Gli ospedali moderni, un’invenzione cristiana

I primi ospedali vennero fondati da donne cristiane come Fabiola e da religiosi e pontefici. La storia degli ospedali ricostruita nell’ultimo libro di Francesco Agnoli.

 
 
 

“La carità non avrà mai fine”.

Così San Paolo ricordò ai cristiani l’essenzialità della loro fede che deve riassumersi nella carità che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”.

Da lì a poco, questa prassi caritativa, espressione evidente della nuova mentalità portata da Cristo e dalla Chiesa cattolica, finì col diversificarsi e moltiplicarsi grazie ad una lunga serie di uomini e donne che dedicarono la loro vita all’amore di Dio e del prossimo, arrivando a fondare veri e propri ospedali.

 

“Case di Dio, ospedali degli uomini”: nuovo libro

In un mondo pagano dove la figura della donna non era tenuta in alcun conto, l’apparizione di molte cristiane, magari vedove, che si dedicavano alla carità dovette apparire come un incredibile segno di provocazione.

Come dire: coloro che più di tutti necessitavano di protezione, finivano con il porsi al servizio di altri bisognosi!

Così i primi secoli del cristianesimo, spiega Francesco Agnoli in un capitolo del suo ultimo libro Case di Dio, ospedali degli uomini (Fede & Cultura 2012), sono ricchi di queste figure che presso le chiese si dedicavano all’assistenza dei malati in maniera più o meno professionale.

Il passo in avanti attraverso la strutturazione di una assistenza organizzata avvenne però soltanto verso la fine del IV secolo, quando Marcella, vedova romana, adottò la sua dimora a convento per le monache-infermiere.

 

I primi ospedali fondati da donne cristiane e religiosi.

Qualcosa di più simile ad un ospedale comparve nel 390 d.C. a Roma, dalla felice intuizione di Fabiola: reduce da due matrimoni infelici alle spalle, dopo la sua conversione al cristianesimo dedicò il resto della sua vita alle opere di carità.

Nonostante la ricchezza, si recava tra i poveri e gli ammalati, portandone alcuni a casa con sé e non arretrando neanche dinanzi agli aspetti più sgradevoli e ripugnanti dei mali che colpivano i suoi bisognosi di carità. Dopo aver fondato un ospedale, vi raccolse tutte le persone sofferenti trovate per le strade, prestando loro le attenzioni di una vera infermiera.

Nella seconda metà del IV secolo, la Chiesa agì pubblicamente nella società romana sostenendo la “fede operosa mediante la carità”, tanto da destare non solo ammirazione, ma anche comprensibili risentimenti in un contesto dominato da una religiosità vuota e formalista che non conosceva alcuna tensione verso la solidarietà.

La storia delle istituzioni caritative della Chiesa invece ha continuato progressivamente a produrre nuove opere: basterà accennare a san Basilio, che in Oriente creò un’intera cittadella della carità che fungeva da ospedale, locanda, lebbrosario, scuola di avviamento professionale, orfanotrofio.

Tra gli antenati del moderno ospedale, una speciale menzione è quella che riguarda i due Hotel-Dieu in Francia: il primo venne costruito a partire dal 542 d.C. circa a Lione e  divenne il maggior ospedale della Francia, la sua posizione ad Occidente della cattedrale di Notre-Dame indica che fu una fondazione vescovile.

Il secondo fu fondato un secolo dopo a Parigi dal vescovo della città.

I primi ospedali, centri di accoglienza per malati, poveri, pellegrini e stranieri, nacquero dall’iniziativa privata di matrone come Fabiola e Marcella, che misero a disposizione i loro palazzi, le loro ricchezze e la loro stessa vita.

Ma anche da vescovi, sacerdoti o religiosi che diedero vita a “case ospitali urbane”, designate di solito con nomi simili (“Domus Dei”, “Ca’ di Dio”, “God’s house” in inglese, “Godshuis” nei Paesi Bassi; “Hotel-Dieu” in Francia, etc…).

Pontefici come san Gregorio Magno (590-604), di fronte ad una Roma in disfacimento, in preda alle lotte tra Bizantini e Longobardi, alle carestie e alle pestilenze, fondò e aiutò ospedali, liberò i prigionieri, assegnò pensioni a indigenti e provvide a rifornire Roma e molte località di generi di prima necessità, inventando una vasta farmacopea.

 

L’ammirazione dei pagani.

A riprova di ciò si inserisce l’opera dell’imperatore Giuliano l’Apostata: volendo restaurare il paganesimo, egli si ispirò ampiamente al cristianesimo prendendo come modello le sue istituzioni caritative. In una delle sue lettere (Cfr Ep. 83: J. Bidez, L’Empereur Julien) scrisse appunto che l’unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era l’attività caritativa della Chiesa.

I Galilei, scrisse, avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. In questo modo Giuliano per un verso aveva ben compreso la centralità della carità nella vita di questa nuova fede che lui tanto detestava ma, per converso, non ne comprendeva – e non poteva farlo in alcun modo – la gratuità.

 

Perché la fede operosa mediante la carità affonda le sue radici nella Verità che la precede, mentre una assistenza caritativa “interessata” alla ricerca del consenso è destinata ad avvizzire come un albero privo di acqua e cure.

Una storia che ancora oggi non conosce fine, perché nuovi bisogni travagliano gli uomini e nuove istituzioni sorgono nel mondo cristiano per trovare delle soluzioni concrete. “La carità non avrà mai fine”…

Salvatore Di Majo

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Il neurologo: «chi pratica l’eutanasia è un medico fallito»

La triste realtà del movimento “pro-choice” (o, altrimenti definito “pro-death”) non è solo a favore dell’aborto, ma cerca anche di ostacolare chi vuole sostenere economicamente le donne, per eliminare i motivi che la porterebbero ad abortire. Loro vogliono l’aborto, vogliono che la donna abortisca. Lo stesso per l’eutanasia: mai si è sentito Emma Bonino chiedere di finanziare la medicina del dolore, l’apertura di nuovi Centri di terapia, oppure di renderla materia di insegnamento. Loro vogliono l’eutanasia, punto.

Quest’estate, dal 27 al 31 agosto, Milano diventerà capitale mondiale della «Terapia del dolore», dato che arriveranno da tutto il mondo settemila tra i migliori medici. Il Presidente e organizzatore del Congresso sarà Paolo Marchettini, medico del dolore di fama internazionale, docente di fisiopatologia e terapia del dolore all’Università della Svizzera italiana di Lugano e da poco Direttore del nuovo Centro di diagnosi e terapia medica e chirurgica delle sindromi da dolore cronico all’interno del Centro Diagnostico Italiano di Milano. In una recente intervista ha spiegato come il dolore -così tanto sbandierato per toccare il sentimentalismo, da parte degli estremisti radicali-  per la metà dei pazienti sia solo «nella testa, cioè nel cervello […]. Per questo molte volte sono utili i farmaci antidepressivi». Ovviamente poi ci sono i malati di cancro terminale,  i quali vengono curati «utilizzando gli oppioidi come morfina e eroina», tutto all’interno di un regime sanitario e dunque non lasciato all’iniziativa del singolo. Per questo sono poco comprensibili certe resistenze, in questi casi.

La sofferenza, lo sappiamo, è il motore dell’eutanasia: «Ma chi si rassegna a assecondare la morte», spiega Marchettini, «è un medico frustrato, sconfitto. Anche perché sopprimere il dolore non è solo un problema medico, è una conquista di civiltà». Più netto  ancora è  stato  Lucien Israel, agnostico luminare francese dell’oncologia, specialista in neurologia e attuale vice-presidente dell’Union nationale inter-universitaire (UNI): «È assolutamente indispensabile manifestare il rispetto totale della vita umana, anche perché attualmente siamo in grado di placare tutte le manifestazioni dolorose, e di conseguenza gli esseri di cui ci occupiamo non soffrono insopportabilmente. Nella misura in cui ci occupiamo dei pazienti in questo modo, non ci chiedono l’eutanasia». Dopo decenni di esperienza con i malati terminali ha affermato: «per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di una malato grave o in fase terminale».

Tornando a Marchettini, il giornalista de “Il Giornale” gli pone una domanda conclusiva abbastanza strana, ovvero che la religione avrebbe messo in difficoltà “fino a ieri in Italia” la Terapia del dolore.  Ma il neurologo non ha dubbi: «La Chiesa cattolica non ha colpa del disinteresse dello Stato italiano per la Terapia del dolore. L’enciclica di Paolo VI ‘Sanare infirmos’ lo dimostra. La fede religiosa le dà una motivazione rendendola più sopportabile oppure la trasforma in estasi». Come abbiamo già riportato, la rivista “Palliative Medicine” ha pubblicato da poco uno studio nel quale si rivela che la grande maggioranza di medici del Regno Unito si oppone all’eutanasia e al suicidio assistito. Lo stesso risultato è stato dato nel 2009, dove si è scoperto che gli specialisti in medicina palliativa erano quelli più fortemente contrari.

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Lo spazio e Dio, dialogo tra Roberto Vittori e Antonino Zichichi

«La cosa più bella è l’atterraggio, il tornare a terra e scoprire che uomini siamo e uomini rimaniamo».  Con queste parole l’astronauta Roberto Vittori, partito l’anno scorso per una missione con lo Shuttle STS-134, è intervenuto recentemente all’evento Lo Spazio e Dio” voluto dall’Ufficio diocesano per la Pastorale Universitaria, dagli studenti della capitale in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca.

Ha raccontato la sua esperienza nello spazio anche il professor Antonio Viviani, scienziato di fama mondiale che nel 1994 e nel 1996, ha condotto due esperimenti fondamentali a bordo dello Space Shuttle Columbia  presso il NASA Marshall Space Flight Center. Ha ricordato quei momenti in questo modo: «l’esperimento è durato circa 7 ore, durante i brevi intervalli in cui potevo distogliere il pensiero da comandi, schermi, videoregistratori, cuffie, microfoni e quant’altro, mi rivolgevo mentalmente al Signore pregandolo di sostenermi fino al termine e che tutto andasse per il meglio […]. Alla fine dell’esperimento andato a buon fine… non potevo fare a meno di pensare anche io alla grandezza del creato e di Dio». 

Questa grandezza è la spiegazione data dallo scienziato Antonio Zichichi sul perché «lo spazio- tempo a 4 dimensioni, non basta più per descrivere la logica di Colui che ha fatto il mondo. Secondo quello che possiamo capire alla base della nostra esistenza materiale c’è uno spazio-tempo con 43 dimensioni». Questa logica nasce «non osservando lo spazio, non osservando le stelle, ma studiando le pietre che sono state fatte dalla stessa Persona che ha fatto le stelle. Quindi nulla è frutto del caso, ma c’è un Autore supremo al di sopra di tutto».  Lo scorso maggio Roberto Vittori è stato tra gli astronauti protagonisti dello storico collegamento tra Benedetto XVI e la Stazione Spaziale Internazionale: «Il Santo Padre – ha raccontato –  è stato assolutamente capace di superare la barriera dello scienziato e della tecnologia per entrare all’interno dei nostri cuori […]. Per tutti noi quegli istanti, le sue parole di incoraggiamento e di speranza, rimarranno  per sempre nei nostri ricordi, come uno dei momenti fondamentali della missione spaziale».

Possiamo costruire astronavi ed andare nello spazio, possiamo allargare gli orizzonti della conoscenza oltre ogni nostra immaginazione ma, come ci ha ricordato Vittori, rimaniamo Donne e Uomini che si devono misurare con dei limiti, peso e grandezza di questa nostra umanità.

Marta Cutrera

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Il messaggio cristiano, il primato degli umili e la rivoluzione sociale

Ogni tanto si scoprono pagine culturali sui quotidiani davvero interessanti, come quella dedicata qualche giorno fa al Vangelo e all’opera di rivoluzione culturale operata da Gesù.

La firma è di Pietro Citati, noto scrittore e critico letterario italiano, il quale commenta questo brano del Vangelo di Matteo, dove Gesù dice: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli». Questo viene definito da Citati il «cuore del paradosso cristiano». La rivelazione cristiana viene nascosta ai sapienti e agli intelligenti, cioè ai filosofi, agli scienziati, ai maestri di sapienza e di cultura, che ebraismo e classicismo hanno da sempre esaltato. La storia del mondo, dice Civati, è rovesciata, il cristianesimo si offre ai népioi, cioè nel greco classico ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli inesperti, agli ultimi (“che saranno i primi”), ai semplici di cuore.  Il Dio cristiano dona sapienza ad essi, li protegge, li difende e concede loro la luce della rivelazione. Il vero népios, afferma lo scrittore, «è sopratutto Gesù, che ci ha fatto conoscere quel Dio che nessuno aveva mai visto, e che ha scorto tutti i misteri della natura e della storia e i cuori degli uomini, che prima di lui restavano avvolti dalla tenebra».

Così il rovesciamento è compiuto, la condizione di népios, lo spirito di innocenza e di umiltà, che ai nostri occhi sembra insignificante, contiene una saggezza profondissima e ineffabile, alla quale la sapienza tecnica degli intelligenti non si potrà mai adeguare. Lo scrittore parla poi del capovolgimento assoluto della storia, cioè la stessa Incarnazione di Dio: non è più l’uomo che si umilia, o che viene umiliato: ma Dio che umilia se stesso, assumendo il corpo di un uomo, sia pure quello di un néuios , accettando di salire con questo corpo sulla croce, come scandalo e follia per gli uomini e per l’universo, e vivendo secondo umiltà (e mitezza e mansuetudine) nei suoi pochi anni di vita.

Il cristianesimo donò questa una nuova dignità agli indifesi, a donne e bambini. Eliminò, oltretutto, il concetto di proprietà: essendo innanzitutto figli di Dio, i bambini e la donna non potevano più essere trattati come un mero possedimento da parte del maschio. Questa rivoluzione sociale è la spiegazione più convincente di come da 12 apostoli si sia passati in 350 anni a 32 milioni di cristiani. Lo riconoscono gli stessi detrattori del cristianesimo, come gli italiani Corrado Augias Mauro Pesce«Non si può apprezzare la forza di queste parole [le parole di Gesù verso i bambini, Nrd] se non si considera che i bambini, in una società contadina primitiva, erano nulla, erano non persone, proprio come i miserabili. Un bambino non aveva nemmeno diritto alla vita. Se suo padre non lo accettava come membro della famiglia, poteva benissimo gettarlo per la strada e farlo morire, oppure cederlo a qualcuno come schiavo» (C. Augias e M. Pesce, “Inchiesta su Gesù”, Mondadori 2006, pag. 90).

Luca Pavani

 

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Gli abortisti in affanno osteggiano l’uso dell’ecografia 4D

L’avanguardia scientifica mette anno dopo anno sempre più in crisi il movimento abortista, come dimostrato in Ultimissima 11/03/12 accennando alla recente sentenza storica della Corte Suprema dell’Alabama che ha definito “sorpassati” scientificamente gli assunti che sostengono la legalizzazione dell’aborto negli USA.

Il progresso della tecnologia ha portato ad usare nel mondo l’ecografia quadrimensionale (4D), la quale unisce all’ecografia tridimensionale la dimensione del tempo e permette dunque di visualizzare il movimento del feto nel grembo materno. Uno strumento vincente contro l’aborto, dato che –come ha riportato il “New York Times” nel 2005-  nei consultori dove viene utilizzata, fino al 90% delle donne che pensano all’aborto cambia opinione osservando le immagini del nascituro e decide di rinunciare all’intervento.

Gli abortisti italiani sembrano in affanno, lo si capisce leggendo articoli come questo, pubblicato il 9 marzo 2012 su “Repubblica” a firma di Gina Pavone. La giornalista, che si occupa abitualmente di argomenti bioetici usando sempre molto inchiostro per criticare l’obiezione di coscienza (qui un altro), e  promuovere l’adozione omosessuale, ha voluto osteggiare velatamente l’uso in Italia dell’ecografia quadrimensionale parlando di “ghiotta occasione di business”.  Il titolo dell’articolo è: “Ecografie 4D: la polemica”, ma ovviamente non esiste alcuna polemica, è pura finzione. Si è anche voluto portare l’attenzione su presunti problemi che verrebbero arrecati al feto intervistando la dott.ssa Elsa Viora, dell’ospedale Sant’Anna di Torino, la quale ha risposto che «non ci sono evidenze di problemi causati dalla diffusione degli ultrasuoni in ambito ostetrico», ma ci sono «delle raccomandazioni affinché vengano usati solo lo stretto necessario», perché si potrebbero «potenzialmente avere effetti biologici sui tessuti in formazione del feto». Se fosse così effettivamente occorrerebbe una necessaria cautela, tuttavia il dott. Nico Comparato, specialista in Medicina Interna, ricercatore nel campo degli ultrasuoni e docente presso la “Società Italiana Ultrasuoni in Medicina e Biologia”, ha un’opinione diversa: «Alla luce delle conoscenze mediche attuali, l’ecografia 3D – 4D è assolutamente innocua come l’ecografia bidimensionale standard. Non vengono infatti utilizzate potenze differenti… cambia il modo di rappresentazione dell’immagine».

Come mai la giornalista ha fatto finta che ci fosse una polemica in corso? Come mai ha voluto abbinare l’ecografia 4D al business e a problemi che potrebbe comportare? Come mai ha offerto un solo tipo di opinione quando in realtà vi sono molteplici pareri?

 

Qui sotto un simpatico video in cui si dimostra cosa si può osservare grazie all’ecografia quadrimensionale.

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Il filosofo Gaston Bachelard contro l’illusione del riduzionismo scientista

Dal 2001 al 2011 gli studi scientifici ritrattati sulle riviste sono aumentati di 15 volte. La scienza avanza per continui errori, anzi, per dirla con Albert Einstein: «La scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici […] La scienza può solo accertare ciò che è, ma non ciò che dovrebbe essere, ed al di fuori del suo ambito restano necessari i giudizi di valore di ogni genere» (“Pensieri degli anni difficili”, 1965).

La realtà è dunque ben più complessa di quanto affermano i riduzionisti, categoria sempre meno presente -fortunatamente- nelle accademie universitarie, ma purtroppo ancora stabile sul web e sugli organi di informazioni. “La scienza ha detto quello”, “la scienza ha fatto quest’altro”, ripetono persone che mai hanno visitato un laboratorio, nemmeno quando andavano a scuola. Parlano di “vittoria della scienza sulla filosofia“, la ritengono l’unica fonte di verità, definiscono la “fantomatica” scienza come un essere pensante, un organismo che muovendosi e pronunciandosi autonomamente decide come vadano le cose nel mondo. E’ semplicemente la forma più comune di idolatria dei moderni, «quando il Cielo si svuota di Dio, la Terra si riempie di Idoli», direbbe Karl Barth. Da una parte, nella sezione scientifica dei quotidiani si parla solo di “gene della fedeltà”, “gene della sofferenza”, “gene dell’umiltà”, dall’altra c’è la guerra tra gli scienziati costretti a pubblicare qualsiasi cosa, anche con scarsa attendibilità, pur di ricevere uno straccio di finanziamento. «La scienza è malata» (Cortina 2010), è il titolo del recente libro di Laurent Segalat, genetista e direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique, il quale ha spiegato che le quattro riviste scientifiche più conosciute totalizzano da sole il 20% degli articoli ritirati per “errori conclamati”, riconoscendo l’incompetenza dei propri redattori.

Secondo il fisico premio Nobel Richard Feynman, «a una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora più in profondità» (“The Value of Science”, Basic Books 1958). Per lui nessuno potrà mai sostenere di aver capito la meccanica quantisitica, mentre il fisico statunitense Lee Smolin ha riconosciuto che «abbiamo fallito […]. La nostra comprensione delle leggi della natura ha continuato a crescere rapidamente per oltre due secoli, ma oggi, nonostante i nostri sforzi, di queste leggi non sappiamo con certezza più di quanto ne sapessimo nei lontani anni Settanta» (“L’universo senza stringhe”, Einaudi 2007, p. X). Secondo il dottor Massimo Buscema, dr. computer scientist, esperto in reti neurali artificiali e sistemi adattivi, «la scienza non esiste se non fa errori. Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori».

Proprio in questi giorni vi è stato un convegno all’Università di Milano-Bicocca e all’Università di Bergamo sul pensiero del celebre filosofo francese Gaston Bachelard, il quale ha contribuito (assieme a Kuhn, Popper e Feyerabend, ad esempio) ad obbligare «intere generazioni a fuoriuscire dalla tentazione sempre viva di riduzionismo e cioè di limitare la ragione alla sola ragione scientifica, confusa via via, per lo più, con il paradigma scientifico in vigore (meccanicismo, vitalismo, positivismo, evoluzionismo…) o addirittura ricondotta a empirismo o, ancora, identificata con la tecnologia», come ha spiegato Francesca Bonicalzi, docente di Filosofia morale nell’Università di Bergamo. La quale aggiunge: «Rispetto alle chiusure sempre ritornanti di una scienza che si sclerotizza in descrizioni oggettive e rigidi paradigmi e che, per questo, si rende incapace di interrogarsi sui propri metodi, la riflessione bachelardiana si impone come un pensiero al lavoro che produce effetti e misura il movimento dinamico – vale a dire attivo – della ragione». Anche il tentativo di sfruttare la scienza per abbordare il mistero dell’Essere pare dunque fallito. Passano i secoli, le ideologie si alternano, ma sempre più verificata è la dolorosa ammissione del premio Nobel Thomas S. Eliot: «Tutto il nostro sapere ci porta più vicini alla nostra ignoranza».

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Censis: l’Italia non è un paese per radicali e laicisti

Brutte notizie per i teorici italiani della secolarizzazione. L’ultima ricerca del Censis, dal titolo «I valori degli italiani», elaborata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, dipinge una realtà tendenzialmente anti-secolarista in tutti gli aspetti che ha analizzato. Il metro di confronto è una ricerca analoga svolta nel 1988.

Innanzitutto, la questione più importante, è che gli italiani stanno riscoprendo il valore della famiglia: il 65,4% pensa che la famiglia sia uno dei pilastri della società e viene riscoperto anche il valore di un modello di riferimento. Si affermano in particolare le figure genitoriali e sopratutto quella del padre (nel 1988 per il 14,7%, nel 2011 per il 22,1%).  La ricerca rileva un netto calo nel desiderio consumistico e ricompare (70%) l’amore al bello, si dà  valore al legame tra etica e estetica e si riconosce che la bellezza abbia una funzione educativa.

Sergio Romano e figlio, nel loro ultimo pamphlet hanno denigrato l’Italia a causa della sua (presunta) arretratezza su diverse tematiche bioetiche, che ostacolerebbero una positiva vita sociale. Tuttavia i cittadini italiani non vivono nel mondo fatato di Romano, e per il 56% (+7% rispetto al 1998) l’Italia è il Paese al mondo dove si vive complessivamente meglio, mentre  2/3 dei cittadini (66%) pur avendone in futuro la possibilità non lascerebbe in nessun caso l’Italia. Brutte notizie anche per il partito Radicale e le sue battaglie ideologico-anacronistiche: negli italiani è scattata l’esigenza di maggiori regole, di più legge e ordine: l’89% dei cittadini vorrebbe misure più severe contro le droghe pesanti e il 74% verso le droghe leggere (cannabis ecc.), mentre il 71,5% chiede maggior severità nei confronti della prostituzione. Praticamente possiamo dire che il Movimento Liberali Antiproibizionisti, cellula combattiva del Partito Radicale, ne esce a pezzi, dato che i suoi obiettivi sono proprio, contemporaneamente, la liberalizzazione della prostituzione e della marijuana, oltre ovviamente il riconoscimento giuridico dei matrimonio omosessuali.

Notizie amare anche per le cellule anti-teiste e razionaliste, in quanto se negli anni ’80 si professava solidamente credente, riconoscendosi in un credo organizzato, il 45,1% (1988) degli italiani, oggi la quota di popolazione che si riconosce in questo è pari al 65,6% (anno 2011). A questi si aggiunge un 15% (nell’88 erano il 22%) di quelli che avvertono una Presenza oltre la realtà materiale,  arrivando sopra l’80 per cento. In calo chi afferma di non occuparsi di Dio, solo l’8% nel 2011 mentre nel 1988 era il 12,9%. Il che vuol dire, si legge, che l’ateismo si comprime, e chi crede si affida sempre meno a un Dio fai da te, ricostruito secondo necessità nelle burrascose notti dell’anima, ma si riconosce maggiormente nel cattolicesimo.

 

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“The Butterfly Circus”, il cortometraggio e la cultura cristiana

Vedendo un uomo nato senza gambe e senza braccia qualcuno si arrogherebbe il diritto di aggiungere anche che sia senza dignità, senza gioia e senza utilità. Le culture greca, pagana e illuminista hanno sempre disdegnato i disabili: a Sparta i bambini nati con malformazioni venivano gettati dal monte Taigete, ad Atene venivano abbandonati per le strade, nell’antica Roma erano cibo per i cani randagi. Platone, nella “Repubblica utopica” vuole che non siano curati e allevati (quindi lasciati morire) bambini che nascano privi delle qualità ottimali, lo storico francese Jean Dumont ha descritto con precisione gli eccidi eugenetici di prostitute e di ritardati mentali, perpetrati nelle prigioni rivoluzionarie francesi del 1792. Solo nella cultura cristiana donne, bambini e disabili hanno ottenuto per la prima volta dignità, rispetto e protezione, dal primo secolo fino ai giorni nostri, anche grazie a tantissimi non cristiani e non credenti.

I due protagonisti del bellissimo e ormai famoso (già visto da oltre 15 milioni di persone) cortometraggio “The Butterfly Circus”, diretto da Joshua e Rebekah Weigel nel 2009, sono infatti cristiani: il primo è l’attore e modello Eduardo Verástegui, convertitosi al cristianesimo e diventato una stella del mondo pro-life americano. L’altro è Nick Vujicic, che nel cortometraggio interpreta il disabile Will, anche lui approdato al cristianesimo dove ha incontrato «l’incessante meraviglia» dell’amore di Dio. Segnaliamo la bella recensione fatta da Antonio Socci sul suo sito web.

Il cortometraggio racconta appunto la storia di Will, nato senza arti, chiuso nella sua sofferenza e mostrato al pubblico del circo come “abominio della natura”. Un essere “abbandonato da Dio”, come lo presenta il suo “padrone”. Poi l’incontro con il signor Méndez e Will per la prima volta si sente guardato in modo diverso, in profondità, per quello che è veramente. Ed ecco il cambiamento: il bruco diventa farfalla, tutto cambia. Questo sguardo nuovo sulla sua persona non è avvenuto solo nel film, ma l’attore Nick Vujici lo ha provato davvero nella realtà, nell’incontro cristiano. Racconta: «Mio padre uscì urlando dalla stanza dove mia mamma mi aveva appena partorito: a mio figlio manca un braccio! Quando il medico lo raggiunse la notizia era ancora peggiore: a suo figlio mancano anche le gambe. Alle persone che incontro dico sempre: non avrai sollievo alla tua sofferenza sapendo che qualcuno soffre più di te; è un trucco che non funziona. Io, provvisoriamente, in questa vita non ho gambe e braccia, ma sono figlio di Dio, mi sento amato. E posso dire a tutti qual è l’unica cosa che riempie veramente il cuore».

 

Qui sotto il cortometraggio “The Butterfly Circus” sottotitolato in italiano.

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Mi chiamo Andrea e ce l’ho fatta: sono uscito dall’omosessualità

Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Andrea Ferrameo giovane ragazzo ex omosessuale. In questo articolo racconterà la sua storia e l’uscita dall’omosessualità, ed è pronto a tutto. Sa bene che ci saranno reazioni violente, che si sosterrà che lui non esiste e se esiste che non è mai stato omosessuale, e se è stato omosessuale allora non è mai uscito, perché nell’omosessualità si entra ma nessuno può permettersi di uscire. Sa che questo testo verrà analizzato per tentare di trovare prove della finzione. Sa delle discriminazioni che subisce Luca Di Tolve, sa che Adamo Creato è stato diffamato perfino su “Il Fatto Quotidiano” dove hanno parlato di “guarigione” e “terapie” senza che lui ne avesse mai fatto cenno. Ma, come dicevamo, si aspetta già tutto questo e non ha paura delle intimidazioni mediatiche, vuole solo raccontare di sé».

 
di Andrea Ferrameo*
*ex omosessuale
 

Quello che mi accingo a scrivere è il racconto del percorso che ho seguito nella mia vita e spero che questo possa essere d’aiuto per chiunque si pone, si è posto o si porrà le mie stesse domande e non si accontenta delle prime risposte. Quello che ho vissuto è simile a migliaia di altre storie; è come un copione che si ripete, a volte con qualche variante, altre con qualche colpo di scena ma alla fine è sempre la stessa storia e il risultato è sempre la stessa frase: “Io sono omosessuale”.

Sono un ragazzo che dalla adolescenza, anche prima, ha iniziato ad avere le prime curiosità, le prime pulsioni verso miei coetanei dello stesso sesso e nel frattempo cercava di reprimere quel mostriciattolo dentro che cresceva sempre più forte. Sono un ragazzo che ha fatto tutte le cose che fanno i ragazzi: sport, catechismo, scuola, amici ma soprattutto amiche, flirt e poi nelle mura di casa la scoperta dell’erotico, la pornografia, la masturbazione. Quando all’età di 18 anni trovai finalmente un fidanzato e feci outing con la mia famiglia praticamente, si potrebbe dire , ero già a buon punto nella mia emancipazione! Poi discoteca, la mia relazione duratura ( 4 anni), amici e compagni di università che mi e ci accettavano, cena coi genitori di lui o col fratello e padre proprio (eh, le mamme!), a casa sua nei week end e la speranza di andare a convivere assieme, psicologa per capirti meglio, vacanze, letture, sesso (fedele). In effetti l’ambiente delle discoteche o delle conoscenze gay è molto divertente, spensierato, ci si sente vittime della società con la missione di cambiare il mondo. Si sente un forte appoggio dai mass media e un forte desiderio degli eterosessuali di mostrarsi friendly. Devo anche dire che, appena trovi il fidanzato, spesso te ne stai volentieri fuori da quell’ambiente per poi tornarci una volta scoppiato per rimorchiare. D’altronde puoi farlo quasi solo in discoteca e in chat. Quello che desideravo era di vivere normalmente la mia condizione e relazione.

Il Gay pride era qualcosa che mi incuriosiva vedere, ma non ne condividevo le modalità di svolgimento. Gli intrattenimenti in discoteca li trovavo volgari e troppo centrati sul sesso. Spesso, se leggevo la testimonianza di qualche ex-gay e leggevo quanto promiscuo fosse stato il suo passato, pensavo che il suo fosse più un rifiuto per queste situazioni pesanti, non tanto il frutto di un percorso profondo che prescindeva dell’esperienza gaia più o meno centrata sul sesso. Poi un giorno, non sai bene come, ma il tuo cervello decide che è il momento di dare un perché a quella strana sensazione che hai dentro. Io lo figuravo come un ago che mi bucava il cuore, una sensazione non chiara ma che ogni tanto si faceva più forte, ogni tanto era lieve lieve, ma comunque sempre lì. Un senso di vuoto misto a tristezza che non mi lasciava mai troppo entusiasta delle cose belle che vivevo, e mi rendeva malinconico nell’affrontare la realtà. Una domanda che aspettava una risposta, che forse nessuno può sapere ma che comunque ti scava: “sono veramente felice? Le mie scelte mi appagheranno negli anni a venire?”.  Perché farsi una domanda del genere, qualcuno si chiederà. Pensateci un attimo, ogni qual volta vedete un depresso, uno in miseria, un drogato, pluri-divorziato, pluri-infelice, maniaco e così via, anche nei casi più leggeri. Ognuno di loro ha subito e fatto delle scelte che passo dopo passo lo hanno portato alla propria condizione. Se poteste capire dalla loro vita quali sono state le scelte che ha scavato loro la fossa del fallimento, ve ne stareste ben lontani da ripercorrere gli stessi passi, giusto? Così la vedo io.

A un certo punto iniziai quindi ad analizzare le scelte della mia vita e il presupposto per trarre delle buone conclusioni era quello di essere sinceri al 100%, anche sarebbe stato scomodo. Allora vidi che il sesso non era proprio il non plus ultra, ma non a livello prestazionale, proprio a livello pratico: oltre il piacere intenso, alla fine tutti quei preservativi, quei fazzoletti, quel gel, quelle fitte di dolore, quei odori sgradevoli in effetti, mi pesavano. Forse fare l’amore non doveva avere tutto quel bagaglio scomodo. Forse il pensarmi dopo 10 anni senza figli e dopo 50 senza nipoti mi dava davvero dolore e non ci sarebbe stata adozione ad alleviare la consapevolezza che, come una mamma non lo sarei mai stato e, di privarne una creatura proprio non mi sarebbe andato. Forse quella dolcezza, quell’amore che il mio fidanzato mi dava era pur sempre quello che un uomo mi poteva dare e mi mancava sempre un pezzo, una profondità che probabilmente non avremmo saputo raggiungere. Forse aveva un peso il mio passato, il primo ricordo di un padre che bacia un’altra donna e il segreto da nascondere alla propria madre; i litigi, le urla e le mani alzate tra i propri genitori; il fastidio e il pregiudizio verso il mondo maschile tutto focalizzato nei soldi, sulla donna o meglio, quello che ha tra le gambe, il calcio e poco più; il rifugiarmi e adeguarmi a un mondo femminile più simile alla mia natura sensibile e artistica; il mio odiare mio padre che mi deludeva e amare e proteggere troppo mia madre fino a non sopportare la sua emotività e quella di tutte le altre donne che si legavano a me. Forse le mie insicurezze negli spogliatoi, quando ci si cambiava e il mio fisico e i miei genitali mi risultavano sempre troppo inferiori al mio gruppo dei pari. Forse era tutto legato, forse c’era un filo rosso che cuciva assieme tutte queste ferite, questi pensieri e una volta tagliato il filo, fatto il nodo, si guardava il lavoro sartoriale e si leggeva ben chiaro: omosessualità.

Come ogni lavoro sartoriale, una volta imparata la tecnica, si ripete sempre quella: se si va a leggere l’esperienza di molti altri ragazzi che hanno vissuto un percorso analogo, si nota come le tappe sono sempre quelle. Chi si mette in discussione per una malattia, chi si sente toccato da Dio, chi legge qualcosa di particolarmente vero per sé e cambia, capisce che quello che stava vivendo era la conseguenza di fatti subiti, emozioni vissute che portavano tutti alle medesime emozioni, ai stessi desideri per poi arrivare alla medesima sensazione di vuoto. A un certo punto della mia vita, tutto questo ragionamento che avevo rifiutato, allontanato dalla mia mente, tutte queste risposte che non volevo ascoltare si fecero palesi e non potei fare a meno di rimettermi in discussione. Quello che chiamavo omofobia interiorizzata in realtà era il mio cuore che si ribellava alle mie scelte. Ognuno di noi è libero di fare quello che meglio crede per sé, ma se si arriva a un punto in cui le proprie scelte ci rendono insoddisfatti, allora bisogna prendersi la responsabilità di ammettere che alcune cose hanno tradito il nostro vero essere. Credere di essere nato omosessuale e che quella era la mia identità tradiva la vera identità che sotto sotto sentivo di avere, e che in diverse occasioni mi aveva dato prova di esistere e di meritare attenzione; solo che richiedeva molta fatica per riconquistarla e pretendeva l’ammissione di non avere abbastanza forza e coraggio.

Guardandomi indietro ammetto che gli errori commessi da mio padre hanno inciso moltissimo nella considerazione che avevo del mondo maschile. Il primo uomo, il più importante mi aveva deluso e mi era emotivamente distante, non riusciva a capire che oltre alla sua presenza e alle sue attenzioni avevo bisogno del suo esempio. Io d’altronde, davo importanza nel mondo maschile, solo a certi aspetti più superficiali e grezzi . Non riuscivo ad ammettere che mi sarebbe piaciuto far parte di quel gruppo, sentirmi uno di loro nonostante non condividessi tanti argomenti e -peggio della volpe e l’uva-, preferivo tirarmi indietro nascondendomi in una superiorità di facciata. Questo percorso mi ha portato a far pace con mio padre dentro il mio cuore. Nonostante lui ad oggi capisca solo in parte quello che ha fatto, ho imparato ad accettare i suoi limiti e ad aprirmi con lui. Questo dona una grande libertà alla mia persona e ha aperto anche i miei occhi sui suoi lati positivi in quanto uomo: la razionalità, l’emotività più pacata sono alcuni esempi che prima rifiutavo e per cui soffrivo. Mi sono accorto di quanto il coinvolgimento di mia madre fosse eccessivo, di come mi hanno turbato i commenti di astio che io ripetevo contro tutta la categoria, di come mi hanno aiutato i miei amici, veri uomini nella forza e nella dolcezza che mi sono stati di esempio e veri demolitori dei miei pregiudizi. Fede e omosessualità non sono in totale contrasto, ma c’è un tesoro tutto da scoprire con pazienza e senza arroganza.

Ad oggi sono una persona felice , serena e innamorato della mia ragazza. Non sento più quell’ago nel cuore, nonostante ho dovuto rivoltare la mia esistenza da capo, buttare tutto quello che avevo costruito, dire a tutti quanti di aver sbagliato, e vi assicuro che è molto difficile reggere all’incredulità di molti. Sono ben consapevole che avere desideri, emozioni omosessuali non sono una scelta ma una condizione in cui ci si ritrova. Oggi però, sono altrettanto consapevole che toccando certi tasti del proprio essere, del proprio vissuto, affrontando certi lati di se stessi, questi desideri si affievoliscono fino a scomparire e affiorano naturalmente desideri verso persone del sesso opposto. Non ci sono repressioni, non ci sono lavaggi del cervello, perché tutto questo mi è accaduto quando ormai non andavo più dallo psicologo ed ero ancora fidanzato. Non sono un illuso, ma un ragazzo come tanti che liberamente si è accorto di essersi raccontato delle bugie ed è riuscito ad affrontarle. Non posso certo ringraziare chi si oppone a tutto questo e chi grida con insistenza che “omosessuali si nasce” ed è una condizione che pone l’unica strada dell’accettazione. Non è sempre così, l’unica vera strada e la felicità e realizzazione completa della persona e quella la raggiungiamo solo da soli con l’amor del vero e della libertà. Poi ognuno troverà la propria risposta definitiva, non quella scelta dagli altri.

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L’argomento evolutivo contro il naturalismo

Nel 1993, il filosofo Alvin Plantinga, professore emerito di filosofia alla University of Notre Dame e presidente del Dipartimento di Filosofia al Calvin College, proponeva un’originale formulazione dell’idea che la negazione aprioristica di un Creatore sia fondamentalmente irrazionale. Il ragionamento di Plantinga è universalmente noto comeEvolutionary Argument Against Naturalism” –EAAN (“argomento evolutivo contro il naturalismo”). Oggi, dopo essere passato indenne attraverso quasi venti anni di severo scrutinio, Plantinga ripropone l’EAAN nel suo ultimo libro, “Where the Conflict Really Lies: Science, Religion and Naturalism” (Hardback 2011). Cominciamo con l’osservare che Plantinga definisce il naturalismo come la posizione filosofica che non ammette l’esistenza di un Dio personale e che implica il materialismo, vale a dire l’idea che gli esseri umani non hanno “un Sé, un’anima o un ego immateriali” e che “sono fatti in tutto e per tutto di carne e sangue e ossa”. Ora, secondo il filosofo è questa concezione, e non la fede, a essere in conflitto con la scienza. Per poter comprendere il nucleo dell’EAAN è necessaria una piccola digressione “tecnica”.

Il ragionamento dipende infatti in maniera essenziale dal concetto di “defeater”, che indica – nel contesto dell’epistemologia – una convinzione che, se provata vera, implicherebbe direttamente o indirettamente la falsità di un’altra convinzione. Per i nostri scopi, tradurremo “defeater” con l’espressione “un confutante”. Ecco un esempio: abbiamo appena comprato un termometro T – che naturalmente riteniamo affidabile – quando veniamo a sapere che esso è stato prodotto da una certa fabbrica F, che appartiene a un matto il cui unico obiettivo nella vita è di boicottare la società industriale. A tale scopo, costui introduce apposta molti strumenti difettosi nella linea di produzione. Pertanto, dato che noi non abbiamo alcun modo di conoscere il rapporto tra il numero dei termometri buoni e quello dei termometri difettosi, la logica ci suggerisce di buttare a mare tutte le temperature fin qui rilevate da T, perché non abbiamo più la ragionevole certezza che esse siano attendibili! In definitiva, l’affermazione “La probabilità P che T sia affidabile, sapendo che T è stato fabbricato da F, è molto bassa o indeterminata” costituisce un confutante della nostra convinzione iniziale che T sia un valido strumento di misura.

Passiamo adesso a esaminare l’argomento evolutivo di Plantinga. Assumeremo che le nostre facoltà cognitive (memoria, percezione, pensiero razionale e così via) si possono ritenere affidabili se le loro conseguenze risultano in maggioranza vere. Come si sa, secondo le attuali teorie evolutive tutte le innumerevoli caratteristiche delle attuali forme di vita – comprese dunque le nostre capacità cognitive – sarebbero comparse attraverso meccanismi quali la selezione naturale e la deriva genetica, che agiscono sulle fonti di variazione (come le mutazioni genetiche casuali). La selezione naturale elimina la maggior parte di queste mutazioni, ma qualcuna mostra di avere valore di sopravvivenza e aumenta l’adattamento. Queste ultime, perciò, si diffondono nella popolazione e persistono nel tempo. È bene sottolineare che, secondo Plantinga, questo schema evolutivo è perfettamente compatibile con l’idea teista che Dio ci abbia creati a Sua immagine e somiglianza, e in particolare dotati della capacità di acquisire conoscenza. La teoria dell’evoluzione, in effetti, prevede soltanto che le mutazioni genetiche siano casuali, intendendo con ciò che esse non devono essere implicite nella struttura dell’organismo, che di norma non devono giocare un ruolo positivo nella sua capacità di sopravvivere, ed eventualmente che non devono essere prevedibili; ma essa non può escludere la possibilità che tali mutazioni siano in realtà causate, orchestrate e predisposte da Dio. Come è facile capire, questa forma di evoluzione teista è totalmente equivalente a quella ateista, alla luce delle prove scientifiche oggi disponibili. Quindi, secondo Plantinga, la teoria dell’evoluzione in sé non è in contraddizione con l’idea che Dio ci abbia creati in modo tale che le nostre facoltà cognitive siano affidabili (perfettamente in grado, cioè, di “adeguare l’intelletto alla realtà”).

Ma se il naturalismo è vero, Dio non esiste, e pertanto non vi è nessuno che sovrintende al nostro percorso evolutivo. Il che ci porta dritti alla questione cruciale, quella intorno a cui ruota l’EAAN: quanto è probabile che le nostre capacità cognitive siano affidabili, data la loro origine evolutiva e supponendo vero il naturalismo? Ebbene, la risposta più logica per chi sostiene il naturalismo dovrebbe essere “molto poco”, come comprese lo stesso Darwin: «Mi sorge sempre l’orrido dubbio se le convinzioni della mente umana, che si è sviluppata dalla mente degli animali inferiori, siano di qualche valore o in qualche modo attendibili. Chi riporrebbe la sua fiducia nelle convinzioni della mente di una scimmia – se pure esistono delle convinzioni in una tale mente?». Il “Dubbio di Darwin” è stato ribadito in tempi più recenti da Patricia Smith Churchland, che lo ha sottoscritto in pieno. In sintesi, esso nasce  dalla una semplice considerazione: dal momento che la selezione naturale si limita a premiare i comportamenti che aumentano l’adattamento, non ha alcuna importanza se le convinzioni che stanno alla base di quei comportamenti sono vere o false. Basandoci solo sulla teoria dell’evoluzione, in pratica, non possiamo dire nulla di positivo sulla verità delle conclusioni a cui possono portare i nostri processi intellettivi. Se infatti accettiamo il riduzionismo materialista implicito nel naturalismo, ogni comportamento è causato esclusivamente da processi cerebrali deterministici, quindi dalla “neurologia sottostante” (per così dire). È questa neurologia ad essere adattiva, e per il naturalismo essa è l’unica fonte delle convinzioni: dal punto di vista dell’adattamento, però, non è necessario che queste siano vere, purché consentano la sopravvivenza dell’individuo.

Un esempio divertente è fornito da Plantinga. Immaginiamo di osservare un nostro ipotetico antenato pre‑umano, Paul. Si avvicina una tigre; il comportamento più appropriato è naturalmente la fuga. Ora, Paul pensa che la tigre sia un enorme gattone amichevole, e decide di giocarci; è convinto però che il modo migliore per farlo sia di farsi inseguire senza lasciarsi mai acchiappare. Quanto alla sopravvivenza, Paul è a posto; quanto all’aderenza con la realtà, lo è indubbiamente di meno! Di fatto, per ogni comportamento che produce adattamento sono possibili diversi contenuti mentali – corrispondenti a convinzioni diverse, alcune delle quali vere e alcune false – che, nell’ottica del materialismo, non sono in relazione causale con esso. Perciò, data la selezione darwiniana e il naturalismo, possiamo conservativamente stimare pari a circa il 50% la probabilità che fosse vera ogni data convinzione che si andava via via fissando, nel corso dell’evoluzione, nella struttura neurale della nostra specie. In effetti, dando per scontato il naturalismo, è logico concludere che l’affidabilità complessiva dei nostri processi mentali deve essere effettivamente molto scarsa. Del resto, non avendo informazioni certe su come siano andate realmente le cose, l’unica alternativa scientificamente valida che ci rimane è la sospensione del giudizio: in altre parole, dovremmo ammettere di non poter dire niente di sicuro sull’affidabilità delle nostre facoltà cognitive.

A questo punto, possiamo esprimere in forma analitica le considerazioni fin qui esposte. Indichiamo con R la proposizione “Le nostre facoltà cognitive sono affidabili”, con N “Il naturalismo è vero”, e con E “Ci siamo evoluti in modo neo‑darwiniano” (non è difficile individuare nella congiunzione N&E quella forma di scientismo che pretende di spiegare ogni aspetto della vita umana attraverso il paradigma di caso e necessità). Indichiamo infine con P(R/N&E) la probabilità che le nostre facoltà cognitive siano affidabili, dati il naturalismo e il neo‑darwinismo, e con D la proposizione “P(R/N&E) è molto piccola o indeterminata” (che, per quanto detto sopra, consegue da N&E). Ebbene, è evidente che se si accetta N&E e si comprende che D è vera, quest’ultima risulta essere un confutante di R: in altri termini, siamo costretti a dubitare di tutte le nostre convinzioni – inclusa ovviamente N&E. In quanto confutante di R, perciò, D lo è anche della stessa N&E!  Insomma, lo scientismo – nella variante N&E – risulta essere una convinzione auto‑confutante, vale a dire una concezione che non è possibile sostenere razionalmente. In sostanza, se si accetta il naturalismo non ha senso credere nell’evoluzionismo darwiniano, e viceversa. Se d’altra parte fosse vero il teismo (la negazione del naturalismo), Dio potrebbe aver predisposto e diretto l’evoluzione in maniera tale che dovessero comparire sulla Terra, a tempo debito, creature dotate di affidabili facoltà cognitive; in questo caso, non si rileverebbe alcuna contraddizione logica con le osservazioni scientifiche.

Concludendo, dall’analisi di Plantinga si deduce che naturalismo e neo‑darwinismo sono in conflitto, poiché non è ragionevolmente possibile accettare entrambi. Dato dunque che il neo‑darwinismo è una parte di fondamentale importanza della scienza moderna, dovremmo prendere atto che si comincia a delineare un profondo conflitto tra naturalismo e scienza… mentre continua a non essercene alcuno tra fede e scienza.

Michele Forastiere 

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