In coma “irreversibile” per 10 anni, oggi abbraccia i giocatori della Roma

«Un tronco morto», dicevano i medici, un «senza speranza», Umberto Veronesi ha parlato di persone come lui come «penosa presenza di questi morti viventi». Eppure Massimiliano Tresoldi  -dopo 10 anni di coma cosiddetto (erroneamente) “irreversibile”- si è risvegliato nel 2001 e nei giorni scorsi è andato a Trigoria a salutare i campioni di calcio romanisti, accompagnato da mamma Lucrezia, papà Ernesto e Bruno Conti, bandiera romanista e oggi responsabile del settore giovanile giallorosso.

Anche Massimiliano era un calciatore, poi il 15/8/91, a vent’anni, l’incidente in autostrada tornando dal mare, dieci lunghissimi anni di  stato vegetativo “irreversibile”, il cervelletto è tranciato e tanti consigliano subito di staccare il respiratore artificiale a quell’essere vegetale. Ma mamma Ezia è una donna forte e non si è mai lasciata abbindolare dai gufi della morte, dai radicali di Emma Bonino. Contro tutto e contro tutti lo ha portato a casa Massimiliano e tutto il paese di Carugate (Mi) si è stretto attorno alla famiglia. Ogni giorno Ezia prendeva la mano di suo figlio per fargli fare il segno della croce, poi una sera, un momento di sconforto: «Gli ho proprio detto: adesso basta, questa sera non ce la faccio. Se vuoi farti il segno della croce, te lo fai da solo. Era una frase buttata lì, rivolta più a me stessa che a lui», ha raccontato. Improvvisamente Massimiliano ha alzato la mano e si è fatto il segno della croce da solo. Da quel momento, giorno per giorno, ha iniziato il risveglio, lento e faticoso, fino ad arrivare a scrivere e pronunciare le prime parole.

Max ha da subito ripescato dal fondo della memoria un linguaggio “segreto” fatto di gesti con la mano, lo aveva imparato alle elementari per “parlare” coi compagni senza farsi beccare dalla maestra. Aveva ascoltato tutto durante quei lunghi dieci anni, sapeva perfino del passaggio dalla lira all’euro. Guardando la televisione, nel 2009, ha anche seguito la triste storia di Eluana Englaro, con trepidazione e sgomento. Avrebbero voluto parlare a Beppino, raccontargli la sua esperienza. Una sera su un foglio di carta ha scritto: «Sono felice. Povera Eluana». In un altro messaggio, prima di partire per Lourdes, ha scritto alla Madonna: «Dai la forza a mia mamma per vivere ancora a lungo». Settimana scorsa a Trigoria, emozionato, ha salutato e abbracciato Francesco Totti, mentre Bruno Conti nascondeva gli occhi umidi, scuotendo la testa incredulo.

 

Qui sotto il servizio di “Telepace”, con intervista a mamma Lucrezia

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Alabama, Corte Suprema riconosce il feto come una persona umana

 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

La notizia non è stata divulgata se non da qualche associazione pro-life, e, considerando il complesso degli ordinamenti giuridici e delle pronunce giurisprudenziali in merito, sembra rappresentare una decisione del tutto minoritaria, ma pur essendo controcorrente non è per questo meno degna di attenzione, soprattutto per chi riesce a prescindere da una visione sociologica del diritto. Lo scorso 17 febbraio 2012, infatti, la Corte Suprema dell’Alabama ha emesso una sentenza che indica una inversione di rotta rispetto al predominante orientamento delle Corti in genere e di quelle statunitensi in particolare. Nella sua pronuncia la Corte Suprema dell’Alabama riconoscendo la risarcibilità per wrongful death (morte indesiderata) dello stillborn son (figlio nato morto), giunge a conclusioni ben oltre ogni aspettativa.

Se, infatti, per un verso non vi è nulla di eclatante nel riconoscere il risarcimento alla madre per la morte indesiderata del proprio feto allorquando questa non abbia deciso liberamente di procedere a IVG, è anche pur vero che la Corte compie un passo avanti basandosi proprio sulle risultanze scientifiche. Ciò che emerge dal ragionamento del giudice statunitense è la circostanza per cui il risarcimento non spetterebbe alla madre, non solo o non tanto perché il feto le appartiene, ma perché il nascituro “si” appartiene, nel senso che esso viene dichiarato centro di imputazione giuridica, poiché viene riconosciuto come persona. Molto interessante sotto questo aspetto è la peculiarità della sentenza che viene costruita dai giudici dell’Alabama in aperta dialettica con quella celebre del caso Roe vs. Wade del 1973 con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò illegittime tutte le legislazioni dei singoli stati interdittive dell’aborto poiché violanti il supremo diritto alla privacy delle donne.

Il giudice Parker, tra i giudici dell’Alabama che hanno adottato la decisione in oggetto, nel suo approfondito commento alla sentenza medesima, scrive che «ben 38 Stati hanno adottato una legislazione che punisce l’omicidio fetale e ben 28 che tutelato espressamente la vita dal concepimento». Ciò si spiega, secondo Parker, perché gli assunti che sostengono la Roe vs. Wade sono oramai sorpassati dalla stessa medicina e dalla medesima embriologia, essendo trascorsi ben quarant’anni di ricerche, studi ed approfondimenti medici, giuridici e filosofici sul punto. E’ per questo, spiega Parker, che in un’altra pronuncia, Ziade vs. Koch, si precisa che «when an unborn child is killed, a person is killed» ( «quando un nascituro è ucciso, una persona è uccisa»). In ciò consiste il più grande errore della Roe vs. Wade per il giudice Parker, poiché la sentenza che ha legalizzato l’aborto ha concluso che «the unborn have never been recognized in the law as persons in the whole sense» («il nascituro non è mai stato riconosciuto dalla legge come persona in senso pieno»). Parker ricorda, infatti, citando diverse pubblicazioni internazionali di embriologia, che oramai, grazie allo sviluppo notevole della tecnologia degli ultrasuoni la conoscenza scientifica della vita prenatale ha compiuto passi da giganti e, del resto, continua Parker, la comunità scientifica di biologi ed embriologi concorda nel ritenere il concepimento come il momento dell’inizio di una nuova vita; senza dubbio non è una vita già matura, ma è nondimeno una vita umana. Per questo motivo, Parker conclude, «un nascituro è un essere umano unico e individuale dal concepimento e, pertanto, lui o lei ha diritto alla piena tutela da parte della legge in ogni fase del suo sviluppo».

Gli spunti di riflessione potrebbero essere molteplici, sotto vari aspetti (costituzionale, penalistico, medico, epistemologico), ma poiché costretti dalle necessità imperiose dello spazio e del tempo non si può andare oltre, non foss’altro che per rispettare la soglia di attenzione, non si può tuttavia esimere da una considerazione conclusiva. La pronuncia ed il ragionamento ad essa sottostante sembrano, come in effetti sono, del tutto inappuntabili, almeno dal punto di vista bioetico-filosofico, poiché incentrandosi sull’elemento personale del nascituro, cioè sul suo essere persona, contrariamente a quanto sostenuto dalle diffuse tesi riduzioniste di Tooley, Engelhardt, Singer, Hare, Harris, Warren e altri noti filosofi morali appartenenti alla corrente utilitarista che tanto oggi è inconsapevolmente di moda, si è andati al cuore del problema, si è incardinata la decisione sul punto più sicuro, cioè sull’elemento ontologico della questione, che, in sostanza, si propone come non solo elemento fondativo della stessa, ma come orizzonte veritativo per la soluzione del problema. In sostanza il nascituro è una persona; la filosofia lo ha scoperto per prima, la medicina lo sta confermando con il passare del tempo, e il diritto, seppur lentamente, si sta sempre più adeguando. Come ha scritto Romano Guardini, nelle sue dense ed affascinanti riflessioni di esplorazione filosofica sul diritto alla vita prima della nascita, «la persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall’anima spirituale che è in ogni uomo. La personalità può essere inconscia come nel dormiente; tuttavia, essa è presente e deve essere rispettata. Oppure può non essere ancora completamente sviluppata, come nel bambino; tuttavia essa esige già una tutela morale».

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Legami tra aborto, HIV e tossicodipendenza

Lo studio italiano “Donne con infezione da HIV (Didi)” ha verificato per i due anni scorsi 580 donne sieropositive (104 straniere) riportando informazioni di vario tipo. Ben il 12% di queste donne ignorava la propria sieropositività finché non si è sottoposta ai comuni esami per via di una gravidanza; estrapolando questo dato alla popolazione italiana, si calcola che 140 mila persone potrebbero aver contratto il virus e non saperlo.

Si è visto inoltre che la percentuale di donne sieropositive che raggiunge la menopausa prima dei 40 anni è triplicata (5,2% vs 1,8%) rispetto alle non sieropositive. Nell’80 % dei casi queste donne avevano contratto l’infezione da HIV mediante un rapporto sessuale: non che una vita casta metta al riparo al 100% da questa malattia, ma conoscere bene il proprio, unico, partner sessuale è consigliabile anche sotto il profilo igienico.

Meritevole di segnalazione è che il 44% delle donne intervistate hanno riferito di avere ricorso ad almeno una interruzione volontaria di gravidanza durante la loro vita. Tra queste, il 58% ha avuto una diagnosi di infezione da Hiv dopo aver abortito, il 25% prima di abortire, 10% sia prima che dopo e nel 7% dei casi il dato non era noto. Le donne che hanno abortito avevano più probabilità di avere avuto il primo rapporto sessuale ad un età pari o inferiore a 15 anni, di avere avuto una storia di tossicodipendenza e un’infezione da HIV più datata. 

Linda Gridelli

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Ecco la strategia: staccare i fedeli dalla Chiesa cattolica

Dopo vent’anni di attacchi diretti alla fede da parte di Odifreddi & amici, il Paese è rimasto fortemente cattolico e religioso. Urge quindi un cambiamento di piano, ed è più complesso: lo ha mostrato Corrado Augias, invitato qualche settimana fa da Gianluigi Nuzzi nel suo programma televisivo “Gli Intoccabili” per commentare le parole del famoso presunto “corvo” del Vaticano. Sorprendentemente il furioso laicista ha dichiarato più o meno così: «bisogna distinguere le cose: la Chiesa del potere e quella dei fedeli, che fa tantissimo bene alla società». Per chi conosce Augias, è una clamorosa novità.

L’intenzione nascosta è quella di staccare i fedeli dalla Chiesa, farli vergognare di essa, demoralizzare l’appartenenza alla comunità ecclesiale, aggredire mediaticamente i movimenti ecclesiali (Opus Dei, CL, Legionari ecc…) a moti alternati, inducendo così una fede personale, individualizzata e quindi più debole. Protestantizzare i cattolici, in poche parole. A “loro” conviene: da una parte è una fede facile da (far) abbandonare (si genera inevitabilmente un lento scivolamento verso il nichilismo e l’agnosticismo, oggi, ad esempio1 pastore protestante su 6 è ateo, pensate i fedeli!) e soprattutto completamente assente dalla vita pubblica e innocua su tematiche bioetiche, anzi “adulta” e quindi addirittura favorevole al pensiero radicale e progressista (che governa il potere mediatico) e contrario a quello della Chiesa. Non è complottismo, ma pare davvero essere quel che sta sotto all’opprimente anticlericalità a cui assistiamo oggi (incredibile spazio mediatico ai teologi dissidenti; bufale anticlericali; gonfiamento del caso pedofilia; appositi fraintendimenti delle parole del Papa; sproporzionate campagne contro ICI, 8×1000, IOR; esaltazione di ogni dissidio interno al Vaticano, moralizzazione continua sul fatto che il Vaticano agirebbe contro Gesù e il Vangelo ecc.).

Occorre dire che la tattica è efficace, almeno secondo la fotografia scattata dalla quarta indagine sui valori degli europei, i cui risultati sono contenuti nel volume «Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova» (Vita e Pensiero 2011) curato dal sociologo Giancarlo Rovati. Il 78% della popolazione italiana maggiorenne – si legge – si riconosce nella fede cattolica e soltanto due italiani su cento si professano di altra religione (3% in meno rispetto a dieci anni fa). Un dato molto alto, ma le contraddizioni cominciano sui temi dottrinali, etici e morali legati alla fede cattolica. Solo il 20,1% risponde affermativamente all’esistenza di una sola religione vera, quella cattolica. Ad essi si aggiunge un 26% il quale ritiene che «anche le altre religioni contengono elementi di verità». Per un 40,6% «non c’è una sola religione vera, ma tutte le grandi religioni contengono alcune verità fondamentali». Si capiscono meglio ora i continui richiami contro il relativismo del Pontefice?

Crescono in dieci anni coloro che affermano di essere religiosi (dall’82,5% all’84,2%), tra chi si dichiara praticante si arriva al 75,5%. Nel paradiso tra i praticanti però ci credono il 70,5% e nell’inferno il 58,3%, mentre tra chi si dice semplicemente religioso scendiamo al 60,6% e al 49,7%. Vi è addirittura un 17,1% di praticanti che crede nella reincarnazione! Gli autori non tirano però conclusioni affrettate: «Questo processo»– si sottolinea nella ricerca – «non porta necessariamente a posizioni di individualismo in campo religioso, né sta portando a una progressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma a un diverso modo di rapportarsi a essa. Basti pensare che, nonostante si registri un calo in percentuale negli ultimi dieci anni su molti indicatori di religiosità istituzionale, non risulta diminuire l’importanza che le persone danno alla religione nella propria vita (il 71% dice “molto” o “abbastanza” importante)». Non c’è nessuna secolarizzazione in atto, sottolineano, e «la partecipazione alle funzioni religiose negli ultimi quarant’anni è pressochè stabile, oscillando attorno al 30%».

Il processo crescente di individualizzazione del credere è però evidente e, come abbiamo affermato all’inizio è la strategia portata avanti dagli avversari della fede religiosa. Per ora, dicono i ricercatori, questo «non coincide con un generale deprezzamento dei valori religiosi, spirituali e morali». Ci piace l’ottimismo di “Avvenire”, secondo cui questo è il terreno da cui ripartire per una nuova evangelizzazione, che però riavvicini le persone non tanto ad una fede individuale, ma alla Chiesa cattolica.

Luca Pavani

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L’antropologo Julien Ries: «il primo uomo apparso è religiosus»

Non lo immaginava neanche lui che Benedetto XVI lo scegliesse per diventare cardinale, tanto che Julien Ries sorride e afferma: “Per me è stata una grande sorpresa. Sento una grande riconoscenza nei confronti del Santo Padre”. Ma chi è Julien Ries? Professore dell’Università cattolica di Lovanio (Belgio), è considerato il più grande studioso delle religioni vivente. Ha 92 anni ed è nato ad Arlon, comune della Vallonia sito a 185 km dalla capitale. Viene inoltre considerato come il fondatore di una disciplina scientifica, l’antropologia religiosa, per la quale si impegna dal 1968.

In un’intervista ad Avvenire, il neo-cardinale afferma che da oltre 40 anni spiega che l’uomo da quando esiste, ovvero da 2 milioni di anni, è già un essere religioso: «L’uomo fa esperienza del sacro sin dai suoi primordi e la sua coscienza razionale si è sviluppata non in senso fisico, ma come coscienza della sua esistenza nel mondo e della presenza di un essere trascendente al di là del mondo eterno». Nell’intervista trova spazio anche una critica verso il pensiero marxista, pericoloso soprattutto perché non dà valore all’uomo, ma alla collettività, in modo che questo non abbia legami con il sacro. Ries, invece, con il suo lavoro riesce invece a mostrare che c’è un’antropologia religiosa profonda che accomuna tutti: greci, romani, buddhisti o induisti. E’ l’esperienza del sacro, per l’appunto. L’altra critica è verso il pensiero strutturalista, un altro “rischio” per il cristianesimo.

In una seconda intervista, pubblicata sull’Osservatore Romano, Ries afferma che l’uomo anche in futuro non potrà fare a meno della religione, perché l’uomo è soprattutto homo religiosus e questo è decisamente evidente in seguito alle ultime scoperte. L’uomo è nato dunque, come homo religiosus e come homo symbolicus. D’altronde, anche gli stessi studiosi di preistoria, tra cui il prestigioso Yves Coppens, sono d’accordo: proprio dalla preistoria, si riesce a constatare una crescita continua della religione, e l’incarnazione di Gesù non può che rappresentarne l’apice“Le grandi religioni – afferma Ries – continueranno, perché sono una via, un senso per l’uomo. Ai lati di una via ci sono certamente i sassi (che potremmo paragonare alle sétte) ma le religioni, quelle grandi, continueranno. D’altronde, si possono trovare prove di questo in tutto il pianeta. Se si fa una panoramica mondiale, ci si rende conto che l’uomo ha bisogno della religione.” 

Infine, Julien Ries ci tiene a sottolineare che ha donato la sua biblioteca all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove un’intera equipe sta lavorando sul suo pensiero circa l’antropologia religiosa. La casa editrice è Jaca Book.

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Charles Darwin e Francis Galton all’origine dell’eugenetica e del razzismo


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

Strettamente connessa al razzismo troviamo l’eugenetica, che altro non è che la riedizione dell’antico sogno, utopico, e cioè ateistico, di creare una umanità perfetta, assolutamente sana, senza macchia, che non abbisogni di un Dio Salvatore e di una Redenzione. L’eugenetica è presente già nella Repubblica ideale, sostanzialmente comunista, di Platone; nella “Città del sole” di Tommaso Campanella, anch’essa organizzata secondo criteri comunisti; nel sogno di alcuni maghi del Cinquecento, che credevano di poter applicare la selezione adottata per i cavalli, anche all’uomo. Soprattutto, l’eugenetica moderna, riporta, come si è accennato, al nome di Francis Galton, cugino di Charles Darwin, che nel 1883 coniò la parola “eugenics”. Le dottrine di Galton vennero attuate per la prima volta, con sistematicità e scientificità, negli Stati Uniti, alla fine dell’Ottocento, prima di essere riprese da Hitler che col suo programma eutanasico, volto a eliminare malati, anziani, mutilati e deformi, avrebbe definitivamente screditato una “scienza” che aveva goduto fino ad allora di grandi entusiasmi, non solo presso molti scienziati, ma anche presso diversi governi nel mondo. Nel “Mein Kampf”, dopo aver spiegato che lo Stato, la nazione, “dovrà impedire ai malati o ai difettosi” di procreare, Hitler aggiungeva: “Basterebbe per seicento anni non permettere di procreare ai malati di corpo e di spirito per salvare l’umanità da una immane sfortuna e portarla ad una condizione di sanità oggi pressoché incredibile” . Del resto Rudolf Hess era solito definire il nazismo una “biologia applicata”, mentre lo studioso Lifton definì il nazismo come una “biocrazia”, perché fondato su una visione di controllo assoluto dei processi biologici: utilizzando il termine darwiniano “selezione”, i nazisti cercarono di sostituirsi alla natura (selezione naturale) e a Dio, per essere loro a dirigere e controllare l’evoluzione umana. Tale biocrazia si esplicò con le leggi razziali sul matrimonio, con la creazione di luoghi appositi dove ariani e ariane di particolare bellezza e forza venivano spinti ad unirsi all’unico fine di procreare una discendenza “superiore”, con la sterilizzazione forzata, l’eutanasia di determinate categorie di inadatti e improduttivi, e l’utilizzo dell’aborto per le donne tedesche gravide di bambini non “puri”, o per le donne dell’est, dopo le conquiste seguite allo scoppio della guerra.

Ma queste idee, come si diceva, dovevano la loro fortuna, prima che ad Hitler, al pensiero e all’opera dello scienziato Francis Galton, il primo a proporre con una certa sistematicità e con un notevole seguito, l’idea di matrimoni selettivi, di segregazione dei disgenici, di sterilizzazione di barboni, poveri, malati, idioti, persone assai genericamente “inferiori”, allo scopo di impedirne la procreazione, per migliorare la razza, convinto che le caratteristiche “sia fisiche, sia mentali, sia morali” delle persone “fossero ereditarie”. Con Galton tutto divenne spiegabile in base all’ereditarietà, mettendo assolutamente tra parentesi i fattori ambientali e il mistero della libertà individuale, con la conseguenza di “convertire problemi come la criminalità, la prostituzione, la disoccupazione, l’improduttività” in fenomeni patologici, determinati esclusivamente dalla natura biologica. Il criterio di discriminazione proposto da Galton per identificare “adatti” e “inadatti” fu l’integrazione sociale, o più in breve, il successo, con la conseguenza inevitabile di una visione “classista” per cui poveri, emarginati, alcolizzati, spesso immigrati italiani o irlandesi o neri, vennero catalogati tra gli “inadatti”, tra le persone da isolare, da controllare, da sterilizzare, affinché il loro patrimonio genetico non si diffondesse. Il fine di Galton era quello di “guidare attraverso l’eugenetica il corso dell’evoluzione al fine di raggiungere nessun altro scopo se non il bene dell’umanità intera”, sacrificando se necessario i singoli individui, e affiancando alla selezione naturale, incompleta, una selezione artificiale, guidata dagli uomini superiori. Galton arrivò a negare il peccato originale come categoria teologica, e a riproporlo in chiave determinista, come una problematicità biologica, da eliminare in vista di una meritocrazia biologica. Keyles, insistendo sull’accento messianico dell’opera galtoniana, osserva che “Galton trovò nell’eugenetica un sostituto scientifico dell’ortodossia clericale, una sorta di fede secolarizzata, capace di avverare concretamente il sogno di un miglioramento del genere umano”, sino a prospettare, nella sua novella “Kantsaywhere” l’idea di un “paradiso eugenetico”, “dove vigono tre classi divise su base biopsichica, e dove l’ordine e la felicità sono garantiti dalla segregazione dei malati (disgenici) e dall’accoppiamento dei migliori (eugenici)” .

Si capisce molto bene che l’idea di fondo di Galton era assolutamente atea, materialista, determinista, e perché nello stesso tempo egli vedesse nella Chiesa il grande nemico, e nell’eugenetica una sorta di religione atea, civile, di salvezza, che avrebbe realizzato, come si diceva, la razza pura, la razza felice, intelligente, bella, giusta e persino ricca. Si discute molto se Galton abbia o meno preso spunto da Charles Darwin, ma sembra che sia piuttosto difficile negarlo, nonostante poi Galton sia andato ben al di là delle più estreme ipotesi del cugino. Certo è che alcune sue idee erano già in nuce nello stesso Darwin, il quale citava spesso e volentieri, e non per contraddirlo, ma per elogiarlo, il suo bizzarro parente. Scriveva Darwin: “Noi uomini civilizzati facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità per salvare la vita di chiunque all’ultimo momento. Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana…Dobbiamo quindi sopportare l’effetto, indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il loro genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli e inferiori di sposarsi liberamente come i sani”. Si vede chiaramente in queste frasi come Darwin stigmatizzasse la vaccinazione, ma anche le “leggi per i poveri”, e il lavoro dei medici, quando tutto ciò fosse servito a mantenere in vita e propagare “membri più deboli e inferiori” della razza umana. Scriveva ancora: “Greg e Galton hanno molto insistito sull’ostacolo più importante, esistente nei paesi civilizzati, contro l’incremento di numero degli uomini di classe superiore, cioè sul fatto che i più poveri e negligenti, che sono spesso degradati dal vizio, quasi invariabilmente si sposano per primi, mentre i prudenti e frugali, che sono generalmente virtuosi anche in altri modi, si sposano in tarda età…Ovvero, come scrive Greg: ‘L’Irlandese imprevidente, squallido, senza ambizioni, si moltiplica come i conigli; lo scozzese frugale, previdente, pieno di autorispetto…trascorre i suoi migliori anni nella lotta e nel celibato… Nell’eterna lotta per l’esistenza è la razza inferiore e meno favorita che ha prevalso ed ha prevalso non ad opera delle sue buone qualità ma dei suoi difetti'” . Alla fine dell’ “Origine dell’uomo”, nell’ultima pagina, concludeva: “L’uomo investiga scrupolosamente il carattere e il pedigree dei suoi cavalli e dei suoi cani prima di accoppiarli. Ma quando si tratta del proprio matrimonio, raramente, o mai, si prende questa cura… Tuttavia con la selezione egli potrebbe agire in qualche modo non solo sulla struttura fisica e l’ossatura della sua prole, ma sulle loro qualità morali e intellettuali…L’avanzamento del benessere del genere umano è il problema più complesso: tutti coloro che non possono evitare la povertà per i propri figli dovrebbero evitare il matrimonio: infatti la povertà non è solo un grande male, ma tende al proprio incremento portando alla sconsideratezza del matrimonio. D’altra parte Galton ha osservato che, se il prudente evita il matrimonio mentre l’incauto si sposa, i membri inferiori tendono a soppiantare i membri superiori della società”. E’ evidente, leggendo questi pensieri, che Darwin fu talora portato ad abbracciare una visione per nulla lontana da quella dell’eugenetica, che contemplava l’esistenza di “membri superiori” e “membri inferiori”, matrimoni da impedire, e un certo disprezzo per le classi meno abbienti.

E’ anche vero, però, come scrive Cristian Fuschetto, citando Pichot, che “‘Darwin aveva l’abitudine di scrivere su un argomento tutto ed il suo contrario’, tant’è che tra i suoi numerosi lavori è possibile trovarne sia alcuni caratterizzati da un certo ‘umanismo’ sia altri ‘più favorevoli a Galton’”. Pichot aggiunge che “Darwin sembra essere stato in buon accordo con suo cugino Galton, e se non ha parlato propriamente di eugenetica è stato verosimilmente perché l’eugenetica è stata teorizzata dopo la sua morte. Continua Fuschetto: “Premesso che sull’idea dell’ereditarietà delle facoltà mentali Darwin aveva posto pensiero già a partire dalla fine degli anni ’40, c’è da dire che poi, quando anche Galton cominciò ad occuparsi (più sistematicamente ed approfonditamente di lui) di questi problemi, di riferimenti e concessioni all’opera galtoniana ce ne furono (come si è visto, ndr) di espliciti, sino agli ultimi anni di vita. Alfred Russell Wallace raccontò che in una delle sue ultime discussioni con Darwin, costui, in perfetto accordo col cugino, “si mostrò davvero molto preoccupato per il futuro dell’umanità, per il fatto che nella moderna civiltà la selezione naturale non ha gioco e perciò i più adatti non sopravvivono”. “L’affinità tra Galton e Darwin, conclude Fuschetto, “emerge chiaramente anche da una lettera che il grande naturalista scrive al cugino in risposta alla richiesta di un parere su ‘Hereditary Genius’, dove Galton (in ossequio al dogma sociobiologico) pensa di aver dimostrato l’ereditarietà delle facoltà mentali: ‘…non credo di aver mai letto in tutta la mia vita qualcosa di più interessante ed originale… mi congratulo con te e ti esorto a continuare il tuo lavoro, convinto che sarà memorabile’ ” . Del resto è innegabile che Darwin si rifacesse da una parte al pensiero di Thomas Malthus, e dall’altra stimasse l’operato dell’amico e sostenitore Ernst Haeckel (1834-1919).

Malthus era stato un pastore anglicano, illuminista, autore, nel 1798, di un famoso “Saggio sulla popolazione” in cui tra le altre cose si biasimavano le riforme sociali, ritenute “dannose per la società, perché il miglioramento economico delle classi più povere avrebbe stimolato l’incremento demografico, cioè il peggiore dei mali”. Ogni politica a favore del benessere dei poveri era per Malthus un errore politico ed economico innegabile. Ernst Haeckel era invece uno zoologo tedesco grande sostenitore dell’evoluzione darwiniana, però all’interno di una sua visione filosofica monista e materialista. Il pensiero, per lui, non era altro che un prodotto dell’attività fisiologica e chimica del cervello. Haeckel era anche convinto della superiorità della razza indogermanica e della bontà del modello spartano. A Sparta, come si sa, i bambini malformati, i malati, i deboli, venivano eliminati, perché poco idonei all’arte della guerra. Tale selezione artificiale, spiegava Haeckel, aveva avuto il grande merito di favorire lo sviluppo di un popolo forte ed eroico. Affermare dunque una certa somiglianza e alcune contiguità tra determinate posizioni di Darwin e l’eugenetica di Galton, non vuole certamente dire buttare a mare le intuizioni che vi furono nella sua speculazione di naturalista, quanto notare come i cedimenti di Darwin ad un pensiero materialista, ideologico, e non scientifico, in certi momenti, lo portarono prima a non riconoscere l’unicità dell’uomo, riducendolo, nell’ “Origine dell’uomo”, ad un semplice animale, solo quantitativamente e non qualitativamente diverso dagli altri, e poi, coerentemente, a posizioni evidentemente disumane. L’errore di fondo, giova ripeterlo, sta nella volontà di Darwin, in alcuni momenti della sua vita, di identificare tutto l’uomo (si badi bene, tutto) nella sua animalità, dimenticando l’altra dimensione, non animale, e cioè l’esistenza dell’anima, e riducendo così l’idea di Dio, il senso morale, la capacità di astrazione, la libertà, la volontà…, a facoltà sì umane, ma anche, e solo in minor grado, animali. Così facendo Darwin riteneva di applicare modalità di indagine scientifiche a tutto l’uomo, come se pensiero, volontà, libertà ecc. fossero entità misurabili e studiabili scientificamente. L’errore, per dirla con altre parole, errore gravido di conseguenze filosofiche, che mai volle contrastare nell’opera del cugino, fu di voler rinchiudere il mistero dell’uomo nella sua teoria, che può al massimo spiegare l’origine fisica, essa sì animale, dell’uomo, ma non certo la sua totalità, la sua essenza spirituale.

In un modo o nell’altro, certo anche per l’appoggio concesso a Galton dal celebre zio, e da personaggi assai noti, come il matematico Bertrand Russell, il padre dell’ateologia moderna, e George Bernard Shaw, l’eugenetica si diffuse in breve, ad opera di biologi, medici, psichiatri e politici, ben prima dell’ascesa del nazismo, in molti paesi: Inghilterra, Usa, Francia, Belgio, Svizzera, Svezia, Olanda e alcune nazioni dell’America latina… In Germania, addirittura, gli studi eugenetici ebbero un forte impulso già sotto la Repubblica di Weimar, col finanziamento americano, e col sostegno di politici socialisti e di alcuni scienziati ebrei. Galton, che, come scrive S.J. Gould, era considerato all’epoca “uno dei massimi intelletti del suo tempo”, e che voleva dimostrare scientificamente la naturale e incolmabile inferiorità dei neri, e la superiorità su tutte della razza anglosassone, raggiunse il vertice della sua fama al Primo Congresso Internazionale di Eugenetica del 1912, allorché divenne un vero scienziato vate: le riviste più prestigiose, da “Nature”, al “Times”, si contendevano i suoi articoli, le sue disquisizioni sulla necessità di sostituire il vecchio libero arbitrio col più “aggiornato” determinismo. Nel 1902 ricevette la “Darwin Medal of the Royal Society” (a ennesima dimostrazione del fatto che i più autorevoli scienziati inglesi non vedevano conflitto tra alcune posizioni filosofiche di Darwin e quelle del cugino); nel 1908 partecipò alla “Darwin-Wallace Celebration” della Linnean Society, e nel 1910, per i suoi scritti sulla eugenetica, ottenne la “Copley Medal of the Royal Society” che però, a causa della sua salute inferma, fu ritirata per suo conto da Sir George Darwin, figlio del padre dell’evoluzionismo ed eugenista convinto, come del resto anche Leonard Darwin, anch’egli figlio del celebre naturalista, e presidente della britannica “Eugenics Education Society”. Ma il paese dove le teorie di Galton avrebbero fatto più fortuna furono gli Usa. Di questo parleremo nel prossimo articolo.

Da: Perché non possiamo essere atei (Piemme 2009)

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“Atei pro-Life”, non solo i credenti si oppongono all’aborto

Quando si entra in dibattiti bioetici si tende sempre a dividere gli interlocutori in due aree: i credenti da una parte e i non credenti o i credenti cosiddetti “cattolici adulti” dall’altra. Questo giochino è portato avanti per screditare fin dall’inizio gli argomenti dei credenti: infatti, dicono, le motivazioni dei primi sarebbero basate su convincimenti religiosi e quindi non potrebbero valere per i secondi o per una società laica.

Ma chi ha mai detto che l’opposizione all’aborto o all’eutanasia, ad esempio, sia basata su convincimenti religiosi? Certo, c’è sicuramente da tenere in considerazione il principio della sacralità della vita, ma la questione è comunque condivisa con gran parte dei laici, i quali -pur non potendo sottoscrivere evidentemente lo stesso concetto di “sacro”- riconoscono che la vita è un bene indisponibile, di così alto valore, così prezioso che posso sì interpretarlo come voglio, ma rispettando un limite, ovvero il divieto della distruzione del bene stesso, come ha spiegato bene il filosofo Scandroglio. Oltre a questo principio, comunque, tutte le motivazioni contrarie si basano su ragioni cosiddette laiche. Tantissimi sono i non credenti o gli agnostici che sono nostri compagni nell’opposizione all’eutanasia, molti di essi sono medici, come il prof. Lucien Israel, agnostico, luminare francese dell’oncologia, o il neurologo Mauro Zampolini il quale,  non credente, si oppone a eutanasia e testamento biologico, opponendosi al sedicente cattolico Ignazio Marino.

Sull’aborto la collaborazione è ancora più vasta. Basti solo pensare al pensiero di Christopher Hitchens o all’esistenza di un’associazione americana di atei che si batte contro l’aborto. Si chiama “Secular Pro-Life”. Esistono dal 2009 e desiderano «un mondo in cui l’aborto sia impensabile, per le persone di ogni fede e non fede».  Incoraggiano «la diversità religiosa nel movimento pro-life e il combattimento di stereotipi promulgati dalla lobby dell’aborto». Riconoscono che «fortunatamente, i sondaggi hanno mostrato che una percentuale maggiore di giovani sono pro-life rispetto alle generazioni precedenti». Si veda questo studio, ad esempio. Dato il calo dell’influenza della Chiesa nella società, dicono di sentirsi chiamati a collaborare, per realizzare -come già detto-  «un mondo dove l’aborto è impensabile per tutti».

In una pagina del loro sito propongono una serie di interessanti pubblicazioni/argomentazioni, in un’altra c’è perfino un elenco di “abortisti” da tenere sotto’occhio e infine è anche presente un blog aggiornato frequentemente. La loro pagina Facebook “piace” a 760 utenti e in essa c’è un rimando, in barba al movimento sessantottino, ad un gruppo di “Femministe pro-life”.

Luca Pavani

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San Francisco: condom gratuiti dal 1997 ma le malattie crescono

Lo scorso 18 febbraio il “San Francisco Chronicle” riportava la notizia che il “Condom Access Project” avrebbe messo loro a disposizione, e gratuitamente nella posta, preservativi, un qualche tipo di lubrificante (?) e materiale definito informativo. Secondo il quotidiano l’iniziativa arriverà anche a San Francisco. Ora, l’inclusione di questa città sembrerebbe essere superflua, dato che i preservativi gratuiti sono disponibili nelle scuole pubbliche almeno dal 1997. Proprio in queste scuole vige un programma di educazione sessuale quanto mai colorito, il quale prevede di preservare la loro salute tramite certe pratiche quali far indossare agli studenti speciali occhiali che rendono la loro vista leggermente sfocata, al fine di simulare uno stato di ubriachezza, per poi, così agghindati, far loro mettere un preservativo su un apposito pene di legno. Come se il problema delle malattie a trasmissione venerea fosse un mero fatto di “meccanica precauzionale”, oltretutto facendo passare il messaggio sottilmente distorto che sia l’alcool, e non la promiscuità sessuale, in qualche modo la causa prima della trasmissione delle malattie.

Ma, ironia della sorte, risale agli stessi giorni la diffusione dei dati preliminari sull’incidenza delle patologie veneree nella città e nella contea di San Francisco per l’anno 2011. Nonostante questa enorme disponibilità di preservativi gratuiti e ore di educazione sessuale dal 1997, le malattie veneree a San Francisco continuano ad aumentare. Il rapporto, pubblicato dal San Francisco Department of Public Health, ha dichiarato: «I dati preliminari sulle malattie a trasmissione sessuale segnalati mostrano gli aumenti per la clamidia, la gonorrea e la sifilide precoce nel 2011». E perché accade ciò? Perché la nostra società pigra e nichilista patisce un pregiudizio di fondo, e cioè crede al valore paradigmatico del preservativo, tanto che pare essersi convinta fino all’ossessione che il profilattico sia la panacea di tutti i mali. Eppure, contra factum non valet argumentum, dicevano gli scolastici. Particolarmente schierata sull’argomento è la lobby omosessualista, dato che – come ha recentemente dimostrato il “Centers for Disease Control and Prevention” – gli uomini omosessuali coprono il 61% delle nuove infezioni da HIV negli Stati Uniti, nonostante essi siano solo il 2% della popolazione.

Sembrerebbe mancare la percezione delle ragioni fondanti della diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili (HIV su tutte), basata spesso su elementi comportamentali, soprattutto la promiscuità sessuale. Ed è proprio questo il punto su cui nessuno incredibilmente vuole soffermarsi, eccetto la Chiesa cattolica: ricordiamo le parole del santo padre Benedetto XVI in Africa, che causarono lo scompiglio generale fra gli intellettuali benpensanti, quando osò spostare l’attenzione dal preservativo verso la fedeltà di coppia e l’astinenza. Non solo aveva ragione, ma, cosa che alla luce dei fatti appare ora ovvia, si è scoperto che addirittura l’uso del preservativo è controproducente: esso incoraggia, infatti, un numero significativo di persone ad avere rapporti sessuali promiscui, alimentando una falsa sicurezza sanitaria e dunque, aumentando le probabilità di infezione. Dovremmo oggi chiederci: è possibile eliminare una malattia legata ai comportamenti umani, senza cambiare i comportamenti stessi?

L’aumento generale di tutte le patologie a trasmissione sessuale, indicano con chiarezza che esse sono l’epifenomeno di un problema ben più ampio, come ha spiegato il virologo Carlo-Federico Perno, una banalizzazione dell’amore e la relativizzazione dei valori come la fedeltà coniugale. Una risposta efficace ed intelligente quanto semplice, invece, l’ha offerta suor Miriam Duggan, laureata in medicina impegnata in Uganda come responsabile medico del St. Francis’ Hospital Nsambya. Nel 1987, ha lanciato il programma di prevenzione Youth Alive per affrontare le cause principali della diffusione dell’HIV ed aiutare i giovani a fare scelte responsabili per non contrarre l’AIDS, dunque basate su fedeltà al matrimonio e astinenza. In questo modo in Uganda (paese in grande maggioranza cattolico), tra il 1991 e il 2001, è stato possibile ridurre del 10% il numero di persone infette (unico stato africano), mentre nel 2002 il tasso di prevalenza di AIDS ha fatto registrare un calo dal 28,9% al 9,8%. Per questo è stata premiata dall’Università di Harvard. Mi sembra questo un grande successo sanitario in primo luogo, ma anche una vittoria culturale ed ennesimo trionfo della verità sulla menzogna dei maliziosi e malintenzionati.

Matteo Donadoni

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Ecco la proposta: un avvocato all’interno dei Consultori familiari

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Maurizio Pucciarelli, avvocato, già laureato in Farmacia con lode, ricercatore volontario presso la cattedra di Farmacologia medica dell’Università la Sapienza di Roma, regista e autore di documentari Rai a livello scientifico, quadro in un’azienda pubblica culturale. Laurea Specialistica in Giurisprudenza con lode. Si occupa di biodiritto»

 

di Maurizio Pucciarelli*
*avvocato

 

Dobbiamo ammetterlo. L’ultratrentennale battaglia legale contro la legge sull’aborto in sede di Corte Costituzionale non ha portato a risultati tangibili: l’impianto della legge 194 è rimasto immutato così come la sua applicazione. Al più la Consulta ha riconosciuto in qualche obiter dictum, ovvero in dichiarazioni di carattere meramente generale, che l’embrione gode della tutela dell’ordinamento giuridico. E questo nonostante i numerosi ricorsi presentati facessero riferimento proprio ad una esemplare sentenza della stessa corte che nel lontano 1975 aveva stabilito che la gravidanza poteva venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse un danno, o un pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della madre.

Come sappiamo, la successiva legge 194 del 1978, invece, pur riaffermando nei suoi principi dei limiti all’interruzione di gravidanza, ha invece vanificato nella sua applicazione qualsiasi verifica o controllo sulle dichiarazioni e condizioni oggettive della donna. A fronte di queste “inspiegabili” sconfitte (una Corte Costituzionale che non difende l’applicazione di principi da essa stessa affermati) la strategia dei movimenti pro-life si è indirizzata da qualche tempo verso nuove forme di lotta, che consistono nel fornire alla donne che richiedono l’IVG tutti quei supporti economici, sociali e psicologici che le consentano di affrontare la gravidanza, scongiurando così l’aborto. Mi riferisco ad esempio alla proposta di riforma dei consultori di Olimpia Tarzia (Regione Lazio) e il nuovo protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’IVG (Regione Piemonte).

In questo panorama si inserisce questa mia modesta proposta, già formulata negli anni precedenti, ma mai attuata, che punta all’introduzione di avvocati volontari all’interno dei Consultori familiari. Esaminiamola in dettaglio. Come è noto la legge sull’aborto stabilisce dei rigidi criteri per accedere entro i 90 giorni all’interruzione di gravidanza. Il serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna si declina anche nelle avverse condizioni economiche, sociali o familiari. Compito del Consultorio è quello di esaminare le possibili soluzioni ai problemi proposti, di aiutare la gestante a rimuovere le cause che la porterebbero all’aborto e soprattutto metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre. La legge è senz’altro chiara, ma ad oggi non attuata. Problemi come uno sfratto, un mutuo gravoso, un compagno che non vuole riconoscere il figlio, un datore di lavoro che minaccia il licenziamento a seguito di una gravidanza, possono mettere in ginocchio chiunque, figuriamoci una donna spesso sola, malconsigliata e sottoposta al bombardamento ormonale delle prime settimane di gravidanza. Un aiuto efficace da parte delle istituzioni è a mio avviso necessario e moralmente indefettibile.

Ma non può essere prestato da chiunque: dobbiamo mettere a fianco della donna un professionista, che immaginiamo giovane, perché alla gioventù si attribuisce la generosità e gli ideali, che sappia innanzitutto informarla sui suoi diritti, ma successivamente anche difenderla con vigore contro coloro che spesso, al riparo della indifferenza sociale, sono corresponsabili dell’aborto. L’attuazione di questa semplice proposta potrebbe passare attraverso una convenzione tra Regione e l’Ordini degli avvocati presenti sul territorio, con costi praticamente nulli. Operativamente, l’avvocato iscritto su base volontaria all’Elenco degli “Avvocati nei consultori” eseguirebbe la sua prestazione professionale attraverso colloqui con le gestanti, a titolo completamente gratuito. Successivamente, se richiesto, l’avvocato assumerebbe l’incarico dalla gestante che potrà avvalersi del Pubblico Patrocinio, se con reddito annuo imponibile non superiore a euro 10.628,16., oppure godere di tariffe particolarmente agevolate (che saranno sempre sottoposte al controllo dell’Ordine).

Al di là degli schieramenti politici si tratta, a mio avviso, di una battaglia di civiltà che non dovrebbe trovare oppositori. Non si può negare che al giorno d’oggi esistano molti ostacoli di ordine legale, con ovvie ripercussioni economiche e sociali, che impediscono di fatto l’uguaglianza di tutte le donne di fronte alla meravigliosa esperienza della maternità. Un aiuto disinteressato e professionale potrebbe, in molti casi, fare la differenza tra la vita e la non vita di un figlio.

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Tre riflessioni sul sacerdozio femminile

Patty Ryle Clay, laureata in teologia protestante presso la Emory University di Atlanta, ha lavorato come pastore metodista per 23 anni, entrando nella Chiesa cattolica nel 2009 scriveva: «Avevo un pò di pentimento nel rinunciare alle mie credenziali come pastore metodista: non poter celebrare più l’Eucaristia. Il sacro privilegio di seppellire una persona cara o di battezzare un bambino sarebbero state solo esperienze passat. Tuttavia oggi Patty ha le idee più chiare: «Non voglio e non ho bisogno di essere un prete, nemmeno in un ordine di donne cattoliche, e il mio viaggio è diverso adesso», dice. «Quando rifletto sul mio passato, la lenta realizzazione che ha portato tutta la mia vita contemplativa, l’attrazione e l’affinità con la mistica medievale, un profondo desiderio di vivere la comunità cristiana. Mi rendo conto che tutti questi fattori mi hanno portato fino ad un punto di non ritorno». Questa donna ha lasciato il suo ruolo e ha accolto con letizia il suo posto nella Chiesa cattolica, senza sentirsi discriminata o meno importante.

 

In occasione della Festa della donna, offriamo un contributo sulla questione del sacerdozio femminile, un tema di attualità, sopratutto dopo la rivoluzione femminista e il rientro nella Chiesa -dopo quasi mezzo millennio di separazione-, di una parte consistente della Comunità anglicana. La Chiesa prescinde dal tempo ed è superiore alle mode e ai movimenti politici-ideologici, tuttavia ha più volte affrontato la questione, affermando chiaramente che non vi sono motivi pregiudizievoli contro il sacerdozio alle donne.  Per chi volesse capire meglio la posizione della Chiesa, cristiani o non cristiani, credenti o non credenti, ecco tre riflessioni.

1) Diamo precedenza alla risposta del card. Joseph Ratzinger nel 2005: «La domanda è se una certa realtà viene dal Signore o no, e da che cosa sia possibile capirlo. La risposta, confermata anche da Giovanni Paolo II, che noi, come Congregazione per la Dottrina della Fede, abbiamo dato in merito al problema dell’ordinazione delle donne non dice che ora il Papa ha posto un atto dottrinale infallibile. Egli ha piuttosto constatato che la Chiesa, i vescovi di ogni luogo e tempo, hanno sempre insegnato questo e hanno sempre agito in questo modo […]. Non si tratta dunque, come detto precedentemente, di un atto di infallibilità posto dal Papa, ma il suo carattere vincolante si basa sulla continuità della tradizione. Infatti questa continuità dall’origine è già qualcosa di molto importante. Tanto più che allora non era affatto una cosa ovvia. Infatti, le antiche religioni conoscevano l’istituzione delle sacerdotesse, e lo stesso avveniva anche nei movimenti gnostici […]. La tradizione non è nata dal mondo circostante, ma dall’interno del cristianesimo». (Da Peter Seewald, Joseph Ratzinger, “Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa Cattolica nel XXI secolo”, Edizioni San Paolo 2005). L’attuale Pontefice si è spesso rivolto alle donne, sottolineando la loro genialità e la quantità di Sante che hanno segnato in modo indelebile il percorso del cristianesimo nell’Europa e nel mondo.

2) Nel 2009 lo scrittore Vittorio Messori ha ripreso la questione rispondendo ad un articolo di Aldo Cazzullo. In quell’occasione ha parlato dell’ordinazione maschile come di «intangibile ‘elemento costitutivo’ della Chiesa non solo cattolica, ma anche ortodossa». Ha quindi citato la lettera «Ordinatio Sacerdotalis» (1994) di Giovanni Paolo II: «Al fine di togliere ogni dubbio su una questione di grande importanza, che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa, in virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire a donne l’ordinazione sacerdotale […]. Il fatto che Maria Santissima, Madre di Dio e della Chiesa, non abbia ricevuto la missione propria degli apostoli né il sacerdozio ministeriale, mostra chiaramente che la non ammissione delle donne all’ordinazione non può significare una loro minore dignità o una discriminazione. Il ruolo femminile nella vita e nella missione della Chiesa, pur non essendo legato al sacerdozio ministeriale, resta assolutamente necessario e insostituibile». Sono migliaia oggi le donne che «hanno responsabilità di direzione nella Chiesa universale», come ha spiegato Claudine Gatayija Uwizera sull’Osservatore Romano. Messori continua a citare Giovanni Paolo II,: «Nell’ammissione al servizio sacerdotale, la Chiesa ha riconosciuto come norma il modo di agire del suo Signore nella scelta di dodici uomini che ha posto a fondamento della sua Chiesa». Anche se volessimo, non possiamo, si obbedisce «a una rivelazione, non a una ideologia umana». Ovviamente questo -sottolinea Messori- è comprensibile solo in una prospettiva di fede.

3) Segnaliamo infine la risposta data pochi mesi fa da padre Angelo Bellon sul bellissimo sito “Amici Domenicani”: «la Chiesa non porta nessuna motivazione per dire che la donna sia meno capace dell’uomo di svolgere il compito inerente all’Ordine sacro. Si potrebbe addirittura dire che la donna sembri più adatta. Ma non si può pensare che il Signore, che ha mostrato di non temere affatto di andare contro le tradizioni degli uomini, abbia voluto tener conto della mentalità del tempo». Gesù, continua il domenicano, «dal momento che sapeva benissimo di istituire la Chiesa e che ne garantiva la durata fino alla fine del mondo, avrebbe potuto – se voleva – porre delle premesse per una maggiore adattabilità su questo punto, tanto più che in Israele c’erano donne che spendevano la propria vita per dedicarsi al servizio del tempio». Viene anche fornita una motivazione teologica opportuna, aldilà della fedeltà alla Tradizione e alla decisione di Gesù: «Poiché i sacramenti sono segni sacri e l’ordine sacro è costituito di persone e non di cose, il maschio esprime più visibilmente il mistero di Cristo sposo e salvatore della Chiesa e di ciascuno di noi». L’importanza è alla santità e non tanto alla funzione svolta: «Anche un bambino può essere più santo di un prete o di un vescovo». A proposito di bambini: tra i milioni di pellegrini di Lourdes pochi sanno il nome del parroco e forse nessuno quello del vescovo, ma tutti conoscono e venerano la piccola analfabeta che Maria scelse come sua portavoce e che la Chiesa, gestita da uomini, pose sugli altari.

Antonio Tedesco e Luca Pavani

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