“The New Scientist”: quando la scienza si occupa di Dio e della religione

Il celebre settimanale inglese di divulgazione scientifica, The New Scientist, ha pubblicato in un recente numero una serie di articoli su Dio e la fede religiosa.

Nell’editoriale, sottotitolato “La nuova scienza della religione ci dice dove laicisti vanno male”, viene confutata la teoria anticlericale contro l’educazione religiosa dei bambini (il centro del pensiero di Dawkins, per intenderci), spiegando che «i bambini sono nati pronti a vedere Dio all’opera intorno a loro e non hanno bisogno di essere educati a credere in lui». Questa, si legge, «è solo una delle tante recenti scoperte che stanno sfidando le critiche standard alla credenza religiosa. Conoscendo le radici biologiche della religione, sta diventando chiaro che i laici combattono spesso contro dei mulini a vento». L’altro dato, continua l’articolo, «è che tale credenza in Dio sembra incoraggiare le persone ad essere gentili tra di loro», chiaramente «gli esseri umani non hanno bisogno della religione per essere morali, ma questo aiuta».

«I laicisti», continua l’editoriale, «dovrebbero inoltre riconoscere la distinzione tra “religione popolare”, e la complessa “ginnastica intellettuale” che è la teologia. Attaccare la seconda è facile, ma potrà fare ben poco per minare la presa della religione». Si conclude così: «rivendicazioni religiose meritano un posto speciale nella vita pubblica […]. La religione è profondamente impressa nella natura umana e non può essere liquidata come un prodotto dell’ignoranza, indottrinamento o stupidità. Occorre riconoscere che i laici stanno combattendo una battaglia persa».

Tra gli articoli più interessanti c’è quello firmato dallo psicologo Justin L. Barrett, il quale scrive: «La stragrande maggioranza degli esseri umani sono nati “credenti”, naturalmente inclini a trovare interessanti affermazioni e spiegazioni religiose. Questo, mentre non ci dice nulla sulla verità o meno delle affermazioni religiose, aiuta a vedere la religione sotto una interessante luce nuova. Appena nati, i bambini iniziano a cercare di dare un senso al mondo che li circonda […]. Quando si tratta di speculare sulle origini delle cose naturali, i bambini sono molto ricettivi alle spiegazioni che richiamano un design o uno scopo». La semplicità dei bambini li porta a preferire spiegazioni che offrono ragioni per quello che vedono, respingendo spiegazioni basate sulla casualità. Lo psicologo mette in guardia dal fatto che «i bambini non sono nati credenti del Cristianesimo, nell’Islam o qualsiasi altra teologia, ma credenti in quella che io chiamo “religione naturale“: hanno forti tendenze naturali nei confronti della religione, ma queste tendenze non necessariamente li spingeranno verso un qualsiasi credo religioso». Lo psicologo confuta anche la teoria che credere in Dio sia equivalente a credere a Babbo Natale o alla fatina dei denti: «l’analogia comincia a indebolirsi quando ci rendiamo conto che molti adulti arrivano a credere in Dio in età adulta, dopo aver ripensato alle loro credenze infantili. La gente non inizia, o riprendere a credere, in Babbo Natale in età adulta». E’ evidente che non c’è nulla che regga il confronto con il Creatore dell’ordine naturale, oggettivamente percepito da chi ha un’esperienza di fede. Alcuni pensano che credere in Dio sia una cosa infantile, ma -risponde Barrett- anche se fosse, «perché l’etichettatura di idea come “infantile” dovrebbe renderla automaticamente cattiva, pericolosa o sbagliata? E’ vero che i bambini sanno meno degli adulti e fanno più errori di ragionamento, ma questo significa solo che dovremmo esaminare più attentamente le credenze dei bambini rispetto a quelli degli adulti». E conclude: «gli adulti hanno anche altre credenze, come la permanenza di oggetti solidi [cioè che gli oggetti esistono anche se non vengono osservati, Nda], la continuità del tempo, la prevedibilità delle leggi naturali, il fatto che le cause precedono gli effetti, che le persone hanno una mente, che le loro madri li amano e così via. Se credere in una divinità è una cosa infantile, lo stesso vale rispetto a questi tipi di credenze».

Un secondo articolo è firmato da Ara Norenzayan, psicologo sociale presso la University of British Columbia, ed è intitolato: “La religione è la chiave della civilizzazione”. Scrive: fin dai primi uomini, «la religione è stata il collante che ha tenuto insieme le società, spesso composte da stranieri». Lo è stata «per la maggior parte della storia umana», anche se «recentemente alcune società sono riuscite a cooperare con istituzioni secolari come i tribunali, polizia e meccanismi per far rispettare i contratti. In alcune parti del mondo, in particolare Scandinavia, queste istituzioni hanno provocato il declino della religione usurpando le sue funzioni di “community-building”». Il cristianesimo in Occidente ha posto le basi della civiltà, è giusto che siano le istituzioni secolari a proseguire. Non è il compito principale del cristianesimo quello di far “essere più buoni”, ma di dare un senso adeguato alla vita, di rendere felici perché coscienti del mondo.

Infine, nel sommario viene scritto: «nel nostro mondo illuminato, Dio è ancora ovunque. Nel Regno Unito ci sono gli argomenti rabbiosi dell'”ateismo militante” e il posto della religione nella vita pubblica. Negli Stati Uniti, la religione prende ancora una volta il centro della scena nelle elezioni presidenziali […]. Gli atei vedono spesso Dio e la religione come imposti dall’alto, un po’ come un regime totalitario. Ma la fede religiosa è più sottile e interessante di questo». In questo numero di “New Scientist” si vogliono proprio reimpostare i termini del dibattito: «piaccia o no, il credo religioso è radicato nella natura umana. E’ una cosa buona: senza di essa saremmo ancora a vivere nell’età della pietra […]. Soltanto capendo cosa è o non è la religione noi possiamo sperare di andare avanti».

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Barrie Schwortz, il fotografo ebreo convertito dalla Sindone

In Ultimissima 18/05/10 raccontavamo della conversione del famoso documentarista e regista, David Rolfe, dopo aver studiato la Sindone di Torino: «Ateo convinto e consapevole dell’esistenza di numerose reliquie false, ho prodotto il mio primo documentario sull’argomento, “The Silent Witness”, (Il testimone silenzioso) nel 1977, deciso di scoprire e mostrare come e da chi era stata contraffatta la Sindone. Non potevo pensare che ci fosse un’altra spiegazione […]. Il mio documentario, lungi dal rivelare la contraffazione, è divenuto un argomento affascinante per la probabile autenticità della Sindone […]. Noterete da come mi esprimo che nel corso della produzione sono divenuto credente e cristiano», ha raccontato.

Un’altra conversione molto simile è accaduta al fotografo ebreo Barrie Schwortz, responsabile della fotografia per il “Shroud of Turin Research Project” (STURP), il team che ha condotto il primo approfondito esame scientifico della Sindone nel 1978. Attualmente svolge un ruolo importante nella ricerca sulla Sindone e nella sua spiegazione e divulgazione. E’ editore e fondatore del sito Shroud of Turin Website (www.shroud.com). Schwortz è apparso in programmi e documentari di tutto il mondo, tra cui The History Channel, Discovery Channel, Learning Channel, National Geographic Channel, CNN, BBC, Fox News, Channel 1 Russia, le sue fotografie sono apparse in centinaia di libri e pubblicazioni tra cui National Geographic, Time Magazine e Newsweek. In una recente intervista, svolta presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum dove ha tenuto delle lezioni nell’ambito del corso per il Diploma di specializzazione in Studi Sindonici, ha raccontato come lo studio della Sindone lo abbia condotto a conoscere Dio e a essere un uomo di fede.

Ha iniziato parlando della Sindone: «All’inizio del mio lavoro, ero molto scettico sulla sua autenticità. Non provavo nessuna emozione particolare nei confronti di Gesù perché sono stato cresciuto come un Ebreo ortodosso. L’unica cosa che sapevo di Gesù era che anche lui era un ebreo, e questo era tutto. Esaminando la Sindone, ho capito subito che non era dipinta». Dopo 18 anni di studi, la convinzione completa è arrivata quando «il chimico del sangue Allen Adler, un altro ebreo che faceva parte del gruppo di studio, mi ha spiegato perché il sangue è rimasto rosso sulla Sindone. Il sangue vecchio doveva essere nero o marrone, mentre il sangue sulla Sindone è di un colore rosso-cremisi. Mi sembrava inspiegabile, invece era l’ultimo pezzo del puzzle. Dopo quasi 20 anni di indagini è stato uno shock per me scoprire che quel pezzo di stoffa era il telo autentico in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Le conclusioni a cui ero arrivato si basavano esclusivamente sull’osservazione scientifica».

Non ha dubbi Schwortz: «una volta giunto alla conclusione scientifica che il telo fosse autentico, sono arrivato a capirne anche il significato. Si tratta del documento forense della Passione, e per i cristiani di tutto il mondo è la reliquia più importante, perché documenta con precisione tutto ciò che viene detto nei Vangeli di ciò che è stato fatto a Gesù. Penso che ci siano abbastanza prove per dimostrare che quello è il telo che ha avvolto il corpo di Gesù». La verità su Gesù è compito della fede, lui specifica che «dal punto di vista scientifico quel telo ha avvolto il corpo dell’uomo di cui si parla nei Vangeli».

Lo studio della Sindone non lo ha solo convinto dell’autenticità, ma lo ha anche cambiato, evidentemente, anche a livello personale: «All’inizio dell’indagine, sapevo di Dio, ma non era molto importante nella mia vita. Non avevo pensato a Dio, da quando avevo 13 anni […]. Non ero molto religioso, era quasi un obbligo per la mia famiglia. Da allora mi sono allontanato dalla fede, dalla religione e da Dio, fino a quando non ho raggiunto i 50 anni. Quando nel 1995 sono arrivato alla conclusione che la Sindone era autentica, ho costruito il sito shroud.com. Ho iniziato a raccogliere il materiale e l’ho messo a disposizione del pubblico. Ho iniziato a parlare pubblicamente della Sindone intorno al 1996». Questo dualismo non poteva però continuare: «Quando la gente ha iniziato a chiedermi se ero un credente, non trovavo la risposta. A quel punto mi sono interrogato ed ho capito che Dio che mi stava aspettando. Ero davvero sorpreso di vedere che dentro di me c’era la fede in Dio. Fino a 50 anni avevo praticamente ignorato la fede ed improvvisamente mi sono trovato faccia a faccia con Dio nel mio cuore. In sostanza posso dire che la Sindone, è stato il catalizzatore che mi ha riportato a Dio». Ha concluso divertito: «Quanti sono gli ebrei che possono dire che la Sindone di Torino li ha portati alla fede in Dio?».

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Prosegue con successo la ricerca con le staminali adulte

Dal mondo della ricerca giungono nuove e confortanti notizie sulle potenzialità delle cellule staminali adulte per la cura delle malattie. I ricercatori dell’Istituto di neurobiologia ricostruttiva dell’Università’ tedesca di Bonn guidati dal Dr. Oliver Brüstle hanno messo a punto una nuova ‘ricetta’ per trasformare le cellule della pelle in neuroni con un’efficienza senza precedenti.

Già nel 2006  Shinya Yamanaka, scienziato giapponese, era riuscito a riprogrammare le cellule della pelle per la prima volta ottenendo le cosiddette cellule staminali pluripotenti indotte (cellule iPS). Nel 2010, Marius Wernig, con  il suo team è stato in grado di eseguire la trasformazione diretta di cellule della pelle in neuroni indotti (IN). Nonostante una ricerca molto attiva, tuttavia i risultati ottenuti non avevano finora garantito un cospicuo successo in ambito medico poiché solo una piccola percentuale delle cellule della pelle sono state trasformate nelle cellule nervose desiderate. Il risultato finale di questo studio però è stato strabiliante: le colture cellulari ottenute contenevano più dell’80% di neuroni umani. Secondo la ricercatrice quindi «in un futuro non troppo lontano queste cellule potrebbero essere utilizzate per rigenerare i tessuti danneggiati o distrutti da una grave patologia».

La “medicina rigenerativa” con le staminali non embrionali viene portata avanti anche al Policlinico di Milano, dove è stato avviato uno studio con le staminali del midollo osseo per verificare se potranno combattere anche il Parkinson. Sempre con le cellule del midollo osseo, si sta portando avanti una nuova tipologia di cura contro i tumori al cervello grazie alla collaborazione fra i ricercatori dell‘Istituto scientifico Romagnolo per lo Studio e la cura dei Tumori e il laboratorio di terapia molecolare neuronale del Massachusetts General Hospital. Secondo uno dei responsabili, il dr. Sturiale, cellule staminali adulte estratte dal midollo osseo del paziente oppure dal cordone ombelicale e dal tessuto adiposo possono essere un’arma devastante contro le cellule tumorali residue di gliomi asportati chirurgicamente, responsabili della rinascita del fenomeno tumorale nel paziente.

Le prove che le cellule staminali adulte ingenierizzate stanno venendo utilizzate in campo medico con maggiore efficacia di quelle estratte da embrioni umani. La portata di queste scoperte era già stata auspicata come eticamente plausibile, ancorché  non realizzata, in un documento pubblicato il 25 agosto 2000 dalla Pontificia Accademia per la Vita (“Dichiarazione sulla produzione e sull’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane). Andandolo a rileggere, infatti, si giunge ad un punto del testo nel quale si affermava che la «possibilità di utilizzare cellule staminali adulte per raggiungere le stesse finalità che si intenderebbe ottenere con le cellule staminali embrionali – anche se si richiedono molti ulteriori passi prima di vederne risultati chiari e definitivi – indica questa come la via più ragionevole e umana da percorrere per un corretto e valido progresso in questo nuovo campo che si apre alla ricerca e a promettenti applicazioni terapeutiche».

Una via che oggi appare ben tracciata, anche grazie ai finanziamenti che la Chiesa stessa si preoccupa di destinare alla ricerca nel settore delle staminali adulte. A tal proposito segnaliamo l’articolo apparso sull’Osservatore Romano del 22 marzo 2012 nel quale si parla del conferimento da parte dell’Arcidiocesi di Sidney, a due ricercatori, di un sussidio pari a centomila dollari per finanziare un progetto di ricerca sull’uso medico delle cellule staminali adulte.

Salvatore Di Majo e Marzio Morganti

 

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Palermo: leader dei radicali picchia candidato sindaco per avere le unioni gay

Lo storico militante del Partito Radicale Nonviolento, Gaetano D’Amico, presidente del comitato omosessualista “Esistono i diritti”, ha picchiato pubblicamente il candidato sindaco del centrosinistra Fabrizio Ferrandelli, nella città di Palermo.  Nessuna stigmatizzazione è arrivata per ora da parte di Emma Bonino, Maurizio Turco o Mario Staderini, sempre pronti ad annoiare i loro interlocutori con la parolina magica “non-violenza”, tanto da metterla perfino nel nome del loro partito.

Tutto ciò è avvenuto durante l’incontro organizzato dall’Arcigay, momenti in cui si fa indirettamente pressione sui futuri sindaci per promuovere l’agenda Lgbt. Il leader dei radicali di Palermo ha cominciato a urlare ai piedi del palco, poi -dopo aver tentato di impossessarsi del microfono- si è avvicinato al candidato colpendolo in pieno volto. D’Amico, fatto scendere dal palco dagli uomini della Digos, si è poi buttato a terra per non farsi portare via. Guarda caso, proprio pochi giorni fa il gay Simon Fanshawe accusava molti membri delle associazioni omosessuali di comportamento infantile. Comunque, nonostante la patetica scenetta , il radicale -nei giorni scorsi aveva anche insultato al suo arrivo a Palermo il leader Pd Massimo D’Alema- è stato trascinato per un braccio per qualche metro, per poi essere portato in questura.

Una delle presenti alla scena ha dichiarato: «Gaetano D’Amico, radicale e presidente del comitato “Esistono i diritti”, che diciamolo chiaramente non sta bene, in città lo conoscono in tanti». Ma cosa ha generato questo atto di violenza? Ovviamente la promozione omosessualista: «L’avversione di D’Amico nei confronti di Ferrandelli  nasce dall’approvazione da parte del consiglio comunale di una legge sulle unioni civili. Per essere applicata, aveva però bisogno di un mandato d’azione presso la Regione che non è avvenuto, perché è stato bloccato in commissione», ha spiegato Luigi Carollo, portavoce del movimento Lgbt a Palermo. Dunque una legge per le unioni civili non viene approvata velocemente e allora questo giustifica la violenza.

Un gesto simile di violenza omosessualista l’ha subita anche il sindaco di Madrid, Alberto Gallardon nel 2011, quando con moglie e bambini è caduto in un vergognoso agguato notturno (con insulti e minacce) davanti a casa da parte di un nutrito gruppo di attivisti gay. Il motivo? Il sindaco aveva posto delle limitazioni al rumore e alla musica dell’imminente Gay Pride, che solitamente viene sparata al massimo del volume durante la cosiddetta “fiera del nulla”. Pagata con soldi pubblici (anche di chi è contrario).

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L’attacco fallace di Sam Harris al libero arbitrio

Il nuovo pamphlet di Sam Harris, il noto filosofo rappresentante dei New Atheists, porta un titolo semplice e diretto: “Free will”. Memori dell’ultimo episodio che aveva visto Harris protagonista – di cui abbiamo dato conto nel nostro sito, ci aspettavamo una disamina sufficientemente equilibrata sul tema del libero arbitrio. In questo senso, siamo rimasti un po’ delusi.

Il filosofo statunitense pare essere riapprodato alle posizioni più radicali della corrente ideologica cui professa appartenenza. Il ritorno all’ovile appare totale, tanto più che le pagine del blog in cui pareva avesse manifestato opinioni non del tutto allineate con quelle ufficiali sono state oscurate, e sostituite dalla pubblicità del suo ultimo libro (si tratta degli articoli intitolati “Morality without free will”, “Free will: why you still don’t have it” e “You do not choose what you choose”). Della diatriba interna al New Atheism non rimarrebbe alcuna traccia, se non fosse per qualche fuggevole cenno in un thread di discussione sfuggito alle forbici dell’ipotetico censore.

Sebbene non ci interessi giudicare la coerenza delle opinioni altrui, ci sembra tuttavia che questa “ritirata” sia indicativa di un fatto: il tema del libero arbitrio costituisce ancora e sempre un nervo scoperto di ogni sistema di credenze ateo. Detto in altri termini, così come per un credente è dogma di fede l’idea che ognuno sia responsabile delle proprie azioni – fintantoché esse si possano considerare liberamente scelte – allo stesso modo per un New Atheist deve essere dogmatico che nessuno possa essere ritenuto, in ultima analisi, responsabile delle proprie azioni. Lascerei da parte, per il momento, ogni (pur doveroso) distinguo di carattere giuridico ed etico: del resto, lo stesso Harris fa notare che una concezione “minimale” di libero arbitrio deve obbligatoriamente permanere in ogni sistema legale moderno e futuro, al fine di consentire una civile convivenza tra i membri della società.

Tuttavia, mi sembra interessante chiedersi il motivo di tale categorica inflessibilità. La risposta è, secondo me, piuttosto semplice: anche una pur minima incrinatura nella concezione meccanicistica delle azioni umane mette a repentaglio i capisaldi della propaganda ateista. Questo è un passaggio logico di cui lo stesso Harris è evidentemente ben consapevole, ed è presto spiegato. Come è noto, una delle strategie di attacco alle religioni da parte dei New Atheists è il problema del male (“Perché il Creatore, che è infinitamente buono e tutto regge e governa, permette che ci sia tanto male nel mondo?”). A quanto pare, questo argomento risulta per molti un facile ed efficace confutatore della credenza in Dio. D’altro canto, basta un poco di riflessione – magari alla luce delle parole dei Padri della Chiesa – per individuare un contro‑confutatore, altrettanto efficace, nell’idea del libero arbitrio (“Dio ha creato il mondo libero in una certa misura, e l’Uomo in misura massima, in grado liberamente di scegliere tra bene e male”, qui un approfondimento). È logico, dunque, che ogni annuncio di “morte del libero arbitrio” – magari apocrifamente accreditato dalle ricerche neuroscientifiche – possa rappresentare una potente arma retorica a favore della causa ateista; ed è analogamente evidente che la confutazione (o perfino la ragionevole messa in dubbio) di tale annuncio tenderebbe a spuntare l’arma. Chiarito questo punto, possiamo passare ad analizzare il testo di Harris.

A mio parere, “Free will” vuole essere un’arma dialettica proprio del genere di cui ho appena detto, e la cosa salta subito all’occhio. Il filosofo, infatti, decide di affrontare il problema del libero arbitrio partendo dall’analisi di un delitto particolarmente efferato. Non ho alcuna intenzione di ammorbarvi con i dettagli della storia, che è piuttosto violenta; per proseguire la nostra discussione, basterà solo notare che a un certo punto Harris (a commento delle gesta di uno dei malviventi) afferma: «Se fossi stato davvero nei panni di Komisarjevsky il 23 luglio 2007 – cioè, se avessi avuto i suoi geni e la sua esperienza di vita e un identico cervello (o un’anima) in uno stato identico – avrei agito esattamente come ha fatto lui. Non c’è, semplicemente, alcuna posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale si possa negare ciò. […] Come possiamo dare un senso alla nostra vita, e ritenere le persone responsabili delle proprie scelte, data l’origine inconscia delle nostre menti consce? Il libero arbitrio è un’illusione». Ohibò. Appena ho letto questa dichiarazione mi sono detto: possibile che questo sia tutto l’armamentario argomentativo che Harris riesce mettere in campo? Francamente, mi sembra un po’ poco, e anche scarsamente fondato, sia dal punto di vista logico che da quello più strettamente scientifico.

Per esempio: che cosa intende esattamente Harris quando dice «Se fossi stato in lui, avrei fatto lo stesso»? Secondo me, l’unica posizione intellettualmente rispettabile in base alla quale egli può fare tale affermazione è la seguente: «Se gli fosse possibile tornare indietro nel tempo, Komisarjevsky [non Harris!] agirebbe nello stesso modo». Qualsiasi altra interpretazione implicherebbe una specie di incubo meta-cognitivo, secondo il quale qualcosa come l’”essenza vitale” di Harris sarebbe in grado di fare un viaggio di andata e ritorno nel corpo di Komisarjevsky, e di osservarne le azioni pur non determinandole direttamente – perché esse dipenderebbero, in ultima analisi, solo dallo stato fisico del cervello-ospite… bah! Onestamente, non potrei accusare nessuno di credere sul serio a un garbuglio del genere. In realtà, dunque, penso che Harris stia banalmente dicendo che accetta il determinismo ontologico, e che fonderà la sua analisi successiva su questa assunzione fondamentale. Il fatto è che sarebbe stato più onesto – a mio parere – se avesse dichiarato subito la sua personale adesione a questa particolare concezione filosofica, piuttosto che cercare di spacciarla per l’unica intellettualmente rispettabile.

Infatti, il determinismo ontologico non è affatto il solo schema teorico in grado di spiegare il funzionamento della realtà fisica: tutt’altro. Non starò qui a ridire i motivi di questa affermazione: ne ho parlato ampiamente in un precedente articolo. Basti osservare che la meccanica quantistica tende fortemente a escludere tale punto di vista (i tentativi di far rientrare il determinismo nella fisica moderna – le cosiddette teorie “a variabili nascoste” – non risultano a tutt’oggi particolarmente soddisfacenti). Ancora, Harris dà per scontato che non vi sia alcuna azione causale della mente sul cervello, ed esprime ciò mediante la lapidaria affermazione:”Il libero arbitrio è un’illusione”. Posizione filosofica, questa, che coincide con il riduzionismo materialista, e che è del tutto lecita: ma che, di nuovo, non è l’unica intellettualmente rispettabile. Anche di questo ho diffusamente parlato altrove (qui e qui), quindi non mi ci dilungherò oltre. Ricorderò solo che i risultati scientifici riportati da Harris non sono affatto univocamente interpretabili nel senso suggerito dal suddetto enunciato (e per la verità, si tratta sempre delle solite ricerche neuroscientifiche, vale a dire quelle di cui riferivo negli articoli appena citati).

Da questo punto in poi, l’esposizione del filosofo americano non è altro che lo sviluppo dialogico della tesi di fondo: la presunta illusorietà del libero arbitrio. Si tratta di una dissertazione piuttosto prevedibile, che non porta contributi conclusivi sul piano scientifico – e neppure convincenti argomentazioni filosofiche – e che pertanto non aggiunge niente di nuovo alla discussione sul libero arbitrio. In definitiva, dunque, nulla su cui valga la pena di soffermarsi.

Michele Forastiere

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USA, ondata di vocazioni religiose in arrivo: più giovani e più istruiti

Benedetto XVI, nella sua omelia del Giovedì Santo, ha ribadito la chiusura all’ordinazione femminile e al celibato opzionale (ne avevamo parlato anche noi). Il Pontefice ha colto l’occasione per indicare la vera strada di rinnovamento della Chiesa, che passa inevitabilmente dalla “gioia della fede” e non dalla spinta a “trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee”.

E in effetti, il rinnovamento auspicato dal Papa sembra stia arrivando, nonostante le prese di posizione dei “cattolici progressisti”, i quali dopo gli scandali della pedofilia nel clero nel 2002, davano già per morto il sacerdozio. Oggi i numeri dicono che le ordinazioni sacerdotali sono in costante aumento (lieve ma costante), per non parlare delle conversioni e delle vocazioni (non solo maschili) che “colpiscono” sempre più i giovani.

Ne ha dato notizia il “Wall Street Journal” in un articolo intitolato: “Il cattolicesimo tradizionale sta vincendo“, in cui si è parlato dell”«ondata di candidati sacerdotali» che sta investendo i seminari americani. Addirittura quello di Boston (diocesi-epicentro dello scandalo-pedofilia) ha dovuto allontanare i candidati per mancanza di spazio, mentre  l’arcidiocesi di Washington DC  ha ampliato le sue strutture e sta prendendo in considerazione l’idea di costruire un nuovo seminario nei pressi di Charlotte. Considerato il problema dei nostri giorni, in cui si parlava spesso di mancanza di sacerdoti, questa non può non essere una notizia più che positiva, e la Chiesa -mediante il suo Ufficio Centrale di Statistica-, ha rilevato che ci sono più di 5.000 preti cattolici in più in tutto il mondo nel 2009, rispetto a quelli che c’erano nel 1999«Il futuro è incoraggiante», commenta l’articolista.

Si parla anche della «vecchia generazione di progressisti, che continua a fare pressioni per cambiare la dottrina cattolica in materia di diritti riproduttivi, matrimonio omosessuale e l’ordinazione delle donne. Ma è stata sostituita da giovani uomini e donne che sono attratti alla chiesa proprio grazie all’eternità dei suoi insegnamenti. Sono attratti alla filosofia, l’arte, la letteratura e la teologia che rendono il cattolicesimo controculturale. Sono attratti dalla bellezza della liturgia e l’impegno della Chiesa per la dignità della persona»Uno studio condotto dalla Georgetown University ha confermato che gli uomini e le donne che hanno professato i voti perpetui nel 2011 sono più giovani e più istruiti di quelli del passato.  Quasi il 60%, infatti, aveva conseguito almeno un diploma di laurea, mentre il 16% aveva conseguito anche la laurea. Secondo altri studi si apprende che negli USA ogni anno si convertono al cattolicesimo ben 120.000 adulti, che decidono poi di farsi battezzare.

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Teilhard de Chardin aveva ragione? La vita si muove da sola?


 
 
di Umberto Fasol*
*preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico

 

«L’evoluzione è caratterizzata dal muovere verso: della materia verso la complessità e della vita verso la complessità e la coscienza.» (Ludovico Galleni, editoriale della Nuova Secondaria n°8, 15 aprile 2012). Il professor Galleni, noto docente di zoologia all’Università di Pisa, propone la lezione di Teilhard de Chardin quale soluzione della grande antitesi presente nel dibattito contemporaneo tra il materialismo riduzionista del neodarwinismo da una parte e il creazionismo esplicito del Disegno Intelligente dall’altra.

In altre parole, secondo il professore, il Progetto in natura esiste, ma non va cercato al di fuori, bensì dentro la materia stessa. Sembra una soluzione elegante del problema: Dio esiste e l’evoluzione spontanea pure. Le cose però non sembrano essere così semplici. La domanda che sorge immediata di fronte a simili affermazioni è infatti questa: “Come fa la materia a muoversi verso una direzione se non è consapevole di quello che fa?”. E ancora: “Può esistere un movimento direzionale senza un obiettivo consapevole da raggiungere?”. E questo obiettivo è dentro la materia che si muove o è là, in fondo al percorso, ad attenderla?

In queste affermazioni, cioè, si attribuiscono alla materia proprietà che essa non ha.  Né il carbonio, né l’idrogeno o l’ossigeno possono conoscere il loro destino all’interno di una cellula: sono atomi e basta, privi di qualunque informazione morfogenetica.  Stanno bene da soli e non si uniscono in modo organizzato e teleonomico se non subentra una causa esterna a scuoterli dalla loro inerzia (proprio come quello che si dice nel primo principio della dinamica). No. Non credo che possa essere così. Se la materia si muove nella direzione della vita è solo perché “è mossa” dall’esterno.  Nessuno può darsi quello che non ha!

Oppure, in alternativa, dobbiamo ammettere che, se questa materia grezza  è capace di autoorganizzarsi per formare una struttura infinitamente complessa, dinamica e omeostatica come la cellula, allora significa che è “di natura divina”: sa quello che deve fare e lo fa. Tra le due ipotesi certamente è da preferirsi la prima. Le proprietà della materia sono infatti: la massa, la carica elettrica, l’elettronegatività, ecc… ma in nessun caso l’informazione cosciente: è la fisica sperimentale a rivelarcelo. Siamo al punto di partenza. Quello di Aristotele: “ogni corpo che si muove, è mosso”. 

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Negli USA i sopravvissuti degli ateismi di stato ospiti in televisione

Durante la sua trasmissione, Glenn Beck, un presentatore televisivo americano, ha ospitato un gruppo di sopravvissuti ai regimi comunisti di tutto il mondo, tra cui Cuba, Cambogia, Germania Est e diversi paesi dell’ex Unione Sovietica. Essi hanno descritto le terribili persecuzioni subite, come la privazione da cibo, la persecuzione religiosa, la confisca dei soldi, la prigionia, l’attacco alla libertà personale e  familiare.

Essendo la gran parte dei regimi comunisti guidato ufficialmente dall’ateismo di Stato (ancora oggi è presente in Cina e in Corea del Nord), coloro che hanno sofferto maggiormente sono stati i credenti. Molto infatti si è parlato dei tentativi dei vari gerarchi atei di eliminare Dio dalla sfera pubblica e privata, proponendo però come alternativa “l’onnipotenza” dello Stato. Uno dei sopravvissuti, viene divulgato su “The Blaze (dove è possibile visionare il video della trasmissione) ha raccontato che le autorità “insegnavano” ai bambini a riferire loro se sotto il letto dei genitori trovavano una bibbia. Nessuno si poteva più fidare di nessuno, la popolazione viveva completamente in uno stato di paranoia.

Una cosa simile è stata raccontata dalla poetessa russa Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, la quale ha raccontato che nelle università dell’Unione Sovietica era obbligatorio frequentare il corso di ateismo scientifico, sottolineando che c’era proprio la volontà di diffondere tale ideologia esistenziale. E ancora: «in epoca sovietica andavo al cimitero, dove si aveva paura di far mettere le croci sulle tombe», tuttavia «nessuno dei progetti utopici del regime come l’ateismo di stato o l’arte e le scienze manipolate dall’ideologia riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione hanno generato fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi». Un’altra “martire” è la lituana Nijole Sadunaite, condannata nel 1975 a tre anni di lager a regime duro per aver difeso con decisione la libertà di religione.

Dopo la ghigliottina del secolo dei Lumi e i crimini del XX secolo, nessuno potrà più osare progettare una società senza Dio.

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L’embriologia, l’evoluzione e l’evidenza del “progetto”


  
  
di Umberto Fasol*
*preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico

  

L’embriologia è sempre stata un grandissimo spettacolo per i biologi, ma anche per tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vedere qualche filmato o qualche ecografia in gravidanza. Forse è veramente il “più grande spettacolo dopo il big bang”, come giustamente canta Jovanotti.  L’embrione è il motore di tutti i processi che portano alla sua formazione: non si può spiegare né la spermatogenesi né la ovogenesi con il suo meraviglioso ciclo mensile se non a partire dal nuovo essere che prende il via dall’incontro tra due cellule uniche che dimorano in due corpi diversi e che non conoscono nemmeno l’esistenza l’una dell’altra. Questo è veramente misterioso!

Ciascuno di noi ha iniziato l’avventura della vita a partire da un incontro tra due cellule che non si conoscono e che dovrebbero anche, in teoria, respingersi a vicenda, come accade nei contatti tra xeno tessuti.  Lo spermatozoo penetra la cellula uovo come un ago che entra nel dito: perché lo può fare?  E’ un caso unico tra le cellule del nostro corpo e tra le cellule in generale del mondo animale. Eppure il richiamo della vita nuova è insopprimibile: bisogna creare un figlio.  Non si può invecchiare ed estinguersi. Poi accade il più grande spettacolo dell’Universo: in poche settimane, quaranta nel nostro caso, da una cellula sferica si formano miliardi di cellule, tutte al loro posto, costruendo un essere capace di piangere, di ridere, di mangiare, di scaricare, di pensare e di … farsi amare! Da uno a 254 tipi di cellule diverse. Com’è possibile tutto questo?

La moderna evo-devo, ovvero evolutionary developmental biology, ce lo spiega. «Gli interruttori genetici funzionano come sistemi GPS.  Proprio come questi calcolano la posizione della vettura integrando diversi stimoli, gli interruttori integrano informazioni spaziali nell’embrione rispetto a longitudine, latitudine, altitudine e profondità e definiscono le aree in cui i geni sono attivati e disattivati.» (pag. 109, Sean Carroll, “Infinite forme bellissime”, Codice 2006).  Questa è l’immagine centrale del moderno pensiero della “nuova scienza dell’Evo-Devo”, come recita il sottotitolo del bello libro del genetista Carroll: gli interruttori genetici sono i registi occulti della vita che, a seconda della sinfonia che dirigono, determinano una forma bellissima piuttosto che un’altra e, al contempo, la possono trasformare l’una nell’altra, senza mai interrompere la musica. Sono addirittura potenti e intelligenti come il Global Positioning System! I due massimi problemi della biologia teorica, l’ontogenesi e l’evoluzione, sono risolti con un solo termine, “il gene interruttore”: la forma della vita è la manifestazione visibile della sua regia e l’evoluzione della vita è il suo flusso ininterrotto nel tempo, per mutazione.

Sean Carroll è professore di Genetica all’University of Wisconsin e la sua attività scientifica è considerata fondamentale per la comprensione della nuova versione dell’evoluzione, la “Evo-Devo”.  Questo libro ne è una importantissima sintesi per il grande pubblico e porta infatti la prefazione di Telmo Pievani.  Vediamo il problema dell’ontogenesi. Ogni organismo deriva da una cellula sola, sferica e omogenea.  Dove si trovano le istruzioni per il montaggio di tutti gli organi di cui è fatto l’animale? Come fa la testa a prendere la forma che ha e come fa ad assumerla in quella posizione? E la stessa domanda vale per i denti, per gli occhi, per il cuore, per i piedi, per le unghie, ecc… E ancora: ciascuna cellula di ogni tessuto (oltre 200 tipi nel corpo umano) possiede gli stessi geni di tutte le altre, eppure la cellula dell’occhio ha un metabolismo molto diverso da quello della cellula del femore o ancora della cellula di un nefrone; questo accade grazie all’attività di alcuni geni e al silenziamento di altri.  Ma chi o che cosa decide questa scelta? Ecco la scoperta di Carroll: gli interruttori sono i responsabili ultimi di ciascuna fase dello sviluppo dell’embrione e sono attivati tra loro a cascata: quelli ora attivi sono stati indotti da altri precedenti e a loro volta ne stimoleranno nuovi. Ma cosa c’è all’inizio di tutto? Qual è la prima mossa nell’uovo fecondato? E’ la definizione di due poli nella sfera dell’uovo. E’ la creazione dell’asse principale, quello cefalo-caudale.

Segue immediatamente la determinazione degli altri due assi, quello ventre-dorsale e quello latero-laterale.  Sembra che gli assi si creino attraverso la distribuzione a gradiente di una o più proteine (tra cui la cordina nei vertebrati). Una volta determinate le coordinate fondamentali (le tre dimensioni dello spazio) dell’embrione entrano in azione i geni Hox, che costituiscono il kit degli attrezzi per il suo montaggio. I geni Hox sono una pietra miliare nell’Embriologia contemporanea.  Nella Drosophila sono otto, tutti co-lineari con le strutture anatomiche che si sviluppano lungo l’asse cefalo-caudale, ovvero il primo, lab, crea le labbra e l’ultimo, Abd, crea il segmento anale. La parte homeobox  (sequenza di Dna) dei geni della Drosophila si ritrova pressochè identica anche nel topo o nella rana, manifestando per di più la stessa colinearità e la stessa organizzazione in cluster. Questo significa che le diverse forme animali sono solo varianti dello stesso tema: non sono disegni nuovi e diversi tra loro. Quello che importa è che questi geni costituiscono il Kit degli attrezzi per il montaggio degli animali e sembrano essere abbastanza universali.

La prima mossa, si diceva, è la determinazione dei poli, la successiva, quella degli assi. Segue un altro passaggio incredibile per la complessità: la suddivisione del corpo embrionale in spicchi di longitudine e latitudine (come accade per la Terra), di dimensioni via via più piccole. Ad ogni spicchio viene quindi assegnata un’identità precisa (un somite, un cuore, uno stomaco,…).  La formazione dell’organo specifico procede ora attraverso una ridefinizione di un nuovo “micro-mondo” con poli, meridiani e paralleli… e avanti di nuovo! Ogni cellula sa quello che deve fare in funzione della sua posizione nell’embrione. E’ l’unico modo per spiegare la morfogenesi, il più grande spettacolo sulla Terra: contemporaneamente si sviluppano ex novo tutti gli organi di cui è fatto l’organismo, a partire da un uovo indifferenziato, tutto uguale e privo di qualunque minima bozza di ciò che sarà dopo qualche settimana! Tutto procede “come se” il prodotto finito (l’embrione sviluppato) agisse attirando a sé ogni cellula, assegnandole il compito che deve svolgere nel tempo: è “come se” la vita non si costruisse per tentativi, ma sapesse chiaramente quello che deve fare con assoluta certezza, istante per istante e posizione per posizione. Tutto questo fa pensare.

Vediamo ora il problema dell’evoluzione. La chiave dell’evoluzione consiste  nelle mutazioni a carico dei geni interruttori, che creano nuove geografie di accensione dei geni; a queste nuove geografie corrispondono più somiti o più appendici o diverse appendici come le ali rispetto agli arti. Non ho lo spazio per dilungarmi su questo tema, ma è già stato detto molto per tirare qualche conclusione: bellissimo il libro, complimenti a Carroll e a tutta la squadra di ricercatori più o meno noti che hanno lavorato per mesi o talora per anni per scoprire la funzione anche di un solo gene. I dati sono tutti merito loro; le loro interpretazioni, ora, si devono discutere insieme: è così che la scienza progredisce. Vorrei riprendere l’immagine iniziale del GPS: paragonare il nostro DNA ad un sistema integrato high tech significa attribuirgli una complessità ed una intelligenza che non sono attributi riferibili ad una molecola.  E’ fin troppo evidente la sproporzione tra un interruttore e l’animale che bisogna costruire. L’acido desossiribonucleico non è capace di “integrare informazioni spaziali e trasformarle in ordini esecutivi differenziati e direzionati”, perché è solo un acido.  E’ il suo “codice” che lo rende intelligente e quindi capace di ricevere e di trasmettere informazioni.  Ma che cos’è questo codice e da dove viene?

Si potrebbe fare un piccolo passo di logica e riconoscere che nei geni interruttori giace un surplus di “istruzioni” che è distinguibile dalla materia, così come accade in ogni comunicazione, dove il suo “senso” è separabile dalla materia che la veicola. Quindi, la causa ultima deve precedere i geni interruttori, per poterli informare. Spiace inoltre, lo devo confessare, che in tutte le 300 pagine del libro, a fronte di descrizioni di fenomeni veramente meravigliosi e stupefacenti come la formazione di animali, di organi e di arti (vi è forse qualcosa di più grande che i nostri occhi possono contemplare?), non si ricorra mai ai concetti che affiorano ovunque:  il ”progetto” e la “finalità”. Personalmente, dopo anni di riflessioni sulla biologia, ritengo che la causa ultima dei processi che si snodano mirabilmente, dalla fecondazione in poi, senza soluzioni di continuità, senza sforzi, senza ripensamenti, per forze solo interne, senza errori, sia proprio l’obiettivo da raggiungere: il corpo dell’animale. I geni interruttori agiscono in modo corretto solo se sono “consapevoli” del progetto completo, di cui costituiscono solo che una parte: ogni cellula conosce le proprie coordinate geografiche e in base a queste sa quello che deve fare. La cellula non procede per tentativi (“vediamo quello che succede”) ma per scelte decise tra infinite possibilità!

Sono “le chiavi in mano” del prodotto finito a determinare tutto il flusso di informazioni che gorgoglia dall’uovo fecondato, in una modalità che, secondo me, percepiamo solo a tratti. A tratti, perché la “consapevolezza del progetto” non può essere racchiusa in un pezzo di DNA, così come in altre molecole. Più si studia la “vita” e più ci si accorge che è qualcosa di grande, che deborda sempre dai confini che le abbiamo disegnato intorno: è fatta di cellule ma si serve di queste, le muove e le organizza come un vero e proprio manager che sa quello che vuole. I Fatti mostrati dell’embriologia sono che la consapevolezza del progetto comprime lo spazio della casualità e dilata lo spazio dell’informazione.  Il campo morfogenetico, ovvero il paesaggio che canalizza tutte le mosse dello sviluppo precede ogni evento. Come le leggi della fisica precedono il comportamento della materia, così le leggi dello sviluppo precedono i processi dell’embrione, che sono destinati alla perpetuazione del modello di specie cui appartiene. Le forze interne che costringono le infinite mosse del processo morfogenetico sono fortemente stabilizzate e non consentono variazioni di alcun tipo, pena la malformazione o l’aborto.

Non si vede dove possa collocarsi lo spazio per la trasformazione di un piano di sviluppo in un altro, in modo repentino, come afferma il saltazionismo degli equilibri punteggiati di Gould e di Eldredge. Il gradualismo nell’evoluzione appartiene ormai al passato (eccetto che nei libri di testo scolastici); ma il saltazionismo non trova alcuna complicità nello sviluppo dell’embrione, come invece vorrebbe la moderna teoria dell’Evo-Devo. Tutte le mutazioni dei geni Hox che conosciamo in Drosophila portano a “mostri” o comunque a varianti non significative dal punto di vista dell’evoluzione. L’origine dei paesaggi morfogenetici tipici di ciascuna specie rimane ancora un grande mistero e la ricerca rimane aperta, più di prima. In conclusione: tutto accade nella “vita” come se ci fosse un “protagonista” invisibile… tant’è vero che  pensa addirittura a riprodursi (!)… ma certamente non per la decisione di un gene-interruttore.

Da: “Evoluzione: i fatti e le teorie”, Convegno di studi, Verona, Palazzo della Gran Guardia 29/03/12

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L’insostenibile leggerezza del neodarwinismo


 
di Giorgio Masiero*,
*fisico e docente universitario

e Michele Forastiere*,
*insegnante di matematica e fisica

 
 
 

In un recente articolo abbia mostrato i limiti scientifici del neodarwinismo e persino la sua contraddizione con il naturalismo. In aggiunta ai commenti dei lettori apparsi sul sito, abbiamo ricevuto privatamente molte mail con richiesta di delucidazioni e quantificazioni, cui ci proponiamo di rispondere in questo articolo.

Ricordiamo che il neodarwinismo è riconducibile allo schema monodiano, che vede nel gioco esclusivo di Caso & Necessità, agenti a livello di DNA, le condizioni sufficienti all’insorgenza di organismi sempre più complessi, dalle forme prebiotiche fino all’uomo. Il neodarwinismo identifica il motore dell’evoluzione nella successione graduale di mutazioni genetiche provocate per caso, i cui effetti fenotipici sono poi selezionati col criterio della sopravvivenza del più adatto (necessità). In questa visione, la ricca evidenza paleontologica e genetica dell’evoluzione (la speciazione asincrona di organismi a contenuto informativo crescente insieme alla desunzione di appartenenza di specie simili ad antenati comuni) assegna un ruolo smisuratamente prevalente del caso. L’evoluzione è un fatto, ciò che appare insufficiente è che il caso (più la selezione naturale, che però al livello fisico di DNA assume il ruolo d’improbabile comparsa) sia l’unica risorsa per spiegare l’origine di specie nuove ad informazione genetica crescente e di tutte le forme biologiche esistenti, compreso l’uomo. In altri termini, il caso diventa in questo paradigma l’alibi all’assenza di spiegazioni scientifiche, assume il ruolo di onnipresente “god of the gaps” e rischia di bloccare così linee di ricerca alternative.

L’aberrazione appare particolarmente evidente con la speciazione umana, e in particolare in quello che abbiamo definito “effetto Ramanujan”: vale a dire, nella constatazione che l’abilità matematica umana, intesa come prestazione biologica del cervello di H. Sapiens Sapiens, si è costituita da subito in una capacità sovradimensionata rispetto alle esigenze di fitness selettiva. La soluzione proposta dal neodarwinismo di considerare la capacità astrattiva e matematica umana come un carattere gregario correlato ad un altro genuinamente adattativo (quale per es. il bipedismo) non può essere considerata una spiegazione scientifica nemmeno in termini coerenti con il paradigma, finché non si indica la necessità, ovvero il meccanismo fisico responsabile della correlazione tra i due caratteri. Emerge l’assenza di un’appropriata legge fisica capace di spiegare come ciò potrebbe avvenire, superando la spinta contraria dell’entropia.

Qual è la probabilità che in una popolazione si fissi un carattere (allele) mutato, neutro rispetto alla selezione? La vita, anche al livello più elementare di un batterio, è informazione e in matematica l’informazione non è il caso, ma per definizione il suo opposto. La quantità d’informazione  è collegata alla sua probabilità P dall’equazione di Shannon:

P = 2I,

da cui si evince che ad un’alta quantità di informazione corrisponde una bassa probabilità e viceversa. Così, se tirando una moneta a testa (T) o croce (C) comunico di aver fatto C, poiché la probabilità dell’evento C è 1:2 = 2-1, l’informazione che ho dato vale 1 bit, che è il quanto minimo d’informazione: c’erano 2 possibilità, T o C, ed ho comunicato quale si è attuata. Se invece comunico una successione esatta di 8 uscite di lancio (per es., TCCTCTTT), poiché la probabilità di questa stringa è 1:28 = 1:256 = 2-8, l’informazione che ora dò vale 1 byte ≡ 8 bit. Con 8 lanci ci sono 256 possibilità equiprobabili, ed ho comunicato quella di 256 che si è avverata: l’informazione è maggiore, vale 1 byte. Un 13 al totocalcio contiene un’informazione ancora maggiore, 21 bit, perché la sua probabilità è 1:313 ≈ 1:221 = 2-21. Maggiore è il numero delle forme diverse in cui un evento può potenzialmente manifestarsi, maggiore è la quantità d’informazione contenuta nella sua forma attualizzata.

Quanta informazione c’è nel genoma umano? Secondo J.C. Venter, esso contiene 3.200 Mbyte, di cui solo il 37,5% (1.200 Mbyte) è utile, perché codificante o comunque composto di geni e sequenze correlate. Quale sottostruttura della “quota utile” è dedicata alle funzioni astratte della mente? Lo “Chimpanzee Genome Project” ha tra i suoi scopi la comparazione tra i genomi degli umani e quelli delle scimmie, per comprendere che cosa distingue i primi. Non è ancora stata eseguita l’intera scansione del DNA dello scimpanzé, ma con riferimento ai campioni finora esaminati (33,3 megabasi del cromosoma 22), la distanza in termini d’istruzioni emersa tra uomo e scimmia è l’1,44%. Assumendo che tale percentuale sia omogeneamente distribuita in tutto il genoma e, soprattutto – secondo una delle assunzioni fondamentali del neodarwinismo – che tutte le differenze tra le specie siano riducibili al DNA, se ne deduce che la “caratteristica” genetica umana sta in 17 Mbyte.

Facciamo ora l’assunzione che la mutazione che porta all’effetto Ramanujan sia dovuta all’apparire casuale di una specifica proteina che regola la crescita e/o la connessione di particolari strutture neurali. Una proteina media ha la lunghezza di 300 amminoacidi ed ogni amminoacido è codificato da 3 basi: dunque, il nostro gene richiede una stringa di 900 bit (abbiamo prudentemente dimezzato i 1.800 bit canonici, tenuto conto che il codice genetico è degenerato, alcune mutazioni sono silenti e molte posizioni lungo la sequenza portano alla stessa struttura 3D). Questo equivale ad assegnare alle funzioni più astratte della mente un peso dello 0,005% sulla caratteristica genetica umana, che sarebbe giudicato forse troppo basso da Aristotele che ripartiva le funzioni vitali in 3 componenti: la vegetativa, la sensitiva e l’intellettiva. Se si deve “soltanto” al caso senza l’azione di una legge selettiva la formazione di questa sottostruttura del genoma, a priori il numero di stringhe è 2900 ≈ 10271, che ripartito in centinaia di migliaia di anni tra decine di migliaia di generazioni di una popolazione totale dell’ordine di alcuni miliardi d’individui (~ 1010) fornisce il valore P ~ 10-261 ≈ 0. Se invece assumiamo l’arco di tempo a partire dall’abiogenesi (~ 3,5 × 109 anni), con l’enzima apparso da subito e rimasto quiescente fino ad oggi in tutti gli organismi derivati dal primo, otteniamo un limite superiore  P < 10-221 ≈ 0, tenuto conto che gli atomi della Terra sono dell’ordine di 1050.

Un’altra stima, del tutto indipendente, si può ottenere supponendo che una prima forma del nostro enzima (lunga magari solo un centinaio di amminoacidi) sia apparsa per caso fin dalla nascita della vita – nel cosiddetto “brodo primordiale” – e sia stata poi in qualche modo codificata nel DNA, rimanendo sepolta in sezioni neutre del pool genico complessivo della biosfera fino alla comparsa del primo H. Sapiens Sapiens. Sotto questa ipotesi, possiamo avvalerci del metodo di calcolo delle probabilità messo a punto da E. Koonin e presentato qui qualche tempo fa. Questa volta, nelle ipotesi di Koonin (1021 pianeti adatti a ospitare la vita, un tasso di sintesi di 1 molecola/cm3×sec per un tempo di 10 miliardi di anni), la probabilità della comparsa spontanea di tale proteina da qualche parte nell’Universo, in tutto il tempo trascorso dal Big Bang, risulta dell’ordine di 10‑119. Per un’ulteriore comparazione, può essere utile il calcolo della probabilità di autocomposizione casuale di un organismo monocellulare, che il fisico inglese F. Hoyle eseguì negli anni ‘80, immaginando un modello di batterio astratto con un DNA semplificato, capace di programmare soltanto 400 proteine. Egli trovò P ≈ 10‑40.000, che è un valore compatibile con quello da noi calcolato per una sola proteina, anziché 400. Un valore analogo è stato ottenuto anche dal chimico e genetista americano R. Shapiro nel 1986 per un batterio di 2.000 proteine.

In conclusione, tutti i valori trovati risultano inferiori alla cosiddetta soglia di impossibilità assoluta di 10-100, introdotta dal matematico francese G. Salet. Detto in altri termini, l’effetto Ramanujan, e più in generale la comparsa di una singola proteina, è da considerarsi un evento impossibile, se inquadrato esclusivamente nell’ambito del neodarwinismo. Fu lo stesso F.H. Compton Crick, scopritore insieme a J.D. Watson della struttura del DNA (che valse ai due biologi il premio Nobel 1962 per la medicina), ad ammettere: «Se una particolare sequenza di aminoacidi fu selezionata a caso, quanto raro potrebbe essere un tale evento? […] La gran parte delle sequenze [necessarie al DNA] non potrà mai essere sintetizzata del tutto, in nessun tempo». Queste parole sono la traduzione genetica del dilemma di Wallace, dell’effetto Ramanujan e più in generale dell’enigma dell’origine della vita. Allorché J. Monod, parlando dell’emergenza della vita, scrisse nel suo saggio “Caso e necessità” che «il nostro numero è uscito per caso alla roulette cosmica», si espresse con una metafora adatta forse ad un libro di divulgazione, ma non con la precisione che si richiederebbe ad un saggio scientifico. Per vincere la puntata massima alla roulette, infatti, le probabilità sono 1:37; perché si combini casualmente la più semplice cellula di sole 400 proteine, invece, esse sono 1:1040.000 ≈ 1:3725.507: Monod avrebbe dovuto dire per la precisione che, non tanto “noi” umani, ma già gli organismi unicellulari a capo della catena biologica hanno vinto la puntata massima alla roulette per almeno 25 mila volte di seguito!

S.J. Gould e R. Lewontin sono stati i pionieri nella denuncia del ruolo smisurato giocato dal caso nel neodarwinismo. Chi, come R. Dawkins, si era inizialmente rifugiato nel nebuloso concetto di “cernita cumulativa”, ora ha trovato nelle infinite possibilità di replica fornite dalla metafisica del multiverso, la sua consolazione. Schiere crescenti di scienziati, tuttavia, non si rassegnano a fondare la biologia su basi così anti-sperimentali, e addirittura anti-scientifiche (perché contrarie alle leggi statistiche), solo per non toccare ideologie di moda ed interessi forti: oltre ai “revisionisti”, ci sono molti studiosi che vanno ormai oltre la cosiddetta “nuova sintesi” (fusione di genetica ed evoluzionismo darwiniano) considerandola superata: G. Dover, J. Fodor, E. Koonin, L. Kruglyak, L. Margulis, S. Newman, M. Piattelli Palmarini, C. Woese,… Se non si è disposti ad accontentarsi d’un ricorso ripetitivo alla roulette, se anzi si considera questa scappatoia la via opposta ad un’autentica ricerca scientifica, occorre pensare a qualcosa di nuovo.

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