Quale fondamento ha la “morale laica”?

 

di Stefano Biavaschi*
*assistente alla Cattedra di Teologia presso l’Università Cattolica di Milano

 

Che cos’è la morale laica? Quali fondamenti ha? Da quanto tempo esiste? Da sempre la filosofia s’interroga, facendo ricorso alla ragione, sulle maggiori questioni morali, ed i grandi filosofi classici hanno spesso posto importanti basi per la ricerca del buono oltre che del vero. Ma, nel linguaggio moderno, per morale laica s’intende una morale “non confessionale”, che non faccia riferimento a nessuna forma di teologia morale. Quest’indipendenza dalla religione si traduce, almeno in occidente, come indipendenza dal cristianesimo e dai suoi valori.

La morale laica intende presentarsi come una libera conquista della ragione che, disancorata dalla Parola di Dio, sarebbe in grado di definire da sé il bene ed il male. I comandamenti ed il Vangelo non vengono pertanto più visti come normativi del comportamento, anzi vengono spesso intesi come impedimenti verso il raggiungimento di formulazioni universalmente condivise. Anche la Chiesa viene di conseguenza vista come istituzione che condiziona la vera libertà di scelta. La morale laica non ama però autodefinirsi come “morale non confessionale” o “morale non cristiana”, perché si arroga il diritto di poter essere condivisa anche dai cristiani, rivendicando a sé un ruolo “al di sopra delle parti”, e pertanto ponendosi come punto di riferimento universale ed accettabile da tutti. E’ la ragione umana, sostiene la morale laica, a stabilire il metro di misura morale delle nostre azioni, l’appartenenza ad una confessione religiosa è visto anzi, nella mentalità “laica”, come una difficoltà oggettiva verso l’autonomia morale. Non a caso, infatti, la morale laica nasce in contemporanea col grande fenomeno del secolarismo.

Il tempo viene visto dai secolaristi non più come il luogo di esperienza del sacro, dell’eterno, ma come semplice dimensione orizzontale, saeculum appunto: ininterrotto svolgersi dei secoli lungo una linea orizzontale senza principio né fine, e non una spirale ciclica che tende verso Dio. Questa visione laicista della storia fu figlia dell’illuminismo più deteriore: non l’illuminismo italiano inaugurato dal Muratori e giunto attraverso il Verri e il Beccaria fino al Manzoni, ma l’illuminismo anticlericale di stampo francese che fece della ragione una dea da adorare, ed ai piedi della quale sacrificare coloro che ancora si riferivano all’assoluto. Non a caso fu in quel periodo che si tentò di ristrutturare il calendario degli anni, dei mesi, e dei giorni. Il tempo ricominciava dall’anno zero secondo un nuovo ordine dei secoli. In contemporanea con questo processo di scristianizzazione del mondo, si affermò sempre più, tra il settecento e l’ottocento, l’idea che l’uomo non aveva più bisogno di Dio. Laicismo, razionalismo, scientismo posero le basi teoriche di questo nuovo atteggiamento “religioso”. Anche la natura, inizialmente dea, veniva poi piegata come strumento dell’utile, erano gli anni in cui tutto veniva sezionato e studiato con freddo spirito di catalogazione, mammiferi ed uccelli esotici venivano impagliati a migliaia per il culto dell’osservazione, farfalle e coleotteri venivano infilzati e racchiusi in bacheche; gli anni in cui il cranio di Bernadette di Lourdes veniva misurato e tastato, mentre l’antropologia darwinista stabiliva quella superiorità di alcune razze umane sulle altre, che tanto danno fece nelle mani delle ideologie nazionaliste. Se non c’era più bisogno di Dio e della Chiesa, c’era ancora bisogno di una morale?

L’uomo secolarizzato non amava definirsi un immorale, ed anzi sosteneva che una morale fosse possibile anche senza fare riferimento alla fede. Fu così coniato il termine “morale laica”, e, per un po’, la grande illusione di poter conservare e tramandare ugualmente i grandi valori morali fu resa possibile dal fatto che, anche se la testa era atea, il cuore conservava in sé l’educazione trasmessa dai padri. Ma quando emerse il fallimento educativo di questa impostazione, le nuove generazioni si scoprirono atee sia nella testa che nel cuore: il soggettivismo prese il posto del relativismo, il nichilismo quello del secolarismo, il cinismo quello del laicismo. Man mano si scoprì che il grande mito di una morale fondata su valori “universalmente condivisi” s’infrangeva contro totalitarismi e fondamentalismi, che quei valori non condividevano affatto. La tempesta del ’68 fece il resto, e la morale “laica” con cui molti intellettuali avevano fatto orgoglioso sfoggio di sé, naufragò nei suoi evidenti risultati.

Oggi si è ridotta ad una sola affermazione ed un solo principio: “la morale è che ognuno può costruirsi una propria morale”. Non è nemmeno più importante che i valori siano “universalmente condivisi”: l’importante è che siano condivisi da me. L’io diventa quindi l’arbitro assoluto del bene e del male, e le sue decisioni comportamentali non devono essere messe in discussione nemmeno dall’io degli altri. Persa la sua dimensione comunitaria, l’io si riduce così ad una monade isolata, che non opera più per il bene comune, e non riuscendo nemmeno a raggiungere la propria felicità, sprofonda in una solitudine sempre più abissale.

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Se la crisi dell’uomo moderno nasce dal protestantesimo

Recentemente è apparsa su “La Bussola Quotidiana” la prefazione del nuovo libro di Gianfranco Amato, I nuovi unni. Il ruolo della Gran Bretagna nell’imbarbarimento della civiltà occidentale (Fede & Cultura, Verona 2012). Il testo, a cura di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, presenta la nuova fatica di Amato, avvocato bioeticista, editorialista di Avvenire, collaboratore di CulturaCattolica.it e di altre testate giornalistiche, come «un interessante saggio», la cui «divisione in due sezioni […] consente da una parte di capire le ragioni storico-culturali che hanno portato all’attuale decadimento della società del Regno Unito, e dall’altra di avere un’impietosa fotografia di ciò che accade nella banale realtà del quotidiano, attraverso la raccolta cronologica di articoli».

Ma cosa sta quindi alla base della moderna barbarie bioetica, sociale e culturale che dalla Gran Bretagna invade il mondo? Nient’altro che la cosiddetta Riforma protestante. È proprio -come spiega Amato e riprende il vescovo- con i principi luterani della Sola Gratia, Sola Fide e Sola Scriptura che s’insinua «il germe di quel soffocante individualismo che sarà destinato a caratterizzare in particolare la società inglese». Quello stesso germe che, espansosi a macchia d’olio, avvelena oggi tutta la civiltà occidentale.

È al protestantesimo che bisogna guardare se si cerca il responsabile «della frattura insanabile tra fede e ragione»,  della deificazione della ragione che «ha relegato la fede negli angoli angusti della propria coscienza» e condannato l’uomo alla solitudine di un rapporto personale con Dio, «estraniandolo dalla dimensione comunitaria e […] salvifica della Chiesa». E ancora, è stata la dottrina di Lutero a relativizzare la verità e «impedendo alla fede di diventare cultura» consegnandola a chi «detiene il potere ideologico o politico».

È da questo insieme, che nasce l’attuale crisi dell’uomo moderno, di cui Amato trova il perfetto paradigma nella Gran Bretagna, spiegando come e perché proprio questa, sia diventata il caso più limpido dove «i frutti velenosi della Riforma» hanno cancellato Dio «dall’attuale orizzonte culturale». L’opera, infatti, non limita sé stessa «ad una denuncia intellettuale», ma offre prove tangibili e quotidiane di quanto porta a tesi ed è per questo che, conclude mons. Negri, «merita certamente di essere letta».

Nicola Z.

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Laicità: l’errore di Paolo Flores d’Arcais

 

di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia

 

Di grande interesse risulta il dibattito suscitato da un intervento del Card. Angelo Scola (“La presunta laicità della politica”), pubblicato su “Repubblica” del 26/2/2012, stralcio di una conferenza tenuta nello stesso giorno nella cattedrale Notre-Dame di Parigi, e dalla lettera di risposta del Prof. Paolo Flores d’Arcais, pubblicata sempre su “Repubblica” il 28/2/2012.

Scola parte dalla constatazione di una crisi comunicativa epocale, dovuta all’incapacità dei diversi codici universali secolarizzati di elaborare una piattaforma di valori comune agli uomini. E’ la sfiducia nella possibilità stessa di una domanda fondata su un logos, quindi, comunicabile e condivisibile da tutti gli uomini, in quanto dotati di ragione. La sfiducia nel logos si traduce inevitabilmente nella difficoltà di comunicare, negando il fondamento della democrazia, come ricerca dialogica del bene comune della polis. Se ogni opinione è vera ne consegue che la verità è un fatto privato: pubblico è solo lo spazio vuoto, il contenitore neutro. La democrazia si risolve, allora, in una procedura di garanzia del “rispetto delle regole” (innanzitutto quella della maggioranza), che implica la neutralità dello spazio pubblico, ovverosia l’azzeramento di qualunque pretesa di cercare il vero e il bene universale.

Per Scola, invece, la politica è «l’ambito in cui tutti i “diversi” debbono avere la possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune della comunicazione», in quanto è «veramente pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi nel gioco di una “narrazione reciproca». Flores d’Arcais obbietta che la laicità della polis si misura sull’assenza di ogni «riferimento religioso nello spazio pubblico»;, ovverosia in «quel processo permanente di formazione dell´opinione pubblica e deliberazione istituzionale, che mette capo alla promulgazione di una legge». Il fatto è che per Scola il senso religioso è un fatto pubblico per definizione e si radica in quell’esperienza di apertura trascendentale all’essere, che sta alla base anche della filosofia, dell’arte, della scienza, in una parola dell’uomo. L’uomo come persona è per natura “politico”, aperto alla relazione e alla condivisione con gli altri, quindi alla ricerca in comune del bene della polis. Il pubblico, da questo punto di vista, non è una zona franca rispetto alla realizzazione di questa dinamica umana, ma è, al contrario, proprio il luogo della sua attuazione, del farsi della sua storia: è un pieno, non un vuoto. Laicità, dunque, significa apertura alla ricchezza dell’umano, non chiusura in uno spazio autosufficiente e puro perché “bianco”. Il pubblico è laico nella misura in cui pone le condizioni affinchè l’uomo possa svilupparsi e attuare in pienezza le proprie potenzialità naturali di essere razionale e relazionale.

La religione, quindi, ha una dimensione pubblica perché il senso religioso costituisce storicamente il principio ispiratore della cultura umana in tutte le sue espressioni. Possono esistere stati atei ma non popoli senza una tradizione religiosa. Tenere conto della tradizione religiosa del suo popolo è cosa ben diversa per uno stato da imporre una religione ai cittadini o discriminare in virtù dell’appartenenza religiosa. Non si può obiettare che lo stato deve essere neutro, altrimenti discrimina necessariamente. Una neutralità di tal fatta è solo una finzione, che nasconde semplicemente il tentativo scorretto e surrettizio di sostituire la propria concezione a un’altra concorrente. Ciò che conta è il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana, tra i quali c’è proprio la libertà da coercizioni nella ricerca della verità, cioè la libertà della volontà sulla base del giudizio della coscienza, specialmente in materia religiosa. Flores d’Arcais parte, invece, da una identificazione tra pubblico e privato, in cui il primo si identifica con una sua dimensione fondamentale ma parziale, cioè lo stato. In tale quadro tutti i soggetti diversi dallo stato perdono il carattere di “pubblico” e divengono automaticamente privati, legittimati a esistere per concessione dello stato, ma privati.

Proprio nel Cristianesimo, del resto, è l’origine del concetto di laicità («il mio regno non è di questo mondo», Gv 18, 36). La tentazione di arrivare alla Resurrezione senza passare attraverso la Croce è all’origine di ogni fondamentalismo religioso. L’alterità irriducibile di Dio rispetto al mondo impedisce di confondere il Regno di Dio con qualunque realizzazione umana, per quanto cristiana sia (“Gaudium et Spes” 39). Se Dio è trascendente e creatore, il potere non può essere divinizzato e la politica appartiene all’ambito delle realtà penultime, “cause seconde” (San Tommaso) o “fini infravalenti” (Maritain).  Qualunque concezione immanentistica che collochi la causa prima nel mondo, giungendo, perciò, a divinizzarlo, finisce, invece, per assolutizzare e divinizzare anche il potere politico. Ne sono esempi il totalitarismo, vera religione secolare, e lo stesso fondamentalismo religioso, che, al di là dell’apparente rivendicazione anti-moderna del primato di Dio sul “secolo”, assomiglia a una forma molto moderna di politicizzazione del religioso. Il cristiano si muove nell’ambito delle realtà penultime con la capacità di argomentazione fondata sulla propria natura di creatura razionale, consapevole che il senso del penultimo sta nelle realtà ultime. La Chiesa è competente su “come si va in cielo”, non certamente su “come va il cielo”: il fatto è che a volte chi è competente in quest’ultimo ambito pretende, sulla base del suo metodo di argomentazione, di parlare del primo. Essa, quindi, non può tacere quando le questioni tecniche coinvolgono problemi morali e toccano la verità rivelata su Dio e sull’uomo; né si vede perché dovrebbe farlo nel legittimo e “laico” confronto delle idee.

Non sono mancati tra i cristiani in diversi momenti storici cedimenti alla tentazione di scambiare il Regno di Cristo con il potere temporale e ciò può ancora accadere. E’, tuttavia, segno di profonda intolleranza e arroganza pretendere di imporre ai credenti di separare la propria fede dalla vita; sarebbe come pretendere da un ateo di separare il proprio ateismo dall’impegno pubblico. L’uomo non è fatto a moduli o a compartimenti stagni, in modo tale che se ne possa frantumare l’unità di vita, scindendo irrimediabilmente la vita privata da quella pubblica. In un contesto di trasformazioni ed emergenze epocali come il nostro è più che mai indispensabile il contributo di tutte le energie alla soluzione di problemi planetari e inediti. In tale quadro un’idea di separazione tra religione e vita pubblica, che cerchi di chiudere la fede nel privato delle coscienze appare molto limitante. Dalle parole del prof. Flores d’Arcais, invece, risulta con evidenza il timore che il contributo delle religioni alle determinazioni della vita pubblica possa portare all’imposizione di una certa concezione o modello di vita personale e sociale sugli altri. L’equivoco di fondo è dato dalla confusione tra verità e sua imposizione. Il Cristiano, proprio perché sa che il regno di Dio non è di questo mondo e che lo stile di Gesù Cristo non conosce forzature e imposizioni, non può imporre niente a nessuno: quando lo ha fatto e lo fa ha sbagliato e sbaglia, confondendo errore ed errante e dimenticando, altresì, che «omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est»(San Tommaso).

Lo stesso Dottore Angelico, pur non usando i termini “laicità” e “laicismo”, afferma che la legge umana e legge morale naturale non si sovrappongono, per cui la prima non necessariamente proibisce tutto ciò che proibisce la seconda. Essa non può imporre la virtù perché, così facendo, imporrebbe un livello di tensione etica, che molti non sarebbero in grado di sostenere; per questo si limita a vietare soltanto i comportamenti più gravi, che mettono direttamente in pericolo la conservazione della comunità umana (per es. omicidi, furti e simili) (S.Th. I-II, 96, 2). La vera intolleranza sembra essere oggi quella di chi pretende, con le armi spuntate di una ragione cartesiano-spinoziana, di ergersi a giudice inflessibile e inappellabile dei contenuti della rivelazione cristiana, tanto da decretarne l’ostracismo dalla comunità civile. Il prof. Flores d’Arcais sottolinea che mai un credente può utilizzare Dio nel processo di formazione di una legge, per se stessa generale, cioè valida per tutti. Tale affermazione, però, presuppone una concezione della fede forse propria della riforma, certamente del fondamentalismo religioso o del “New Age”, irriducibilmente separata dalla cultura e non “fides quaerens intellectum”, secondo la tradizione cattolica. La fede cristiana è una delle fonti ispiratrici primarie della nostra cultura e questo vale anche per le categorie concettuali di coloro che la contestano: l’idea di laicità che professano, i diritti umani e la libertà di cui parlano, le università in cui molti insegnano, l’assistenza e gli ospedali dove anche loro si curano, i centri storici medioevali, le cattedrali e l’arte che anche loro, si spera, ammirano, la stessa Costituzione italiana vigente (relativamente al contributo, peraltro determinante, dei cattolici) sono tutti prodotti della cultura ispirata da una fede pensata e vissuta, come non può non essere la fede cristiana e che non avremmo se i credenti l’avessero riservata al privato.

Il fatto è che spesso un’argomentazione razionale, se proposta da un credente, ancora più se ecclesiastico, è valutata in modo pregiudizialmente negativo, mentre egli è chiamato, proprio in virtù della propria fede, a “rendere ragione della speranza” (1Pt 3, 15). L’argomentazione, allora, non è e non può essere il “Dio lo vuole” o il “perché sì!”, ma la dignità dell’uomo, creato come imago dei, senza che questo significhi per il credente aver «già messo tra parentesi la sua fede e il suo vissuto religioso, … cioè già esiliato il suo Dio dalla sfera pubblica». E’ la scelta tra un’idea di famiglia come soggetto meritevole di tutela dal punto di vista pubblico, per la sua rilevanza in relazione all’educazione dell’uomo e del cittadino, oppure come soggetto privato, in cui è prioritaria la salvaguardia degli interessi degli individui che la compongono. Si deve intendere per famiglia una “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.), cioè una formazione sociale “originaria”, proprio perchè precedente lo Stato e, perciò, dotata di diritti ad esso preesistenti, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) oppure una qualunque comunità tra persone fondata sul sentimento reciproco e sul desiderio di stare insieme, come soggetto privato che prescinde da ogni distinzione di sesso? E’ l’opzione tra un’idea di uomo come individuo, dotato di diritti e interessi tendenzialmente illimitati perché fondati sulla sua costituzione biologica, in cui il desiderio e la volontà assumono valore normativo e la cui libertà significa assenza di legami e l’idea di uomo come persona, singolo irripetibile e originario, ma naturalmente relazionale  e sociale, la cui libertà è responsabilità verso l’altro, mai assoluta ma sempre relativa a un ordine di valori oggettivo, basato sulla dignità della persona umana. E’ la scelta tra il riconoscimento che a partire dal concepimento, con la formazione del corredo genetico, si è in presenza di un essere umano, che va trattato come persona e il primato della volontà individuale e collettiva, che sceglie di determinare convenzionalmente il momento dell’emergere di una vita umana degna di tutela. E’ l’opzione tra disponibilità e indisponibilità della vita umana. E’ di questo che si discute.

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Italia: mozione bipartisan in difesa dell’obiezione di coscienza

In risposta alle urla dei radicali, un gruppo di parlamentari bipartisan ha presentato una mozione per impegnare il governo a «dare attuazione al diritto all’obiezione di coscienza in campo medico e paramedico e garantire la sua completa fruizione senza alcuna discriminazione o penalizzazione, in linea con l’invito del Consiglio d’Europa». Continua la mozione: «Nessuna persona, ospedale o istituzione sarà costretta, ritenuta responsabile o discriminata in alcun modo a causa di un rifiuto di eseguire, accogliere, assistere o sottoporre un paziente ad un aborto o eutanasia o qualsiasi altro atto che potrebbe causare la morte di un feto o embrione umano».

Questa mozione mira a «tutelare l’obiezione di coscienza non solo di coloro che sono impegnati a vario titolo nelle strutture ospedaliere, ma anche quella dei farmacisti». Il diritto all’obiezione «non può essere in nessun modo ‘bilanciato” con altri inesistenti diritti e rappresenta il simbolo, oltre che il diritto umano, della libertà nei confronti degli Stati e delle decisioni ingiuste e totalitarie». La mozione è firmata dai deputati Volontè (Udc), Fioroni (Pd), Roccella (Pdl), Polledri (Lega Nord), Buttiglione (Udc), Binetti (Udc), Capitanio Santolini (Udc), Calgaro (Udc), Carra (Udc), Di Virgilio (Pdl) e Mantovano (Pdl).

In Italia già la legge permette l’obiezione di coscienza degli operatori sanitari e tale legge viene rispettata, tuttavia non è male che un gruppo di onorevoli, presentando questa mozione, abbia fatto sapere che qualcuno vigila e ritiene pressante il rispetto della vita umana in ogni fase, dal concepimento alla morte.

Linda Gridelli

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La psicologa Baccaglini descrive la Sindrome post aborto

Cinzia Baccaglini, laureata in Psicologia clinica e di comunità, è una delle massime esperte italiane della sindrome postaborto. In un’intervista apparsa su “La Bussola Quotidiana” racconta come ancora oggi siano in molti coloro che banalizzino l’aborto, anche se ormai moltissime ricerche scientifiche attestano esattamente il contrario. Nel mondo scientifico non c’è unità di vedute sul fatto che esista una “sindrome”, ossia un insieme di correlati psicopatologici sempre uguali che ricorrono tutti insieme in qualsiasi persona dopo un aborto. Non dovrebbero, invece, esserci problemi da parte di nessuno nel riconoscere che a seguito di un aborto volontario vi siano importanti conseguenze psichiche e l’onere della prova dell’opposto spetta a chi dice non esse esistano, non a chi le cura.

Fino a ora si sono evidenziati due quadri gnoseologici che ricorrono nella pratica clinica, che sono:

1) La “psicosi post-aborto”, che insorge in maniera eclatante subito dopo l’aborto.
 Questo è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica (sono molte le mamme che devono essere ricoverate in psichiatria a seguito di tentati suicidi o suicidi falliti, o che tentano di rubare i bambini degli altri, o che si presentano davanti alle scuole aspettando invano che il loro bimbo esca…).

2) Il “disturbo post-traumatico da stress”, che insorge tra i tre e i sei mesi successivi all’aborto e che rimane costante fino a quando viene elaborato, o che si aggrava all’aumentare di altre esperienze traumatiche. Esso consta di frequenti immagini e pensieri intrusivi; di flashback o incubi ricorrenti che fanno rivivere l’evento traumatico; di comportamenti persistenti di evitamento di circostanze associabili al trauma. A questi sintomi possono aggiungersi conseguenze anche sul piano fisico, come palpitazioni, inappetenza o disturbi dell’alimentazione, disturbi del sonno, che possono rimanere latenti anche parecchi decenni in maniera differente a seconda dell’età in cui si è abortito, dal contesto percepito come più o meno responsabile, dalla struttura di personalità, dalla vita condotta dopo l’aborto.
 Tra le conseguenze del “disturbo post-traumatico da stress”, non è raro l’abuso di alcol e droghe, che vengono utilizzate per cercare di dimenticare l’evento traumatico.

La dottoressa continua spiegando le differenze tra i disturbi psicologici in cui incorrono le donne che praticano un aborto chirurgico rispetto a quelle che utilizzano la pillola Ru486. Nel primo caso, durante l’anestesia, vi è un periodo in cui la donna non ha coscienza di ciò che accade, a differenza del vissuto vigile, attimo dopo attimo, che è prerogativa dell’aborto tramite la pillola RU486. Il fatto è ancora più grave in quanto, una volta iniziato l’iter abortivo, la donna non ha più alcuna possibilità di tornare indietro.
 L’impatto emotivo della RU486 è ben descritto dalle scene raccontate dalle donne che l’hanno utilizzata: molte di loro hanno visto l’embrione abortito, hanno vissuto il flusso emorragico, hanno provato dolori addominali e nausea, hanno avuto vomito e diarrea… e tutto questo in presa diretta, fino all’espulsione dell’embrione. Una volta che questo accade le reazioni sono molteplici: alcune donne gettano loro figlio nel water o nella spazzatura, altre vanno a seppellirlo in cimitero di nascosto. Nell’aborto chirurgico i sintomi non emergono subito, se non con uno scompenso psicotico, ma a distanza di mesi o di anni.

Discorso a parte andrebbe fatto anche per la pillola del giorno dopo, la quale interessa la tematica del “bambino fantasma” e la dicotomia “c’era-non c’era”. Non sappiamo con certezza se quel bimbo fosse stato concepito, ma dato che esistono fior di studi che dicono che le madri sanno di essere incinte prima di fare il test di gravidanza – e sanno persino di quanti bimbi! – non lo possiamo escludere. Le donne che chiedono aiuto rispetto a questa modalità di aborto in genere hanno la certezza di essere state incinte. In ogni caso, comunque, è sempre una sofferenza che va curata.  Si parla anche poco della sofferenza del padre del bimbo o di quella dei nonni o di quella dei fratelli. A questo proposito la Dott.ssa Cinzia Baccaglini ha raccontato uno dei suoi casi più eclatanti, dove una coppia ha avuto dei problemi con il loro figlio di 6 anni: non oltrepassava più la linea di mezzo della sua stanza e se veniva invitato caldamente a farlo andava in ansia, piangeva, si agitava e urlava di non poterlo fare. Mentre veniva visitato da lei, la madre le racconta che hanno traslocato per mancanza di spazio nella casa vecchia. A quel punto il piccolo è scoppiato a piangere: «No, non è vero. C’era spazio nella casa vecchia e anche in quella nuova, io ne uso solo metà. Poteva esserci anche il mio fratellino. Non lo dovevi lasciarlo in ospedale». 
A quel punto si è capito.  Pensare che c’è ancora chi giustifica l’aborto parlando di salute della donna e della famiglia.

Antonio Tedesco

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Fede e famiglia riducono le difficoltà di apprendimento scolastico

Il sistema scolastico americano – modello di riferimento per molti pedagoghi nostrani che vorrebbero importarlo in Italia tale e quale –presenta in realtà una varietà di aspetti contraddittori e paradossali che molti studi specializzati fanno emergere rivelandone la complessità. Un primo esempio di ciò è dato da una ricerca del National Center for Education Statistics (parte del US Department of Education) che nel 2009 ha dedicato uno studio statistico al fenomeno del c.d. homeschooling (lett. scuola a casa “o scuola famigliare”), vale a dire quando uno dei due genitori si occupa dell’istruzione dei figli, in prima persona oppure assumendo un insegnante. La scelta dell’homeschooling, in rapido aumento nell’ultimo decennio, è decisamente trasversale poiché riguarda non solo chi non vuole accontentarsi della scuola pubblica ma allo stesso tempo non può permettersi la scuola privata, ma anche chi, pur potendo permettersi la scuola privata, preferisce offrire un’istruzione più libera e personalizzata.

Fra le ragioni alla base di questa opzione, l’88% delle famiglie intervistate cita la preoccupazione per l’ambiente scolastico: non solo droga, violenza, bullismo ma anche classi sempre più numerose, orari prolungati, compiti a casa sempre più impegnativi, forte pressione all’omologazione. Ciò potrebbe confermare il dato tradizionale che vede le scuole americane alle prese con lo scarso successo degli studenti afroamericani e latinos rispetto a quelli bianchi – i colpevoli per eccellenza di violenze e quant’altro, sulla base di un giudizio di valore ormai consolidato, non sono certamente i bianchi! – ma ecco che recentemente anche questo luogo comune viene messo in discussione.

Ci riferiamo essenzialmente ad uno studio condotto da William Jeynes, docente di pedagogia presso la California State University e senior fellow presso l’Istituto Witherspoon. Da questo studio è risultato che il successo scolastico di bianchi, latinos e afroamericani risulta notevolmente condizionato dalla effettiva maturazione religiosa dei soggetti presi in esame. In pratica questo significa che gli studenti appartenenti a contesti sociali storicamente con più difficoltà in ordine alla riuscita negli studi, se conducono una vita di fede effettivamente vissuta in un contesto familiare ed ecclesiale stabile, riescono a ridurre considerevolmente il divario che li penalizza in termini di successo scolastico rispetto agli studenti bianchi. Jeynes ha presentato le sue conclusioni in una recente conferenza alla Harvard University sulla razza e l’istruzione. Lo studio si basa su una meta-analisi di 30 diversi studi di misurazione dei risultati scolastici.

Tutti gli studenti osservati erano coinvolti in una istituzione religiosa, come un luogo di culto o gruppo giovanile, e hanno sottolineato l’importanza della fede nella loro vita. Per famiglia stabile si intende quella con due genitori biologici o aventi un alto tasso di coinvolgimento dei genitori nella formazione dello studente. Quando questi due fattori sono presenti, lo studente di colore o latinos riduce di gran lunga il divario con i pari età bianchi, mentre la presenza di uno solo di essi non contribuisce a ridurre le distanze. La conclusione a cui giunge Jones è di assoluta importanza e di stringente attualità: se un bambino ha già un alto livello di religiosità, gli insegnanti e gli educatori dovrebbero far leva su questo aspetto per incoraggiarli nel processo di apprendimento-maturazione integrale della persona, senza che questo debba essere considerato per forza come una mancanza di rispetto per le coscienze di coloro che invece non palesano questa dimensione di vita.

Questo studio darà sicuramente adito a molte discussioni, ma ha il merito di ricordarci la centralità del ruolo svolto dalle agenzie educative “storiche” quali la famiglia e la chiesa, le stesse che malgrado gli attacchi provenienti da più parti risultano pur sempre insostituibili nella crescita integrale degli uomini.

Salvatore Di Majo

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In morte di un fratello, risposta a Carlo Troilo

 

di Maurizio Pucciarelli*
*avvocato

 

E’ da poco uscito un libro di Carlo Troilo, membro della Associazione Luca Coscioni, “Liberi di morire. Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati”. Uno dei temi trattati e da cui prende lo spunto emozionale il testo, è l’eutanasia attiva, ovvero il diritto di un paziente, cui sia stato accertato lo stadio terminale ed irreversibile della malattia, di chiedere che il medico lo conduca, attraverso la somministrazione di farmaci, alla morte. Dunque non si tratta di eutanasia passiva, come nel drammatico caso di Piergiorgio Welby, quando il medico, per provocare la morte del paziente non presta più le sue cure, interrompe un trattamento o stacca il macchinario di ventilazione forzata. Qui ci troviamo invece di fronte ad un condotta attiva, giustificata dalla grave patologia del paziente, che rappresenta un primo passo, importante, verso il più generale diritto di morire ad nutum, ovvero sia senza alcuna giustificazione, se non la propria coscienza e volontà di farla finita una volta per tutte.

Come dicevo l’autore nella prima parte del libro ci racconta un fatto che ha scosso la sua vita. Il fratello, malato di una forma particolarmente grave di leucemia, dopo un primo ciclo di chemioterapia in cui sembrava essersi ripreso, è stato colpito nuovamente dal male, e si è suicidato gettandosi dal quarto piano della sua abitazione. So cosa significa la perdita di un famigliare e non posso che esprimere il mio senso di vicinanza con quanto Troilo e la sua famiglia abbiano passato. Qualcuno potrebbe obiettare che le vicende private devono rimanere tali, e che non devono essere strumentalizzate per fini personali o politici, che molti di quelli che subiscono una perdita poi fondano associazioni, fanno stalking presso parlamentari e istituzioni, sono sempre presenti in dibattiti televisivi a ricordarci la loro storia personale: ossessivi, compulsivi, monomaniacali. Li guida una promessa fatto sulla tomba al loro congiunto: “Giuro che mi batterò affinchè nessun altro patisca quello che tu hai patito.” Qualcuno può dire che sono eccesivi, non political correct, anche antipatici. Io invece sto con loro, perché odio l’indifferenza. Siamo uomini, fatti di carne e sangue, tutti con una nostra storia unica e personale che più passano gli anni e più diventa presente.

Ma sento il bisogno di dire anche la mia. L’autore ci racconta che il fratello Michele aveva molto tempo prima della malattia chiesto ad un medico, che si era rifiutato, di procurargli un veleno da utilizzare in caso di bisogno. La cosa mi ha colpito. Perché un uomo può fare una richiesta simile? L’unica spiegazione è che abbia paura di soffrire. E molta. Ci sono persone che hanno una soglia di dolore molto bassa, cui basta l’ago di una siringa o un dolore posturale per mandarli nel panico e nell’apprensione. Se a questo aggiungiamo che i dolori per la fase terminale della leucemia possono essere atroci possiamo immaginare cosa deve aver provato Michele, il fratello dell’autore, un uomo di 74 anni, onesto e gentile che in vita sua non aveva mai fatto male ad una mosca. No, questo Troilo non lo dice nel libro, ma io credo che fosse una persona così, come era mio zio, che pochi anni fa si ammalò anche lui di leucemia. Viveva in Germania da molti anni, e per noi era difficile andarlo a trovare nel lungo periodo della malattia. Allora ci mettemmo d’accordo fra noi famigliari, io lo sentivo i giorni dispari, dopo le sei. Erano lunghe telefonate. Mio zio era un tipo simpatico, da giovane, al tempo dei Beatles, era andato in Inghilterra a lavorare nei grandi ristoranti italiani e non era più tornato in Italia. Gli piaceva la libertà, gli piaceva girare. Nella sua malattia è stato fortunato. Certo, è morto. Ma ha trovato dei medici che gli hanno voluto bene. Forse perché non aveva perso la sua italianità, non si era finto inglese o tedesco, aveva conservato il sorriso e l’ironia che ci contraddistingue. Era il cocco delle infermiere e al suo funerale la chiesa era gremita. Era così strano vedere tutta quella gente, neanche fosse il sindaco. Chi erano tutte quelle persone? Mi dissero che erano i clienti del suo ristorante. Non è buffo che una piccola cittadina tedesca vada al funerale di un cameriere italiano?

Al telefono parlavamo molto, e raramente era giù: era coraggioso, prendeva tutto come una sfida, la chemio, il trapianto. Fino al giorno prima di quella dannata febbre che se l’è portato via in poche ore pensava che ce l’avrebbe fatta. Perché credeva in Gesù. Pensava che le sue preghiere sarebbero state esaudite. Faceva un po’ lo spaccone. Lassù qualcuno mi ama. Lui mi ha insegnato che la vita è un dono e che non dobbiamo sprecarla. Ogni istante è importante, soprattutto se ci si avvicina alla morte. Pensate a Steven Jobs, il signor Apple, la sua agenda di incontri era così fitta negli ultimi mesi di malattia che molti stazionavano vicino alla sua casa solo per poterlo incontrare un’ultima volta. Ha vissuto fino all’ultimo respiro. Con quei suoi tre whooo, whooo, whooo di meraviglia all’entrata del mondo nuovo. Certo, non siamo tutti uguali, e io non voglio fare come i bambini quando litigano perché “mio padre è meglio del tuo.” Ma soprattutto non voglio negare quanto possa essere profondo il dolore e la disperazione umana.

Ma l’eutanasia non è la soluzione, anzi è un rimedio peggiore della cura. Al tempo della morte di Michele Troilo, nel 2004, la sensibilità della medicina verso questo tipo di problematiche era molto scarsa, oggi le cure palliative per il sostegno nelle fasi terminali sono diventate legge e lo sforzo comune deve essere quello di incentivarle e diffonderle in tutta Italia. Ed anche la ricerca sta facendo passi da gigante. Si pensi alla radioterapia con effetti antalgici. E i medici… Quanto è importante avere un buon medico accanto? Alcuni professori che sono sempre accanto ai malati terminali dicono che il suicidio di un paziente è innanzitutto una sconfitta per il medico. A chi non viene il sospetto che quel paziente sia stato abbandonato? E quanti cattivi medici, se ci fosse la possibilità di dare la morte invece di stare accanto al proprio paziente, opterebbero per quella facile soluzione. Quanti risponderebbero con un’alzata di spalle: “E’ lui che l’ha voluto!” No, non esiste un diritto di morire. Esiste invece il diritto alla serenità del trapasso. E dovremmo impegnarci tutti, cattolici e laici, perché venga universalmente riconosciuto.

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Studio asiatico: la religione non serve per scongiurare la morte

Secondo una visione naturalistica della religione, essa avrebbe senso soltanto come consolazione verso la tragedia della morte (teoria “del comfort”). L’uomo sarebbe religioso non perché Dio si sia reso incontrabile nella storia, ma perché “l’invenzione di Dio” aiuterebbe la persona a fuggire dall’idea della morte, a non temerla.

In poche parole siamo di fronte ad una fallacia argomentativa in quanto si scambia arbitrariamente un possibile effetto con la causa. Va detto comunque che certamente esiste chi, magari vecchio e malato, sceglie di abbracciare la religione come motivo di consolazione. Ma, come ha giustamente scritto Simone Weil, «la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione» (Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953), cioè è un aiuto verso chi abbraccia forme fideiste, è un pungolo che spinge a rivedere la propria posizione per abbracciare il contenuto vero della fede. Anche perché, secondo l’antropologo dell’Università di OxfordJonathan Lanman, «dal punto di vista psicologico, abbiamo poche prove che le nostre menti crederanno in qualcosa solo perché sarebbe confortante farlo».

Il messaggio cristiano non serve come consolazione, ma è l’unico a rendere pienamente sensato vivere ora,  dando un significato vero e adeguato “qui e ora” (“hic et nunc”). Non c’è altro motivo della felicità nell’istante, del condurre un’esistenza all’altezza della propria umanità. Come veniva riportato su “Avvenire”, citando il teologo Giussani: «l’avvenimento cristiano non identifica solo qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente (…). Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora». Al cristiano interessa vivere fino in fondo l’istante, nessuna consolazione. Se fosse vero che i cristiani sono concentrati solo sull'”altra vita”, non si capirebbe perché abbiano creato tanta cultura nella storia umana (musica, arte, scienza…). Come ha scritto il sempre ottimo Claudio Magris, «il cristiano crede che il paradiso, una società perfetta realizzata una volta per tutte, non sia possibile sulla terra, ma questo è di per sé un fermento progressivo, che aiuta a resistere contro le delusioni che puntualmente avvengono quando si attende una rivoluzione che risolva tutto e per sempre». Inoltre, gli ha risposto il cardinale Agostini, prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, «c’è per ogni cristiano la responsabilità di ciò che accade a lui e ai suoi fratelli, cosicché è chiamato ad adoperarsi continuamente perché questa vita sia meno ingiusta […]. Se ti salvi non puoi farlo come se fossi solo, lo devi fare vivendo con gli altri ed aiutando gli altri. Il cristiano è colui che annuncia; è missionario, e non può ignorare la condizione degli altri, che è fatta di aspettative, di incertezze, di negazioni. Questa è la condivisione, la responsabilità e la solidarietà con il mondo». Altro che indifferenza per “questa vita”!

Tornando al tema principale, se la religione servisse davvero per scongiurare il pensiero della morte (la cosiddetta “fuga religiosa”), non si capisce perché i credenti spendano mediamente più soldi per prolungare la loro vita in caso di malattia, come dimostra questa ricerca. In questi giorni è stato pubblicato un altro interessante studio da parte di ricercatori dell’University of Malaya i quali, intervistando circa 5000 studenti in Malesia, Turchia, e Stati Uniti, hanno scoperto che le persone religiose (islamiche, in particolare) temono maggiormente la morte di quelle non religiose. A questo punto avrebbe dunque ragione chi sostiene che in realtà sia l’ateismo ad essere consolatorio rispetto alla morte, sopratutto in chi ha vissuto o vuole vivere una vita disordinata e “autoreferente”. La cosa certa è che l’irreligiosità banalizza ogni fase dell’esistenza (“l’uomo non è nient’altro che..”, si sente ripetere dagli ateologi) sopratutto la sua fine: verso questa interpretazione vanno le ricerche in cui si mostra che i non credenti hanno elevati tassi di suicidio, addirittura il doppio di chi crede in Dio.

Luca Pavani

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Recensione del libro: “Il Vangelo oltre le parole”

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Valentina Sciubba, psicologa e psicoterapeuta, laureata in Psicologia e Medicina, conseguite entrambe all’Università “La Sapienza” di Roma. Si occupa di diverse tipologie di disturbi, dai problemi relazionali fino ai disturbi mentali e psicosomatici, esegue corsi di preparazione al parto, consulenze e terapie individuali, di coppia e familiari. Ha svolto anche attività di ricerca, pubblicando vari articoli su riviste scientifiche. Gestisce il sito web www.valentinasciubba.it e recentemente ha pubblicato il libro: “Il Vangelo oltre le parole” (ed. Youcanprint 2011), che presenterà qui sotto»

 

di Valentina Sciubba*
*psicologa e psicoterapeuta

 

Come lo psicologo cerca di capire significati “oltre le parole” del cliente tramite l’osservazione del Linguaggio Non Verbale dei gesti, della postura, della voce ecc. che accompagna il linguaggio verbale, così è possibile cercare analoghi significati nascosti nel linguaggio scritto. Infatti ognuno di noi ha un personale stile di scrittura e la scelta, la collocazione delle parole, la punteggiatura ecc. sono indicatori di significati non espliciti, emozionali, spesso inconsci, che rivelano qualcosa della psiche dello scrittore e ampliano e rendono più comprensibili i significati espressi.

E’ presumibile inoltre che poiché con il Linguaggio Non Verbale del corpo è molto difficile se non impossibile mentire, l’analogo del linguaggio scritto riveli contenuti profondi e difficilmente dissimulabili che possono non coincidere con l’informazione esplicita. L’opera “Il vangelo oltre le parole” è un esempio di analisi psicologica del testo applicata agli scritti degli evangelisti, una sorta di “Metavangelo” che ci guida nella comprensione del linguaggio utilizzato dagli evangelisti per raccontare la vita di Cristo e prova a svelarcene i significati inconsci e più reconditi.

L’interpretazione e l’analisi psicologica si fa bisturi e cerca di farci entrare nella psiche del linguaggio. Il risultato è la scoperta di un sentiero interpretativo che è frutto di uno studio psicodiagnostico dei vangeli stessi dove l’analisi psicologica è strettamente ancorata al testo ma allo stesso tempo lo sopravanza scoprendo una trama unificante e logica. L’autrice, utilizzando un linguaggio semplice ed accessibile per qualsiasi neofita della materia, ci conduce per mano in questa indagine che apre inequivocabilmente una originale prospettiva sul legame tra psiche umana e ispirazione divina.

E’ possibile acquistare il libro e visualizzarne l’anteprima sul sito dell’editore. E’ possibile acquistarlo anche in librerie internet e tradizionali e visualizzarlo sul sito www.valentinasciubba.it

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Le pro-choice amano l’aborto: «la più bella scelta della vita»

AbortoChe l’esperienza dell’aborto si ripercuota gravemente sullo stato psico fisico di chi vi si sottopone è ormai assodato. La letteratura scientifica gronda, infatti, di pubblicazioni che confermano l’esistenza di una vera e propria Sindrome Post Aborto (ne parliamo ampiamente in questa pagina).  Naturalmente, c’è chi non mastica volentieri evidenze tanto lampanti e, pur di tener accesa una battaglia ormai agli sgoccioli, fa di tutto per diffondere testimonianze “controcorrente”.

Una femminista pro-aborto, Florence Thomas, ha ricordato nel 2010 il momento della soppressione dell’essere umano che portava nel grembo con queste parole: «sollevata, un sollievo immenso. Questo tumore se n’era andato e io potei tornare a vivere».

Come non citare la pro-choice Jessica DelBalzo, che in questi giorni ha scritto: «Terminare una gravidanza non è un atto immorale, chi suggerisce che l’aborto debba essere raro implica che ci sia qualcosa di indesiderabile ad averne uno. Le donne che amano la loro libertà dovrebbero essere orgogliose di dire che a loro piace l’aborto. In realtà, esse dovrebbero venerarlo con tutto il cuore. L’aborto è il nostro ultimo rifugio, l’ultima, strumento definitivo, che protegge la nostra autonomia corporea. Come non amarlo?». La DelBalzo, riporta “LifeSiteNews”, ama solo sopprimere gli esseri umani nella loro prima fase della vita, ma odia profondamente l’adozione, che ritiene «non solo inutile, ma anche immorale».

Infine il caso di Amanda Chatel, giornalista freelance che ha di recente pubblicato la sua storia sul “The Gloss”, intitolandola: «L’aborto è stato la migliore scelta della mia vita». Ne ha parlato anche “LifeSiteNews” riportando la notizia sul suo sito. Le notti che precedettero l’operazione, distesa con le mani sullo stomaco, chiedeva perdono chiamando per nome un bambino che, nonostante tutto, continuava a considerare solo un mucchio di cellule. Ha scritto: «Non è stata una decisione che volevo prendere, ma è stata la migliore della mia vita». Oggi ha un cane, dono dei suoi genitori dopo l’aborto, che considera come un figlio: «ha l’età che avrebbe il mio bambino se non avessi abortito», scrive. Si è persino tatuata il nome dell’animale sul braccio per ricordarsi che «qualche volta le decisioni più difficili finiscono per rivelarsi le migliori». Amanda ricorda di aver abortito il 27 marzo del 2005, Sabato Santo, come ha affermato più volte («Qualsiasi cosa faccia, questa data sarà radicata nella mia memoria per sempre», ha aggiunto). Credo sia importante menzionare un piccolo e significativo particolare: il 27 marzo 2005 era in realtà la domenica di Pasqua. Solo una svista trascurabile? Può darsi, ma il sospetto di una rimozione post traumatica continua, non so perché, a ronzarmi nella testa.

Filippo Chelli

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