Il Parlamento del Portogallo rifiuta le adozioni omosessuali

Nessuno intende riportare questa notizia: il Parlamento portoghese ha respinto una proposta di legge che intendava aprire l’adozione di bambini alle coppie omosessuali (i matrimoni gay sono legali in questo paese dal 2010).

Venerdì 24 febbraio la proposta ha ricevuto il sostegno di solo otto deputati e 39 dei 74 parlamentari socialisti (“Bloque de Izquierda”, “Blocco di sinistra”), su un totale di 230 deputati. Tutti i maggiori partiti hanno votato contro la proposta. Per un’altra volta si è riusciti a difendere il diritto dei bimbi a non essere privati di un padre o di una madre. Sappiamo inoltre che la ricerca medica ha rilevato parecchie preoccupazioni circa la salute psico-fisica e la longevità degli individui omosessuali, così come la forte instabilità delle relazioni omosessuali. I dati ovviamente non possono essere applicati a tutti gli individui omosessuali, ma i risultati sono, purtroppo, molto negativi, e non possono essere ignorati se si considera il collocamento dei bambini.

A questo molti obiettano sostenendo che alcuni studi rilevano alcuna differenza tra i bambini adottati dagli omosessuali e quelli adottati dalle coppie eterosessuali. Tuttavia abbiamo già segnalato uno studio del 2001 il quale ha evidenziato come «decine di studi sui bambini allevati da genitori omosessuali sono stati male interpretati, per ragioni politiche in modo da non attirare le ire degli attivisti omosessuali o incoraggiare la retorica anti-gay». E’ palese come i ricercatori riconoscano che il campo d’indagine è troppo giovane, i numeri sono troppo pochi, troppe le variabili. Nel 2008 si è scoperto inoltre che «certi risultati potenzialmente negativi potrebbero essere stati oscurati da effetti soppressori». Tuttavia, «le differenze sono state osservate, tra cui alcune prove che suggeriscono come l’orientamento sessuale dei genitori potrebbe essere associato all’orientamento sessuale dei bambini in seguito e l’attaccamento dello stile di vita dell’adulto. Inoltre, ricerche più recenti sulla genitorialità gay e lesbica continuano ad essere viziate da molte limitazioni, compresi gli effetti soppressori trascurati».

Un riconoscimento arriva dalla ricercatrice lesbica Charlotte J. Patterson in “Children of Lesbian and Gay Parents: Research, Law and Policy”, la quale ammette che la ricerca su genitori omosessuali e i loro figli è ancora molto nuova e sono relativamente scarsi gli studi longitudinali. La ricerca in questo settore, continua la Patterson, è stata anche criticata per l’utilizzo di gruppi di controllo male abbinati, con campioni relativamente piccoli, e «ci sono effettivamente state inadeguatezze nelle procedure di valutazione impiegate su alcuni studi»

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Ricercatori della Consulta di Bioetica: «l’infanticidio è lecito come l’aborto»

Si è scoperto in questi giorni che anche in Italia esistono teorizzatori dell’infanticidio e “guarda caso” sono membri della “Consulta di Bioetica”, cioè i  promotori della  “bioetica laica”: aborto, eutanasia, testamento biologico, fecondazione assistita ecc. il cui presidente onorario è ovviamente Beppino Englaro.  Il presidente, Maurizio Mori, assieme a Alberto Giubilini, sostengono che il Papa in televisione violi il pluralismo e la laicità di stato.

Lo stesso Giubilini, assieme a Francesca Minerva, componente del Direttivo nazionale della Consulta di Bioetica, sono attualmente su tutti i giornali del mondo, venendo paragonati al Führer o al dott. Mengele. I due laicisti italiani hanno infatti pubblicato su “Journal of Medical Ethics” uno studio intitolato: Aborto dopo la nascita, perchè il bambino dovrebbe vivere?”. Il loro scopo, leggendo lo studio, sarebbe quello di confutare l’argomento pro-life secondo cui l’aborto è illecito perché il feto umano è una persona in potenza, contiene in sé quel che diventerà. Tuttavia, per affermare questo sono stati obbligati -per essere coerenti- ad approvare l’infanticidio (loro lo chiamano aborto post-partum): «uccidere un neonato dovrebbe essere permesso in tutti i casi in cui lo è l’aborto, inclusi quei casi in cui il neonato non è disabile». E ancora: «Se una persona potenziale, come un feto e un neonato, non diventa una persona reale, come voi e noi, allora non c’è qualcuno che può essere danneggiato, il che significa che non vi è nulla di male. Quindi, se si chiede se uno di noi avrebbe potuto essere danneggiato, se i nostri genitori avrebbero deciso di ucciderci quando eravamo feti o neonati, la nostra risposta è ‘no’», nessun danno ad uccidere un feto o un neonato. «Non-persone», continuano, «non hanno diritto alla vita, non vi sono ragioni per vietare l’aborto dopo il parto». Essi ritengono lecito uccidere finché il soggetto non è «in grado di effettuare degli scopi e apprezzare propria vita». E’ questo che, secondo loro, significa diventare «persone nel senso di ‘soggetti di un diritto morale alla vita’». Tuttavia «i feti ed i neonati non sono persone, sono ‘possibili persone’ perché possono sviluppare, grazie ai loro meccanismi biologici, le proprietà che li rendono ‘Persone’». E’ lecito ucciderli perché «affinché si verifichi un danno, è necessario che qualcuno sia nella condizione di sperimentare tale danno».

Su “Il Fatto Quotidiano si commenta rispetto ai due amici di Beppino Englaro: «Francamente mi fa piacere non siano rimasti in Italia, cosicchè il nostro Paese abbia potuto privarsi dell’onore di aver dato origine a tale scioccante teoria […]. Non era necessario tanto studio per arrivare a tali conclusioni aberranti: le teorie eugenetiche furono applicate tristemente dagli americani prima ancora che Hitler le elevasse ad arma di sterminio». Su “Vanity Fair”: «Il pensiero, inevitabilmente, corre alle teorie eugenetiche e razziste». “The Guardian” ha parlato di “disgusto”, “mostruosità” e “indignazione”, “The Algemeiner” ha titolato così: «Il dottor Mengele sarebbe stato orgoglioso».

Attenzione però ad indignarsi, si rischia di perdere una cosa fondamentale e in pochi l’hanno rilevata. Il “New Statesman” parla di “beffa pro-life”, e pare proprio essere tale. Addirittura vorremmo ringraziare profondamente i due -poco furbi o troppo coerenti- abortisti! E’ un autogol clamoroso! Hanno infatti contribuito a portare in tutto il mondo l’evidenza che da anni il mondo pro-life sostiene: non c’è nessuna differenza tra un feto umano e un neonato. L’essere umano, unico e irripetibile, diventa tale al momento del concepimento e l’infanticidio è un atto coerente per chi è favorevole all’aborto. Lo affermano i due ricercatori: «lo stato morale dell’individuo ucciso è comparabile con quello di un feto (sul quale gli aborti tradizionali vengono eseguiti) piuttosto che a quello di un bambino. Pertanto, affermiamo che l’uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo sia l’aborto». E ancora: «Sia un feto che un neonato sono certamente esseri umani e potenziali persone, ma non sono “persone”», cioè non sono «in grado di attribuire alla propria esistenza alcuni (almeno) valori di base, in modo tale che la privazione di questa esistenza rappresenti per loro una perdita». Perciò, «le stesse ragioni che giustificano l’aborto dovrebbero valere anche per giustificare l’uccisione di un neonato». Le loro domande mettono in crisi gli abortisti e i loro colleghi della Consulta di Bioetica: «Se un bambino non ancora nato può essere ucciso senza un regolare processo, perché non può avvenire per uno nato? Quello che si vede in entrambi i casi è la loro impotenza, l’organismo che viene ucciso e non aveva nessuna possibilità, nessuna capacità, per proteggere se stesso».

Per concludere, secondo noi il commento più lucido e riassumente finora è arrivato da Anthony Ozimic della “Society for the Protection of Unborn Children” (SPUC) rilasciato per “The Huffington Post”: «Il documento dimostra che quel che noi sosteniamo: gli argomenti comuni a favore dell’aborto giustificano anche l’infanticidio. Non vi è alcuna differenza di status morale tra un bambino il giorno prima della nascita e un giorno dopo. La nascita è solo un cambiamento di location, non un passaggio dalla non-personalità alla personalità. Il diritto internazionale dei diritti umani non fa distinzione tra gli esseri umani, secondo le varie teorie su ciò che costituisce la personalità. Tutti gli esseri umani, indipendentemente dall’età, dalla posizione o capacità, sono considerati dal diritto internazionale come membri uguali della famiglia umana, e quindi hanno un uguale diritto alla vita. Questa promozione agghiacciante di infanticidio è una misura di quanto l’aborto sia la creazione di una cultura della morte».

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Come la filosofia greca si conservò grazie al cristianesimo

Grazie al cristianesimo e ai pensatori cristiani, la cultura classica è rinata. Senza la Chiesa e i monasteri, tutta la cultura greco-latina si sarebbe persa, anche materialmente.




Sono in molti coloro che criticano il cristianesimo per aver offuscato il sapere greco e la filosofia classica.

Eppure, è vero il contrario. Senza la Chiesa e i monasteri, tutta la cultura greco-latina si sarebbe persa, anche materialmente.


La filosofia greca salvata dai monaci amanuensi.

Senza gli amanuensi benedettini, infatti, non si sarebbero conservati i documenti e i codici dell’antica cultura latina, che sono stati copiati e ricopiati, a volte senza neppure che si capissero. Nessuno, infatti, scriveva più il latino di Cicerone, ad esempio.

Eppure -come spiega il vescovo Luigi Negri in False accuse alla Chiesa (Piemme 1997)-, nonostante questo i monaci del VI e VII secolo hanno incominciato a leggere ed interpretare, dal punto di vista della certezza della fede, tutto quello che la tradizione precristiana aveva realizzato, nel tentativo di impostare il problema del significato della vita attraverso le forme dell’arte, della religione e della filosofia.

Così, nel voler interpretare unitariamente la realtà, sono nate le scuole, prima attorno ai conventi e poi alle cattedrali, fino alla fioritura della cultura nelle università (universitas), luogo in cui la roccia della fede divenne criterio per interpretare tutto lo scibile.


Gli studiosi raccontano il salvataggio della cultura greca.

Tutto questo è stato ripreso e approfondito in questo interessante articolo di Rèmi Brague, docente di Filosofia all’Università Panthéon-Sorbonne di Parigi e all’Università Ludwig-Maxmillians di Monaco. Lo studioso ridimensiona anche il contributo islamico.

Sul Corriere della Sera, invece, pochi giorni fa la questione è stata nuovamente ripresa dal filosofo Marco Rizzi, ordinario all’Università Cattolica, il quale ha sottolineato giustamente come la filosofia cristiana sia figlia di quella greca, aristotelica, da cui prese fondamentale ispirazione.

Anche se è chiaro come «alle soglie del V secolo la letteratura dei cristiani non avesse ormai più alcun complesso di inferiorità nei confronti di quella classica; anzi, con questa si vuole confrontare sul piano della forma e dello stile, sia pure privilegiando l’esigenza di comunicare e insegnare a tutti, non più solo ad una ristretta élite».

Non a caso, continua Rizzi, «san Girolamo fu autore di una raccolta di biografie di scrittori cristiani illustri, programmaticamente contrapposti a quelli pagani, greci e latini».

La rivoluzione culturale cristiana cominciò comunque ben prima: «Sin dal II secolo i cristiani non avevano esitato ad inserirsi nel contesto comunicativo del mondo antico; se autori come Tertulliano proclamavano orgogliosamente la loro estraneità ad una cultura in declino, lo facevano pur sempre secondo i canoni della più avvertita retorica e con una strumentazione concettuale debitrice della tradizione filosofica. Proprio con la filosofia il cristianesimo stabilì un rapporto decisivo […]. Cristo venne presentato come il maestro universale e la sua rivelazione come la «vera filosofia», che riassumeva in sé non solo i contenuti dispersi nelle precedenti tradizioni, ma anche gli exempla morali delle grandi figure del passato, Socrate più di ogni altro».


Con il cristianesimo rinascita la cultura classica.

Grazie al cristianesimo e ai pensatori cristiani, quindi la cultura classica è rinata: «Non solo i modi, bensì anche i grandi temi della filosofia antica si sono piegati a nuovi significati, e in questo modo si sono conservati e sono pervenuti ai nostri giorni», ha osservato il filosofo Marco Rizzi.

Il caso più celebre è quello del “Logos”, il “Verbum”, che dai filosofi stoici, attraverso il prologo del Vangelo di Giovanni, Giustino, Agostino e molti altri è giunto sino alle riflessioni di Benedetto XVI su fede e ragione del celebre discorso di Ratisbona del 2006, in cui «il pontefice individua come intrinsecamente necessitato l’incontro tra il cristianesimo e la razionalità greca».

Nel cristianesimo, conclude il filosofo, «verranno anche nobilitati, rivisti e nuovamente sviluppati i pensieri di Platone e Cicerone, rilanciandoli in una chiave totalmente nuova e forse più efficace per l’uomo», ponendo sempre «il Dio cristiano a fondamento di ogni rapporto autentico tra gli uomini, superando così la frattura — drammaticamente avvertita da Cicerone — tra determinazioni della ragione politica ed esigenze dell’animo individuale».

I primi pensatori cristiani diedero quindi confermarono «così che la natura del cristianesimo è intrinsecamente aperta all’incontro con le più diverse esperienze dell’uomo».

La redazione

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Richard Dawkins ora cambia idea: «sono agnostico»

Brutto periodo per Dawkins: la stampa ha cercato di metterlo alla gogna perché si è scoperto che i suoi antenati avevano fatto fortuna grazie al possedimento di schiavi. Poi lui stesso è riuscito a diventare “imbarazzante” per i sostenitori della causa laicista dimenticandosi incredibilmente il titolo dell’opera principale di Darwin. Ora un’altra notizia su di lui ha fatto il giro del mondo e ancora una volta è diventato lo zimbello dei media e del web. Più o meno la maggioranza dei quotidiani anglossassoni titola così: «Richard Dawkins, l’ateo più famoso del mondo dice di essere agnostico» (qui e qui un esempio).

Come spiegavamo in Ultimissima 11/11/11, il credente ritiene che possano esistere verità che vadano al di là della possibilità di essere dimostrate scientificamente. L’ateo invece, nega la razionalità e la validità dell’atto di fede e nel contempo afferma con decisione l’inesistenza di Dio. Ecco dunque che la sua è per forza una posizione irrazionale, di contraddizione. Lo ha capito bene anche  Richard Dawkins, che sembra scemo ma non lo è ancora del tutto. In un recente incontro pubblico sul ruolo della religione nella vita pubblica, tenutosi presso l’Università di Oxford, tra il noto neodarwinista e l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, l’ateo fondamentalista ha sorpreso tutti. Tentando ovviamente di usare il solito argomento “evoluzione darwiniana” come motivazione principale per opporsi alla fede in un Creatore, ha sostenuto di preferire definirsi agnostico piuttosto che ateo. Non ha infatti argomenti contro l’esistenza di Dio, ma viaggia a probabilità (il suo argomento è sull’improbabilità di una complessità all’origine, ma è stato facilmente confutato più volte). Ha infatti riconosciuto che la sua convinzione sull’inesistenza di Dio era inferiore al 100% (come oltretutto aveva già fatto nel suo libro più famoso).

A quel punto, il filosofo Sir Anthony Kenny, che ha presieduto la discussione, è intervenuto chiedendo: «Ma allora perché non ti definisci agnostico?».  E Dawkins ha affermato infatti di essere agnostico. L’incredulo Kenny ha quindi reagito: «Ma tu sei descritto come l’ateo più famoso del mondo!». E lui: «ma non lo dico io». Nel proseguo del dibattito l’agnostico Dawkins ha anche affermato di credere nella vita su altri pianeti, ovviamente senza che vi sia nessuna prova di questo.

 

Qui sotto la parte del video in questione, pubblicata anche sul nostro account Youtube

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Le persone di fede hanno minore ipertensione e maggiore salute

Recenti studi internazionali continuano a confermare quello che è una Verità empirica da qualche millennio: essere religiosi fa bene alla salute e alla psiche.

Secondo un vasto studio longitudinale dell’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia (NTNU), effettuato su un campione di 120.000 persone e pubblicato suThe International Journal of Psychiatry in Medicine”, ci sarebbe una potente correlazione fra una minore ipertensione e una maggiore frequenza alle funzioni religiose. Ad onor del vero, tuttavia, gli scienziati non hanno specificato se fosse l’attività religiosa a causare questo netto miglioramento di salute o l’andare in chiesa sia dovuto ad una bassa ipertensione e al generico benessere psicofisico.

Un altro studio realizzato dal centro “Gallup” ha invece confermato la correlazione fra religiosità e benessere mentale ed emotivo dell’individuo: su un campione di oltre 676.000 persone, il maggior wellbeing (termine anglosassone che comprende il benessere fisico, emotivo e mentale) sarebbe posseduto da individui molto religiosi, mentre mano a mano che la fede viene meno, tale valore di qualità della vita di abbassa in proporzione diretta. Bene per gli Ebrei e i Mormoni, che godono del podio assieme ai Musulmani, mentre i Cattolici hanno un onorevole quarto posto, nonostante il regime fortemente anti-cattolico della politically correctness internazionale, contro la quale sicuramente ogni cattolico si sarà scontrato, accumulando inevitabile stress. Atei e agnostici hanno, nemmeno a volersi sorprendere, l’ultimo posto nella classifica. In questa pagina abbiamo raccolto un elenco di studi che raggiungono lo stesso identico risultato.

Insomma: le “norme assurde” e i “dogmi intollerabili” che dovrebbero creare tensione, frustrazione e dolore interiore e dal quale l’Umanità dovrebbe “liberarsi” sono invece un toccasana fisico, psicologico e spirituale più accessibile e più economico delle decennali terapie dagli analisti e delle ore spese a coltivare il Nulla nelle palestre e nei centri massaggi.

Marzio Morganti

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Qual è la verità sul processo a Galileo Galilei?

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Luigi Baldi, dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova, dove collabora alla sezione Storia delle idee e filosofia della cultura, è autore del volume “Veritas mutabilis. Natura umana e ricerca della verità in Tommaso D’Aquino” (Accademia Ligure di Scienze 2006), e di vari articoli sul pensiero del Dottore Angelico»

 

di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova

 

L’episodio nel 2008 della rinuncia del papa Benedetto XVI a intervenire all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università La Sapienza di Roma ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica il caso Galilei. Tale caso, infatti, è stato preso a pretesto dai contestatori dell’invito, attraverso il richiamo a una citazione che il Papa ha fatto, ancora cardinale, in un discorso tenuto proprio alla Sapienza del filosofo della scienza americano Paul Feyerabend (1924-1994). L’episodio rivela che in alcuni ambienti filosofici e scientifici persiste pervicacemente un’immagine di Galilei come di una sorta di mito e martire del libero pensiero scientifico, contrapposto all’oscurantismo clericale, e simbolo di un conflitto strutturale e insanabile tra Chiesa e scienza, in ultima istanza tra fede e ragione. Si è diffusa, peraltro, negli ultimi tempi, anche in ambienti cattolici una lettura volta a ridimensionare i contenuti del caso Galilei, tendendo a presentare la controversia che lo vede protagonista come una questione di metodo o semplicemente di rapporti personali tra lo scienziato pisano e il cardinale Bellarmino o papa Urbano VIII, sottacendo le conclusioni della commissione istituita da Giovanni Paolo II allo scopo di studiare il caso e autorevolmente da lui avallate. La superficialità e l’approssimazione di molti commenti e giudizi espressi in tale occasione rivelano un approccio schematico e ideologico a un problema di grande complessità sia dal punto di vista storico che speculativo.

CONTESTO STORICO
Il caso Galilei deve essere, innanzitutto, considerato nell’ambito della rivoluzione scientifica che segna l’inizio dell’età moderna tra Cinquecento e Seicento e che è innanzitutto una rivoluzione astronomica. I fenomeni celesti, infatti, a causa della loro regolarità, risultarono analizzabili con lo strumento matematico (il metodo scientifico considerato più adeguato alla natura) in modo particolarmente agevole ed efficace rispetto agli stessi fenomeni naturali terrestri. Proprio nel campo astronomico, infatti, si registrano le posizioni più sconvolgenti. Il polacco Niccolò Copernico propose una spiegazione dell’universo di tipo eliocentrico, tale da capovolgere la concezione fino ad allora ritenuta valida, quella geocentrica, propria del greco Tolomeo e legata alla fisica di Aristotele. La teoria copernicana non si poneva ancora in diretto conflitto con la fisica di Aristotele, in quanto, era pur sempre basata su una visione dualistica dell’universo, distinto in mondo celeste e sublunare o terrestre. Poneva, però, le premesse del suo scardinamento perché, contrastando con le sue esplicite affermazioni geocentriche (“la terra non si muove e non si trova altrove che al centro”, dice per es. nel “De caelo”), otteneva il risultato di detronizzare la terra e l’uomo con lei. Affermare che la terra è dotata di movimento come i corpi celesti significava, infatti, porre fine alla loro posizione privilegiata: terra e uomo sembravano vagare come gli altri corpi in un universo non più pensato come una sfera finita e chiusa, determinata e compiuta in se stessa, ma, in base a quanto sosteneva proprio alla fine del Cinquecento Giordano Bruno, come infinito, tale da contenere un numero infinito di mondi, senza un centro vero e proprio. L’uomo europeo del Seicento, ancora scosso dalla scoperta dell’esistenza di altri popoli oltreoceano, vide improvvisamente crollare la concezione del mondo che costituiva il paradigma culturale da sempre ritenuto evidente. Lo “shock culturale” provocato dalla nuova scienza produsse un’impressione di sconcerto e di angoscia esistenziale paragonabile alla caduta dell’impero romano d’occidente per Agostino e gli uomini colti del quinto secolo o alla diffusione della spiegazione darwiniana di fine ottocento dell’origine dell’uomo. L’età moderna si apriva, così, con l’interrogarsi inquieto e drammatico di un uomo, che non riconosceva più il cosmo come la propria casa, perdeva la stabilità e certezza di un punto di riferimento fisico e diventava nomade, pellegrino errante insieme alla terra in un mondo che si muove senza un fine. La cosmologia si separava, così, dalla metafisica. Il senso ultimo della realtà non aveva più una proiezione e una corrispondenza nel mondo della natura, caratterizzato da un procedere cieco, in base a un principio di pura necessità, alla mera legge della causa e dell’effetto. E’ il senso nuovo dell’angoscia, della vertigine di fronte all’abisso del nulla, che ispirerà le riflessioni esistenziali di Pascal e Kirkegaard, il lamento accorato dello Jacopo Ortis del Foscolo sulla natura e l’“incomprensibile suo sistema”, il drammatico interrogativo di Leopardi alla luna del “Canto di un pastore errante nell’Asia”, e dell’uomo folle de “La Gaia scienza” di Nietzsche.

LA POSIZIONE DELLA CHIESA, DEI PROTESTANTI E DEGLI ARISTOTELICI
La soluzione copernicana si presentava, in effetti, più semplice di quella tolemaica, in grado di ovviare agli inconvenienti e alle contraddizioni che emergevano in quest’ultima. L’astronomo polacco, tuttavia, non riuscì a provarla in modo convincente, tanto che il suo collega tedesco Osiander, curatore dell’opera principale di Copernico “De revolutionibus orbium coelestium”, inserì una prefazione anonima, invitando a considerare la spiegazione eliocentrica come una semplice ipotesi matematica. Per giustificare il moto dei corpi, del resto, Copernico addusse argomenti teologici di matrice platonica, parlando del sole come di un sovrano che siede su un trono e che è fonte di luce, di vita, immagine di Dio. Tale moto, del resto, per lui era ancora circolare: sarà Keplero a scoprire e dimostrare che l’orbita dei pianeti è ellittica. Galilei, dal canto proprio, con la scoperta, grazie al telescopio, delle irregolarità della superficie lunare, dei satelliti di Giove, delle fasi di Venere e delle macchie solari, mise in crisi l’idea aristotelica di un cielo immutabile e incorruttibile. In realtà la sua polemica non era rivolta tanto contro Aristotele, quanto piuttosto contro gli aristotelici del suo tempo. Costoro, infatti, invitati a guardare attraverso il cannocchiale pretendevano di mettere in dubbio e disputare ciò che si vedeva, in base all’ipse dixit. In tal modo, attraverso una pedissequa e letterale osservanza dei testi del filosofo greco, finivano per tradirne lo spirito più profondo di acuto osservatore della realtà naturale e umana e, comunque, di pensatore convinto che la conoscenza del nostro intelletto non può che passare, nel suo stadio iniziale, attraverso i sensi. La ricerca scientifica, sottolinea il pisano, progredisce non in base al principio di autorità ma in virtù dell’osservazione dei fatti. Con Copernico la cosmologia si separava anche dalla teologia. L’ipotesi eliocentrica pareva contrastare con alcuni passi dell’Antico Testamento, tra i quali quello in cui Giosuè ordina al Sole di fermarsi per poter sconfiggere gli Amorrei (Gs 10,12-13) e quello che accenna alla Terra che “rimane sempre al suo posto”, mentre “il Sole sorge e tramonta tornando al luogo dal quale si è levato” (Qo 1, 4-5). L’eliocentrismo incontrò per questo una forte opposizione innanzitutto nel mondo protestante, in virtù del richiamo alla Bibbia come fonte esclusiva della Rivelazione, che rendeva i seguaci della Riforma particolarmente sensibili a qualunque problema di incompatibilità letterale con la Parola di Dio. Lutero parla di Copernico come di un “insensato” e “un astrologo da quattro soldi” mentre giudizi altrettanto drastici giungono da Calvino e dallo stesso Melantone.

Più articolata la posizione all’interno della Chiesa Cattolica, dove le idee dell’astronomo polacco furono inizialmente accolte con interesse, in particolare dai Gesuiti, tanto che Copernico insegnò astronomia a Roma e medicina a Bologna, partecipò alla commissione del Concilio Lateranense V, incaricata della riforma del calendario, dedicò il suo “De revolutionibus” al Papa Paolo III, mentre presso l’Università cattolica di Salamanca, nel 1561, la sua concezione astronomica risulta insegnata in concorrenza con quella tolemaica. Un problema di rapporto tra le Sacre Scrittura e la visione eliocentrica sorse all’inizio del Seicento quando quest’ultima si diffuse al di fuori dell’ambiente matematico e cominciò a essere considerata, non come una ipotesi matematica volta a calcolare meglio le posizioni dei pianeti e spiegare i fenomeni celesti, ma come una teoria, cioè una verità fisica, un fedele rispecchiamento della realtà naturale. La teologia cattolica e gli ambienti della Curia romana si orientarono, allora, in senso critico verso una teoria non sufficientemente motivata, che contrastava con l’interpretazione letterale del testo sacro da sempre ritenuta autentica. Il problema è complicato dal fatto che Copernico sembrava attribuire alla centralità del sole un significato mistico-religioso di tipo magico-sacrale o, almeno, così la sua posizione era interpretata dagli ambienti neoplatonici, neopitagorici ed ermetici del Cinquecento, a cui facevano riferimento Ficino, Bruno, Campanella, convinti della natura spirituale dei corpi celesti. Il dibattito sul sistema copernicano si inserisce, infatti, in una partita a tre tra scienza, magia e fede cristiana, tipica del XVI sec. Magia naturale, astrologia e alchimia giocarono un ruolo fondamentale nello stimolare il rinnovato interesse per la scienza naturale. Mago, astrologo, alchimista e scienziato erano spesso accomunati dal metodo, consistente nella ricerca delle cause dei fenomeni naturali, da individuarsi nella loro dinamica interna. Il fine di tale ricerca, poi, non era inteso come meramente speculativo, ma innanzitutto pratico, volto al dominio delle forze della natura, intesa come un corpo vivente, una totalità quasi divina. Rispetto alle interpretazioni magiche della natura, tuttavia, la posizione delle Chiese era fortemente critica. La Chiesa Cattolica trovò, poi, nel Seicento un alleato, sebbene solo di fatto, paradossalmente proprio nel nuovo spirito scientifico galileiano-cartesiano, che, ispirandosi al metodo matematico, escludeva qualunque rilevanza di componenti magiche o astrologiche nella conoscenza naturale. Non a caso la Congregazione del Santo Uffizio in occasione della convocazione di Galilei del 1616 condannò la “dottrina pitagorica della mobilità della terra e dell’immobilità del sole”, intendendo riferirsi alla prima formulazione di un’ipotesi eliocentrica (il fuoco centrale, attorno a cui ruotano i corpi celesti), propria della scuola pitagorica, nell’ambito di una concezione magica del mondo legata al numero. Da questo punto di vista gli ambienti della Chiesa più impegnati contro la magia e i culti astrali in nome della centralità della ragione, come era nella tradizione scolastica, erano gli stessi che diffidavano di Copernico e soprattutto delle interpretazioni che circolavano del suo sistema.

GALILEI E LETTURA DELLE SCRITTURE
Galilei, dal canto proprio, sul piano teologico, è convinto che Dio si è rivelato all’uomo con due libri, quello della natura, scritto nel linguaggio matematico, e quello della Scrittura, cioè con la Creazione e con la Parola, e che tra di essi non può esistere contrasto. Ne deriva, come scrive nella lettera al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613, che la verità della fede e quella della scienza non possono essere in reale contraddizione, come del resto risulta dalla riflessione teologica e filosofica della tradizione cristiana sull’armonia di fondo tra fede e ragione. Se un conflitto emerge è necessariamente apparente e va imputato a un’erronea interpretazione dell’una o dell’altra. Qualora si tratti di questioni inerenti a realtà sovrannaturali l’errore è nella lettura e interpretazione del libro della natura e occorre seguire la parola di Dio come rivelata nella Scrittura. Se, invece, il conflitto riguarda questioni attinenti alla realtà naturale, l’errore è da cercare nell’interpretazione della Bibbia ed è tale lettura che va rivista, occorrendo seguire la parola di Dio come rivelata nel libro della natura. Il linguaggio della Scrittura, infatti, non va interpretato alla lettera ma tenendo conto del suo carattere antropomorfico, cioè del fatto che è a misura d’uomo e utilizza figure e immagini comprensibili anche dagli uomini semplici e privi di istruzione. Il fine della Scrittura, poi, non è scientifico ma salvifico, religioso: Galilei, citando una efficace affermazione del cardinale Baronio, successore di San Filippo Neri, era convinto “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadi in cielo, e non come vada il cielo”. La Bibbia non è per sé un testo scientifico o un libro di storia, ma una guida per i Credenti, in cui Dio rivela all’uomo la via della salvezza. Giovanni Paolo II osserva che Galilei, nella succitata Lettera a Benedetto Castelli e nella lettera alla Granduchessa Madre di Toscana, Cristina di Lorena del 1615, scrive “un piccolo trattato di ermeneutica biblica”. In tal modo anticipa il riconoscimento da parte dell’enciclica “Divino afflante Spiritu” di Pio XII della legittimità della “pluralità delle regole di interpretazione della Sacra Scrittura” sulla base della “presenza di diversi generi letterari nei libri sacri” e quindi della “necessità di interpretazioni conformi al carattere di ognuno di essi”. I testi della Scrittura, ricorda Galilei, non possono errare ma possono errare i teologi nell’interpretarne il significato, se si soffermano solo sul senso letterale delle parole, senza guardare all’intenzione di fondo che li ispira. Le risposte alle domande sui fenomeni naturali, infatti, sono date non dall’autorità della Scrittura o di Aristotele, ma dalle “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”, cioè attraverso il metodo matematico-sperimentale. Questo è basato sulla formulazione di una ipotesi e la successiva verifica “in laboratorio”, atta eventualmente a trasformare l’ipotesi in teoria e legge scientifica.

IL PROCESSO
Il nuovo metodo pose con urgenza il problema del rapporto tra la Scrittura e la sua interpretazione, che la teologia del tempo non colse in tutta la sua complessità e novità. Giovanni Paolo II osserva che “Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi”, il cui errore, “nel sostenere la centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della S. Scrittura”. Il cardinale Bellarmino, in verità, sembra consapevole della questione nel momento in cui, nella Lettera al Padre A. Foscarini, 12 aprile 1615 scrive: “Dico che quando ci fusse vera demostratione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e piú tosto dire che non l’intendiamo che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata”. Bellarmino non si dimostra pregiudizialmente contrario al sistema copernicano e a Galilei; del resto la condanna di quest’ultimo (1633) è successiva alla sua morte (1621). Il rapporto tra Galilei e l’autorità della Chiesa risulta in effetti non riducibile alle facili schematizzazioni degli “opposti estremismi”. In un primo tempo il problema delle implicazioni teologiche del sistema copernicano e delle scoperte galileiane semplicemente non si pose. Nel 1611 lo scienziato pisano sollecitò un pronunciamento dei Gesuiti del Collegio Romano, che si mostrarono interessati alle sue scoperte (compreso il Bellarmino), e fu accolto nella Accademia dei Lincei. Il decreto del 1616 della Congregazione dell’Indice condannò la dottrina copernicana in quanto teoria scientifica, consentendo che la medesima fosse proposta come ipotesi matematica e inserì nell’indice dei libri proibiti il “De revolutionibus orbium coelestium”, finché non fosse stato in tal senso corretto (donec corrigantur) eliminando la parte relativa alle Sacre Scritture. La condanna di Galilei del 1633 all’abiura pubblica e alla prigione a vita, commutata successivamente negli “arresti domiciliari” nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, fu motivata proprio con l’argomento che Galilei, pur ammonito a mantenere il silenzio sulla questione, proponeva il sistema copernicano non come mera ipotesi matematica, ma come una effettiva realtà fisica, provocando l’opposizione del papa Urbano VIII, che pure lo aveva precedentemente appoggiato (leggendaria sembra, tra l’altro, la frase “Eppur si muove” a lui tradizionalmente attribuita in questa occasione, in quanto originata da una ricostruzione di fantasia del giornalista e letterato Giuseppe Baretti nel 1757). Da questi due pronunciamenti e dalle parole del cardinale Bellarmino risulta che la Chiesa, certo non unanime sulla questione, non era, in definitiva, interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé, ma solo nella misura in cui questo era proposto come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. I rapporti tra Galilei e la Curia romana peggiorarono nel momento in cui parve a quest’ultima che il primo esorbitasse dalla sua competenza scientifica fisico-matematica e pretendesse di cimentarsi senza titolo nell’esegesi della Parola di Dio. Il problema era che Galilei non disponeva ancora di prove certe e inconfutabili a sostegno dell’eliocentrismo, adducendo tra l’altro come argomento l’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare. La Chiesa, d’altro canto, appariva, oltreché impegnata a tutelare un senso di stabilità, anche fisica, che l’uomo comune sembrava perdere dinnanzi allo sconvolgimento portato dal sistema copernicano, anche timorosa che la libertà di ricerca scientifica divenisse criterio di interpretazione e di giudizio della Sacra Scrittura.

L’idea di una superiorità della ragione sulla rivelazione e sulla fede, che non è propria di Galilei e ancora meno di Copernico, si affermerà, in effetti, a partire da Spinoza come una delle tendenze di fondo del pensiero moderno. La rivendicazione della legittima autonomia della ricerca scientifica e del rigore del metodo matematico-sperimentale, d’altro canto, si accompagnava in Galilei ad una chiara consapevolezza, non da tutti avvertita, del danno che proviene alla fede dal coinvolgimento dell’autorità della Scrittura in questioni opinabili e legate al variare delle concezioni fisiche e cosmologiche. Già Tommaso d’Aquino, aveva messo in guardia quattro secoli prima dal rischio per l’autorevolezza della fede di appoggiare quest’ultima su verità razionali non sufficientemente fondate e argomentate, essendo preferibile in materia astenersi dal dire ciò di cui non si può parlare con certezza. Proprio l’insufficienza delle prove addotte da Galilei a sostegno della propria tesi cosmologica è alla base del giudizio critico dell’epistemologo Feyerabend citato dal Papa e che gli è stato impropriamente attribuito come prova di un suo presunto atteggiamento antiscientifico: “La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione”. D’altra parte, commenta il cardinale Ratzinger, “sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande. Il Papa non avalla il giudizio di Feyerabend ma prende atto che proprio dal seno del pensiero scientifico contemporaneo emerge la consapevolezza dei limiti della razionalità scientifica. La sua conclusione, però, non è nel senso di contestare per questo la razionalità scientifica in quanto tale, ma di proporre un allargamento del concetto di ragione, non solo come strumento matematico-sperimentale ma come logos, facoltà dell’uomo che lo apre alla totalità del reale nella molteplicità delle sue dimensioni.

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E’ morto Lucio Dalla, cattolico senza riserve

Lucio Dalla era cattolico. La sua morte lascia un vuoto enorme, non solo nella musica italiana. Ecco alcuni degli aspetti poco conosciuto del cantautore bolognese, come la sua profonda fede, la messa a San Domenico (Bologna), l’amore al Papa e le sue idee etiche.




La notizia gira da qualche ora: il cantautore Lucio Dalla è morto.

Sarebbe stato stroncato per un infarto a Montreaux, in Svizzera, dove si trovava per una serie di concerti. Tra tre giorni avrebbe compiuto 69 anni.

Tra i suoi migliori lavori ricordiamo il brano “I.N.R.I.”, l’espressione dell’incontro con il Crocifisso risorto, di un’etica conosciuta e vissuta dal Lucio nazionale, testimoniata senza imbarazzo.

Nel 2007 fu tra i protagonisti de “La Notte dell’Agorà” in occasione del grande raduno di Benedetto XVI con i giovani delle diocesi italiane a Loreto. Cantò “Se io fossi un angelo”, datata 1986.


La messa a San Domenico e i suoi brani più belli.

Cattolico da sempre, si avvicinò particolarmente alla Chiesa negli ultimi anni. Non la chiamava conversione: «Non sono un convertito perché credo in Dio da quando ero bambino». Frequentava la messa a San Domenico a Bologna, a pochi metri dalle Due Torri.

L’album “Il Contrario di Me” (2007) fu visto come l’epilogo di questo cammino cristiano, comparve il brano “Come il vento”, costellato di metafore eucaristiche, guglie e campanili, chiese aperte e candele che nonostante tutto non si spengono.

Anche “Liam”, la storia di una crocifissione, non di Cristo ma di un povero cristo. Fin dal suo primo grande successo comunque, “4 marzo 1943”, il protagonista si chiamava Gesù Bambino.

In un’intervista nel 2007, spiegò che vi sono molti artisti cattolici (bolognesi) praticanti, come Luca Carboni, Biagio Antonacci, Paolo Cevoli e «credo che abbia a che fare con la creatività. Non ho mai pensato che dall’uomo potessero uscire risorse e fantasie che non dipendessero da un’apertura dell’anima verso le cose che non sono visibili».

Disse anche di aver apprezzato molto l’ultimo libro del Papa, Gesù di Nazareth: «Mi ha colpito più di quanto immaginassi. È un libro potente anche se non mi trova d’accordo quando affronta le parabole cercando di dare una logica storica e teologica alle storie del Buon Samaritano e del Figliol Prodigo. Io sento il bisogno di interpretazioni più semplici. Invece mi è piaciuto quando parla del Discorso della Montagna, che assieme alla Crocifissione è il momento più straordinario del Vangelo».


“Non sono comunista, cattolico ed a favore della vita”.

Per anni Dalla si esibì ai Festival dell’Unità e ai raduni comunisti-marxisti. Sempre nel 2007 volle chiarire la questione:

«Non sono mai stato né marxista, né comunista. Se mi sono esibito alle manifestazioni di sinistra è perché sono un professionista: gli organizzatori mi hanno pagato ed io ho cantato. Punto. Non credo che un cattolico – perché io tale sono – debba rifiutare le offerte che gli vengono fatte solo per una questione ideologica. Detto ciò, reputo che il marxismo, come ha sottolineato il Papa nella sua ultima Enciclica, contenga alcuni elementi in comune con il cristianesimo, anche se ha fatto, sbagliando, un mito dell’economia».


Apprezzò anche il messaggio del fondatore dell’Opus Dei, San Josemaria. Qualcuno interpretò male e lui rettificò dicendo che apprezzava il messaggio ma non era iscritto al noto movimento ecclesiale.

Rispose anche a domande su tematiche bioetiche: «Reputo l’aborto, ad esempio, una cosa negativa. La vita va difesa sempre e comunque, dal suo momento inziale sino alla fine naturale».

Ancora, sul Papa: «Benedetto XVI ha dimostrato ancora una volta di essere un grande e fine intellettuale. Qualche ‘bello spirito’ vuol farlo passare per nemico della ragione, ma il livello della sua catechesi è così elevato da sfuggire a quelle menti che ricercano, nel mondo attuale, solo l’insulto. Il Papa afferma, saggiamente, che fede e ragione devono e possono essere amiche e che non sono affatto categorie contrapposte. Io la penso come lui».

Se dovesse dedicargli una canzone avrebbe scelto «senza dubbio la mia ‘Inri’». L’esibizione del 1997 davanti a Giovanni Paolo II la definì invece: «uno dei più grandi momenti della mia vita».

In un articolo di Repubblica del 1994 si citano altre frasi di Lucio Dalla:

«Sono cristiano, sono cattolico, credo fermamente in Dio e professo la mia fede sempre. La fede cristiana è il mio unico punto fermo, è l’unica certezza che ho. La fede è una grande certezza in una società come la nostra che diviene ogni giorno più complessa, più enigmatica. La nostra società moderna ha un grande bisogno di fede. Nelle mie canzoni ci sono molti valori cristiani. Metterei l’accento sulla parte umanistica della vita, quello che cerco attraverso le mie canzoni è invitare ad aumentare la propria coscienza. Ho trovato una grande forza nelle parole dei Salmi, non lasciano indifferenti».


Arrivederci Lucio, e grazie.

 

Qui sotto il video del brano I.N.R.I che avrebbe voluto dedicare al Papa


La redazione

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Odifreddi e Margherita Hack, “nipoti ritardati del positivismo”

Divertente presa per i fondelli dei due pensionati-guru laicisti, Odifreddi e Hack, finalmente si contribuisce a  scalzare l’immeritata aura di sacralità e scientificità che gli si è voluta cucire attorno. Lo ha fatto il laico Lanfranco Pace, ex sinistra extraparlamentare durante gli anni di piombo, dalle colonne de “Il Foglio”.

L’occasione è la smentita sui neutrini più veloci della luce. Così scrive Pace: «Sarà venuto il mal di pancia ai Piergiorgio Odifreddi, alle Margherita Hack, al manipolo scarno, ma pretenzioso assai, di scienziati e nipoti ritardati del positivismo ottocentesco che con la forza supposta della ragione pensano di convincerci a fare a meno del mistero dell’universo, di guarirci dall’incombenza del divino e per l’insieme dell’opera loro sono stati e sono spesso ospiti di Fabio Fazio», quest’ultimo già resosi protagonista della celebrazione all’eutanasia assieme a Roberto Saviano nel programma: “Vieni via con me”. Ricordiamo che Massimo Cacciari definisce Odifreddi il “nipotino di Voltaire”, mandandolo ogni volta su tutte le furie.

Di fronte al confine incerto, esile di quello che conosciamo, ha continuato Pace, «Newton si vedeva come un bambino che gioca sulla riva del mare e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più liscio o una conchiglia più bella del solito. Gli Odifreddi e le Hack si pongono come adulti turiferari di una santa via atea e laicista».  E ancora: «Non so se Einstein ha trovato davvero l’undicesimo comandamento, formulandolo addirittura con suprema eleganza e francamente me ne frego: non placa la mia angoscia, il senso del limite invalicabile, il lento scivolare verso il nulla. Per questo è meglio non sapere. E credere che il sole sia solo un’abitudine qualunque sopra “le nostre cose sorde e distratte”».

La santa associazione di atei razionalisti, che si identifica come “confessione religiosa”, si è subito stracciata le vesti e si è schierata in protezione dei suoi due grandi sacerdoti, che sono anche presidenti onorari (nonostante Odifreddi abbia preso le distanze dall’associazione integralista). Lo ha fatto tuttavia malamente, tentando di screditare Lanfranco Pace per il fatto di collaborare con “Il Foglio”, e quindi con Giuliano Ferrara, e quindi di essere uno sporco pro-life. Tutto qui. Ma la definizione “nipoti ritardati del positivismo ottocentesco” è divertente, e rimarrà incorniciata.

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Ora di religione: ecco come recuperare quello 0,2% dei frequentanti

L’ultimo rapporto della CEI per l’insegnamento della religione cattolica ha stabilito che per la prima volta, dal 1993/1994 quando venne fatta la prima rilevazione, i non partecipanti all’ora di religione nel 2010/2011 sono scesi sotto il 90 per cento: l’89,8, per la precisione. Piergiorgio Odifreddi ha festeggiato per una settimana e il tutto è culminato con un articolo di gioia sul suo imbarazzante blog in cui, a 62 anni e dopo 20 anni di asfissiante militanza laicista, implora ancora ai ggiòvani di essere più secolarizzati dei genitori (Karl Marx alla sua età aveva già rinunciato). Tuttavia essi se ne infischiano e nove su dieci scelgono di frequentare l’ora di religione.

Un dato eccezionalmente alto, sopratutto considerando che l’alternativa allettante è passare un’ora di svago completo (o addirittura tornare a casa prima), nella maggioranza dei casi.  I dati della CEI sono in linea con quelli dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto il quale ha rilevato  qualche mese fa un calo complessivo dello 0,2% rispetto all’anno precedente, con un incremento dello 0,2% nelle scuole superiori dove si arriva all’83,7%. Ben oltre il 91% alle materne, 93,4% alle elementari e 91,3% alle medie.

Qual’è la causa di questo -0,2%? Felice Nuvoli, professore associato di Pedagogia generale nell’Università degli studi di Cagliari, ha spiegato i motivi:  «Non siamo certamente davanti a una fuga dall’ora di religione, come ha invece scritto qualche giornale usando toni trionfalistici, ma c’è un problema nell’insegnamento della religione nella scuola italiana». Si tratta della diminuzione costante di religiosi, sacerdoti o suore, e di un aumento del personale laico insegnante. Continua Nuvoli: «Il problema è che i sacerdoti dovrebbero porsi il problema di andare a insegnare religione nelle scuole. Tale insegnamento è infatti una possibilità di incontro con il mondo giovanile che viene letteralmente bruciata se i preti rimangono sempre rinchiusi in sacrestia o in parrocchia», magari a preparare lunghe e poco utili omelie di incomprensibile analisi teologica (con i vari «spezziamo il pane della parola» e robe simili). Veri e propri “abusi liturgici” come spiega benissimo don Nicola Bux in “Come andare a Messa e non perdere la fede” (Piemme 2010).

Invece, continua Nuvoli, «io, che sono sacerdote e che insegno anche in una facoltà teologica, ai seminaristi dico sempre di dedicare la mattina alla scuola perché quello è il terreno dove possono incontrare i giovani. Secondo me è proprio l’incontro con la figura del sacerdote che permette all’ora di religione quell’interdisciplinarietà unica nel suo genere. Si può fare religione parlando di letteratura o parlando anche di cronaca, ma a condizione che il termine di paragone sia chiaro». Il sacerdote «rende visibile il sacramento, non un insegnante con gli altri». Nessuna storia delle religioni o una cultura vagamente religiosa, «no, ci deve essere la proposta di tipo tradizionale, che è quella della presenza della Chiesa nel mondo, una presenza di tipo educativo e che per forza di cose ha bisogno che sia il sacerdote a fare l’ora di religione». Conta moltissimo anche la famiglia, il suo ruolo educativo e l’equilibrio che fornisce al giovane infatti «nel sud Italia invece, dove c’è ancora in qualche modo un tessuto familiare forte, la percentuale di coloro che frequentano è più alta».  Rimane comunque l’inesistenza «di una esperienza effettiva ecclesiale in quell’ora lì».

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Dio è un prodotto dei desideri dell’uomo?


 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico e docente universitario

 
 

Questo sito tratta frequentemente – da ultimo in una serie di articoli di Michele Forastiere, dove la questione è stata esaminata a livello scientifico interdisciplinare – del rapporto tra mente e cervello, perché è un problema cruciale delle scienze razionali, sia umane che naturali. Pur ospitando anche le voci riduzionistiche, in coerenza alla sua missione UCCR propugna la centralità dell’uomo nell’Universo e l’irriducibilità della mente alla materia-energia: una concezione che a molti filosofi e scienziati, credenti e non, sembra più razionalmente fondata dell’opposta. Apriti cielo!Ogni volta, si solleva in un crescendo rossiniano l’onda irridente degli ambienti atei intolleranti della Rete, con accompagnamento di accuse di passatismo, antropocentrismo e, manco a dirlo, sfregio alla scienza.

Ne faccio un esempio per tutti. Un laureato in scienze della comunicazione che dichiara di fare «l’istruttore ad una scuola di calcio per bambini dai 6 ai 10 anni», evitando accuratamente di entrare nel merito filosofico o scientifico delle tesi sostenute in uno dei sopracitati articoli, dal suo blog pontifica: «Chi teorizza l’esistenza dell’anima immateriale non ha quel minimo di conoscenze scientifiche (la forma mentis) per discutere sull’argomento o non sa scremare il suo pensiero da quell’elemento che in speculazioni del genere dovrebbe esser lasciato fuori il più possibile: la speranza. Sperare di non essere sola materia [sic: il Nostro è fermo alla fisica del ’700!], in questo caso, finisce per portare a conclusioni inevitabilmente contaminate e razionalmente discutibili prese per buone solo perché desiderabili. Sia in un caso che nell’altro, sia che ci si trovi a parlare con gente che non ha argomenti sia che si interagisca con chi confonde speranza e ricerca della (approssimazione della) verità, è davvero difficile portare avanti una conversazione costruttiva. E ho imparato a lasciar perdere. […] Supponenza? Sì, mi sa di sì». Segue il dovuto plauso al “supponente” dei suoi 4 (quattro) follower, come lui più esperti in dietrologia della speranza che in logica ed epistemologia, mi sa.

Ho preso il discorso di questo blogger non per la sua valenza scientifica, che è palesemente nulla, ma perché riprende – più con gli automatismi di un linguaggio compilatore, che con lo spirito critico che si richiederebbe ad un aspirante giornalista – il piatto forte, che poi è una minestra riscaldata da secoli, del “new atheism” militante contemporaneo, da Dawkins agli emuli di casa nostra. È un ragionamento accattivante, che mi ha intrigato la prima volta che l’ho incontrato, alle lezioni liceali di filosofia sulla sinistra hegeliana e sul pensiero di Ludwig Feuerbach (1804-72), in particolare. Questo filosofo tedesco, che da giovane fu uno studente luterano di teologia, dedicò tutta la sua vita a tentar di dimostrare, con ricerche storiche, antropologiche, psicologiche ed anche gastronomiche, che non l’uomo è stato creato da Dio, ma piuttosto Dio è un concetto creato dall’uomo. Le qualità che noi uomini possediamo in misura finita (per es., la bontà, la forza, l’intelligenza, la stessa vita) e di cui però abbiamo un desiderio illimitato, le oggettiveremmo al massimo grado nell’idea di Dio, che concepiamo infinitamente buono in contrasto alla nostra finita bontà; onnipotente, in contrasto alla nostra piccola potenza rispetto alle forze naturali; onnisciente, a differenza della nostra limitata intelligenza; eterno, in opposizione alla nostra mortalità. Dio sarebbe quindi, soltanto, la proiezione di questa operazione mentale promossa dalla nostra volontà di potenza. Gli ateismi di Marx, Nietzsche e Freud sono solo varianti di questa fulminante illuminazione di Feuerbach.

Fu dunque Dio a creare l’uomo, o l’uomo a creare Dio? Per un lasso della mia giovinezza ho vissuto il dilemma come un dissidio interno tra il richiamo del cuore, restio ad abbandonare il tranquillo porto approntatomi dalla cultura in cui ero stato allevato, e la lusinga di un ragionamento che mi spingeva verso acque ignote. Capivo che la scelta che avrei infine intrapreso non era solo teorica, ma sarebbe stata un crinale con conseguenze decisive sulla mia vita. La propensione verso le posizioni della sinistra hegeliana, cui contribuiva il clima politico e culturale universitario degli anni ‘70, era in me mitigata dal contrasto tra le previsioni teoretiche marxiane e la realtà oppressiva del socialismo reale nell’Est Europa di allora. Filosoficamente, avevo la soluzione del paralogismo feuerbachiano sotto il naso, ma non la vedevo. Poi la luce arrivò, gradualmente fino a divenire accecante.  I giovani della sinistra hegeliana, si sa, rovesciarono il pensiero di Hegel come un guanto: Stirner ne capovolse le tesi politiche, Feuerbach i fondamenti religiosi, Marx la teoria economica. Però tutti conservarono il carattere peculiare del loro maestro: la prosopopea di chiamare ad ogni pagina scientifico il proprio pensiero, e ideologico quello di chi non la pensava come loro (anche in questo sentimento di “supponenza” i loro adepti contemporanei ne sono pedissequi imitatori!). Scientifico, nel senso positivo di vero, universale, definitivo; ideologico, nel senso spregiativo di ipocrita, in mala fede, preconfezionato a coprire interessi di parte. E come Hegel pensava che, dopo la sua “Fenomenologia dello Spirito”, nessuno avrebbe avuto più nulla da aggiungere e sarebbe finita la filosofia (mentre la storia s’incaricò di mostrare che ciò che si avviava al termine era solo il sistema prussiano di cui Hegel era stato cantore), così i filosofi della sinistra hegeliana presumevano che le loro idee su politica, religione ed economia fossero scevre da pregiudizi personali e rappresentassero l’ultimo esito dello sviluppo oggettivo dello Spirito umano universale. Nei secoli successivi, invece, ancora una volta, i fatti testardi avrebbero dimostrato la contingenza del loro pensiero e l’imprevedibile, inesauribile ricchezza della storia umana. Con riguardo alla critica della religione di Feuerbach, capii finalmente, aiutato dallo studio di Tommaso d’Aquino, che l’errore dell’argomento non sta nella falsità della proiezione, ma al contrario nel fatto che una proiezione c’è sempre, in ogni tipo di conoscenza umana.

Mentre Aristotele sosteneva che la mente riflette senza modificazioni ciò che esiste fuori di noi (la realtà), San Tommaso attenuò la corrispondenza tra realtà ed intelletto con l’osservazione, che anticipa di molti secoli Kant: “Cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis”, il conosciuto sta in chi conosce attraverso le modalità di chi conosce. La realtà, insomma, nel venire conosciuta si adatta ai nostri sensi e alle nostre categorie mentali. Così, non solo nell’atto di pensare a Dio, ma anche nel conoscere un amico o nell’osservare un evento, mettiamo in azione l’umana struttura mentale e la personale forza d’immaginazione, aggiungiamo qualcosa di noi stessi all’oggetto, sia come uomini in generale che come persone particolari: dunque proiettiamo. Ma questo implica necessariamente che ad una nostra proiezione non corrisponde nulla fuori di noi? È ovvio che una cosa non esiste solo perché uno, o anche molti di noi la desiderano; ma vale anche l’inverso: non è che una cosa non esiste, solo per il fatto che qualcuno la desidera. Qui sta il sofisma di Feuerbach, stancamente ripetuto dagli ateisti moderni che si dichiarano, sbagliando, nuovi e razionalisti: Dio non esiste, dicono, perché sono gli uomini (compresi, ahimè, loro stessi!) a desiderare (o a temere) che esista. Ma perché una cosa che si desidera o si teme, non deve esistere? Perché ciò che dall’alba del genere umano viene venerato dev’essere per questo motivo solo un’idea? Perché la ricerca dell’archè, il principio originario di tutte le cose, da cui sono sorte la filosofia e la scienza, dovrebbe essere un’attività insensata?

Gli articoli che appaiono quotidianamente in questo sito e l’ospitalità offerta senza censure a tutte le voci stanno a dimostrare che noi cristiani non abbiamo nulla da obiettare allo scrutinio rigoroso, sotto gli aspetti storico, antropologico, psicologico o neuro-fisiologico, della nostra fede. Ma nessuno studio “scientifico” sull’anima umana (che poi vuol dire nessuna elettrotecnica di misure neuro-encefalografiche) potrà mai dimostrare alcunché riguardo all’inesistenza di una realtà assoluta indipendente dalla psiche. Il che significa che, forse, al desiderio di Dio dei credenti può corrispondere un Dio reale, e che forse, al contrario, proprio il desiderio di un ateo che Dio non esista potrebbe essere la proiezione di un suo determinato pregiudizio, magari esito di un’intima, casuale esperienza infantile quando la sua ragione non era ancora matura. Per concludere, l’argomento della proiezione, da cui sono nati gli ateismi filosofico e psicanalitico e di cui si pascono ossessivamente i new atheist postmoderni, ha valore logico zero come prova dell’inesistenza di Dio. Ne prendano intelligentemente atto.

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