Gli argomenti sempliciotti dell’ateologo Corrado Augias

Il noto ateologo Corrado Augias, ha scritto un pensiero tutto suo, senza copiarlo da nessuno al contrario di quanto ha fatto abbondantemente nel 2009, venendo subito beccato. Un ragionamento diviso in due parti, ma comunque tutta farina del suo sacco. E infatti l’hanno notato subito in molti. Inventandosi teologo (dopo aver affermato che Santo Stefano è stato ucciso dai cristiani), è andato a bacchettare addirittura l’arcivescovo di Firenze, mons. Giuseppe Betori, il quale ha semplicemente invitato i fedeli -dopo mesi di forte siccità- alla preghiera per il “dono della pioggia”, ricordando anche la sobrietà dei consumi e la riflettessione sugli stili di vita per dare garanzia a tutti per «un accesso equo, sicuro e adeguato all’acqua».

Scandalizzato Augias ha risposto ad un lettore su “Repubblica”, affermando che «pregare perché dio faccia o non faccia una certa cosa implica che la sua volontà possa essere influenzata, è la stessa logica di chi invoca un miracolo». Inoltre, ha proseguito, «ogni dio è, per il suo credente, molto buono e onnipotente. Perché dunque volerne piegare la volontà secondo i nostri interessi?». Questo è il livello degli argomenti, e il filosofo Giacomo Samek Lodovici, docente di Storia delle dottrine morali, si è divertito a prenderlo in giro, approfittando comunque per rispondere adeguatamente a queste banalità che spesso accompagnano i pensieri dei più sprovveduti. Ha spiegato la faccenda citando S. Gregorio, ovvero che gli uomini «pregando meritino di ricevere quanto Dio onnipotente aveva loro disposto di donare fin dall’eternità». In poche parole, Dio pur conoscendo i desideri e le esigenze dell’uomo, brama sempre la sua libertà, attende che l’uomo -attraverso la preghiera- la esprimi pienamente e consapevolmente. Inoltre, come spiegato bene da Agostino nelle “Confessioni”, pregando l’uomo aumenta la comprensione sia della propria finitezza e miseria -e dunque si diventa anche consapevoli di ciò di cui si ha realmente bisogno-, sia della grandezza di Dio -ovvero, si diventa consapevoli che c’è Qualcuno a cui si può domandare. La preghiera è un’espressione esplicita della libertà dell’uomo (è come il “si, lo voglio” che i due sposi si dicono davanti al sacerdote). Non è certo il tentativo di “piegare la volontà di Dio” (qui per un  approfondimento interessante).

Non contento di questa imbarazzante uscita, Augias -appoggiandosi questa volta a Spinoza- ha sostenuto che «invocare da Dio il bene possibile della pioggia significa attribuirgli il male certo della siccità il che per un cardinale è grave». Il filosofo Samek Lodovici ha ironizzato sopratutto sulla frase finale, facendo notare che lo stesso Gesù chiede al Padre: «dacci oggi il nostro pane quotidiano», attribuendo così a Dio il male della fame? Oppure quando chiede: «liberaci dal male», sta attribuendo a Dio la malvagità? Per non parlare di quando il Nazareno insegna: «Chiedete e vi sarà dato». L’ateologo Augias bacchetta evidentemente anche Gesù di essere teologicamente ignorante, poco cristiano. «In tal caso ci sentiamo di scusarlo, visto che non poteva leggere né i libri di Spinoza né quelli di Augias», ha commentato divertito il filosofo, che comunque ha aggiunto un approfondimento interessante: occorre distinguere il volere di Dio, dal tollerare di Dio, ovvero la tolleranza della siccità in vista di un qualche bene (così come il medico è consapevole delle conseguenze della chemioterapia, ma è disposto a chiedere di tollerarle in vista di un bene più grande).

L’ateologo 77enne ha infine concluso affermando che mons. Betori ha rischiato di attraversare «in modo pericoloso il confine tra fede e superstizione». Effettivamente il Nostro di superstizione ne sa qualcosa, dato che dice di essere non-ateo ma credente “in una specie di armonia universale che ci unisce tutti” (chissà da quale reminiscenza pagana l’ha tirata fuori questa). Condividiamo comunque il commento di Rino Camilleri: «Vien da chiedersi perché i soloni del laicismo non si facciano i fatti loro. Invece, non perdono occasione per dare ai cattolici lezioni di cattolicesimo. Almeno lo conoscessero».

Per la cronaca: in Toscana è tornata la pioggia già Sabato Santo, nella notte di Pasqua invece, sulle Alpi Apuane è scesa persino la neve.

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Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (I° parte): confronto possibile?

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Luca Ferrara, dottorando in scienze filosofiche presso la Federico II di Napoli, docente presso diversi licei paritari in Campania e vicedirettore della rivista telematica di Estetica e Filosofia, “Studium Veritatis”. Le sue principali direttrici di ricerca sono lo sviluppo delle valenze gnoseologiche della nozione di corpo all’interno del cristianesimo e lo studio della filosofia moderna da Cartesio a Hegel come dialettica tra metodo e metafisica»

 

di Luca Ferrara*
*dottorando in scienze filosofiche

 

Prima di inoltrarci lungo il cammino delle nostre argomentazioni, pensiamo che sia doveroso indicare al lettore le ragioni [1] che rendono possibile e stimolante un confronto tra due filosofi così distanti come Tommaso d’Aquino e Immanuel Kant, sia dal punto di vista cronologico, sia dal modo di intendere la teoresi nei suoi metodi e nelle sue finalità. Si potrebbe infatti obiettare che un confronto tra loro sia impossibile già in partenza per ragioni che appaiono in modo ovvio ad ogni studioso minimamente esperto della materia. In primo luogo, si deve considerare l’asse temporale che separa i due pensatori: cinque secoli. Il dottore angelico si colloca al vertice di un processo di riorganizzazione culturale e sociale che pervade e determina in modo singolare le sorti della vita intellettuale europea nel corso del medioevo. Infatti, il XIII secolo, il secolo di Tommaso, considerato da una prospettiva meramente culturale, è testimone inconsapevole di una stagione intellettuale tra le più feconde della civiltà occidentale.

Nell’anno in cui probabilmente nasce Tommaso — 1224 — viene fondata a Napoli la prima Università statale. Il sapere, istituzionalizzandosi, acquista una rilevanza sociale prima sconosciuta, e di rimando coloro che esercitano una professione intellettuale godono di un prestigio non più confinato all’ambiente culturale da dove essi provengono. Il frate domenicano si inserisce velocemente all’interno di questo mutato quadro culturale divenendone uno dei nuovi protagonisti. Tommaso d’Aquino, nel 1253, seppur giovanissimo, viene chiamato a ricoprire l’incarico di baccelliere sentenziario a Parigi per l’ordine domenicano, e dopo tre anni viene addirittura nominato maestro in sacra pagina [2] (1256). In tale contesto, Tommaso scriverà le sue maggiori opere come la Summa contra gentiles e la Summa theologiae. Anche le sorti intellettuali di Kant sono legate alla sua carriere universitaria. Il filosofo tedesco, sebbene acceda più tardi ai massimi titoli accademici, scrive e pubblica opere che sono indirizzate sia alla comunità scientifica, sia ad un pubblico di studenti e docenti. Questa prima analogia di carattere più biografico che teoretico tra i due pensatori non è priva di interesse se consideriamo che una gran parte dei pensatori dell’età moderna si muove al di fuori del circuito universitario — Cartesio, Spinoza, Locke, Hobbes e Leibniz non avevano nessun incarico presso qualche università — .

Al nostro tentativo di istituire un confronto tra questi due giganti del pensiero, si potrebbe avanzare un’obiezione di carattere storico-speculativo, calibrata in modo ben più adeguata di quella di ordine temporale, ma sempre da questa originata, che individui le ragioni dell’impossibilità di tale confronto  in una serie di eventi avvenuti all’alba del mondo moderno. Tali eventi avrebbero modificato in modo così subitaneo e profondo la matrice culturale del mondo moderno rispetto al cosmo medievale da rendere vana, o quanto mai peregrina, la stessa ipotesi di tentare un  raffronto tra Tommaso e Kant. Non si può certo negare che la scoperta dell’America[3], l’invenzione della stampa, la riforma protestante, la rivoluzione astronomica non abbiano inciso nell’approccio speculativo dei filosofi moderni in modo da modificarne anche orizzonti, domande e metodi. Paolo Rossi sosteneva che la fondatezza dell’uso dell’espressione “rivoluzione scientifica” — così da indicare una rottura epistemologica forte tra medievale e moderno —risiedeva sostanzialmente in due ragioni: una di carattere speculativo ed una di carattere metodologico. La prima è il mutato concetto di natura: per i pensatori medievali si distinguono i corpi a seconda del luogo dove sono posti, per gli scienziati moderni la pluralità dei corpi viene ricondotta alle leggi che ne determinano il moto. Inoltre, la natura, nel mondo medievale viene intesa, come l’esperienza quotidiana, per i moderni essa può essere riprodotta in quanto meccanismo o esperimento costruito per verificare una certa teoria[4]. La seconda, ma collegata alla prima, è la matematizazione della natura: ogni fenomeno naturale può essere descritto in modo soddisfacente da un’equazione[5].

Quest’obbiezione sembrerebbe colpire nel segno, in quanto istituire un confronto tra Tommaso e Kant che riguardi le prove dell’esistenza di Dio, non può prescindere dall’idea di natura sulla quale vengono costruite le prove del Dottore Angelico nella Somma teologica, un’idea, inutile dirlo, completamente diversa da quella del pensatore tedesco, il quale, nelle opere della sua maturità, seguiva i principi della meccanica newtoniana come fondamento nell’esplicazione della dinamica dei corpi. Ma il concetto di natura in Kant come in Tommaso non si esaurisce in un solo contesto semantico. La natura, considerata nel suo complesso, travalica il semplice meccanicismo: una natura che segue regole geometriche è a sua volta un problema filosofico. Per quali motivi il libro della natura è scritto in una lingua matematica? Come può lo scienziato utilizzare qualcosa di non intuitivo, di non evidente al senso comune, per indagare l’esperienza? Come si legittima tale accordo tra pensiero — la formula algebrica o una figura piana — e la cosa (intesa come fenomeno, declinato in un caleidoscopio di relazioni)? Lo scienziato moderno è al contempo un filosofo. C’è uno spirito speculativo densissimo che pervade l’intera età moderna. Si avverte che le soluzioni trovate e adottate in un determinata disciplina (ad esempio la parabola come figura geometrica per descrivere la caduta di un grave) pongono una serie di questioni nel momento in cui se ne considerino le conseguenze negli altri campi del sapere.

Sebbene ciò che afferma Rossi in sede epistemologica è pienamente condivisibile, su di un piano speculativo è possibile individuare un margine abbastanza ampio per istituire un confronto. Ma tale confronto è possibile in virtù della natura della cosa stessa, della filosofia. Vi è in Kant, come del resto in altri autori moderni, una persistenza di una prospettiva ontologica, dove l’analisi gnoseologica si congiunge con il domandare metafisico. Il pensiero moderno, in sede metafisica, non espelle il divino dalle sue riflessioni; Dio non viene ridotto a semplice appendice di un cosmo che abbia bisogno solo di un colpetto per poter avviare il suo intimo, poderoso motore. Allora la possibilità di istituire tale raffronto sussisterà in virtù di un modo d’essere proprio della filosofia (almeno nel modo in cui viene intesa nel mondo cristiano come philosophia perennis), nella quale prevale una dimensione topologica, su quella cronologica. Il domandare metafisico si attesta come un percorso all’interno di una serie di luoghi topici. Infatti, teoresi, morale, estetica, politica, logica e così via, possono essere intesi come luoghi ideali che sempre possono essere ri-visitati, ri-percorsi. Spazi dell’animo che sono suscettibili di continue dilatazioni o contrazioni, ma mai di un loro completo abbandono. Il limite dunque di questo confronto è quella dimensione umana, irripetibile, propria di ogni uomo che prende forma e si delinea negli incontri, nelle letture, nell’origine e nel modo di alcune domande, negli interessi e infine nel carattere. Ma la possibilità di tale confronto è ciò che individua e specifica l’ambito proprio del sapere filosofico, il quale pur facendosi storia, proietta i suoi protagonisti su di un orizzonte comune, meta-temporale, dove essi hanno la possibilità di instaurare un dialogo infinito con le generazioni passate, ma anche con quelle future.

Nel prossimo articolo parleremo delle due “quaestiones” poste da Tommaso d’Aquino.

 

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Note
[1]. Va individuata nell’assenza di un riferimento esplicito nel corpus di scritti da parte di Kant a  Tommaso d’Aquino uno dei principali motivi, per cui tale confronto su questo tema non sia stato affrontato prima.
[2]. Il primo titolo accademico è più o meno equivalente, anche se non del tutto sovrapponibile, a quello di professore associato; mentre il secondo è assimilabile a quello di professore ordinario.  Cfr. G. d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova Editrice, Roma 2011, pp. 461-466; S.Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso s’Aquino, Laterza, Bari-Roma 1996, pp. 14-22.
[3]. Il valore periodizzante di un evento come la scoperta dell’America, come opportunamente nota Giuseppe Galasso,non si esaurisce nel fatto stesso, nonostante la sua enorme rilevanza dal punto di vista commerciale , ma nell’ipotesi scientifica che sorregge la spedizione di Cristoforo Colombo: il navigatore genovese organizza tale impresa in base ai calcoli di Toscanelli. La novità è nel metodo che ha condotto a tale scoperta: la prima fatta in base ad un’ipotesi scientifica. Cfr., G.Galasso, Introduzione allo studio della storia moderna, Laterza, Bari-Roma 2008, pp.42-44.
[4]. Cfr., P. Rossi, La nascita della scienza moderna, Laterza, Bari-Roma 2004, pp. XVI-XVII.
[5]. Cfr., Ibid., pp. 8-9.

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I Santi cristiani così diversi dagli eroi pagani

 

di Marco Fasol*
*docente di storia e filosofia

 

Chi è sinceramente convinto della diversità cristiana rispetto alle mitologie pagane è certamente rimasto sconcertato leggendo un articolo del Corriere della Sera in data 6 aprile. Il titolo dell’articolo, firmato da Lorenzo Cremonesi, è molto esplicito: “Cristiani e pagani, miti paralleli. San Giorgio è come Ercole e Ulisse somiglia a san Brandano“. L’articolo recensisce una recente pubblicazione della casa editrice Laterza, Corpi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, scritta a quattro mani da Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri e Giulio Guidorizzi.

La tesi centrale del libro è la sostanziale continuità tra eroi ellenici e santi cristiani. Gli autori infatti scrivono che con il tramonto dei miti classici, i templi e le tombe degli eroi quali Ulisse ed Ercole furono sostituiti da nuovi eroi, dai santi, portatori di valori molto diversi, “ma nella sostanza poco cambia”, aggiungono subito. «Entrambe le figure (eroi pagani e santi cristiani) sono spesso accompagnate da una nuvola di pazzia, che ne garantisce coraggio fuori dalla norma, eroismo o santità, la cui natura straordinaria resta comunque impressa nella memoria collettiva.»  La vita viene interpretata come una “lunga battaglia”, con avventure, scoperte dell’ignoto, viaggi fantastici. Tutti questi elementi esaltano l’eccezionalità dell’eroe pagano prima e del santo cristiano poi. Entrambe le figure forgiano l’identità delle rispettive culture e dei rispettivi popoli di provenienza.

Allora ci chiediamo: le cose stanno veramente così?  Il mito e la storia sono sempre gli stessi? L’identità culturale dei popoli cristiani non ha niente di diverso rispetto a quella delle mitologie omeriche o virgiliane? Anche Umberto Eco, nel suo celebre Il nome della rosa, aveva sostenuto una tesi simile, affermando che tra santità e follia non c’era sostanziale differenza.  Davvero? E’ proprio qui che si scopre l’inaccettabilità della tesi di fondo del libro. Possiamo concedere agli autori che vi sia un parallelo tra eroi pagani e santi cristiani in quanto entrambe le figure sono i modelli di riferimento, gli ideali morali delle rispettive società.  Possiamo anche concedere che per alcuni santi cristiani dei primi secoli, nelle narrazioni popolari, si mescolino insieme elementi storici e fantasie leggendarie. Ad esempio è verosimile che alcuni racconti degli Atti dei martiri dei primi secoli non siano sempre fedeli al contesto storico. Per la stessa figura, più recente, di San Francesco d’Assisi, non è sempre facile discernere gli elementi storici dalle aggiunte leggendarie di alcuni biografi successivi.

Ma quello che agli autori del saggio sembra sfuggire è che i valori morali che i santi cristiani incarnano sono radicalmente diversi da quelli degli eroi pagani. E non solo i valori morali, ma anche la concretezza storica è ben diversa. Partiamo dai valori morali. L’antichità pagana esalta l’eroe forte, vittorioso, capace di uccidere i nemici, di arrivare per primo. Il principio fondante la cultura pagana è la legge del più forte. Il più forte ha ragione. Le avventure di Ercole, di Achille, dei leggendari eroi romani, sono accomunate da questa esaltazione dell’eroe vittorioso. L’icona gloriosa del gladiatore è il modello spettacolare di questa visione della vita. Ogni città dell’impero romano aveva i suoi anfiteatri, capaci di ospitare anche venti o trentamila spettatori, per celebrare con gli spettacoli dei gladiatori la grandezza dell’impero. Si può dire che questi spettacoli costituivano la concretezza storica degli eroi mitici, fondatori della civiltà greco-romana.

Il discorso cambia radicalmente con il diffondersi del Cristianesimo. Il principio fondante della cultura cristiana è esattamente l’opposto di quello pagano. E’ la legge per cui il più forte si china verso il più debole per innalzarlo al proprio livello, perché siamo tutti figli di Dio, abbiamo tutti la stessa dignità. E soprattutto perché Dio stesso ci ha insegnato a vivere così. Lui è disceso verso il più debole, il peccatore, per innalzarlo ad una vita divina, vissuta nella giustizia, nell’amore, nel servizio del prossimo.  Non vedo proprio come si possa parlare di continuità tra eroe pagano e santo cristiano. Sarebbe come parlare di continuità tra la legge del più forte e la legge dell’amore e del perdono. Sarebbe come dire che la violenza e l’eroismo guerriero di un Achille o di un Ercole sono simili all’umiltà ed al servizio altruistico di un Sant’Ambrogio o di un Sant’Agostino.  Non riesco proprio a capire come storici di tutto rispetto come gli autori del libro sopra citato abbiano potuto prendere un abbaglio così fuorviante.

E poi, altro abbaglio sorprendente, non riesco proprio a capire come si possa confondere il mito con la storia. Quando gli autori pagani parlavano di Ercole, di Achille, di Enea, di Ulisse, di Dioniso…  sapevano benissimo di raccontare “miti” , ovvero descrizioni affabulatrici e leggendarie che avevano spesso un valore eziologico. Intendevano cioè proporre una spiegazione causale (“eziologica”), di origine divina o soprannaturale, all’origine di Roma o di Atene ecc. Volevano rivestire di un’alone divino quello che divino non era. Completamente diverso è il contesto del santo cristiano. Qui abbiamo i piedi per terra! In base al principio dell’incarnazione, per cui Dio stesso ha preso carne in Gesù di Nazareth, d’ora in poi l’eroe cristiano dovrà essere incarnato nella storia, nel concreto quotidiano. Come i vangeli erano iniziati con precise indicazioni storiche ed erano proseguiti con dettagliati riferimenti a personaggi storici come Ponzio Pilato, Erode, Caifa, Anna, Farisei, Sadducei ecc.  Così i santi cristiani si collocano sempre in precisi contesti storici e sono riusciti nell’arco di circa tre secoli a capovolgere i valori fondanti della civiltà.

Allora, in conclusione, dobbiamo stare bene attenti a non equivocare tra mitologia pagana e storia cristiana. Sarebbe come dire che un pezzo di vetro ed un diamante sono simili, perché luccicano entrambi!

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Fatima ed il “segno nel cielo”: fu una vera profezia prima della guerra?

La veggente suor Lucia riconobbe nel cielo illuminato d’Europa il giorno prima della Seconda guerra il segno premonitore annunciatole dalla Madonna. Ma lo mise per iscritto solo dopo gli eventi. Vi sono però altre prove della capacità profetica dei tre pastorelli di Fatima.

 
 
 

Ad inizio 2012 ci siamo soffermati su alcune incredibili coincidenze temporali legate alle apparizioni di Fatima.

Si fatica molto a parlare di “coincidenze” prendendole singolarmente, diventa quasi impossibile se vengono considerate in maniera globale.

Ad aggiungersi agli eventi c’è anche una vicenda, forse meno evidente, legata ad un “grande segno”, una “grande luce”, come venne riportato dai veggenti di Fatima durante le apparizioni del 13 maggio -13 ottobre 1917.

 

Fatima e quella profezia post-eventum: il cielo illuminato

«Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta», riportarono i tre pastorelli di Fatima, «sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre».

Come ha spiegato lo scrittore Francesco Agnoli, per “castigo al mondo” si intende che Dio lascerà l’uomo in balia di se stesso e della sua cattiveria: non c’è peggior castigo di quello che noi uomini spesso siamo così bravi ad infliggerci, da soli.

Nelle apparizioni portoghesi la Madonna dichiarò anche che sotto il pontificato di Pio XI, se gli uomini non si fossero convertiti, sarebbe scoppiata un’altra guerra mondiale, più spaventosa della prima, annunciata da una “notte illuminata da una luce sconosciuta”.

Il 25 gennaio 1938, effettivamente, il cielo di tutta Europa fu illuminato in modo eccezionale: si verificò una grandiosa Aurora boreale, evento straordinario alle latitudini dell’Europa meridionale; in Italia fu visibile in Piemonte, in particolar modo, e si vide addirittura sino a Napoli. La stampa ne parlò per diversi giorni.

Per la veggente Lucia, fu il segno preannunciato dalla Santa Madre, l’antefatto della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, ella mise per iscritto questa profezia soltanto il 31 agosto 1941 in una lettera al vescovo di Leira-Fatima. Per questo molti hanno, legittimamente, parlato di una profezia post eventum, che ovviamente non può essere considerata una vera profezia.

 

Fatima, il sole che danza visto dai giornali anticlericali.

Tuttavia, vi sono nelle vicende di Fatima due fatti che rendono attendibile credere a questa profezia (anche se venne messa per iscritto dopo l’evento).

Il primo: si tratta di un secondo segno celeste, annunciato nel 1917, che si verificò proprio in quell’anno. Da un Portogallo allora in mano ad un governo anticlericale, la piccola Lucia sfidò il mondo: «La Madonna», disse, «darà un segno».

Convocò tutti per il 13 ottobre 1917 alla Cova da Iria, pur capendo bene che se il segno non ci fosse stato, sarebbe stato un gran problema per l’attendibilità e la credibilità. Migliaia e migliaia di persone si radunarono nella Cova, i quotidiani di allora parlano di 40-50 mila persone. Diversi giornalisti, testimoni oculari, hanno scritto articoli su questo evento, compreso Avelino de Almedia, redattore capo di “O Sèculo”, quotidiano socialista di Lisbona, di orientamento positivista e anticlericale, che in precedenza aveva ridicolizzato gli eventi di Fatima.

Il giornalsita di O’Seculo, sul numero del 15 ottobre 1917, scrisse:

«Cose fenomenali. Come il sole ballò a mezzogiorno a Fatima […]. L’ora mattutina è la regola per questa moltitudine, che calcoli imparziali di persone colte e di tutto rispetto, punto rapite come per influenza mistica, contano in trenta o quaranta mila creature… E si assiste a uno spettacolo unico e incredibile per chi non fu testimone di esso. Dalla cima della strada, dove si ammassano i carri e sostano molte centinaia di persone, alle quali manca la voglia di mettersi nella terra fangosa, si vede tutta l’immensa moltitudine voltarsi verso il sole, che si mostra libero dalle nuvole, nello zenit. L’astro sembra un disco di argento scuro ed è possibile fissarlo senza il minimo sforzo. Non brucia, non acceca. Si direbbe realizzarsi un’eclissi. Ma ecco che un grido colossale si alza, e dagli spettatori che si trovano più vicini si ode gridare: “Miracolo, Miracolo! Meraviglia, meraviglia».

 

Il sole tremò ed ebbe movimenti bruschi mai visti prima, fuori da tutte le leggi cosmiche. Come poteva una pastorella riuscire a prevedere un fenomeno astrofisico di questa rarità e di tal portata? Ovviamente c’è la libertà, anche in questo caso, di parlare di ennesima incredibile coincidenza.

 

La profezia sulla Russia e “i suoi errori nel mondo”.

Il secondo episodio: sappiamo che Lucia mise per iscritto soltanto il 31 agosto 1941 la profezia sulla “notte illuminata da una luce sconosciuta” (che si verificò in un aurora boreale), antefatto dei crimini commessi dalla Russia.

Sarà la Russia, non la Germania, scrisse , «a spargere i suoi errori nel mondo»«promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa». Nel 1941 sarebbe stato più opportuno annunciare il pericolo nazionalsocialista, o comunque entrambi, quello comunista sovietico e quello nazista. Infatti la Germania sembrava trionfante: possedeva tutta l’Europa, esclusa la Gran Bretagna; gli Usa non erano ancora entrati in guerra e l’Urss appariva destinato alla sconfitta, sotto il tallone tedesco, da un momento all’altro.

Ed invece, pochi anni dopo, il “Reich millenario” crollò miseramente e la Russia non solo vinse la guerra, ma si vide “regalare” dagli alleati mezza Europa. Il comunismo conobbe così una diffusione immensa, inimmaginabile, tanto più se ricordiamo che nel 1949 anche la Cina sarebbe divenuta comunista. Dovunque i comunisti arrivarono, dalla Polonia all’Albania, la Chiesa fu attaccata, perseguitata, distrutta.

Occorre anche dire che in una lettera a Pio XII, datata 24 ottobre 1940 (cioè prima dell’entrata nella seconda guerra mondiale della Russia), Lucia richiese nuovamente la Consacrazione della Russia stessa, considerata, anche in quella data per certi versi insignificante, il pericolo imminente, come infatti divenne. Queste non sono profezie post-eventum.

 

Fatima, ritorna credibile la profezia sul cielo illuminato?

Abbiamo indicato due fatti che provano in qualche modo la capacità profetica dei veggenti di Fatima, non risulta allora così poco credibile che Lucia possa aver saputo che la guerra sarebbe iniziata il giorno dopo una illuminazione eccezionale del cielo d’Europa, pur mettendolo per iscritto solo in seguito agli eventi.

Torniamo a quel cielo illuminato dall’aurora boreale il 25-26 gennaio 1938. I quotidiani di allora, come La Stampa del 26 gennaio, intervistando noti astrofisici, parlarono di evento “eccezionale”, “rarissimo” e “visibile in tutta Europa”.

La veggente Lucia, come già detto, lo riconobbe come il segno premonitore indicato dalla Madonna. Proprio la sera del 25 gennaio, Hitler ricevette il barone Werner Fritsch, generale e comandante in capo della Reichwehr, assai critico sull’entrata in guerra, e lo fece uscire dal ministero della guerra a causa di uno scandalo. Fu questo un evento preliminare alla guerra1A. Spinosa, Hitler, Mondadori, Milano, 1991, p. 240-241.

Occorre anche ricordare che la sera del 23 agosto 1939 in alcune zone della Germania, fu segnalato un altro fenomeno di luce molto raro e proprio quella notte avvenne il patto von Ribbentrop-Molotov, cioè la spartizione della Polonia e di altre zone di influenza tra Hitler e Stalin. La II guerra mondiale nacque in questo momento.

Ne abbiamo testimonianza dal gerarca nazista Albert Speer nelle sue Memorie del Terzo Reich: «Quella notte ci intrattenemmo con Hitler sulla terrazza del Berghof ad ammirare un raro fenomeno celeste: per un’ora circa, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il leggendario Untersberg che ci stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno […]. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine. Di colpo, rivolto a uno dei suoi consiglieri militari, Hitler disse: ‘Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremmo fare a meno di usare la forza’”.  Un altro gerarca nazista presente alla scena, Nicolaus von Below, ricorderà di essere stato intimorito da quella luce, e di aver detto a Hitler che forse era il presagio di un’imminente guerra sanguinosa. «Se così dev’essere, allora che sia più veloce possibile» replicò Hitler»2citato in T.W. Ryback, La biblioteca di Hitler, Mondadori, Milano, 2008, p. 148-149.

Tutto questo suor Lucia, chiusa nel suo convento in Portogallo, non poteva certamente saperlo.

Livia Carandente

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In Slovenia e in Alaska due vittorie della famiglia naturale

Un recente referendum ha evitato che in Slovenia si adottasse il nuovo “Codice della famiglia”, che avrebbe previsto, tra l’altro, il riconoscimento di diritti alle coppie omosessuali, tra i quali quello all’adozione limitata. Il referendum è stato proposto con una raccolta di firme organizzata da organizzazioni e associazioni laiche e sostenuta anche dai leader religiosi delle tre confessioni principali presenti in Slovenia: Cattolicesimo, Cristianesimo Ortodosso ed Islam.

Tutti hanno sottolineato «l’obbligo di proteggere i valori del matrimonio e della famiglia come una comunità di marito, moglie e figli». In un’intervista cardinale sloveno Franc Rodé, prefetto emerito della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ha affermato:  «Questo nuovo Codice, infatti, non riconosceva l’importanza, per il bambino, di avere un padre ed una madre». Anche per questi motivi, il 55% degli elettori slavi (con un’affluenza del 26%) si sono opposti al codice in questione.

Anche i cittadini di Anchorage, in Alaska, hanno bocciato un referendum proposto da alcune associazioni per i diritti degli omosessuali che volevano inserire gli “orientamenti sessuali” e “l’identità transgender” nella lista dei diritti protetti dal codice cittadino. Contro la “Proposition 5” hanno votato quasi il 60% degli elettori. L’arcivescovo della città, mons. Roger Schwietz, ha comunque ribadito –citando il Catechismo della Chiesa cattolica-, che le persone con tendenze omosessuali «devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza» (CC n. 2358).  La “Proposition 5”, inoltre, rischiava di costringere istituzioni confessionali ad offrire servizi contrari al loro credo.

Michele Silvi

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Crisi economica: il buon esempio arriva dai sacerdoti

In un momento di forte crisi economica, in Italia ma anche nel resto Europa, tutti sono chiamati al sacrificio. I sacerdoti vogliono contribuire, condividere la difficoltà con la popolazione e dalle cronache abbiamo preso quattro semplici esempi che lo dimostrano. Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra l prete non è prete per sé, lo è per voi

Occorre premettere che nessuno naviga nell’oro. Nel 2009 il Vaticano aveva 15 milioni 313 mila euro di disavanzo,  dai tariffari vaticani sappiamo che un giovane prete riceve sugli 800 euro al mese, un parroco circa 1000 euro, un vescovo appena 1.300 euro (un’inezia, se paragonato allo stipendio di un qualsiasi dirigente). L’esenzioni dell’Ici, come stabilito dal ministero dell’Economia, vale circa 100 milioni di euro, una cifra ininfluente per il bilancio pubblico, e che tra l’altro non è imputabile alla sola Chiesa ma comprende anche tutti gli altri enti no profit.

Mons. Xavier Novell, ratzingeriano di ferro e il più giovane vescovo spagnolo (42 anni), ha deciso di ridurre la sua mensilità del 25 per cento, passando da 1200 a 900 euro: «Lo faccio per manifestare la mia solidarietà concreta a coloro che sono stati colpiti dalla crisi». «I cattolici», ha spiegato invitando anche altri a farlo, «non possono rimanere impassibili di fronte al bisogno, non possiamo passare oltre come i viandanti della parabola del Buon Samaritano. La causa della crisi va ricercata proprio nel fatto che ognuno di noi ha voluto vivere al di sopra dei propri mezzi. Se ne esce solo tutti insieme: noi, nella nostra Diocesi, cominciamo con questo piccola rinuncia». In un’intervista ha fatto questa bellissima riflessione: «Dare le ragioni della fede è il vero modo di essere progressista. Qualcuno dice che il cristianesimo si è diffuso per invidia. Sono molto d’accordo: la gente vedeva che i cristiani erano felici e si convertiva. La nostra generazione ha vissuto di rendita, ma non possiamo più permettercelo: ci vuole un annuncio del vangelo amichevole e coraggioso».

L’arcivescovo di Philadelphia, Charles J. Chaput, ha deciso invece di vendere l’enorme edificio in pietra che è stato la residenza del cardinale della Chiesa cattolica nella città per 76 anni, per trasferirsi in un’abitazione molto più modesta. Non ci sta, infatti, a vedere che i fedeli subiscano disagi mentre lui vive in una residenza del genere, inoltre vuole mandare un messaggio a tutte le diocesi cattoliche, perché vendano le residenze più fastose, per traslocare in abitazioni meno lussuose. Lui stesso, nel 1999, quando era arcivescovo di Denver, ha venduto la villa che aveva ospitato il suo predecessore per andare a vivere nel seminario diocesano.

Don Diego Soravia, da ventiquattro anni parroco della chiesa di Santo Stefano di Cadore, nel Bellunese, ha deciso da due anni di aiutare con un assegno di 500 euro chi decide di mettere al mondo un figlio. In questo tempo sono state quattordici le coppie, sposate o meno, che hanno potuto contare sull’aiuto di don Diego (la comunità è piccola): «So bene che si tratta di una cifra simbolica», precisa, «ma è un piccolo incentivo per realizzare qualcosa di grande». I soldi arrivano da iniziative della parrocchia, come un mercatino dell’usato. Ma non è tutto: «Quest’anno», ha spiegato, «abbiamo donato al Comune quattromila euro per il restauro della cappella del cimitero, l’anno scorso abbiamo destinato i fondi all’arredo urbano del paese». Altri soldi sono serviti all’acquisto di tre ambulanze.

Mons. Francesco Moraglia, nuovo patriarca di Venezia, si è insediato da poco in laguna, e continua a rimanere un prelato vicino alla gente. Incontra sempre la gente, dando precedenza ai giovani e agli operai, serve i pasti alla mensa dei poveri e poi, per sistemare l’appartamento, ha chiesto di acquistare soltanto in magazzini di arredamento rigorosamente low cost, come l’Ikea o un megastore che sia economico e senza troppe pretese.

Ovviamente di esempi ce ne sarebbero a decine e si potrebbe continuare a lungo, ma bastano per confermare le parole di Giovanni Maria Vianney: «senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra. Il prete non è prete per sé, lo è per voi». Ne approfittiamo infine per fare nostro l’appello di Paolo Gambi, tra i responsabili del portale “The Catholic Herald”, il quale chiede alle diocesi italiane (come avviene in molti Paesi del mondo) che già non lo fanno, di prendere esempio dalla CEI e rendere pubblici i propri bilanci in modo che nessuno abbia a sospettare di mala gestione del danaro. Anche per quanto riguarda l’8×1000, la parte gestita direttamente dalla CEI è resa pubblica, ma quella distribuita alla diocesi non sempre. Bisognerebbe che tutte le diocesi rendessero noto ai contribuenti che firmano l’8 per mille in favore della Chiesa cattolica – e a quelli che non lo fanno – che fine fanno i propri soldi. E’ più che mai necessario dare un segnale chiaro di estrema trasparenza.

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La conversione di Devin Rose: come rinascere “sfidando” Dio

Devin Rose è un normale ragazzo, con una vita molto simile a quella che ognuno vive ai giorni nostri. Nasce in una famiglia cristiana, ma lo era solo di nome perché dirsi cristiani in fondo, ormai va di moda. Tutti si definiscono così per poi dimostrare la loro completa estraneità alla fede in Gesù Cristo.

E’ normale che con il passare degli anni Devin abbia deciso durante il liceo di professarsi non credente. Giunto all’università, Devin, nonostante la sua vita normale accompagnata anche da buoni voti, una fidanzata e una numerosa presenza di amici, ha cominciato a sentire che qualcosa non funzionava: “Ho iniziato a essere divorato dall’ansia … ero nervoso nelle aggregazioni sociali, nei cinema o nei ristoranti …”, afferma. Più i giorni passavano e più l’ansia aumentava, quasi a trasformarsi in veri e propri attacchi di panico, perlopiù senza un apparente motivo, fino ad arrivare al desiderio di morire.

In questa drammatica situazione si è sentito solo, nonostante l’immenso amore dimostratogli dalla sua famiglia e dagli amici. La decisione che prese fu quella di “affrontare” il suo ateismo, diventato secondo lui il sinonimo della sua situazione. Decise così di parlarne con sua madre, e assieme si sono rivolti ad uno psicologo. La terapia diede qualche risultato, ma in realtà era uno stato soltanto parzialmente positivo, venne aiutato solo in modo limitato: «Ero clinicamente depresso, soffrivo di attacchi di panico frequenti, e combattevo una lotta titanica con le mie angosce infinite», racconta. Ed ecco la svolta: l’intuizione che la sua “infallibile” ragione “aveva fallito”, seguita dalla drammatica e tragica decisione: uccidersi o credere in Dio.

Era però consapevole di non poter fingere di “credere”,  e ha voluto domandare sinceramente aiuto: «Dio, tu sai che io non credo in Te, ma io sono nei guai e ho bisogno di aiuto. Se sei reale, aiutami». Dio risponde sempre, spesso non come pensiamo noi (“i miei pensieri non sono i vostri pensieri, nè le vostre vie sono le mie vie”, Is55, 1-11) e questo ci porta a lamentarci piuttosto che aprire meglio gli occhi. Non accadde nulla, infatti, ma Devin ha persistito a domandare e infine una risposta è arrivata: «È stato qualcosa che non avevo mai sperimentato», racconta oggi. «Mi ha dato il coraggio e la forza di affrontare le mie ansie paralizzanti e cominciare a superarle». Molto è servita l’amicizia con il suo compagno di stanza al college, di fede Battista: è sempre attraverso un altro che si può incontrare il cristianesimo. Ma non si è fermato qui: ha voluto capire il motivo delle divisioni all’interno del cristianesimo e imbattendosi nella storia della Chiesa cattolica, ha capito dove stesse l’autenticità. Dopo una breve catechesi è stato battezzato nel 2001. Oggi è ingegnere informatico e afferma: «posso dire che, dopo aver vissuto la fede cattolica per dieci anni, la mia fiducia in Cristo e la Sua Chiesa è diventata sempre più forte».

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Cosa c’entra il sequenziamento del genoma del gorilla con l’uomo?


 

di Alessandro Giuliani*
*biostatistico e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità

 
 

Buttarla in caciara è un termine dello slang romanesco quasi intraducibile in altri idiomi, è sicuramente diverso (anche se apparentato)  dal ‘fare ammuina’ napoletano che indica una apparente frenetica attività che maschera l’assenza di qualsiasi operazione utile.  Per ‘buttarla in caciara’ o,  analogamente,  ‘alzare la caciara’ si dovrebbe piuttosto intendere un pomposo concionare volto a mascherare una sostanziale mancanza di idee (o l’assenza di una risposta adeguata ad un quesito) con delle affermazioni apparentemente molto sentite e inoppugnabili ma a cui in realtà neanche lo stesso estensore crede più di tanto.  Per sopperire alla mancanza di credibilità si cerca di lavorare sul volume e sulla confusione (caciara è deformazione romanesca di gazzarra che ha un doppio etimo rimandante comunque alla  ‘confusione’ dalla parola araba al-gazar che era un chiassoso grido di battaglia dei mori, e dal chiasso proveniente da voliere di gazze (gazzare) che erano usate nelle cacce rinascimentali).

La lettura dell’articolo di Scally et al. (2012) “Insights into hominid evolution from the gorilla genome sequence’ apparso recentemente su Nature mi ha portato spontaneamente alla mente l’espressione romanesca commentata poc’anzi. Impressione confermata dalla presentazione nello stesso numero della rivista dell’articolo di cui sopra, da parte di Kerri Smith. In poche righe si dice tutto ed il contrario di tutto, nell’ordine:

    1. «Understanding these genetic catalogues, from our closest living relatives, can reveal much about our evolutionary path — such as when we diverged from our primate cousins and what makes humans different from apes». Comprendere questi cataloghi genetici provenienti dai nostri parenti viventi più prossimi, ci può rivelare molto riguardo al nostro cammino evolutivo – cose come quando ci siamo distaccati dai nostri cugini primati e cosa rende l’uomo differente dalle scimmie.
    2. «This helps to clear up the evolutionary conundrum of the three types of great ape. “For a long time there was a discordance between the fossil evidence and genetic estimates, in the sense that genetic estimates came up with speciation times that were more recent”, says Sally». Questo aiuta a chiarire la contraddizione evoluzionistica dei tre tipi di scimmie antropomorfe. ‘Per molto tempo c’era una discrepanza tra evidenza fossile e stime di distanza genetica, nel senso che le stime di distanza genetica parlavano di tempi di speciazione più recenti, dice Sally.
    3. «But the genome sequencing has thrown up surprises, too. The standard view of the great-ape family tree is that humans and chimps are more similar to each other than either is to the gorilla — because chimps and humans diverged more recently. But, 15% of human genes look more like the gorilla version than the chimp version» Ma la sequenza del genoma ha anche portato delle sorprese. La visione standard dell’albero genealogico delle scimmie antropomorfe è che l’uomo e lo scimpanzè siano più simili tra loro di quanto non siano con il gorilla – in quanto gli scimpanzè e gli umani si sarebbero separati in tempi più recenti. Eppure il 15% dei geni umani sembrano più simili alla versione del gorilla che a quella dello scimpanzè.
    4.  «Some of these rapid changes are puzzling: the gene LOXHD1 is involved in hearing in humans4 and was therefore thought to be involved in speech, but the gene shows just as much accelerated evolution in the gorilla. “But we know gorillas don’t talk to each other — if they do they’re managing to keep it secret”, says Sally». Alcuni di questi rapidi cambiamenti appaiono sconcertanti: il gene LOXHD1 è coinvolto nel senso dell’udito degli umani e per questo motivo è stato pensato essere coinvolto nel parlato, ma il gene mostra lo stesso tipo di evoluzione accelerata anche nel gorilla. ‘Ma noi sappiamo che i gorilla non parlano tra di loro – a meno che non parlino ma lo riescano a tenere segreto’, dice Sally.
    5. «This weakens the connection between the gene and language, says Enard. “If you find this in the gorilla, this option is out of the window». Questo fatto indebolisce la connessione fra geni e linguaggio, dice Enard ‘Se hai questo risultato (che non parla N.d.R.) con il gorilla, allora questa opzione è fuori luogo.
    6. «So what species should be the next to join the genome-sequencing club? There are hundreds of primate species, and in an ideal world Enard would like to sequence them all. But there is not much point without data on behaviour and physiology. “We want phenotypes too”, he says». Allora quale sarà la prossima specie ad unirsi al club degli organismi di cui si conosce l’intero genoma? Ci sono centinaia di specie di primati, e in un mondo ideale a Enard piacerebbe vederle tutte sequenziate. Ma ciò sarebbe di scarsa utlità senza dati relativi al comportamento ed alla fisiologia. ‘Vogliamo anche i fenotipi’, afferma.

 

Allora, si inizia con il dire che conoscere le differenze (minime in termini percentuali) tra il genoma del gorilla e quello dell’uomo ci aiuterà a capire cosa ci renda così particolari (non sfiora a nessuno l’idea che magari proprio il fatto che le differenze siano così piccole magari il livello del DNA non è rilevante per capirle, se andiamo ancora più in profondità la mia differenza in composizione atomica con il ficus sul pianerottolo è praticamente nulla…). Però alla fine il gran sequenziatore dice che ‘vuole anche i fenotipi’ (e qui potrei aiutarlo io, ad esempio le scimmie non hanno un comportamento adeguato a tavola, non leggono con interesse romanzi d’amore, non frequentano i concerti, giocano in maniera molto approssimativa a calcio, non imparano a suonare la chitarra, non amano radersi…). Ma almeno l’albero filogenetico , qualcosa lì il DNA lo potrà dire … bè al punto 2 la risposta è “sì”, al punto 3 la risposta è “no”, al punto 4 si cerca di andare sul sottile e, visto che si è trovato un interessante appiglio in un gene il cui prodotto proteico è legato alla funzione dell’udito e quindi alla comunicazione orale ed è molto simile a quello dell’uomo …. ma i gorilla non parlano! Magari parlano di nascosto quando non siamo lì ad ascoltare … ma no dai, è un po’ troppo magari sarà che il linguaggio c’entra poco con i geni (punto 5).

Va bene, pura caciara, peccato che qualcuno li prenda pure sul serio come il sito di Intelligent design che parla di ‘sconfessione del paradigma neo-darwinista’ riferendosi a questo articolo. Beata innocenza verrebbe da dire, ma noi romani siamo famosi per essere cinici e a queste cose non diamo un peso maggiore di quello che hanno.. piuttosto mi sembra notevole qualcosa di molto ma molto più incisivo e meno caciarone, apparso quasi in contemporanea al ‘caso gorilla’ sulla sezione di Science (il rivale americano di Nature) dedicato alla medicina traslazionale (orribile parola che starebbe ad indicare il trasferimento di risultati scientifici alla cura del malato), dove si dimostra come la sequenza personalizzata del genoma non abbia alcuna capacità predittiva sulle malattie più comuni e gravi, insomma che nonostante lo strombazzamento mediatico ‘è tutto nei geni’, la conoscenza della sequenza del genoma umano ci permetterà di vivere fino a cento e passa anni e a sconfiggere il cancro’ , in mano non abbiamo che un pugno di mosche e che la complessità del vivente è irriducibile alla sua totale compressione in una sequenza. Lo dice uno scienziato di gran nome, Bert Vogelstein, della prestigiosa Johns Hopkins University, sull’ancor più prestigioso Science… che forse ci sia voglia di abbassarla la caciara e ricominciare a fare scienza per davvero ?

Io me lo auguro, come mi auguro che i ‘grandi media’ italiani (La Repubblica, Corriere della Sera, Televisione) osino fare un accenno di mea culpa e di smentita di tutte le baggianate propinate negli ultimi dieci anni sull’argomento, qui però mi accorgo da solo che chiedo troppo…

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Studio Usa valorizza astinenza sessuale per prevenire rischi in giovane età

Alcuni ricercatori americani, di fronte ai sempre più numerosi casi di adolescenti con gravidanze indesiderate, aumento delle malattie trasmissibili per via sessuale, forme di patologie da dipendenza sessuale ecc. ha ritenuto di dover avviare dei programmi scolastici che riportassero al centro dell’attenzione il valore del dominio delle pulsioni sessuali e dell’astinenza sessuale. Solo modificando il comportamento sessuale, infatti, si può porre un freno ai rischi sessuali.

E’ anche nata un’associazione di ricerca e promozione di queste tematiche, la NAEA, che ha realizzato appositi programmi scolastici avviati in diverse scuole pubbliche della Georgia. Uno studio sui primi risultati, pubblicato recentemente sulla rivista “SAGEopen”, ha fornito indicazioni interessanti. Il programma risulta aver avuto un “impatto significativo” sugli atteggiamenti, credenze e comportamenti sessuali, validi nel prevenire i rischi legati all’attività sessuale in giovane età. In particolare i ricercatori hanno notato che i 1.143 studenti del nono livello (da noi la prima superiore) che hanno iniziato il programma, risultano avere il 50% in più di possibilità di sapersi mantenere nell’autocontrollo di sé rispetto ai compagni, con indubbi vantaggi per la salute fisica e morale.

Valerie Huber, direttore esecutivo di NAEA, ha commentato: «Questo nuovo studio si aggiunge al pari di altri 22 studi che mostrano che l’istruzione sulla prevenzione dei rischi sessuali (SRA) ha un impatto positivo sul comportamento sessuale degli studenti. Questo rigoroso progetto di ricerca aggiunge un importante punto esclamativo per l’efficacia dell’astinenza promossa a livello scolastico». Chiunque si opponga a questa proposta, afferma, «deve essere onesto nel suo antagonismo. Non si può più dire che l’approccio ‘non funziona’, ma bisogna ammettere che l’opposizione è semplicemente un avversione ideologica verso questo tipo di progetti di ricerca».

Naturalmente, il martellamento di segno contrario rende assai difficile l’opera di questi ricercatori e insegnanti che “nuotano contro corrente”, in un fiume mediatico e sociale che non fa che proporre le presunte gioie del sesso libero e deresponsabilizzato. Segnaliamo la posizione della Chiesa circa la castità prematrimoniale e un articolo molto interessante per approfondirne le motivazioni pubblicato su “Il Timone”.

Linda Gridelli

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Pio XII contro Hitler e Mussolini

Se si dovesse redarre una classifica dei papi più calunniati della storia il primo posto spetterebbe indubbiamente a Pio XII. Nonostante, l’ingente mole di documenti e testimonianze che affermano l’ostilità di questo papa verso le dittature nazifasciste e il suo aiuto a tutte le vittime dei totalitarismi, viene ancora descritto come indifferente di fronte alla tragedia dell’olocausto e, da taluni, persino complice del nazismo (come fa, ad esempio, Marco Aurelio Rivelli nel suo libro “Dio è con noi. La Chiesa di Pio XII complice del nazifascismo”). I motivi di questa accusa si basano quasi esclusivamente sul fatto che durante la guerra, il pontefice non denunciò pubblicamente il genocidio ebraico e così facendo si ignorano o si dimenticano le azioni effettivamente svolte sotto il suo pontificato.

Che Pio XII non potesse essere filonazista lo sì può dedurre dal semplice fatto che era in contatto con la resistenza tedesca e lui stesso fece da tramite tra loro e gli inglesi per appoggiare un complotto avente l’obbiettivo di spodestare Hitler, ma questo naufragò per via delle diffidenze inglesi (M. Hesemann, “Contro la Chiesa”, Milano 2009 p. 306). Vi furono altre azioni contro il nazismo: il Vaticano, ad esempio, avvisò il Belgio e l’Olanda dell’imminente attacco a sorpresa tedesco nel tentativo (non riuscito) di fermare l’invasione e fu anche preventivamente informato dell’Operazione Valchiria (A. Tornielli, “Pio XII: un uomo sul trono di Pietro”, nota 67 p. 606).

Per contro, Hitler considerò il pontefice un suo “nemico personale” e durante la guerra si ebbero delle notizie che affermavano che il dittatore tedesco avesse in mente di deportare il Papa. Gli storici sono divisi sul fatto se tale piano esistesse davvero o fosse solo una voce di propaganda, ma alcuni elementi possono indurre a pensare che il dittatore sarebbe stato in grado d’effettuare un piano simile. Si sa, infatti, che il Fhurer considerava Pio XII uno dei responsabili della caduta di Mussolini e nell’invadere l’Italia era intenzionato inizialmente a invadere anche il Vaticano e dichiarò ai suoi generali: «Io entro subito in Vaticano! Credete che il Vaticano mi preoccupi? Quello è subito preso: là dentro vi è tutto il corpo diplomatico. Non me ne importa nulla. La canaglia è là e noi tiriamo fuori tutto quel branco di porci». Il timore del Pacelli di essere rapito fu autentico e simile paura si era manifestata già dal 1941, ben due anni prima dell’occupazione dell’Italia! (R. Grahaman, “Voleva Hitler allontanare da Roma Pio XII?”).

Pio XII intervenne anche contro il fascismo. Non erano mancati, negli anni precedenti, accordi tra Mussolini e la Chiesa, ma l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista con l’introduzione delle legge razziali e l’entrata in guerra in fianco all’alleato tedesco, avevano gelato i rapporti. Del resto, Mussolini rimase sempre anticlericale sia per via del suo passato socialista mai del tutto sopito, sia perché intuiva che il Vaticano sarebbe stato un ostacolo al suo potere assoluto e spesso si rammaricava di non aver estirpato il papato che considerava il “cancro dell’Italia” (G. Zagheni, “La croce e il fascio”, Torino 2006 p. 260). Nel 1942 la principessa Maria José di Savoia decise d’agire per destituire Mussolini e far uscire l’Italia dalla guerra, ma per farlo occorreva saggiare la disponibilità degli alleati. Intuiva che il coinvolgimento del Vaticano sarebbe stato utile per poter far da tramite e per questo incontrò segretamente Giovanni Battista Montini (futuro Paolo VI) e gli espose i suoi piani. «Riferirò» rispose il prelato e informò Pio XII del colloquio chiedendogli di poter continuare i contatti. Non si conoscono le parole del Pontefice, ma si sa per certo che diede parere positivo perché Montini e la principessa si videro ancora e il prelato informò dall’interno del Vaticano che l’inviato speciale di Roosvelt presso Pio XII, Myron Taylor, aveva assicurato che l’America avrebbe visto con favore l’uscita dell’Italia dal conflitto. Tuttavia, il re Vittorio Emaneuele III, spiccatamente anticlericale,  informato del complotto mise il veto ai rapporti con la Santa Sede: «Niente preti» ordinò, e successivamente provvide a “esiliare” Maria José nell’eremo di Sant’Anna (S. Bertoldi. “Umberto e Maria Josè di Savoia”, Milano 1999 pp. 123-129). La diffidenza del Vaticano si manifestò anche durante la Repubblica di Salò attraverso alcuni atti concreti (rifiuto di riconoscere il nuovo stato, aiuto agli antifascisti, sostegno ai vescovi in contrasto con il regime, ecc.) tanto che Mussolini giunse ad incoraggiare un gruppo di sacerdoti scomunicati che minacciava uno scisma, e a pensare di rivedere il concordato per ridurre il potere della Chiesa nella società. (D. Mack Smith, “Mussolini”, Milano 1999 p. 499).

Riguardo all’Olocausto, basterebbe considerare il fatto che la Chiesa Cattolica  salvò centinaia di migliaia di ebrei senza contare tutti gli interventi diplomatici volti a fermare la persecuzione (riuscendoci in qualche caso): il maresciallo Horty, ad esempio, interruppe le deportazioni nel 1944 facendo presente ai tedeschi d’aver ricevuto proteste dal re di Svezia, dalla Croce Rossa e dal papa Pio XII (M. Gilbert, “La grande storia della seconda guerra mondiale”, Milano 2003 p. 634). Del resto, è indubitabile che una pubblica protesta avrebbe scatenato una feroce rappresaglia da parte di Hitler, impedendo ai preti e alle religiose che aiutarono gli ebrei di poter compiere la loro opera. Nonostante tutti questi fatti e nonostante siano stati scritti molti libri per confutare le false accuse sul papa, i pregiudizi su Pio XII rimangono. Ma del resto, come disse l’arcivescovo Alojzije Stepinac (anche lui fortemente calunniato) : «Nella mente di certe persone, la Chiesa Cattolica è colpevole di tutto».

Mattia Ferrari

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