semplice buon senso, hanno dimostrato che  il desiderio di avere un figlio a tutti i costi anche in età molto avanzata può determinare seri problemi ad un bambino (psichici) nonché alla sua mamma (fisici e psichici); dopo che anche il preteso “diritto” al suicidio assistito ha dimostrato di essere una bufala che nasconde l’incapacità e la mancanza di volontà dell’essere umano di prendersi cura delle persone malate e sofferenti le quali, grazie alle moderne terapie del dolore, se accudite con amore dichiarano sempre più spesso di non provare alcun desiderio di porre fine alla loro vita autonomamente; ebbene, dopo che queste come molte altre “campagne” condotte nel tempo dai radicali e da tutti coloro secondo cui il presunto diritto del singolo prevale su quello di molti altri si sono dimostrate fallaci e menzognere, ora a quanto pare anche l’ultima “lotta” a favore della legalizzazione dell’uso della cannabis, fondata su una presunta innocuità della stessa, sembra essere stata minata nelle sue fondamenta teoretiche da alcune, sempre più numerose e consistenti, evidenze scientifiche contrarie.

Senza avere la pretesa di essere esaustivo (le pubblicazioni scientifiche sul tema sono davvero numerosissime) mi limiterò a segnalarvi alcuni spunti di riflessione frutto di una ricerca bibliografica da me condotta (e da ciascuno di voi replicabile) su riviste scientifiche o siti di società scientifiche di evidente indipendenza politico-ideologica ed onestà intellettuale.

Per dimostrare l’assurdità della pretesa secondo cui l’utilizzo della Cannabis sarebbe innocuo, partirei dal sito del Royal College of Psychiatrists (RCP), l’associazione professionale degli Psichiatri del Regno Unito. In uno dei documenti redatti dall’associazione scientifica e riportati sul suo sito a disposizione di chiunque sia interessato, viene chiaramente indicato come ci sia una crescente evidenza del fatto che l’uso regolare della cannabis raddoppia il rischio di sviluppare episodi psicotici o schizofrenia. Ovviamente a supporto della scientificità e correttezza di tutto quanto sopra esposto, il RCP porta un’abbondante e significativa bibliografia cui vi rimando per ulteriori approfondimenti. A detta degli psichiatri inglesi, la ricerca clinica ha chiaramente dimostrato un legame tra il consumo precoce di cannabis e i successivi problemi mentali che si sviluppano sia in coloro che sarebbero geneticamente vulnerabili a problemi come depressione e psicosi sia in coloro i quali, ancorché non predisposti, iniziano a consumare cannabis in epoca adolescenziale (ciò sarebbe verosimilmente in relazione con l’interazione delle sostanze psicotrope contenute nella cannabis con le cellule nervose di un cervello ancora in fase di sviluppo). Sulla particolare vulnerabilità degli adolescenti agli effetti della cannabis vedere anche qui.

Nello stesso documento riassuntivo del RCP viene citato uno studio pubblicato su un’autorevolissima rivista scientifica, il British Medical Journal condotto su 1600 studenti australiani di età compresa tra i 14 e i 15 anni, seguiti per sette anni, il quale ha dimostrato come i ragazzi che fanno uso di cannabis regolarmente hanno un rischio di sviluppare depressione o sindrome ansiosa significativamente più alto rispetto a coloro che non ne consumano. Lo stesso studio dimostra che al contrario non è vero che i bambini che già soffrono di depressione sono più portati ad utilizzare la cannabis. Ancora, vengono citati altri 3 studi importanti condotti su larghi numeri di persone che mostrano come maggiore è l’uso di cannabis, soprattutto se si inizia a fumarla prima dei 15 anni di età, maggiore è il rischio di sviluppare schizofrenia; rischio comunque significativamente più alto rispetto al rischio standard valido per la popolazione generale.

Che la cannabis poi sia una droga che può determinare dipendenza (alla faccia della sua pretesa “leggerezza”!) anche questo sembra essere evidente se è vero, come è vero, che il suo consumo frequente, in particolare in alcuni soggetti particolarmente vulnerabili (anche in relazione alla loro giovane età) presenta chiaramente alcune delle caratteristiche di altre droghe che generano dipendenza: tolleranza (la necessità cioè di aumentare progressivamente la dose da assumere per ottenere lo stesso effetto), sintomi da astinenza (forte desiderio, riduzione dell’appetito, difficoltà ad addormentarsi, perdita di peso, aggressività e/o rabbia, irritabilità, irrequietezza, strani sogni). Si veda anche qui. Chi usa la cannabis frequentemente e in grandi quantità lo fa compulsivamente anche quando ciò determina problemi famigliari, scolastici o lavorativi. I recettori per le sostanze attive della cannabis non sono presenti nel solo cervello ma si trovano anche a livello di occhi, orecchie, cute, stomaco ed altri organi del corpo umano dove dunque possono avere effetti, alcuni dei quali non ancora del tutto chiariti ma potenzialmente pericolosi. Inoltre la cannabis può causare una sindrome da intossicazione acuta potenzialmente molto pericolosa (si veda anche qui), né più né meno di quanto possono determinare altre droghe considerate comunemente più “pesanti”.

Per finire, e a mero titolo esemplificativo (facendo una ricerca mirata in PubMed è possibile trovare numerosi altri lavori sull’argomento), tra gli effetti dannosi della cannabis sulla salute umana voglio citare: la correlazione tra il fumo di cannabis e il cancro del polmone, il cui rischio è stato trovato superiore a quello che hanno i semplici fumatori di tabacco; la correlazione tra la cannabis e altre patologie polmonari, tra cui il carcinoma nasofaringeo dove l’associazione con un diverso tipo istologico di tumore sembra suggerire un meccanismo carcinogenetico diverso rispetto a quello del fumo/aspirazione nasale di tabacco; la correlazione con una emergente patologia del cavo orale; la correlazione tra uso di cannabis prima o durante la gravidanza e una serie di gravi rischi relativi al feto e al neonato; la correlazione tra l’uso di cannabis e il precoce ”invecchiamento” del sistema nervoso centrale;

L’elenco dei danni che la cannabis può causare sarebbe ancora lungo e numerose le evidenze scientifiche a supporto di tali danni. Per chi fosse interessato a leggere qualcosa di più sull’argomento rimando ai seguenti link:

a)      http://www.mind.org.uk/help/diagnoses_and_conditions/cannabis_and_mental_health

b)      http://cyber.law.harvard.edu/evidence99/marijuana/Health_1.html

c)       http://www.plosmedicine.org/article/info:doi/10.1371/journal.pmed.0030039

 

Insomma, pretendere che la cannabis sia una droga “leggera” che non fa male a nessuno mi sembra davvero segno di una grossolana ignoranza. Né ha alcun senso citare l’effetto potenzialmente (ma spesso ancora tutto da dimostrare) positivo e terapeutico di alcuni derivati della cannabis su alcune patologie e sul dolore: non è certo l’uso terapeutico (medico) di questi derivati che qualcuno vuole liberalizzare!

Per fortuna c’è chi riconosce i propri errori. E’ accaduto, suscitando grande scandalo internazionale, al quotidiano britannico The Independent quando, nel 2007, ha pubblicato un articolo in prima pagina intitolato: «Cannabis, scusateci» per fare ammenda di quanto, dieci anni prima, lo stesso noto quotidiano londinese aveva sostenuto sposando una forte e netta campagna per la depenalizzazione delle droghe leggere, facendone uno dei tratti distintivi della propria linea editoriale. Jonathan Owen, il giornalista che firmò il famoso articolo, ne parla sul sito web “Tempi.it” 

Poveri radicali; ora che anche questa ennesima “battaglia” sta perdendo le sue basi teoriche cosa faranno? Continueranno ad arrampicarsi sugli specchi nel tentativo di mistificare la realtà e di difendere l’indifendibile o troveranno un nuovo presunto “diritto” autolesionistico su cui concentrarsi? Staremo a vedere, ma senza abbassare la guardia: certe follie, adeguatamente travestite da diritti o sotto le mentite spoglie di un presunto vantaggio per la collettività possono insinuarsi subdolamente nella società, fino ad apparire ineluttabili.

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Jerome Lejeune, il genetista più odiato dagli abortisti


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

Jerome Lejeune. In Italia di questo grande personaggio si sa molto poco. Gli unici quattro libri, a quanto mi consta, li ha pubblicati l’editore Cantagalli (l’ultimo è di Clara Lejenue, sua figlia: “La vita è una sfida”, Cantagalli 2008). Nato nel 1926 a Montrouge sur Seine, Lejeune è colui che ha scoperto la prima anomalia genetica, la cosiddetta trisomia 21, cioè l’anomalia genetica che determina la sindrome di Down, altrimenti detta mongolismo. Sino alla sua scoperta si credeva che il mongolismo fosse una tara razziale, oppure che fosse determinato da genitori alcolisti o sifilitici. Lejeune dimostrò che non vi era nulla di disdicevole, nei genitori di quei bambini, nessuna degenerazione razziale, nessuna contagiosità, in quelle creature in cui era avvenuta la triplicazione di un cromosoma, un eccesso di informazione genetica, e che vengono colpite nella facoltà dell’intelligenza, dell’astrazione, anche se conservano integre affettività e memoria.

Lejeune per questa scoperta, e per altre che la seguirono, ottenne innumerevoli riconoscimenti internazionali, premi ed onorificenze. Divenne un uomo famoso e per lui fu creata la prima cattedra di Genetica Fondamentale presso l’università di medicina di Parigi. Ma Lejeune non era solo un ricercatore, un curioso, uno studioso di segmenti di Dna che nel chiuso del suo laboratorio confonde la vita col codice genetico e che nell’entusiasmo delle sue scoperte crede di avere in pugno la totalità del reale. Il suo intento fu sempre quello di guarire i suoi malati, così socievoli, così allegri, così fanciulleschi. «Se si riuscisse a scoprire come poter curare la trisomia 21», scrive la figlia Clara, «allora sì la strada sarebbe aperta per poter curare ogni altra malattia genetica». Scoprire la prima aberrazione cromosomica è, nella mente di Lejeune, il primo passo per compiere l’opera del medico, che è, da sempre, quella di curare. Così anche la scoperta della diagnosi pre-natale, ad opera dell’amico di Lejeune, il professor Liley, originario della Nuova Zelanda, è collegata al desiderio di poter individuare quanto prima e curare più precocemente i bambini. Curare il prima possibile, in utero: è l’idea che entusiasma entrambi. Ma i due scienziati, che “si conoscono e si stimano”, “impotenti, assisteranno allo snaturamento delle loro scoperte”. Infatti nel 1970 in Francia la proposta di legge “Peyret” apre il dibattito sull’aborto, sull’eliminazione dei bambini che sono identificati come portatori di handicap già prima della nascita. “In quel momento”, ricorda Clara, “l’unico handicap riconosciuto prima della nascita è la trisomia!”. Lejeune, di fronte alla proposta Peyeret e al dibattito sull’aborto in generale, dinanzi alle menzogne sulla natura del feto o sul numero degli aborti clandestini, non riesce a tacere: sostiene la sacralità della vita, palesa il suo amore per i suoi piccoli malati, dinanzi a tutti, ovunque, arrivando ad affermare, all’Onu: “Ecco una istituzione per la salute che si trasforma in istituzione di morte”.

E’ coraggioso, ma non ingenuo: sa di aver intrapreso una strada pericolosa, di procurarsi, in questo modo, innumerevoli antipatie. La sera stessa del suo discorso all’Onu, scrive alla moglie: “Oggi pomeriggio ho perduto il premio Nobel”. Ed è proprio così. Non garba, a coloro che lo insultano, che gli sputano in faccia, a coloro che scrivono sui muri “A morte Lejeune e i suoi mostriciattoli”, che qualcuno rivendichi con carità e con forza la verità, e lo faccia con l’evidenza della scienza. Scrive Lejeune: “La genetica moderna si riassume in questo credo elementare: all’inizio è dato un messaggio, questo messaggio è nella vita, questo messaggio è la vita. Vera e propria perifrasi dell’inizio di un vecchio libro che ben conoscete, tale credo è quello del genetista più materialista possibile…”. In principio è il Logos, al principio della vita è l’informazione del dna, tutta già compresa nella prima cellula: “tutto questo lo sappiamo con una certezza assoluta che vince ogni dubbio perché se tale informazione non fosse già contenuta in essa, non potrebbe entrarvi mai più; nessuna informazione, infatti, entra in un uovo dopo che sia stato fecondato”.

Per stroncare Lejeune le proveranno tutte: l’odio, le persecuzioni, le molestie anche fisiche, i controlli fiscali… Gli verrà negato l’avanzamento di carriera per ben 17 anni, verrà radiato dai congressi scientifici, gli verranno soppressi i crediti per la ricerca e negati i finanziamenti per i suoi pionieristici studi sull’acido folico per le mamme in gravidanza, che tanti bambini hanno contribuito a salvare dalla spina bifida e da altre patologie. Ma per fortuna il suo nome è famoso in tutto il mondo, e può continuare a lavorare grazie a sussidi americani, inglesi, neozelandesi. Il suo pensiero però è sempre fisso sui suoi cari handicappati, perché conosce l’insegnamento di Cristo: “ogni cosa che avrete fatto ad uno di questi piccoli, la avrete fatta a me”. In passato, ricorda Lejeune, i malati di rabbia venivano spesso uccisi e soffocati tra due materassi. Poi, un grande scienziato, Pasteur, liberò l’umanità da quella malattia. Se si sopprimono coloro che sono affetti da sindrome di Down, si bloccherà la ricerca e non si capirà mai come guarirli, come è possibile fare; finché non riusciamo a guarirli, l’importante è stare loro vicini, guardarli come si guarda ad un figlio di Dio, e non solamente ad un errore genetico, a materia biologica vivente!

Lejeune, nonostante varie difficoltà, continua a girare “il mondo, tiene conferenze e torna con riconoscimenti e borse di studio per i suoi collaboratori, finanziamenti per i programmi di ricerca”. Si batte in questi anni per evitare il disastro nucleare, viene inviato in Russia a parlare con Breznev sui rischi di un eventuale uso dell’atomica, e confuta il darwinismo materialista e ideologico di Jacques Monod, che riduce l’uomo ad un figlio del caso. In nome dei suoi studi di genetica Lejeune sostiene la credibilità di Adamo ed Eva e, anticipando di dieci anni le scoperte di Gould ed Eldrege, contrasta il gradualismo step by step di Darwin, sostenendo che l’evoluzione ha dovuto per forza fare dei salti. In ogni cosa, come padre di cinque figli, come scienziato, come polemista contro l’aborto e il darwinismo materialista, ciò che più colpiva, in lui, come rammenta la figlia, era “l’assenza di paura. Non aveva paura. Cosa si può fare contro un uomo che non desidera niente per se stesso?”. Timete Dominum et nihil aliud, diceva, perché solo così si è veramente liberi, solo così si è certi di rinunciare a se stessi e al proprio egoismo, per perseguire con limpidezza la via della Verità e del Bene. Il suo motto poteva così essere quello che D’Annunzio, aveva ripreso e inciso sul muro del suo Vittoriale: “Ho quello che ho donato”. Per questo, alla sua morte, un ragazzo down, Bruno, “con la sicurezza di un predicatore quaresimale, si impadronisce del microfono durante le esequie di Jerome Lejeune a Notre Dame di Parigi. Senza timore, in una cattedrale affollata, improvvisa un panegirico che termina con queste parole: ‘Grazie, mio caro professor Lejeune di quello che hai fatto per mio padre e per mia madre. Grazie a te, sono fiero di me’. Nessun altro oltre a Bruno avrebbe potuto dire parole simili. Più tardi veniamo a sapere che egli è il bambino il cui esame dei cromosomi, trentacinque anni prima, ha permesso a Lejeune di scoprire la trisomia 21” ( Jean-Marie Le Méné, “Il professor Lejeune, fondatore della genetica moderna”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 178)

Tutta la battaglia di Lejeune è dunque quella di un credente e di uno scienziato che in un’epoca in cui si fa fatica a riconoscere la dignità dell’uomo, il suo essere ad immagine e somiglianza di Dio, difende questo principio, con la sua umanità e la sua scienza, e urla al mondo che persino gli handicappati sono uomini! La sua, scrive Jean Marie Le Méné, è la stessa battaglia degli abolizionisti americani che di fronte alla schiavitù affermavano: a man is a man. Un uomo è un uomo. Negli stessi anni in cui Francis Crick dichiara che “nessun bambino dovrebbe essere definito come essere umano prima di essere stato sottoposto a un test che ne determini il corredo genetico. Se non supera il test, si è giocato il diritto alla vita”, Lejeune ribadisce: Ogni uomo è un uomo.

E’ un feto, lo abortiamo? E’ un uomo. E’ malato? E’ un uomo. Fabbrichiamo un embrione in vitro? E’ un uomo. Lo congeliamo? E’ un uomo. Lo vivisezioniamo sino al quattordicesimo giorno? E’ un uomo. Lo produciamo in un utero artificiale, o in affitto? E’ un uomo. Lo cloniamo? E’ un uomo.  Lo priviamo di suo padre e di sua madre, con l’adozione a persone dello stesso sesso? E’ un uomo (Jean-Marie Le Méné, “Il professor Lejeune, fondatore della genetica moderna”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 19)

 

Da: Perché non possiamo essere atei (Piemme 2009)

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Francia: salgono a 115 i parlamentari contro matrimonio gay

Il numero dei parlamentari francesi che hanno aggiunto il loro nome ad una lista contro il “matrimonio” e l’adozione omosessuale ha ormai raggiunto quota 115, secondo la rivista francese “Liberation”. La petizione è stata avviata in seguito alla nuova iniziativa dei socialisti francesi, che promettono di istituire il “matrimonio” omosessuali se verranno eletti alle prossime elezioni presidenziali.

I parlamentari di opposizione provengono invece dai tre partiti che compongono la coalizione a sostegno del presidente Nicolas Sarkozy (il quale ha tuttavia approvato una riforma di patti di solidarietà civile, che sono una versione estremamente debole delle unioni civili): l’Unione per un Movimento Popolare, il nuovo centro, e il Movimento per la Francia. La dichiarazione avvalora “la difesa del diritto fondamentale di un bambino di essere curato e di sviluppare all’interno di una famiglia composta da un padre e una madre”. Sebbene il numero dei firmatari della dichiarazione siano passati da soli 82 all’inizio di questo mese a 115, c’è una lunga strada da percorrere per raggiungere lo stesso numero di firme che una dichiarazione simile ha raggiunto nel 2006, quando 174 parlamentari apposero i loro nomi. A quel tempo venne respinta una campagna a favore del “matrimonio” omosessuale da una commissione parlamentare francese, respingendo così anche la legalizzazione dell’adozione omosessuale.

Il confinamento del matrimonio alle coppie eterosessuali è stata confermato dalla più alta corte della nazione, il Consiglio Costituzionale, nel gennaio del 2011. Poi, nel mese di giugno, l’Assemblea nazionale francese ha votato decisamente contro la leggittimità del “matrimonio” omosessuale in una votazione 293-222.

Dall’Italia, quasi contemporaneamente, la notizia che la città di Gubbio (Umbria) ha cancellato il registro comunale delle coppie di fatto, introdotto dieci anni fa. La mozione è stata avanzata da un consigliere di centro-destra, Rocco Girlanda, votata dal Pdl, dal sindaco Diego Guerrini (area Pd) e da alcuni consiglieri comunali del partito guidato da Pier Luigi Bersani. Sul caso il (laico) direttore de “Il Giornale”, Vittorio Feltri ha scritto un articolo molto interessante criticando la “buffonata dei PACS”.

Antonio Tedesco

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Cosa c’è negli Archivi del Vaticano? Purtroppo per Augias, nulla di “segreto”

L’Archivio Segreto Vaticano consta di cinque depositi e si estende per due piani nel sottosuolo dello stato Pontificio e per otto in superficie. Istituito il 31 gennaio del 1612 da papa Paolo V, non ha mai smesso di crescere e oggi è così grande che non basterebbe un’intera giornata per percorrerne tutti i corridoi. Ha due sale con temperatura e umidità controllate, riservate alle pergamene riposte all’interno di cassettiere scorrevoli.

All’interno dell’Archivio sono conservati 650 fondi diversi, dove per fondo si intende un insieme di documenti con carattere di unitarietà raccolto da un ufficio, una famiglia o una persona sola. Ad esempio vi sono presenti gli archivi della Sede apostolica, dei Concilii, di diversi ordini e istituti religiosi, di 75 rappresentanze diplomatiche della Santa Sede, di casati legati allo Stato pontificio. Ma perché si chiama “Segreto”? Lo spiega Luca Carboni, il segretario generale dell’Archivio, su un articolo apparso su “Il Giornale”: «La parola segreto in realtà è la testimonianza dell’epoca storica in cui l’archivio nacque, il Seicento, quando esso era considerato instrumentum regni, archivio del principe, da qui secretum col significato di privato, cioè Archivio privato del Papa». Quindi nulla di esoterico o misterioso, semplicemente una parola di cui è stato un po’ perso il significato originario.

Ci sono documenti risalenti a 12 secoli fa, all’epoca di Carlo Magno per poi coprire otto secoli ininterrotti di storia documentaria a cominciare da Innocenzo III (1198). Dispone di un salvacondotto che è il più antico documento scritto in mongolo. «Recentemente la Svezia», continua Carboni, «ha censito circa 40.000 documenti medievali sulla propria storia: la metà di essi si trova nell’Archivio segreto. In altre parole possediamo più documenti medievali sulla storia di quel Paese che il Paese stesso». C’è anche un documento in cui «Garibaldi offre a Pio IX  ‘queste braccia con qualche uso delle armi’», in un altro «Voltaire che nel 1745 invia una lettera di elogi a Benedetto XIV, non proprio in linea col motto “Écrasez l’infâme”, schiacciate l’infame, che aveva coniato contro la Chiesa cattolica». E ancora: lettere di Alessandro Manzoni,  Giacomo Leopardi che nel 1825 chiede d’essere assunto nell’Amministrazione pontificia, Abramo Lincoln che nel 1863 si rivolge a Pio IX chiamandolo “great and good friend” (grande e buon amico), una comunicazione del nunzio apostolico in Belgio che nel 1924 informa la Segreteria di Stato della “morte religiosa” di Giacomo Puccini, ecc..

Insomma, nulla su angeli e demoni, su misteriosi segreti, su matrimoni o figli di Gesù, su UFO o papesse, ma tanta storia di personaggi noti e meno noti che si intreccia col quotidiano in un affresco affascinante che rappresenta forse uno dei tesori documentali più importanti del mondo. Assolutamente nulla delle bufale divulgate da Dan Brown, Corrado Augias & soci, per capirci.

Davide Galati

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Orissa, i carnefici indù si convertono al cristianesimo

In Kandhamal (Orissa, India) si inizia a respirare un’aria diversa, anche se la strada lunga. Ma i segnali ci sono. E’ interessante sapere che l’ex funzionario del governo, il cattolico Hippolitus Nayak, ha ricevuto un dono particolare la mattina di Capodanno: un fiore da parte di Lakhno Pradhan, uno dei capi fondamentalisti indù che guidò una serie di attacchi di massa contro i cristiani intorno al villaggio di Tiangia.

Tra le altre cose, Nayak ha commentato: “Dio sta sciogliendo i cuori induriti del Kandhamal”. Quattro anni fa, dopo l’assassinio del leader nazionalista Swami Lakshmanananda Saraswati, i fondamentalisti iniziarono ad accusare i cristiani, gridando a un vero e proprio complotto. Cominciò così l’ondata di violenze protrattasi per settimane: il numero di cristiani uccisi superò il centinaio, 300 chiese saccheggiate, 6000 case incendiate, e circa 54.000 gli sfollati. Lakhno Pradhan ha chiesto scusa per quanto commesso e Nayak non può che sottolineare entusiasta, come molti tra gli ex persecutori frequentino regolarmente la Messa domenicale, in quella stessa chiesa di Tiangia dove sono stati brutalmente assassinati alcuni fedeli che si erano rifiutati di rinnegare la propria fede.

Non si può che pensare a Tertulliano, apologeta latino e storico della Chiesa, che affermava: “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. E così si sta verificando: la forte testimonianza di fede e di fedeltà dimostrata dai cristiani perseguitati del Kandhamal ha infatti toccato, riferisce don Pradhan (vicario della parrocchia di Raikia), il cuore di numerosi indù che ora chiedono perdono. Di certo però, il paese non è assolutamente in pace nonostante queste notizie positive. Basti pensare che la vigilia di Natale, dopo la messa della mezzanotte alla quale aveva partecipato, Dilip Mallick, un indù convertitosi da poco al cattolicesimo, ha trovato la propria casa trasformata completamente in cenere.

Padre K. J. Markose, già padrino di un convertito dall’induismo, sostiene che nel Kandhamal è pericoloso convertirsi, malgrado gli incoraggianti segnali di miglioramento. Ma egli non si fa intimorire e continua: “Resterò cristiano qualsiasi cosa succeda”. E’ da registrare infine, l’intervento del vescovo John Barwa che, mostrandosi più ottimista, ha affermato: “I piani dell’Altissimo stanno oltre la nostra comprensione. Ciò che è avvenuto nel Kandhamal è stato molto doloroso. Ma non è stata una maledizione. Anzi, adesso si sta rivelando una benedizione”.

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Le neuroscienze decretano la fine del libero arbitrio? (parte terza)

 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica
 

Nei due precedenti articoli (Ultimissima 13/1/12 Ultimissima 24/1/12) avevamo cominciato a esaminare il problema del libero arbitrio e della mente, alla luce delle indicazioni fornite dalle neuroscienze.

Eravamo giunti a fissare alcuni punti fermi:

A) Il concetto pragmatico di responsabilità morale e legale non è intaccato dalle recenti osservazioni neuroscientifiche, poiché rimane non falsificabile l’ipotesi che le scelte importanti dipendano dalla consapevolezza cosciente di una persona (che si tratti di un processo neuronale – ancora non ben specificato – o di altro)

B) Non esistono prove decisive che facciano propendere più per un funzionamento deterministico che per uno indeterministico del cervello (e viceversa);

C) Le neuroscienze non sono in grado di dare indicazioni conclusive neanche riguardo alla cornice concettuale in cui inquadrare il rapporto causale mente-cervello (interazionismo o riduzionismo materialista?)

In particolare, avevamo concluso osservando che sarebbe probabilmente necessario rivolgersi ad altre discipline (come la fisica e l’informatica) per ottenere qualche suggerimento concreto – soprattutto in relazione all’ultimo punto citato, il cosiddetto problema ontologico.

Cominciamo dall’INFORMATICA. Come è noto, i ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale perseguono da molti anni l’obiettivo di realizzare una “mente” algoritmica equivalente a quella umana. Fino a oggi, ogni tentativo è stato infruttuoso. Qualora ci si riuscisse, però, risulterebbe dimostrata l’esportabilità dell’autocoscienza su un supporto informatico. In tal caso, sia il riduzionismo materialista sia il determinismo troverebbero – apparentemente – un forte argomento a loro favore. Va però chiarito che, in realtà, neanche la realizzazione di un’autocoscienza artificiale dimostrerebbe alcunché, dal punto di vista scientifico, riguardo al problema ontologico. La ragione di ciò risiede in una considerazione fondamentale: qualunque test ipotizzabile per la valutazione della consapevolezza (come il famoso Test di Turing o il più recente ConsScale) non potrà mai dire nulla di conclusivo sull’esperienza autocosciente, che è un fenomeno intrinsecamente sperimentabile solo “in prima persona”. In altre parole, non vi è alcun modo concepibile per cui procedure di verifica applicate “dall’esterno” (i test) possano avere accesso ad aspetti fenomenologici vissuti “dall’interno” (l’esperienza autocosciente), quand’anche il sistema esaminato mostrasse tutte le caratteristiche funzionali di una mente consapevole.

C’è dell’altro. Come è ovvio, il tentativo di realizzare una macchina veramente pensante si basa sull’assunto che l’autocoscienza sia effettivamente una caratteristica algoritmica: puro software, indipendente dallo specifico supporto hardware (tesi dell’Intelligenza Artificiale forte). Tale ipotesi corrisponde all’idea che il cervello umano sia riconducibile a una qualche complicata macchina di Turinge perciò – in ultima analisi – che il funzionamento della mente equivalga all’esecuzione di una serie di calcoli aritmetici, seppure enormemente complessi. Al di là del fatto che tale concezione implica che ogni fenomeno psichico concretamente sperimentabile – percezioni, emozioni, sentimenti, pensieri – sia pura illusione, è risaputo che essa non è in grado di spiegare la fondamentale caratteristica mentale dell’intenzionalità. Con questo termine si indica, nell’analisi filosofica delle funzioni cognitive, la capacità della mente umana di assegnare contenuto semantico a dati sintattici, ovvero di attribuire un significato a una serie di simboli. Perciò, un’intelligenza artificiale potrebbe non giungere mai a essere dotata di intenzionalità, essendo essenzialmente costituita da strutture formali – gli algoritmi – che sono per loro natura meramente sintattiche.

Questa incapacità intrinseca è stata esemplificata in modo suggestivo dal filosofo John Searle, nel famoso argomento della “Stanza cinese”. Come è logico aspettarsi, Searle è molto criticato dai sostenitori dell’Intelligenza Artificiale forte. Da profano, tuttavia, mi pare di capire che le obiezioni alla sua argomentazione si basino sostanzialmente su un’aspettativa indimostrata: quella che la consapevolezza autocosciente debba comparire spontaneamente in una macchina opportunamente progettata, a patto che questa raggiunga una soglia minima di complessità algoritmica. La mia impressione è che tale congettura abbia un’unica giustificazione razionale: la constatazione che di fatto esiste, nell’Universo, un sistema enormemente complesso dotato di autocoscienza – il cervello umano. Un’osservazione empirica a sostegno di un’ipotesi, però, non basta certo a dimostrarne la verità. Tra le ragioni che si oppongono alle tesi dell’Intelligenza Artificiale forte citerei infine l’argomento gödeliano di Lucas-Penrose, secondo cui l’intuito matematico è di natura non-algoritmica. In breve, la  tesi consiste in questo: in base ai teoremi di incompletezza di Gödel i sistemi computazionali hanno dei limiti che la mente umana non ha. La dimostrazione non è complicata: per i teoremi di Gödel, in ogni sistema formale coerente – abbastanza potente da comprendere l’aritmetica – esiste un enunciato vero (un cosiddetto enunciato gödeliano) che il sistema stesso non può dimostrare; ciò non di meno, noi umani siamo in grado di capire che l’enunciato gödeliano è vero: perciò, noi umani possediamo una capacità di cui il sistema formale è privo. Ora, poiché ogni sistema computazionale opera in modo algoritmico sulla base di un qualche sistema formale, risulta in tal modo dimostrata l’irriducibilità dell’intuito matematico – e per estensione dell’intera attività mentale – a una procedura algoritmica esportabile su supporto informatico.

Anche stavolta, naturalmente, le critiche a questa conclusione vengono soprattutto dai sostenitori dell’Intelligenza Artificiale forte. Dato, però, che le dimostrazioni dei teoremi di Gödel sono irrefutabili, gli attacchi filosofici all’argomento gödeliano partono solitamente dal contestare i postulati che sono alla base di quei teoremi (per esempio, il concetto di sistema formale). Francamente, penso che una scappatoia del genere risulti poco digeribile alla maggior parte dei matematici. Va detto, peraltro, che anche un materialista come Douglas Hofstadter ritiene l’argomento gödeliano difficilmente confutabile. Nonostante le difficoltà logiche citate, molti studiosi sono fermamente convinti che entro qualche decennio si arriverà a creare una mente algoritmica autocosciente. I neuroscienziati Giulio Tononi e Christof Koch, per esempio, hanno già proposto un nuovo tipo di test di Turing per verificare il livello di consapevolezza di un’ipotetica “macchina pensante”. Personalmente, ritengo che questa proposta non aggiunga niente di realmente nuovo allo scenario, essendo soggetta agli stessi limiti di ogni altro test di valutazione dell’autocoscienza. Le riflessioni di Koch e Tononi, forniscono però, secondo me, un’interessante indicazione: in considerazione delle enormi difficoltà finora incontrate dalla ricerca sull’intelligenza artificiale, i due ricercatori dichiarano infatti di sospettare che una mente artificiale “potrebbe sfruttare i principi strutturali del cervello dei mammiferiper diventare autocosciente.  Insomma, pare che tra gli studiosi di intelligenza artificiale si stia facendo strada l’idea (abbastanza rivoluzionaria) che un’autocoscienza computazionale potrebbe aver bisogno quanto meno di un supporto fisico con una specifica architettura – quella di un certo sistema biologico – per poter emergere.

Viene allora spontaneo chiedersi se la consapevolezza cosciente non possa rivelarsi essere, in fin dei conti, una caratteristica non esportabile, ed esclusiva di un ben preciso oggetto fisico: il cervello umano (o, naturalmente, quello di un’eventuale altra forma di vita intelligente – di cui però non abbiamo, al momento, prove). Appare chiaro che, se le cose stessero effettivamente così, uno studio teorico del legame mente-cervello andrebbe condotto da una prospettiva totalmente differente da quella dell’informatica, e ancora più approfondita di quella della neuroscienze: potrebbe rendersi necessario, in altre parole, arrivare al livello della stessa fisica fondamentale dei fenomeni coinvolti nell’attività cerebrale. Ovviamente l’approccio non dovrebbe più essere quello della fisica classica, su cui continuano largamente a basarsi gli attuali modelli del funzionamento del cervello: esso, infatti, non può che condurre a un concetto di mente computazionale – e questo, alla luce di quanto abbiamo visto finora, non è in grado di risolvere il problema ontologico, né tanto meno quello del determinismo.

Nel prossimo (e ultimo) articolo, dunque, cercheremo di capire se la FISICA possa davvero darci qualche indizio decisivo sulle questioni della mente e del libero arbitrio.

Michele Forastiere
michele.forastiere@gmail.com

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Il naturalista Attenborough: «fede in Dio compatibile con evoluzione biologica»

Ogni tanto occorre occuparsi anche della nota leggenda nera secondo cui la fede in Dio sia in contrasto con l’adesione all’evoluzione biologica. Uno dei pionieri dei documentari naturalistici a livello internazionale si chiama David Attenborough, noto divulgatore scientifico e naturalista britannico. Oltre alle decine di premi e riconoscimenti, è stato nominato Membro onorario della Royal Society e della Società Zoologica di Londra.

Recentemente ha allarmato gli scientisti britannici in quanto, in un’intervista radiofonica ha detto che l’adesione all’evoluzione biologica e la fede in Dio non sono in contrasto e che, in quanto agnostico, non esclude la possibilità dell’esistenza del Creatore. Proprio l’opposto, quindi, di quanto sostenuto da alcuni suoi colleghi, che amano strumentalizzare la teoria evolutiva per perseguire fini religiosi (o, meglio, irreligiosi). Un esempio classico dalle nostre parti è ovviamente quello di Telmo Pievani (anche se il termine “collega” in questo caso risulta essere quasi blasfemo…). «Non penso che la comprensione e l’accettazione della storia di 4 miliardi di anni di vita sia in alcun modo in contrasto con la credenza in un essere supremo», ha spiegato l’85 enne Attenborough. «E io non sono così sicuro di definirmi ateo, preferisco dire di essere un agnostico».

La notizia non è questa ovviamente, sarebbe una novità se esistesse qualcuno a sostegno di Pievani e delle sue strumentalizzazioni ideologiche. Ciò che rende interessante la questione è l’irrazionale allarmismo del gran sacerdote degli Atei Americani, David Silverman, il quale si è subito precipitato a puntualizzare: «Io non credo che lui abbia detto che ci possa essere Dio. Penso che quello che sta dicendo è che le persone che credono in Dio possono anche credere nel fatto scientifico dell’evoluzione. Abbiamo sentito dire la stessa cosa da parte della Chiesa cattolica»Sul Dailymail l’hanno invece presa con ironia: «C’è qualcosa di divino nell’aria. Agnostici e atei stanno cominciando ad annuire rispettosamente in direzione dell’Onnipotente, mentre ancora, naturalmente, sostengono che Lui non c’è». Anche riferendosi alla recente iniziativa dello scrittore Alain de Botton, si legge: «La voce stridula di Dawkins viene gradualmente emarginata dai ‘senza fede’ come lui».

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Contrordine, prof. Hawking: l’Universo ha avuto un inizio, ma non sappiamo come!

Il 3 gennaio scorso è uscito il libro “A Universe from nothing. Why there is something rather than nothing” (Free Press 2012) del fisico americano L. Krauss, con postfazione di R. Dawkins. Per il biologo inglese esso avrà una risonanza pari all’”Origine delle specie” di Darwin, perché contiene una scoperta scientifica che “dà il colpo del KO al soprannaturalismo”. Ammaliato dal sottotitolo che promette di rispondere alla madre di tutte le domande della metafisica, ho scaricato da Amazon la versione kindle e sono andato a leggermi la rivelazione. Qual è? Sempre la stessa: la proprietà quantomeccanica del vuoto fisico di produrre coppie di particelle-antiparticelle. Questo fenomeno di separazione dell’energia e della sua trasformazione in materia è promosso a “creazione ex nihilo” dal duo Krauss-Dawkins, e di qui, con un altro volo pindarico, estrapolato metafisicamente per dedurre che l’intero l’Universo è sorto da nulla, per caso.

Sono ormai trent’anni, da quando nel 1983 J. Hartle e S. Hawking pubblicarono la ricerca “Wave Function of the Universe”, che ritorna periodicamente alla ribalta la stessa novella come se fosse ogni volta una nuova scoperta destinata a segnare uno spartiacque nella storia. Il fisico e teologo polacco J. Życiński racconta che Hawking fu subito così entusiasta della sua scoperta, che corse ad esporla alla prima riunione utile della Pontificia Accademia delle Scienze, aggiungendo la ciliegina finale che essa eliminava dalla fisica la necessità di un Creatore. Era presente Giovanni Paolo II, che non mosse ciglio. In seguito Hawking si lamentò con Życiński dell’imperturbabilità del pontefice, perché contava di venire condannato come Galileo, di cui egli si considera la reincarnazione essendo nato lo stesso giorno (tre secoli dopo) della morte del pisano. A chi gli riferì del disappunto di Hawking, Giovanni Paolo disse che in fisica non c’è ragione di nominare Dio, aggiungendo, con una piccola lezione di epistemologia, che la scienza sottintende però questioni come l’esistenza delle leggi di natura o l’intelligibilità del cosmo e solo se esse vengono negate in sede filosofica occorre intervenire. Dal 1983 si è perso il conto dei libri di “divulgazione scientifica” contenenti le estrapolazioni del vuoto fisico al nulla metafisico e di coppie di particelle all’Universo: tra questi, 8 sono del solo Hawking, l’ultimo dei quali risale allo scorso anno ed è stato da me commentato qui.

Dove stanno gli errori di un proclama che ha a che fare più col gioco delle tre carte che con la scienza galileiana? Mi fermo a due, rinviando per gli altri al commento su citato. 1) Il vuoto fisico non è il nulla: nulla significa “ni-ente” (non essere), né materia né energia, né spazio né tempo, né alcuna proprietà fisica; il vuoto fisico invece è “qualcosa” fisicamente esistente nello spazio-tempo, rappresentato in meccanica quantistica da un vettore di stato a norma diversa da zero, con proprietà caratteristiche. Nella teoria delle stringhe poi, o meglio nella sua versione aggiornata, la teoria M, le “membrane” che rappresentano gli universi del multiverso sono separate dal “bulk” che non è “nulla”, ma un iperspazio a molte dimensioni con struttura riemanniana. 2) La trasformazione del vuoto fisico in una coppia elettrone-positrone pre-assume l’esistenza delle leggi della fisica, in particolare della relatività generale per le proprietà fisiche dello spazio-tempo, e della meccanica quantistica con le sue equazioni che governano l’evoluzione dei vettori di stato. Ci troviamo così, all’origine del mondo, non con nulla ma con almeno tre cose pre-esistenti ancora da spiegare, se la fisica lo potrà mai fare: le leggi fisiche, la struttura spazio-temporale quadri-dimensionale della relatività generale (o il bulk della teoria M a maggiori dimensioni spaziali) ed il vuoto fisico con le sue proprietà quantistiche.

Invero Krauss-Dott. Jekyll è onesto quando fa il fisico, perché nei capitoli dedicati alla frontiera della cosmologia quanto-gravitazionale, che sono fatti bene, egli precisa che “nothing” va inteso come uno stato fisico instabile donde risulta pressoché inevitabile la produzione di materia; ancora, egli ammette la sussistenza di molte cose da chiarire, a cominciare dalla questione se la teoria del multiverso sia scientifica o no; condiscende che la teoria M non risolve il problema dell’origine delle leggi fisiche: in tutti gli altri universi del multiverso varrebbero infatti ancora, con altre costanti, le stesse leggi fisiche di origine inspiegabile del nostro Universo; e, infine, riconosce che tali questioni sono fuori dal suo mestiere, “almeno per ora”. Il Krauss-Mr. Hyde però, in formidabile sinergica accoppiata con Dawkins, dimentica presto questi problemini, per assumere le solite posizioni scientiste: KO sferrato al soprannaturale o piuttosto harakiri operato dalla parte scientifica del libro alla sua controparte metafisica?

La smontatura più autorevole dei filosofemi del duo Krauss-Dawkins è venuta in tempo reale, nei giorni 4-8 gennaio, dalla platea meno prevedibile, un simposio di 27 super-selezionati cosmologi e premi Nobel per la fisica, confluiti a Cambridge per celebrare il 70° compleanno di un loro collega in pensione: il prof. Stephen Hawking! Un convegno che l’understatement britannico e la modestia dei convenuti, non inferiori a quella del festeggiato, non potevano non titolare “Lo stato dell’Universo”, e rispetto al quale il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato due settimane dopo dal presidente Obama al Congresso ha fatto, per il suo provincialismo, la figura del bilancio di un’assemblea di condominio. Ora, intendiamoci, non è che quegli studiosi – che, per definizione, sono i signori delle verità  più fondamentali e più universali (del momento) – si siano occupati del nostro duo: no, forse essi non sanno nemmeno dell’esistenza del sig. Krauss, fisico in Arizona, o del sig. Dawkins, ex-zoologo a Oxford. A Cambridge è accaduto un evento molto più grave: i festeggiamenti al cosmogono dell’universo nato da niente per caso si sono risolti in una sonora sberla alle sue speculazioni trentennali: “È stata dura andare alla festa di qualcuno e dirgli che aveva perso la scommessa per la seconda volta”, ha confessato il fisico canadese L. Lehner che, per conto di tutti i partecipanti, non ha deontologicamente potuto rinunciare all’ingrato compito. Quali sono le scommesse perse da Hawking? Procediamo con ordine.

Dall’alba dell’umanità fino ad un secolo fa, la domanda fondamentale della metafisica Perché c’è qualcosa piuttosto che niente? aveva trovato solo due risposte possibili: o il mondo è stato creato da Dio o il mondo esiste da sempre. Se le cose sono da sempre, non c’è bisogno di postulare una base soprannaturale alla loro esistenza: come B. Russell disse in un vecchio dibattito radiofonico alla BBC col gesuita F. Copleston: “L’Universo è lì, e questo è tutto”. Questa opzione, però, cominciò a traballare dal 1917, quando A. Einstein fece un’applicazione cosmologica della relatività generale. Egli trovò che la sua teoria vieta un Universo di grandezza costante e predice invece che l’Universo si espanda in continuazione. Incredulo, Einstein introdusse nelle equazioni una correzione per controbilanciare l’espansione con una maggiore forza attrattiva della materia. Così, però, l’Universo va in equilibrio instabile, e la minima perturbazione lo fa implodere od esplodere. La correzione fu definitivamente ritirata. Qualche anno dopo, il matematico sovietico A. Friedman ed il fisico e sacerdote belga G. Lemaitre ricavarono indipendentemente la velocità di espansione dell’Universo dalle equazioni di Einstein. Nel 1929 le misure effettuate dall’astronomo americano E. Hubble dello spettro della luce proveniente dalle galassie evidenziarono un loro moto di allontanamento in tutte le direzioni ed i calcoli di Friedman-Lemaitre furono validati quantitativamente. Altre predizioni teoriche e verifiche sperimentali si succedettero nei decenni successivi e portarono infine al modello standard del Big Bang, con un Universo originatosi 13,7 miliardi di anni fa.

Anche per la ripugnanza che taluni provano verso le implicazioni metafisiche di un assoluto inizio dell’Universo (“che ricorda da vicino la Bibbia”, Einstein), gran parte della ricerca cosmologica dell’ultimo mezzo secolo è stata impegnata ad escogitare modelli alternativi al Big Bang, capaci di ripristinare la confidenza scientifica in un Universo eterno. La prima parte della conferenza di Cambridge è stata dedicata alla rievocazione di questi tentativi e -a dimostrazione che anche gli scienziati hanno un cuore-, non nasconderò ai lettori che è scorsa qualche lacrima nelle omelie funebri succedutesi per commemorare le cadute, una dopo l’altra, dei modelli alternativi: dallo stato stazionario di Hoyle agli oscillanti eoni di big bang-big crunch di Lifschitz e Khalatnikov, dagli inflazionari più o meno caotici e più o meno quanto-gravitazionali di Linde e Guth, ecc. Niente da fare, per tutti i modelli possibili ed immaginabili ogni evidenza che abbiamo dice che c’è stato un inizio, ha allargato le braccia A. Vilenkin, co-autore di un famoso teorema del 2003 sul limite del tempo passato. Nemmeno l’ultimo candidato della serie, l’uovo cosmico, embrione degli infiniti universi del multiverso, può essere esistito da sempre, perché l’instabilità quantistica lo costringerebbe a collassare dopo un tempo finito, prima di dare origine ad un piccolo universo – ha illustrato nel suo speech lo stesso cosmologo con un nuovissimo teorema.

E beh? Dove sono le scommesse perse che hanno rovinato l’augusto compleanno? Non l’aveva scritto già Hawking nei suoi libri (e, giù per li rami, Susskind, Randall, Filippenko, ecc., e tutti gli altri che da 30 anni battono lo stesso tasto, fino a Krauss e Dawkins ultimi arrivati) che l’Universo, o il multiverso, non è eterno ma ha avuto origine qualche tempo fa da un’oscillazione casuale del vuoto fisico? Cari lettori, intanto vi invito a non essere ingenui: perfino i geni matematici, ancorché incalliti abitatori delle nuvole, si rendono conto che bulk e vuoto fisico non sono per nulla un vero nulla, e che il ricorso al caso suona tanto di latinorum per nascondere al volgo l’insufficienza della scienza di fronte al mistero dell’essere! Ciò che voglio dire è che, dopo il fallimento strategico di tutti i modelli che puntavano a ripristinare un mondo eterno, la fluttuazione casuale del vuoto quantistico è, nel fondo dei cuori scientisti, solo un rifugio tattico teso a guadagnare tempo e a raffreddare le baldanzose schiere creazioniste sempre in agguato per sostituire la luce della scienza con la tenebra della superstizione! Comunque è vero: che Vilenkin abbia ribadito la finitezza del tempo passato per tutti gli universi è stata per Hawking solo una delusione attesa. La sberla è venuta dallo speech di Lehner che ha comunicato, finalmente, qualcosa di nuovo dopo decenni di frittate rigirate: l’esistenza diffusa di singolarità nude nel multiverso. Chiedo subito venia se a qualcuno dei lettori non addetti ai lavori sono brillati gli occhi, però devo dire che queste singolarità non hanno nulla di sexy. Al contrario: una singolarità, nuda o vestita che sia, è un punto nello spazio-tempo dove una grandezza fisica, per es. la densità di energia o il tensore di curvatura, diventa infinita. Con ciò, ipso facto, l’evento sfugge alla manipolazione matematica. Se poi quell’evento singolare è causalmente connesso agli eventi contigui normali, ciò significa che la fisica perde ogni capacità predittiva su tali eventi. Personalmente, io odio l’idea di trovarmi nelle vicinanze di una singolarità, perché non sono nemmeno sicuro se non esploderò da un momento all’altro in tante particelle o imploderò in un buco nero. Ma che cos’è la scienza senza capacità predittiva? Uno schioppo senza cartucce. Zero. Per fortuna, quando Hawking scoprì i buchi neri e la terrificante singolarità al loro centro, trovò che, essendo circondata dal buco nero (“vestita”), essa non può influire sugli eventi esterni e, quindi, le capacità predittive della fisica sono preservate fuori del buco (e anche la nostra sopravvivenza). Egli con prometeica fede nella scienza lanciò allora (1991) una sfida alla comunità scientifica: scommettiamo che non esistono nell’Universo singolarità “nude”, cioè non circondate da un buco nero? 6 anni dopo la perse, perché esse emersero, ancorché rare e di breve vita. Senza perdersi d’animo, Hawking si lanciò immediatamente in un’altra scommessa: è il multiverso delle molte dimensioni spaziali che vieta l’esistenza di singolarità nude, pronosticò. Invece, proprio alla sua festa di compleanno, i 27 migliori cosmologi dell’Universo sono andati a casa sua a dirgli che anche il bulk a 5 dimensioni presenta singolarità nude, e per giunta diffuse e stabili. Magari, se volesse scommettere per la terza volta su un multiverso a 10 o a 11 dimensioni…

Se così stanno veramente le cose, ha chiuso Hawking i lavori sullo stato dell’Universo, “la scienza si squaglia e dovremmo appellarci alla religione mettendoci nelle mani di Dio”. Una conclusione opposta a quella detta 30 anni prima al Papa o del suo libro di appena 6 mesi fa, la cui perentorietà non sarebbe condivisa da Tommaso d’Aquino il quale giudicò: “Che il mondo non sia sempre esistito è tenuto soltanto per fede, e non può essere provato con argomenti dimostrativi”, e che non può essere condivisa dalla gente di buon senso, la quale forse non conosce la teoria delle stringhe, ma sa che la verità scientifica è sempre parziale, approssimata e soggetta a possibile falsificazione. Ma tant’è, questa è l’ultima contraddizione dei naturalisti: pretendere di poter dimostrare scientificamente l’esistenza del soprannaturale!

Giorgio Masiero

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Studio USA: credenti più protetti dalla depressione rispetto ai non credenti

Uno studio longitudinale sui figli di un campione di soggetti depressi e non depressi, realizzato da ricercatori del Department of Psychiatry and Behavioral Sciences del Duke University Medical Center, ha indagato sui legami della religione o spiritualità con l’insorgenza della depressione nel corso di una decina di anni.

E’ stato rilevato che gli individui che professavano la religione protestante o cattolica presentavano il 76% in meno di probabilità di avere un episodio di depressione rispetto a chi non aveva alcuna fede religiosa. «Anche se questo studio è il primo a lungo termine sull’impatto della religione o spiritualità nella comparsa della depressione, si conferma una crescente letteratura  che supporta il vantaggio della religione o spiritualità (la partecipazione religiosa) nel ridurre la frequenza e la ricorrenza di disturbi depressivi», si legge su “The American Journal of Psychiatry Gli studi fino ad oggi, si continua, hanno suggerito due conclusioni in particolare: 1) le persone senza appartenenza religiosa sono a maggior rischio di sintomi depressivi e disturbi, 2) le persone coinvolte nella loro comunità di fede risultano essere a rischio ridotto di insorgenza della depressione. In questo studio la frequenza e la confessione religiosa non ha avuto particolari effetti, tuttavia -dicono i ricercatori- la ricerca è basata su soggetti mediamente di 30 anni, mentre gli effetti positivi della frequenza alle funzioni religiose cominciano ad apparire in età successive.

Gli autori ricordano che si tratta di uno studio empirico e mette in guardia contro conclusioni affrettate sulla base di studi come questi. Suggeriscono che il miglior utilizzo di tali informazioni è contribuire alla valutazione psichiatrica dei pazienti da parte di medici e psicologi.

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