Negata la comunione al disabile? No, solita bufala

Ultimamente le bufale anticlericali si stanno concentrando sulle ostie consacrate. A febbraio girò per il web la bufala delle particole allucinogene, allora fu davvero assurdo anche perché la fonte era un paginetta di Facebook ma i grandi quotidiani tralasciarono questo dettaglio e lo fecero diventare un caso internazionale (arrivò fino in Brasile).

Pochi mesi dopo, ecco un’altra bufala: un parroco di Ferrara avrebbe umiliato un bimbo disabile davanti a tutta la chiesa e ai suoi amici rifiutando sadicamente di accettarlo alla prima comunione perché «stupido e incapace di capire». Così l’hanno condita i media, sprecando citazioni evangeliche sull’amore di Gesù verso i bambini e colorando di nero l’orco cattivo.  Anche i peggiori anticlericali, hanno speso per l’occasione buone parole per il gesto dell’Eucarestia e il sacramento, gli stessi che appena vedono un feto affetto da Sindrome di Down consigliano subito di sopprimerlo tramite l’aborto (ovviamente è per il suo bene, dicono). Intanto l’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio (già diffamata dai radicali con un falso video sull’ICI) veniva tacciata di “oscurantismo”, via via fino ad arrivare al Papa. Ormai quando girano notizie del genere bisognerebbe già sapere che c’è dietro la puzza. Infatti, l'”Avvenire” in contatto con la diocesi pubblica la vera realtà dei fatti: era tutto concordato tra la Curia e la famiglia, grazie agli incontri nel palazzo vescovile. Non c’è stato nessuno rifiuto ma un cammino diverso, per permettere al ragazzo di accedere al sacramento nei tempi a lui più opportuni. Come avviene anche a scuola, ad esempio.

A fine febbraio infatti i genitori del disabile si sono presentati dal parroco di Porto Garibaldi per chiedere che il figlio potesse ricevere la Comunione, anche se il percorso con gli altri bimbi era iniziato da oltre un anno. Il sacerdote accetta volentieri e coinvolge i catechisti, contatta le insegnanti di sostegno del bambino e si informa per una preparazione apposita. Anche la Curia segue con attenzione il caso e ai genitori viene chiesto di portare il figlio negli ambienti parrocchiali, per farlo sentire parte della comunità. Il vescovo mons. Paolo Rabitti spiega che però i genitori lo hanno portato solo un paio di volte. All’inizio di aprile c’è l’incontro in Curia, il sacerdote offre al ragazzo un’ostia non consacrata che lui respinge bruscamente, sputandola. Si trova una soluzione assieme ai genitori: alla Messa della Prima Comunione il bambino sarà nelle panche insieme con i coetanei ma non riceverà la particola consacrata, ma una carezza del parroco e la benedizione. I tempi sono infatti non ancora maturi e si attende che il percorso possa proseguire e compiersi.

Come concordato, il giovedì Santo il bambino è in mezzo ai compagni, c’è la madre vicino. Arriva la carezza e la benedizione del parroco. Però dopo qualche giorno il tutto diventa un caso mediatico con tanto di presunto esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa» (poi rivelatosi una sciocca burla). La madre nega anche di aver dato mandato a un legale. L’arcidiocesi non si occupa del furore laicista, e continua a tendere la mano: nel rispetto della natura del Sacramento, il bambino continuerà ad essere accompagnato.

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Il sociologo laico Furedi: «l’ateismo è una religione intollerante»

Due mesi fa il sociologo presso l’University of Kent, Frank Furedi, ex presidente dell’organizzazione politica  trotzkista inglese Revolutionary Communist Party e oggi sostenitore della British Humanist Association, ha messo in guardia sul fatto che «l’ateismo è diventato a tutti gli effetti una religione».

Nel suo interessante articolo, parlando dell’antica Grecia, ha detto: «Ci fu un tempo in cui era molto pericoloso non credere in Dio [….]. Paradossalmente, oggi, quando l’ateismo gode di rispettabilità senza precedenti, viene trasformato in una nuova causa». Con grande lucidità ha sottolineato che «l’ateismo non costituisce una visione del mondo. Significa semplicemente non credere in Dio o negli dei […]. L’ateismo riflette un atteggiamento verso un problema specifico, non un punto di vista sul mondo». Per la maggior parte degli atei nella storia, ha continuato, «la loro incredulità in Dio è una parte relativamente insignificante della loro auto-identità».

Oggi invece, a causa del fondamentalismo dei cosiddetti New Atheist«al contrario, l’ateismo si prende molto sul serio. Con la loro denuncia zelante della religione, i nuovi atei spesso assomigliano ai crociati medievali. Essi sostengono che l’influenza della religione debba essere combattuta ovunque essa alzi la sua brutta testa. Anche se chiedono che la religione debba essere contrastata con argomenti razionali, le loro pretese spesso sfiorano l’irrazionale e diventano isteriche […]. L’ateismo oggi si esprime spesso attraverso un linguaggio dottrinario, in maniera semplicistica identifica la religione con il fanatismo e il fondamentalismo. Ciò che colpisce è che chi denuncia il fondamentalismo lo fa spesso in stile altrettanto dogmatico di colui a cui pretende opporsi».

Ha continuato, da umanista, il suo interessante articolo sostenendo che i nuovi atei sono selettivi, «confinano la loro rabbia verso le tre religioni abramitiche», ma «raramente contestano le mistificazioni del pensiero ecologista, come la ‘teoria di Gaia’, o le numerose varietà di misticismo orientale». Si è definito “angosciato” da questa «corruzione del concetto di ateismo». E poi l’accusa vera e propria: «il nuovo ateismo si è trasformato non solo in una religione laica, ma in una religione secolare fortemente intollerante e dogmatica». Conclude così: «la minaccia più potente per la realizzazione del potenziale umano proviene oggi, non dalla religione, ma dal disorientamento morale della cultura secolare occidentale». La dimostrazione della verità della sua analisi arriva certamente da quel che è accaduto quest’estate a Madrid e pochi giorni fa negli USA.

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Quanto rumore per quei 90 embrioni uccisi: ma non erano solo “materiale biologico”?

Come hanno riportato i media, un incidente al centro di procreazione dell’ospedale San Filippo Neri di Roma ha distrutto novantaquattro embrioni. L’evento ha suscitato molto scandalo e molta ipocrisia. Secondo l’embriologia moderna non c’è dubbio: il nuovo essere umano, appartenente alla specie “Homo Sapiens”, comincia al momento del concepimento, dunque l’incidente ha causato sicuramente la morte di 94 esseri umani. Molti hanno fatto correttamente notare che 90 di loro sarebbero morti comunque, dato che solo 4-5 sarebbero stati effettivamente impiantati nell’utero di una donna. Così funziona la fecondazione artificiale. Gli embrioni sono tutti uguali, ma secondo gli abortisti 90 sono stati “distrutti” e uno solo è stato “ucciso”.

Si capisce da questa vicenda, ha scritto bene Doninelli, che “l’essere uomo” o “l’essere non-uomo” non è più considerato un fatto oggettivo, ma ancora oggi (dopo secoli di razzismo) l’uomo è solo se un altro decide che lo sia: 90 “non-uomini” e 4 “uomini”. La consistenza dell’uomo è definita dal progetto che qualcuno ha su di esso, altrimenti, è letteralmente niente e viene “distrutto” come far cadere a terra un bicchiere. Sul quotidiano “La Repubblica” si legge che per configurare l’ipotesi di omicidio colposo, il primo passo sarà capire se l’embrione possa essere considerato una persona giuridica. Dunque per lo meno c’è un dubbio e allora dovrebbe valere l’introduzione del “principio di precauzione”: se esiste un dubbio è meglio non agire (non abortire, non fecondare artificialmente e così via…), allo stesso modo, se si vuole buttare giù un palazzo, la sola esistenza di un dubbio che ci posano essere delle persone all’interno rende doveroso sospendere tutto. Ma sopratutto: «chi stabilirà quanto vale una vita, qual è il valore dell’embrione che è stato perduto?», domanda provocatoriamente il genetista Bruno Dallapiccola.

Davvero apprezzabile la dichiarazione di Claudio Giorlandino, ginecologo e presidente della Sidip (Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno fetale), secondo cui l’incidente è «caso inaccettabile. Se si sono perse decine di vite, è un lutto per tutto il Paese». Poi però difende la fecondazione e la cosa diventa contraddittoria: ma se quegli embrioni sono vite, tanto da rendere il Paese in lutto, perché poi ne si sopprime a decine per poter impiantarne uno nell’utero? Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e membro del Comitato nazionale di bioetica afferma che l’episodio è una tragedia, «si tratta di 94 vite che sono andate perdute. Dal momento del concepimento fino alla morte nulla interviene per determinare un salto di qualità tra l’essere umano e il non essere umano». E aggiunge, sono «94 persone: si fa fatica a identificarle come tali, perché non ne hanno le fattezze visibili. Tuttavia, non sono altro che ciò che siamo stati all’inizio, quando eravamo un gruppo di cellule specificamente diverse dalle altre, con un determinato patrimonio genetico e insito uno sviluppo che avrebbe portato alle nostre fattezze attuali».

Eugenia Roccella pone una domanda imbarazzante ai radicali e agli abortisti: «Si tratta di vite umane. Ma molti di quelli che offrono sostegno legale non ne sono affatto conviti. Ad esempio i radicali come potranno aiutare i genitori in sede legale, loro che considerano l’embrione semplice materiale biologico?». La filosofa Maria Michela Marzano sorprendentemente afferma su “La Repubblica”: «non si tratta semplicemente di “materiale biologico”. Oltre al liquido seminale e agli ovociti, infatti, sono andati perduti anche molti embrioni. E quando si parla di un embrione, tutto diventa subito complesso e delicato, ancora oggi, nessuno è capace di dire con certezza di “cosa” o di “chi” si tratti. Come se il loro “essere già qui” e il loro “non essere ancora” costringa gli embrioni a restare nel limbo dell’incertezza». Dunque anche per lei ci sono le fattezze del dubbio ed allora dovrebbe valere ancora una volta il “principio di precauzione”. Continua comunque evidenziando le forze in campo, in qualche modo togliendosi dalla diatriba: da una parte quella della Chiesa e dall’altra i “neo-kantiani”, come l’abortista Carlo Flamigni che parla di “persona” solo dopo un certo grado di sviluppo (quale?). La Marzano non trova contraddizioni nella posizione cattolica, ma sottolinea le incoerenze dell’altra parte, cioè coloro che per parlare di “persona” devono accertarsi dell’esistenza di capacità razionali e relazionali: «con tutte le conseguenze problematiche che ne derivano», fa notare. «Che dire infatti di tutti coloro che, a causa di un grave handicap, non saranno mai capaci di sviluppare adeguatamente la propria razionalità o non accederanno mai all’autonomia morale?». Eugenetica, probabilmente, come è stato fatto fino a pochi anni fa: la più grande catena di cliniche abortiste, la “Planned Parenthood”, è stata fondata dalla nota eugenista Margaret Sanger.

«Hanno ucciso i nostri figli», afferma una delle coppie.. Il presidente del Movimento per la Vita in Italia, Carlo Casini sembra rispondere a loro quando dice che la vita umana non si congela né si distrugge. Se sono figli allora perché li si congela e poi si eliminano quelli più difettosi? E infatti il Codacons ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma per omicidio colposo e lesioni gravi. Ricordiamo le parole di Oriana Fallaci contro la fecondazione: «Il proposito di sostituirsi alla Natura, manipolare la Natura, cambiare anzi sfigurare le radici della Vita, disumanizzarla massacrando le creature più inermi e indifese. Cioè i nostri figli mai nati, i nostri futuri noi stessi, gli embrioni umani che dormono nei congelatori delle banche o degli Istituti di Ricerca». Concludendo così: «Non c’è rimasto che Ratzinger a tener duro».

Luca Pavani

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Recensione del libro: “L’anima e i confini dell’umano, tra scienza fede e bioetica”


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 

In un’ intervista ai giornalisti americani Henry Margenau e Abraham Varghese, il premio Nobel per la Fisica del 1977 Sir Nevill Mott notava che la cosmologia attuale ci mette di fronte al Principio Antropico, cioè al fatto “indubitabile che le costanti della natura… hanno valori proprio esatti” per permettere la formazione delle stelle e della Terra “su cui noi possiamo vivere”. Se solo esse fossero leggermente diverse, “noi non potremmo esistere”. Continuava poi asserendo: “Io credo che ci sia un gap per cui non ci sarà mai una spiegazione scientifica, e questo gap è la coscienza umana. Nessuno scienziato, in futuro, equipaggiato con un super computer del ventunesimo secolo o oltre, sarà capace di metterlo al lavoro e di mostrare che cosa un uomo stia pensando”.

Anche Sir John Eccles, premio Nobel per la medicina nel 1963, ed autore di “The self and its brain”, con Karl Popper, e di “The Human Psyche”, intervistato dagli stessi personaggi nel 1982, notava che la teoria del Big Bang lo porta ad intravvedere un “Dio trascendente”, cioè Creatore di una “loving creation”. Ma quando si viene all’uomo, continuava, al Dio trascendente occorre affiancare il Dio “immanente”, visibile nella “coscienza personale umana”. Insomma, per arrivare a Dio, ancora oggi, si può partire come sempre o dalla realtà esterna a noi, o dall’uomo, dalla sua natura spirituale, dall’unicità della creatura umana.

Il professor Giovanni Straffelini, dell’Università di Trento, nel suo L’Anima e i confini dell’umano. Tra scienza, fede e bioetica (Il Margine), in uscita in questi giorni, ha deciso di partire dall’uomo, dalla sua coscienza, dalla sua anima, secondo le sue competenze scientifiche. Con grande capacità logica e di sintesi, servendosi di numerosi studi, Straffelini ha dimostrato che per la scienza sperimentale si può dire dell’anima quello che avevano già capito secoli orsono filosofi e teologi che non possedevano certo gli strumenti di indagine odierni, e che nulla sapevano delle neuroscienze. Nelle creature viventi, in tutte, esiste un certo grado di coscienza, a seconda della loro complessità. Si potrebbe, per capirci, disegnare un “cono di coscienza” che va via via allargandosi nel passaggio dalle piante e dai virus sino alla persona adulta. Aristotele avrebbe detto che le prime possiedono un’anima vegetativa, gli animali un’anima sensitiva, mentre le persone un’anima intellettiva. La domanda da porci è ora questa: esiste solo una differenza quantitativa tra l’anima di una pianta e quella di un uomo? E’ solo questione di una differenza di grado o vi è anche una differenza qualitativa?

Straffelini ammette i dubbi della scienza, il nostro essere ancora lontani dal sapere qualcosa di definitivo sull’origine della vita e sulla natura dell’anima, ma sottolinea come molti studi portino a propendere per una differenza di qualità, come tale incolmabile. Per intenderci: non siamo solo “scimmie nude”, né sarà tanto facile, per coloro che lo asseriscono, dimostrarlo, magari provando ad educare un animale qualsiasi, il più complesso possibile, a parlare, dipingere o a suonare il pianoforte… L’anima dunque ci riporta a Dio, benché rimanga un “dilemma per la scienza (forse irrisolvibile)”, o meglio forse proprio per questo: con essa, con la riflessione sulla coscienza (come originano la bellezza e i colori della nostra vita dalla piccola massa di materia grigia del nostro cervello?) e sul libero arbitrio, (materialisticamente inspiegabile), giungiamo ad un “qualcosa” di “divino” che ci rimanda ad un’oltre, ad un Senso, al Dio che ci trascende ma che è anche il “Dio con noi” di Eccles.

Dalle speculazioni scientifiche sull’anima, nella II° parte del suo lavoro, Straffelini giunge alla bioetica. Ed analizza la posizione della cosiddetta bioetica laica, che, negando all’embrione, al feto e al neonato, l’anima intellettiva, finisce per considerare l’uomo in fieri, non ancora adulto, alla stregua di un vegetale, o di un animale, e perciò passibile di aborto ed anche di infanticidio. Argomenta Straffelini: «da un punto di vista quantitativo il complesso sistema neuronale del feto è sì confrontabile con quello di un animale con anima sensitiva», ma «lo stesso non si può dire se valutiamo il grado di animatezza considerando anche la dimensione qualitativa». «Le informazioni che sono trasmesse nel cervello del feto con la formazione delle sinapsi e che il cervello stesso comincia ad elaborare e integrare sono, infatti, qualitativamente diverse da quelle che sono trasmesse nel cervello di un animaletto con pari complessità quantitativa, per via delle peculiarità delle conoscenze innate che si stanno concretizzando nei circuiti neurali e nelle primitive rappresentazioni neurali». Per cui si può «considerare il feto come una persona e l’embrione come un essere vivente con la natura di una persona». Non è finita: Straffelini affronta anche il fine vita, condividendo le posizioni di Carlo Alberto Defanti, laico, già medico di Eluana, «noto neurologo… che inizialmente propendeva per il criterio della morte cerebrale e, in un secondo momento, per quello della morte corticale», e che infine è giunto a considerare la “morte cerebrale” come «un punto di non ritorno verso la morte, ma non la morte stessa».

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L’omosessuale Matthew Todd: «il mondo gay è un inferno di infelicità»

Solitamente quando si è preoccupati e ci si ostina a voler comparire in un certo modo, significa che in realtà molto probabilmente si è coscienti di essere l’esatto opposto.  Un esempio è il comportamento della lobby omosessuale, che persiste nel voler comparire in perenne festeggiamento, circondata da colori accesi, bandiere arcobaleno, manifestazioni carnevalesche, travestimenti e così via.

Pochi giorni fa riportavamo la domanda di Simon Fanshawe, importante scrittore omosessuale e intellettuale inglese: «Ma perché per essere gay bisogna essere infantili e comportarsi da adolescenti?», il quale sottolineava come non sia l’omofobia la cosa più deleteria per gli omosessuali, ma lo “stile di vita gay”: ossessione per il sesso, droghe, infantilismo, narcisismo, promiscuità, relazioni instabili ecc.

Nel 2010 anche Matthew Todd, drammaturgo e redattore della rivista gay inglese “Attitude”, ha voluto sfidare il grande tabù della lobby omosessuale. Ha definito “il problema dei problemi” il preoccupante aumento dei tassi di malattie mentali e problemi di dipendenza tra gli uomini gay. «C’è questo luogo comune», ha accusato, «che passiamo tanto tempo a fare festa, ma in realtà noi lo sappiamo bene e le ricerche ora lo dimostrano: c’è un inferno di gay infelici, un alto numero di depressi, ansiosi e con istinti suicidi, che abusano di droghe e alcol e che soffrono di dipendenza sessuale, tassi molto più elevati di comportamento auto-distruttivi». La ricerca, spiega il giornalista, «dimostra che gli uomini gay hanno più del doppio delle probabilità di tentare il suicidio e secondo la ricerca del ‘London University College Hospital’ ci sono tassi significativamente più alti di malattie mentali tra gli uomini gay rispetto ai loro coetanei». Eppure gli omosessuali sono sulla difensiva, accusano di omofobia chiunque faccia notare il valore di questi dati, sopratutto in merito alla possibilità di adottare dei bambini.

Dopo diversi anni di terapia, Todd sta cominciando a fare i conti con i suoi comportamenti compulsivi: «La vita gay è incredibilmente sessualizzata. I ragazzi entrano in questo mondo sessualizzato dove c’è un sacco di alcol e un sacco di droga, non c’è nulla di sano, dolce o rilassato». Un altro aspetto toccato dal giornalista è la mancanza di modelli positivi nel mondo omosessuale: la maggior parte ha problemi di dipendenze da droga e alcool, come: Michael Barrymore, George Michael, Lindsay Lohan, Boy George, Alexander McQueen ecc. Vere e proprie celebrità, sulle quali è impossibile avanzare la teoria della discriminazione omofobica come giustificazione.

Nel suo libro “The Velvet Rage: Overcoming the Pain of Growing Up Gay in a Straight Man’s World”, lo psicologo gay Alan Downs ha esaminato il dolore che permea la vita degli uomini gay e le scelte distruttive che vengono da loro fatte: «Sì, abbiamo più partner sessuali in una vita di altri gruppi di persone», scrive. «Allo stesso tempo, abbiamo anche tra i più alti tassi di depressione e suicidio, per non parlare di malattie sessualmente trasmissibili. Come gruppo, tendiamo ad essere emotivamente più espressivi degli altri uomini, ma i nostri rapporti sono molto più brevi, in media, rispetto a quelli degli uomini normali. Abbiamo un reddito maggiore, case più costose, le auto più alla moda, più vestiti e mobili di qualsiasi altro gruppo. Ma siamo veramente più felici?»

La redazione

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Nuovi studi: aborto e depressione, gravidanza e salute fisica

Nuovi studi confermano quello che molte donne purtroppo hanno provato sulla loro pelle: abortire causa gravi problemi depressivi. Lo dice, ultimi della serie, un team di ricercatori cinesi dell’Anhui Medical Colledge nel loro studio The Impact of Prior Abortion on Anxiety and Depression Symptoms During a Subsequent Pregnancy”pubblicato dal Bulletin of Clinical Psychopharmacology. Contempla un campione di 6887 donne gravide, di cui 3264 hanno avuto un aborto, indotto nella maggioranza dei casi (quindi, non spontaneo).

Le donne che hanno abortito, rispetto a quelle la cui gravidanza ha potuto proseguire, si mostravano in media il 114% più portate a stati di ansia e depressione, a prescindere che l’aborto fosse spontaneo o “scelto”. Su questo studio è interessante il commento della dottoressa Priscilla Coleman, professoressa allo Human Development and Family Studies della Green State University in Ohio: «Anche in una cultura in cui l’aborto è diffuso e viene ordinato dal governo dopo che le donne partoriscono già una volta (nella Cina moderna è ancora vietato avere più di un figlio a famiglia, ndA), l’entità dei rischi psicologici è paragonabile a quelli individuati in altre parti del mondo».  Sui legami tra aborto e sindrome post aborto abbiamo creato un apposito dossier.

A ulteriore dimostrazione della follia di questa Cultura della Morte di cui siamo vittime, un altro studio conferma invece che la naturale bellezza del miracolo della vita è anche un’arma potentissima contro una delle peggiori piaghe che colpiscono le donne: il tumore al seno. Il dottor Hatem Azim, oncologo presso il Jules Bordet Institute di Bruxelles ha effettuato in un periodo di 5 anni uno studio approfondito su 333 donne, di età fra 21 e i 48 anni, che è rimasta incinta dopo una diagnosi di cancro al seno e un gruppo di controllo di 874 donne con diagnosi di cancro al seno simili, ma che non erano rimaste incinta. I risultati sono i seguenti: «Diventare incinta in qualsiasi momento dopo una diagnosi di cancro al seno non aumenta il rischio di ricaduta, anche se la gravidanza si verifica durante i primi due anni dopo la diagnosi. Inoltre le pazienti che iniziano una gravidanza sembrano sopravvivere più a lungo rispetto a quelle che non lo fanno». Un’ennesima vittoria della Scienza contro lo scientismo. Sui legami tra aborto e cancro al seno abbiamo creato un apposito dossier.

Marzio Morganti

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Miur: le scuole private fanno risparmiare 6 miliardi all’anno

L’esenzione dall’IMU delle scuole paritarie ha riacceso un dibattito ormai antico: l’affidabilità delle scuole paritarie rispetto a quelle statali, e il senso dei loro costi per lo Stato. Il Ministero dell’Istruzione (Miur) ci dà dati utili per capire qual è la realtà: in Italia, il 74,6% delle scuole totali è costituito di scuole statali, 56.789 unità che accolgono l’87,6% degli alunni. Le scuole paritarie sono il 24,1%, 13.670 unità. Di queste, circa 8000 (il 41% delle paritarie totali) sono scuole dell’infanzia, 1500 le primarie, quasi 700 le secondarie di primo grado e circa 1500 le secondarie di secondo grado. Gli alunni che frequentano le paritarie sono il 10% della popolazione scolastica totale, che in tutto è 8.960.000 unità.

A seguito della legge 62/2000 (che ha riconosciuto la parità a tutte le scuole private purché in linea con determinati requisiti fissati dalla legge stessa) è stato assegnato alle scuole paritarie un contributo finanziario che nell’anno 2006 ha raggiunto il suo apice, circa 530 milioni di euro, e poi è stato sistematicamente messo in discussione dalle successive leggi finanziarie con tagli rilevanti (oltre il 45%), scongiurati, solo in parte, dalle proteste di alcune associazioni di famiglie, scuole ed enti gestori. Nel Quaderno La scuola in cifre 2009-2010”, (qui se il pdf non si apre) curato dalla “Direzione Generale per gli Studi, la Statistica e i Sistemi informativi del MIUR”, si legge che in Italia uno studente che assolve l’obbligo d’istruzione nella scuola statale (sino ai 15 anni) senza esser ripetente e frequentando la scuola materna (13 anni di scolarità) costa circa 88.700 euro; il costo per i diplomati di scuola secondaria di II grado (16 anni di scolarità) raggiunge i 109.420 euro. Per i ripetenti tra essi, il costo sale di oltre il 6%. Le risorse destinate nel 2009 alla scuola statale ammontano a più di 54 miliardi di euro.

Riassumendo i dati suddetti, si può dire che, se si desse alle scuole paritarie la cifra che a esse spetterebbe in base alla percentuale dei suoi iscritti (il 10%), il contributo dovrebbe ammontare a oltre 5,4 miliardi di euro, dieci volte in più di quanto viene riconosciuto attualmente (circa 530 milioni). Sul bilancio totale dell’istruzione la scuola paritaria rappresenta, infatti, meno dell’1%. Quindi, non solo la scuola paritaria costa allo Stato meno dell’1% di quella statale, ma serve ben più alunni di quanto i contributi a essa concessi coprano: il 10% del totale.  Allo Stato ogni alunno di scuola paritaria costa annualmente 584 euro nell’infanzia, 866 euro nella primaria, 106 euro nella scuola secondaria di primo grado, 51 euro nella secondaria di secondo grado. Invece, la spesa per studente delle istituzioni scolastiche pubbliche si attesta nel 2009 a 6.351 euro per la scuola primaria, 6.880 per la secondaria.

A conti fatti, dunque, l’esistenza delle scuole paritarie garantisce allo Stato un risparmio annuo di oltre 6 miliardi di euro, che è quanto spenderebbe se tutti gli alunni che le frequentano passassero alla scuola statale. Molti sostengono che il Governo toglie risorse alla scuola statale per darle alla scuola privata; è l’esatto opposto, cioè lo Stato, con le risorse date alla scuola privata, risparmia su quanto dovrebbe spendere per le risorse che dovrebbe dare in più a quella pubblica. Nel 2010 la rivista specializzata di settore Tuttoscuola ha calcolato che lo Stato risparmierebbe oltre 500 milioni di euro l’anno se aumentasse di 100 milioni i contributi alla scuola paritaria, consentendo a più famiglie di sceglierla (ogni euro investito nella paritaria renderebbe allo Stato 5 euro di risparmio).

La redazione

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La bufala illuminista dell’indipendenza dei Paesi latinoamericani

Si è concluso il 23° viaggio apostolico di Papa Benedetto XVI in Messico e Cuba, due Paesi retti da regimi che in tempi e in modi diversi hanno perseguitato crudelmente la fede cattolica. Una delle occasioni che hanno portato il Pontefice nel cosiddetto “Mondo Nuovo” è stata la ricorrenza del Bicentenario dell’indipendenza dei cosiddetti Paesi “latinoamericani”, che rievoca fatti accaduti tra il 1808 e il 1826, grazie ai quali le province di cui si componeva la regione americana dell’allora Impero Spagnolo diedero vita a nuovi Stati indipendenti.

Su tali fatti si è soffermato Marco Respinti che in un interessante articolo su “La Bussola Quotidiana ha colto l’occasione per scrivere su una delle tante leggende nere, che vuole l’indipendenza “latinoamericana”  come l’emancipazione dei popoli “sudamericani” dalla tirannide spagnola, accomunando erroneamente tale evento ad altre 2 rivoluzioni: da un lato alla Rivoluzione Francese (1789-1799) e dall’altro lato alla Rivoluzione Americana (1775-1783), grazie alla quale al Nord nacquero gli Stati Uniti d’America, anch’essa maldestramente interpretata secondo la medesima chiave ideologica. La leggenda nasce dallo storico positivista Aldo Ferrari, sostenuto dal suo collega Robert Palmer e dal francese Jacques Godechot, tuttavia una nutrita schiera di studiosi, i più interessanti sono quelli iberoamericani, hanno da tempo dimostrato come i fatti andarono diversamente. Ad esempio il sociologo, storico e letterato nicaraguense Julio César Ycaza Tigerino che nel suo saggio “Génesis de la indipendencia hispanoamericana” (1946) parla di «falsificazione grottesca e stupefacente». Secondo Tigerino il falso storico parte dalla contraffazione dei termini con cui avvenne la conquista spagnola del “Mondo Nuovo”, nonché la sua evangelizzazione e la sua civilizzazione, descritta truffaldinamente come la storia di una sottomissione rapace e schiavistica da parte dell’Europa “colonialista” di una terra immacolata, la “rapina” e lo “stupro” di un continente intero perpetrato dai “maschi cristiani bianchi”. Una ricostruzione fantasiosa e manipolatrice, afferma, che ha la sua matrice nell’illuminismo, come d’altra parte tutte le leggende, ma che continua ad essere propinata nei sussidiari scolastici.

La verità è che l’Indipendenza iberoamerica non fu affatto una rivoluzione ideologica, come quella francese, ma una reazione all’involuzione politica di tipo assolutistico lungo cui si erano incamminati i governi coloniali di allora. Non fu un tentativo di ribellarsi all’eredità spagnola e cattolica, ma il suo esatto contrario: una rottura istituzionale resasi necessaria solo per poter perseguire con profitto un legame culturale inscindibile. Il nemico erano le nuove politiche centraliste e statalistiche che minacciavano tali legami, cioè il venire meno dell’autonomia per cui le colonie avevano lungamente goduto e grazie alle quali prosperato. Le guerre di secessione dagli imperi che diedero vita, in tutto il continente americano, a Stati nuovi furono in realtà diverse da quella ideologica e ideocratica scoppiata in Francia nel 1789, poiché miravano a conservare il patrimonio avuto in eredità dall’Europa cristiana, non a cancellarlo: fu quindi davvero un’insorgenza antirivoluzionaria col solo intento separatista, una riforma nella continuità e non la distruzione di un retaggio.

Il mito della “rivoluzione latinoamericana” è insomma un falso storico, lo dimostra la mancanza di proteste per la celebrazione della ricorrenza con la festosa accoglienza riservata al Pontefice della Chiesa Cattolica. Altri semplici esempi sono, ad esempio, l’elezione quest’estate di un sacerdote come leader degli indigeni colombiani del Cauca e la continua difesa, ancora oggi, dei popoli indigeni del Paraguay da parte della Chiesa. Sul nostro sito è possibile visionare un dossier apposito.

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In America c’è un clone di Boncinelli: è lo scientista Alex Rosenberg

Il manipolo di atei scientisti internazionali sta cercando di rinnovarsi dopo la morte del compianto Christopher Hitchens. Ormai i pensionati Piergiorgio Odifreddi, Margherita HackRichard Dawkins e Daniel Dennet hanno fatto il loro tempo ed è giusto chiuderli nel dimenticatoio dei “nipoti ritardati del positivismo” di fine ‘900. Si è così fatto avanti il 66enne Alex Rosenberg, docente di filosofia presso la Duke University, con il suo libro “Guide The Atheist di Reality” (Norton & Company 2011)

Giusto per fare un esempio, ecco alcune risposte date da Rosenberg: “Esiste un dio? No. Qual è la natura della realtà? Quello che la fisica dice che è. “Qual è lo scopo dell’universo?” Nessuno scopo. “Qual è il significato della vita?” Nessun significato. “Perché sono qui?” Stupida fortuna. “C’è un anima? E’ immortale?” Stai scherzando? “C’è il libero arbitrio?” Neanche per sogno! “Qual è la differenza tra giusto e sbagliato, bene e male?” Non vi è alcuna differenza morale tra di loro. “Perché dovrei essere morale?” Perché ti fa sentire meglio “Ha la storia qualche significato o scopo?” E’ piena di strepito e di furore, ma non significa nulla. Leon Wieseltier ha completamente stroncato  il libro in un editoriale su “The New Republic”, definendolo il “peggiore del 2011”: «è un catechismo per le persone che credono di essersi emancipate dai catechismi. La fede che dogmaticamente espone è lo scientismo. Si tratta di un bell’esempio di come la religione della scienza può trasformare un uomo intelligente in uno stupido». Il pamphlet si basa sul classico assunto scientista: «c’è solo un modo per acquisire conoscenze, e la modalità è quella della scienza», in particolare la fisica. Ma la cosa più originale è che l’autore del libro sa benissimo quale concezione estrema sta portando avanti, e ne è orgoglioso«Lo scientismo comincia con l’idea che i fatti fisici risolvono tutti i fatti, compresi quelli biologici», scrive Rosenberg. «Questi a loro volta devono fissare i fatti umani, quelli su di noi, la nostra psicologia e la nostra moralità. Tutto ciò che ci rimane è saper scegliere il vino». Il commento allibito dell’editorialista di “The New Republic” è prevedibile: «In questo modo la scienza si trasforma in una superstizione».

Non solo nel Regno Unito, ma anche in America esiste, dunque, un clone del 71enne Edoardo Boncinelli, che su “Il Corriere della Sera”di qualche giorno fa ha scritto un articolo intitolato: «Evviva l’umiltà della scienza: l’unica strada per esplorare l’ignoto», e -citando le parole del suo amico scientista 77enne Marc Augé-: «Gli eccessi del senso, della fede e della volontà derivano tutti da un riferimento, da di principio, arbitrariamente postulato, alla totalità; rifiutano l’ignoto, cioè il reale. Nel cristianesimo la nozione di mistero nasce da un corto circuito del pensiero, da un atto di forza intellettuale che porta l’ignoto nel campo del noto, ricorrendo a nozioni come la promessa, l’annuncio, la rivelazione. Di fronte a queste dimostrazioni di superbia, la scienza è un modello di umiltà».  Tornando al nostro Rosenberg, sentire nel 2012 ancora dire che «tutta la realtà si spiega in fermioni e bosoni, la fisica ha risolto tutta la verità della realtà», vuol dire essere trasportati nel più torbido positivismo oscurantista. E’ fin troppo facile notare a Rosenberg che quando afferma: «i significati che diamo sono effettuati dai nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni, ma essi sono solo castelli di sabbia che costruiamo per aria», di fatto sta tagliando il ramo su cui si è seduto e sopratutto ha fornito il migliore motivo al suo eventuale lettore per chiudere e buttare via il libro, pieno di suoi “pensieri”. Da filosofo, inoltre, afferma che «le scienze umanistiche sono “divertenti”, ma sono “morte scientificamente”», e anche in questo caso -per lo stesso motivo- ha offerto al preside del suo dipartimento di scienze umanistiche un ottimo motivo per licenziarlo. Perché tenere una persona che si occupa di nulla?

Una bella stroncatura è arrivata anche dal docente di filosofia presso la Columbia University, Philip Kitcherche ha parlato del libro dalle  colonne del New York Times”. Anche per lui siamo di fronte ad un folle: «Rosenberg punta più in alto», di Hitchens e Richard Dawkins: «gli obiettivi che considera sono le grandi questioni, domande circa la moralità, lo scopo e la coscienza. Le risposte sono tutte dentro la convinzione che la scienza possa risolvere tutte le questioni, questo è noto come “scientismo” -un’etichetta tipicamente usata in senso peggiorativo- ma per Rosenberg è un distintivo d’onore». Kitcher definisce il libro uno “scientismo evangelico”, che si basa su tre pilastri: la microfisica determina tutto quello che c’è sotto il sole, la selezione naturale darwiniana spiega tutto il comportamento umano e le neuroscienze rendono illusoria la morale e lo scopo della realtà.  Kitcher fa educatamente notare che «le conclusioni sono premature», e aggiunge: «il darwinismo allegro di Rosenberg non e più convincente della sua fisica imperialista, e i suoi racconti sulle origini evolutive del tutto, dalle nostre passioni per i racconti, della nostra gentilezza degli uni verso gli altri, sono atavici di una sociobiologia di un’era precedente, libera dalla precauzione metodologica che gli studenti dell’evoluzione umana hanno imparato»

Il filosofo Kitcher ha quindi continuato: «gran parte del libro di Rosenberg è psicologia evolutiva sui trampoli», lo stesso vale per le «sue discussioni neuroscientifiche». Rosenberg afferma che la scienza ha risposto alle grandi domande della vita, ma «le risposte sono le sue, non quelle della scienza, e si basano su interpretazioni e argomentazioni sintetiche […], è estremo scientismo». Il bell’articolo sul “New York Times” ricorda ovviamente che «esistono domande tanto profonde che vanno ben oltre l’ambito delle scienze naturali. La fede in Dio, la convinzione dell’esistenza del libero arbitrio o del senso della vita, non sono soggetti a revisione da parte delle evidenze empiriche […]. Il rispetto per la scienza e l’entusiasmo di imparare da essa sono pienamente compatibili col rifiuto dello scientismo. La sfida non è quello di decidere chi ha le intuizioni più importanti, ma di comprendere che la conoscenza che abbiamo della realtà è limitata, fallibile e frammentaria».

Simone Aguado

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Studio Censis rileva l’ascesa dei valori e della fiducia nella chiesa

Abbiamo già parlato dei risultati apparsi nell’ultima ricerca del Censis sul popolo italiano, dal titolo «I valori degli italiani», elaborata in occasione dei 150 anni. A ritornarvi sopra è un articolo de “Il Sole 24 ore”, in cui viene sottolineato un fattore positivo della crisi economica (almeno uno), cioè il cambiamento da uno smodato consumismo verso una collettività incline ora a un tenore di vita più sobrio. La sobrietà è certamente una conseguenza di una vita cristiana pienamente vissuta, e infatti -fa notare la ricerca- gli italiani di oggi, al contrario di 20 anni fa, stanno anche «riscoprendo o apprezzando di più certi valori tradizionali: quelli della famiglia, dell’amicizia, della convivenza civile, della fede religiosa, dell’etica pubblica».

La famiglia, si ribadisce nell’articolo dello storico Valerio Castronovo, conta oggi più di quanto già non fosse in passato e non è sorprendente dato che essa costituisce una cellula primaria di protezione e solidarietà fra i suoi componenti. L’individualismo, brutta conseguenza del protestantesimo e del laicismo, si riduce fortemente. Secondo lo storico, «la forte reviviscenza del sentimento religioso si sta manifestando un po’ dovunque nel mondo occidentale, e perciò anche da noi». Il processo di secolarizzazione, dice, «non ha assottigliato il numero dei credenti». Inoltre, continua, «secondo i dati del Censis, la Chiesa cattolica sta recuperando fiducia e ascendente nella società italiana, in ragione soprattutto dei suoi princìpi etici, a presidio dei diritti umani, dell’integrità e dignità della persona, della giustizia e dell’assistenza ai più deboli».

Come già avevamo anticipato, lo studio ha rilevato anche una crescente richiesta di legalità e trasparenza, una crescente disapprovazione della corruzione politica, della prostituzione, del consumo di alcool e di droghe anche leggere.  Stando all’inchiesta del Censis, sembra anche una crescita di interesse per le bellezze naturali e i beni culturali, in quanto, «potendo vivere in un ambiente ricco di queste preziose risorse, ci si sentirebbe più motivati e disposti a impegnarsi per il proprio Paese». Facciamo nostro l’auspicio di Castronovo: «meglio tardi che mai: purché ai buoni propositi corrispondano comportamenti concreti».

Simone Aguado

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