L’astronomo Brescia: «da cattolico sostengo l’autonomia della scienza»

L’astronomo italiano Massimo Brescia, docente di Tecnologie Astronomiche all’Università Federico II di Napoli e ricercatore presso l’Inaf (‘Istituto Nazionale di Astrofisica) presso l’Osservatorio astronomico di Capodimonte, dal 2006 membro dell’International Astronomical Union (IAU), ha rilasciato recentemente un’intervista sulla storia dell’astronomia e la situazione sulla ricerca in Italia.

Giustamente si è lamentato del «continuo taglio ai finanziamenti per la ricerca di base», rivelando che «l’Astronomia è una delle discipline più colpite, nonostante l’attivismo, l’intelligenza e la capacità di resistere della comunità astrofisica italiana», e ha anche spiegato come secondo lui il vero artefice della rivoluzione scientifica non è Galilei ma Leonardo da Vinci, il quale introdusse per primo «il metodo sperimentale come pietra miliare della speculazione scientifica moderna. Purtroppo era disordinato e troppo occupato a curiosare ovunque per scrivere trattati sistematici sulle teorie e scoperte che compieva su base quotidiana».

Sulla sua carriera scientifica ha parlato di uno degli ultimi progetti, legato al connubio tra Astrofisica e Informatica, ovvero il progetto DAM e ha anche risposto ad una domanda sull’attività della Specola Vaticana, ovvero un’organizzazione scorporata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), anche se i risultati che si raggiungono vengono pubblicati su riviste internazionali. E’ uno degli Osservatori astronomici più antichi del mondo, risale risale alla seconda metà del secolo XVI, ed è dipendente dalla Santa Sede. E’ in questo osservatorio che Padre Angelo Secchi divenne fondatore della spettroscopia astronomica, diventando il primo ricercatore della storia a classificare le stelle in classi spettrali.

Il dott. Brescia stranamente non ha una grande stima per tale Osservatorio, ritenendo che non sia un «valido esempio di coniugazione tra scienza e fede. Per un motivo molto semplice: non pone scienza e fede sullo stesso piano, ma usa la prima per cercare testimonianze naturali alla seconda. E’ dunque utile e legittima sicuramente, ma non ha la prerogativa suprema della ricerca scientifica: la libertà da qualunque condizionamento del pensiero umano e da dogmi non dimostrabili scientificamente». Dubitiamo fortemente, tuttavia, che l’utilità della Specola Vaticana voglia essere il tentare di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio. Sorprende davvero questa affermazione. L’astronomo parla invece con grande realismo dell’argomento tra scienza e fede: «pur essendo un cattolico credente e praticante, ritengo che la scienza debba essere fine a se stessa per poter raggiungere in totale autonomia ed indipendenza le scoperte che rivelino le leggi che governano l’Universo e la natura umana. Qualunque condizionamento assoggetta la scienza ad un mezzo, piuttosto che ad uno scopo. In questo caso Machiavelli sbagliava…».

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Convivere prima del matrimonio aumenta il rischio di divorzio

 

 

di Anna Paola Borrelli*
*teologa moralista e perfezionata in bioetica

 

Un articolo apparso di recente sul New York Times ha portato alla ribalta un tema piuttosto delicato e diffuso: la convivenza!  “Ho trascorso più tempo ad organizzare il mio matrimonio che non ad essere felicemente sposata”: comincia così il racconto di Jennifer (il nome è inventato), una donna di 32 anni alla sua psicologa clinica Meg Jay dell’Università della Virginia, autrice dell’articolo sul quotidiano americano. La donna (che aveva già alle spalle il fallimento del matrimonio dei suoi genitori) confida alla psicologa di aver convissuto per più di 4 anni, prima di sposare quello che sarebbe diventato il futuro marito e di aver iniziato dopo la terapia anche la ricerca di un avvocato divorzista. Incredula si chiede: “Com’è potuto accadere?”

Nel 1960 negli Stati Uniti le coppie conviventi erano 450.000, mentre oggi il loro numero è aumentato vertiginosamente, fino ad arrivare a più di 7,5 milioni. Si calcola, inoltre, che più della metà dei matrimoni siano preceduti da convivenza. Oltre ai motivi più disparati che vengono enumerati, quali: la rivoluzione sessuale, la pianificazione delle nascite, i vantaggi di ordine economico, riguardanti  la suddivisione di spese e bollette, un’ulteriore motivazione additata dai 2/3 dei giovani americani punta sulla convivenza come una forma di “prevenzione” del divorzio. Ciò emerge dai dati di un sondaggio nazionale del 2001, a cura del National Marriage Project.

Attualmente, però, gli studi dei ricercatori vanno nel senso propriamente opposto e l’esperienza degli sposi va a falsificare le convinzioni dei ragazzi americani. Dalle pagine dell’autorevole quotidiano statunitense si evince che “le coppie che convivono prima del matrimonio (e soprattutto prima di un fidanzamento o di un impegno chiaro), tendono ad essere meno soddisfatte del loro matrimonio e hanno più probabilità di divorziare rispetto alle coppie che non lo fanno”. I ricercatori precisano che non sono le caratteristiche individuali come l’istruzione, la religione o le idee politiche a compromettere la convivenza (“effetto negativo”), ma alcuni dei rischi sono insiti nella convivenza stessa.

Il Pontificio Consiglio per la Famiglia, nel suo Documento “Famiglia, matrimonio e ‘unioni di fatto'”, mette a confronto matrimonio e convivenza, chiarendo che: «la comunità familiare nasce dal patto d’alleanza dei coniugi. Il matrimonio che sorge da questo patto d’amore coniugale non è una creazione del potere pubblico, bensì un’istituzione naturale e originaria che lo precede. Nelle unioni di fatto, al contrario, si mette in comune l’affetto reciproco, ma allo stesso tempo manca quel vincolo coniugale di natura pubblica e originaria che fonda la famiglia. Famiglia e vita formano un’unità che deve essere protetta dalla società, in quanto si tratta del nucleo vivente della successione (procreazione ed educazione) delle generazioni umane» (n. 9).

Quando la psicologa domanda a Jennifer: ”Come siete arrivati alla convivenza?” lei risponde: “Ci siamo scivolati dentro, è successo. Stavamo un po’ da lui un po’ da me, ci piaceva stare insieme ed era più conveniente dividere le spese”. I ricercatori definiscono questo modus operandi come uno “scorrere, uno scivolare dentro”, anziché “decidere”. Nel Documento si legge ancora: «Le unioni di fatto non comportano diritti e doveri matrimoniali, né pretendono una stabilità basata sul vincolo matrimoniale. Si distinguono per la ferma rivendicazione di non implicare alcun vincolo. L’instabilità costante, dovuta alla possibilità di interrompere la vita in comune è, di conseguenza, caratteristica delle unioni di fatto» (n.4). Invece, «con il matrimonio si assumono pubblicamente, mediante il patto d’amore coniugale, tutte le responsabilità che derivano dal vincolo così stabilito. Da questa assunzione pubblica di responsabilità risulta un bene non solo per i coniugi e i figli nella loro crescita affettiva e formativa, bensì anche per gli altri membri della famiglia. La famiglia fondata sul matrimonio è così un bene fondamentale e prezioso per l’intera società, le cui fondamenta riposano solidamente sui valori che si concretizzano nei rapporti familiari e che trova la propria garanzia nel matrimonio stabile». (Pontificio Consiglio per la Famiglia, “Famiglia, matrimonio e ‘unioni di fatto’“, 2).

Pertanto la convivenza diventa, talvolta, la via di fuga dinanzi a scelte più convenienti (la suddivisione delle spese) oppure include il rimando o la mancata assunzione di vincoli e responsabilità. In un’epoca in cui dilagano edonismo e relativismo, il “per sempre” come categoria temporale incute sempre più timore e viene demonizzato, sostituito dal più semplice “forse” o dallo “stare insieme, finchè dura”. Decidere di scommettere tutta la propria vita sull’altro, di impegnarsi seriamente nel presente e nel futuro dell’eternità dell’amore mira a costruire orizzonti stabili al comune progetto di vita a due, a ricoprirlo di valenza giuridico-sociale e ad arricchire l’amore di significato e pienezza di senso.

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Lisa Canitano (“Vita di Donna”): «l’aborto uccide una vita? No, dirlo è ideologia»

L’associazione “Vita di Donna” dice di essere “in difesa della salute femminile”, offre servizi e indicazioni sicuramente utili volti a risolvere vari problemi di salute femminile. Peccato però che abbia una chiara impostazione abortista, come se l’interruzione di gravidanza fosse una cura per far tornare la donna in salute. Le stesse responsabili della Onlus sono legate all’associazione Luca Coscioni del partito radicale, in strenua difesa della RU486 e della “pillola del giorno dopo”. La presidente, Elisabetta Canitano, è anche particolarmente contraria al diritto di obiezione di coscienza da parte di medici e farmacisti, per loro (e solo per loro), non dovrebbe valere il diritto di autodeterminazione.

La Canitano esprime anche posizioni molto forti contro il mondo pro-life in generale. Lo ha fatto nel febbraio, quando la regione Piemonte, ha concesso ai “Centri di aiuto alla vita” di essere interlocutori accreditati delle ASL locali, in modo da partecipare a quella prevenzione dell’aborto volontario  che la  stessa Legge 194 prevede, offrendo ad esempio un sostegno economico alle donne che intendono abortire per problemi finanziari.  La Canitano ha espresso così la sua opposizione: «Nel mite, laico, austero Piemonte le donne si troveranno ad incontrare persone che al grido di “difendiamo la vita” gli spiegheranno che l’embrione è una persona umana». Ovvero non nasconderanno loro la realtà. Sentite poi con quale confusione contrasta chi intende aiutare le donne a superare i problemi che le portano ad abortire: «Per quello che riguarda il sostegno economico che viene promesso per chi rinuncia ad abortire si vedrà, ma perché, quelle che il figlio lo vogliono che male hanno fatto per non prenderlo? E chi vieta a quelle che il figlio lo vogliono di fare finta di voler abortire e poi di fingersi redente per prendere il sostegno? e magari ne hanno davvero bisogno…». 

Nel gennaio 2010 Lisa Canitano ha tenuto una serata presso l’UAAR di Roma, “l’associazione” di atei reazio-razionalisti italiani (nella stessa sede che nel 2011 ha contattato i neofascisti di Casapound per proporre loro lo “sbattezzo”), mentre pochi giorni fa ha preso posizione contro l’esistenza della “Sindrome Post Aborto”, rifacendosi ad un articolo apparso su “Libération”. Nel mondo scientifico c’è certamente un dibattito interno, ma non c’è nessuna strumentalizzazione -al contrario di quanto lei afferma- dato che numerosi ricercatori “pro-choice” hanno dimostrato la gravità di questa sindrome che colpisce anche le donne che hanno abortito volontariamente. Parliamo ad esempio del dott. David Ferguson il quale ha pubblicato nel 2006 su “Journal of Child Psychology and Psychiatry” il più grande studio del suo genere a livello internazionale, con cui dimostrava che le donne che hanno avuto un aborto indotto presentano un alto rischio di problemi di salute mentale tra cui depressione, ansia, comportamenti suicidi e disturbi da abuso di alcool e sostanze illecite, rispetto a coloro che non erano mai state in gravidanza e che avevano proseguito la gravidanza. Dopo le polemiche dal mondo abortista, Ferguson ha dovuto difendere i risultati dei suoi ricercatori, ribadendo di essere favorevole all’aborto ma «sarebbe stato “scientificamente irresponsabile” non pubblicare i risultati solo perché sono così critici» e confermando che «i risultati fanno pendere la bilancia delle prove scientifiche verso la conclusione che l’aborto crea maggiore disagio psicologico piuttosto che alleviarlo». In questa pagina comunque è possibile visionare un lungo elenco di studi scientifici che concludono allo stesso modo, l’ultimo pubblicato proprio il mese scorso sul “Bulletin of Clinical Psychopharmacology”.

La cosa più controversa affermata da Elisabetta Canitano, comunque, non sta tanto nell’aver definito “chiacchiere strumentali” decine e decine di studi scientifici, ma il sostenere che è «difficile anche fare dell’IVG un problema morale, con la motivazione che quando una donna fa un aborto sopprime una vita: certi atteggiamenti chiaramente ideologici sarebbero inaccettabili da parte di esperti nominati dal governo». L’embrione e il feto dunque, per la presidente di “Vita di donna”, non sarebbero vita umana, affermarlo è ideologia. Finalmente ora sappiamo quale atteggiamento ha uno dei più prestigiosi volumi di embriologia presenti nelle Facoltà di medicina americane, cioè  “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology” (2003), di K.L. Moore, dove si trova scritto: «Lo sviluppo umano inizia al momento della fecondazione, cioè il processo durante il quale il gamete maschile o spermatozoo si unisce ad un gamete femminile (ovulo) per formare una singola cellula chiamata zigote. Questa cellula totipotente altamente specializzata segna il nostro inizio come individuo unico […]. Un zigote è l’inizio di un nuovo essere umano (cioè, l’embrione)». In the Womb, testo redatto dal National Geographic nel 2005 viene esplicitato: «Le due cellule gradualmente e con garbo diventano un tutt’uno. Questo è il momento del concepimento, quando un unico set di DNA di un individuo viene creato, una firma umana che non è mai esistita prima e non sarà mai ripetuta».

Inutile continuare, è già sbagliato prendere in considerazione chi nel 2012 afferma che l’embrione non è vita. Consigliamo alle donne bisognose di persone preparate a cui rivolgersi, l’associazione Scienza & Vita, o l’associazione Medicina e Persona.

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La mattanza dei cattolici sotto il comunismo ateo

La sconfitta del nazismo nell’Europa occidentale segnò la fine di una dittatura e il ritorno alla libertà e alla democrazia, ma nei paesi conquistati dall’Armata Rossa significò solamente il passaggio da un occupazione a un’altra. Nei loro precedenti colloqui Churchill, Roosvelt e Stalin avevano concordato sul fatto che, nel dopoguerra, le nazioni liberate avrebbero dovuto decidere sulla loro forma di governo, ma il georgiano era in realtà intenzionato ad espandere la sua influenza: “Chi occupa un territorio, vi impone il proprio sistema sociale” ebbe a dichiarare a Milovan Gilas. Per questo motivo cominciò subito a liquidare tutti i possibili oppositori alla dominazione sovietica (eliminazioni avvenute in certe parti prima ancora della fine del conflitto) in modo da avere governi dominati da comunisti che avrebbero introdotto nei propri stati misure simili a quelle del governo comunista, come la persecuzione religiosa.

Già Lenin, infatti, andato al potere nel 1917 provvide a mettere fuori legge le religioni perché riteneva, come Marx, che fossero solo un’illusione creata dall’uomo per evadere dalla realtà (“l’oppio dei popoli”). A farne le spese più pesanti fu la Chiesa Ortodossa perché maggioritaria del paese, ma tutte le confessioni presenti in Russia ne ebbero a soffrire: negli anni ’20 sotto la Repubblica sovietica vivevano circa un milione e seicentomila cattolici che furono sottoposti a dure misure repressive fino alla fine dell’URSS. Eppure la Chiesa aveva cercato inutilmente di stipulare un Concordato e aveva offerto, durante la carestia del 1922, due milioni di dollari per alleviare le sofferenze della popolazione, ma come ha sottolineato lo storico Andrzej Kaminski «in Unione Sovietica la fede e la pratica di una religione furono a lungo motivi sufficienti per essere deportati in un campo di concentramento».

Le misure antireligiose furono esportate nei territori direttamente occupati, come negli stati Baltici. Ad esempio,  in Lituania era severamente proibito ai sacerdoti «tenere lezioni ai bambini, impartire la cresima, assistere malati e moribondi e sovrintendere ai funerali” ed era vietato “pubblicare, stampare e diffondere libri, opuscoli o giornali a carattere religioso». Il filosofo polacco Leszek Kolakowski denunciava il fatto che molte persone erano rinchiuse nei campi di concentramento sovietici per «propaganda religiosa» e che era un «dovere giuridico dei genitori dare ai figli un’educazione comunista e quindi atea; in caso contrario il potere minaccia di togliere i figli stessi». In altri stati, invece si assistette alla nascita di democrazie popolari, formalmente indipendenti, ma nella pratica asservite all’URSS e il cui obiettivo principale era diffondere l’ateismo divenuto in pratica religione di stato, e separare i contatti delle chiese con Roma. Nei paesi ortodossi come la Romania e la Bulgaria l’influenza sovietica s’intrecciò a più strette relazioni locali con la chiesa autocefala ortodossa e il Patriarcato di Mosca. In Romania, infatti, il potere sovietico cercò di spingere i greco-cattolici a far parte della Chiesa Ortodossa (ma ciò non impedì agli stessi ortodossi d’essere perseguitati), e impose la fusione imprigionando o uccidendo coloro si opposero ossia tutti i vescovi e gran parte dei sacerdoti. Si tentò, invece di manipolare la Chiesa Cattolica di rito latino sostituendo l’autorità di Bucarest a quella del Vaticano. Nonostante le persecuzioni, però, il regime non riuscì mai ad imporre la propria autorità e si ebbero diversi martiri come padre Alajos Boga, morto in carcere per non aver accettato un piano governativo di una Chiesa nazionale senza legami con Roma. Stessa sorte toccò in Bulgaria al vescovo di Nicopoli, il beato Eugenio Vincenzo Bossilkov, processato nel 1952 per essersi rifiutato di mettersi a capo di una chiesa nazionale e condannato a morte. «Non ho rinnegato né la Chiesa, né il Santo Padre, né don Gallioni (n.d.a. Reggente della delegazione apostolica)» disse prima di morire.

Anche nei paesi a maggioranza cattolica, la persecuzione si fece sentire aspramente. La Chiesa in Polonia ebbe un ruolo importante nella formazione di Solidarnoc e parecchi preti e vescovi subirono la prigione o la morte per la loro resistenza al potere comunista come il primate Stefan Wyszynski che subì una lunga prigionia. In Ungheria, invece, il primate Josef Mindszenty fu incarcerato nel 1948  secondo l’incredibile accusa di voler scatenare una terza guerra Mondiale (lo stesso aveva già subito una detenzione dal governo comunista nel 1919 e un’altra sotto il nazismo nel 1944)! Venne liberato durante la rivolta d’Ungheria, e riuscì a mettersi in salvo dalla repressione russa rifugiandosi nell’Ambasciata Americana. In Cecoslovacchia, il cardinale Beran (che era stato prigioniero nel campo di Dachau) venne posto agli arresti domiciliari e fu espulso nel 1965. La repressione peggiore si ebbe comunque in Albania dove verso il 1976 l’ateismo di stato entrò di fatto nella costituzione (Stalin, invece, aveva fatto redigere una costituzione liberale che ovviamente rimase sulla carta) e i giornali annunciavano trionfalmente che tutte le chiese e le moschee erano state chiuse o demolite. Nella Germania dell’Est la lotta religiosa assunse aspetti meno cruenti: si cercò di scimmiottare rituali cristiani sotto altri nomi come il battesimo o il matrimonio socialista. Si obbligava le persone a giurare fedeltà allo stato o al socialismo, in una cerimonia fatta in contrapposizione alla comunione cattolica e alla confermazione protestante e s’insegnava ai bambini: «Lenin ha spiegato che quest’epoca in cui non esisteranno più lacrime ha un nome. Non si chiama né Natale, né primavera (…) si chiama socialismo». Anche qui, però, non mancarono violenze contro gli atti di resistenza cristiani come quelli contro la distruzione della chiesa nell’Università di Lipsia.

Queste azioni non avvenivano solo nel mondo sovietico, ma anche negli altri stati comunisti. Nella Jugoslavia, Tito aveva già fatto uccidere centinaia di sacerdoti e dopo che l’arcivescovo Alojzije Stepinac si rifiutò di sovrintendere a una chiesa nazionale croata, fu arrestato e processato con l’accusa di essere stato complice dei massacri ustascia. Sebbene alcuni studiosi abbiano preso seriamente queste accuse, in realtà, fu un processo farsa e uno degli estensori dell’accusa, Josip Hrnevic ammise: «se avessimo ascoltato i testimoni della difesa, il processo sarebbe caduto». Del resto, il maresciallo perseguitò la Chiesa Cattolica anche in Slovenia nonostante il clero si fosse schierato dalla parte del movimento di liberazione ottenendo promesse di rispetto che non furono mai mantenute. La situazione non muta, anzi peggiora se dal comunismo europeo si passa a quello asiatico perché oltre alla propagazione dell’ateismo e al tentativo di sradicare il legame con Roma, vi era anche un atteggiamento xenofobico: il cristianesimo era considerato una religione straniera e come tale doveva essere respinto. Sotto il Vietnam del Nord si provvide a chiudere i seminari, a espellere i missionari stranieri, a nazionalizzare le scuole e a paralizzare la vita cristiana. La persecuzione provocò l’esodo di circa 600.000 cattolici (su 1 milione e mezzo) verso il Vietnam del sud. Anche nel Laos la piccola comunità cristiana soffrì persecuzioni e anche qualche martirio, mentre la guerra di Corea permise a Kim il Sung di tentare d’estirpare ogni presenza cristiana e molti missionari operanti nel sud vennero deportati a nord. «La nostra rivoluzione è molto più utile ed efficacie del tuo Dio» disse una guardia ad un prete incarcerato. La dittatura più sanguinaria fu comunque quella che sorse in Cina, sotto Mao Tse Tung. Questi durante la guerra civile aveva promesso di rispettare la libertà religiosa di tutti i cinesi, ma appena giunto al potere instaurò l’ateismo di stato vietando la propaganda religiosa. Scelse di tollerare il culto privato perché pensava che col tempo il popolo avrebbe abbandonato la fede, ma simile disposizione non valeva per il cattolicesimo perché religione non autoctona. Il dittatore cinese perciò diede vita al “Movimento delle Tre Autonomie”, i cui obiettivi erano l’autogoverno, l’autofinanziamento e  l’autopropaganda. I vescovi cinesi ribadirono, però, che chi usciva dall’obbedienza della Santa Sede si allontanava dalla Chiesa e si assistette così alla nascita di due chiese: una costretta in clandestinità con vescovi nominati da Roma e un’altra “ufficiale” con vescovi nominati dal governo.

Vedendo questa situazione e il fatto che nonostante la persecuzione nei paesi liberati come in Francia e in Italia, sempre più persone continuavano ad aderire al partito comunista, Pio XII decretò la scomunica per chi avesse sostenuto o fatto parte del partito, ma l’adesione di un’ampia parte della società alle idee socialiste rese difficile applicare una simile disposizione e la scomunica cadde presto nel dimenticatoio. La fine del comunismo europeo segnò la fine delle persecuzioni religiose, ma in Asia resiste ancora e molti credenti sono tutt’oggi incarcerati e uccisi per la loro fedeltà alla Chiesa o per il loro rifiuto all’ateismo di stato.

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Bibliografia
ANDREA RICCARDI, Il secolo del martirio, Milano 2000
AA. VV. Il libro nero del comunismo Milano, 1998
AA. VV. Il libro nero del comunismo europeo, Milano 2006
ANDRZEJ KAMINSKI, I campi di concentramento dal 1896 a oggi, Torino 1998

Mattia Ferrari

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«Morire con dignità non è eutanasia o suicidio assistito»

Se all’imminente ballottaggio in Francia dovesse uscire vincitore François Hollande, questo comporterebbe probabilmente l’apertura all’eutanasia e all’aborto gratuito per tutte le donne.

Tuttavia –come accade anche nel Regno Unito- il maggiore freno a queste aperture arriva da medici e specialisti e ovviamente dalle voci religiose, sempre attente al vero concetto di “dignità della vita e della morte”, che nulla a che fare con il sentimentalismo con cui ama fare pressione, ad esempio, il Partito Radicale in Italia.

Appare interessante dunque riportare recenti dichiarazioni di Bernard Devalois, medico anestesista, già Presidente della Società Francese di accompagnamento e Cure Palliative e attuale capo dell’unità per le cure palliative all’ospedale di Pontoise, in Francia. Il medico ha risposto ad alcune domande sul tema dell’eutanasia e del suicidio assistito, molte delle quali si basavano proprio sul concetto di “dignità”. Devalois, convivendo professionalmente con i malati terminali, è però stato perentorio: «Morire dignitosamente non è affatto sinonimo di suicidio assistito o di iniezione letale. Sono due cose diverse. Le cure palliative consistono nel garantire la morte con dignità». E ancora: «occorre riconoscere a tutti i pazienti in fin di vita il diritto a morire con dignità. Ma affermare questo non vuol dire: devono morire per mano di un medico attraverso un’iniezione letale, come hanno autorizzato Paesi come il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi». E così all’ennesima domanda: «L’accompagnamento e le cure palliative costano molto, non alle famiglie, ma alla società. Mi sembra molto importante mostrarsi solidali con chi sta per morire e impiegare tutti i mezzi, in particolare quelli umani. Occorrono infermieri, aiuto-infermieri, eccetera. E questo alla società costa caro, forse più dell’iniezione letale, ma penso che ne valga la pena».

Il dott. Devalois ovviamente è contrario all’accanimento terapeutico e non concorda con la posizione di numerosi medici (e della Chiesa cattolica) circa l’alimentazione e l’idratazione, che lui -come molti altri e diverse associazioni scientifiche- ritiene essere una terapia. Tuttavia -come per il neurologo Paolo Marchettini, citato in un nostro precedente articolo– ritiene che l’eutanasia, considerata come iniezione letale, «sia una soluzione del passato più che una soluzione del futuro. Credo che la soluzione del futuro sia occuparsi correttamente di ogni paziente in fin di vita e permettergli di morire con dignità attraverso lo sviluppo delle cure palliative». Costa molto e deve intervenire la politica, ma «l’iniezione letale è una tecnica che alla fine mette in luce l’impotenza di essere solidali con i pazienti in fin di vita […] Io mi occupo tutti i giorni di pazienti in fin di vita, per fare in modo che non soffrano fisicamente e che i loro cari vengano assistiti. Questa credo sia la soluzione del futuro e non quella di dire, visto che non posso prendermi cura di lei allora le faccio un’iniezione letale».

 

Qui sotto il video dell’intervista apparso su “Euronews”

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Come la metafisica medievale anticipa la fisica moderna


 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico e docente universitario

 
 

Quando al liceo l’insegnante di filosofia ci parlò dei paradossi di Zenone (la freccia che non raggiunge mai il bersaglio perché prima deve fare metà strada, e prima ancora un quarto di strada, e così via, sicché deve passare per infiniti punti prima di toccare l’obiettivo; o Achille piè veloce che non può sorpassare la tartaruga…), io rimasi muto: di quanti istanti è fatto un intervallo di tempo? Come si concilia il moto con la geometria? E ristetti perplesso, con una punta d’amaro in bocca, allorché il professore di matematica presunse di confutare Zenone con le serie geometriche convergenti. Per Euclide il cammino della freccia è un segmento, questo è composto soltanto di punti, che sono infiniti perché, per un assioma, tra due ce n’è sempre uno in mezzo; inoltre, il punto è indivisibile e ha lunghezza zero. Ma 0 + 0 + 0 +… = 0, e allora, ci sfida Zenone, da dove emerge la lunghezza del segmento? Un caso matematico di “ciliegina sulla torta” come la coscienza nei cervelli neodarwinisti? 150 anni fa il matematico tedesco G. Cantor infierì sulla piaga, “contando” gli infiniti e dimostrando che in 1 cm ci sono tanti punti quanti in 1 km, anzi quanti nello spazio illimitato: per l’esattezza Alef1, né più né meno. Ma allora di che cosa è fatta la lunghezza di un segmento? Nel 1924 infine, due matematici polacchi, S. Banach e A. Tarski, dimostrarono che si può prendere una palla nello spazio euclideo, suddividerla in un insieme finito di pezzi e riassemblare i pezzi con sole rotazioni e traslazioni in modo da ottenere due palle uguali all’originale. Se ciò è vero, ed è vero in geometria, di che cosa è fatto lo spazio reale?

Ebbene, io ho trovato risposte soddisfacenti a queste domande solo nella metafisica medievale dei teologi arabi del Kalam (i Mutakallimun) e di un rabbino di Cordoba, al cospetto dei quali mi volgo ora con molto rispetto; e i dettagli quantitativi nei teoremi della fisica moderna. I Mutakallimun (IX-XII sec.) capirono che per affrontare i paradossi di Zenone occorreva partire da un’analisi dei concetti di spazio e tempo. Sul tempo, era stato Sant’Agostino (IV-V sec.) ad avviare la ricerca. I compagni pagani lo irridevano per la sua fede biblica nell’inizio del mondo: che cosa faceva Dio in tutto quel tempo, un tempo infinito, prima dell’inizio? Ebbene, Agostino anticipò la risposta che oggi dà la fisica: prima dell’inizio non c’era il tempo, il tempo è stato creato da nulla insieme al mondo. C’era arrivato con la teologia, oggi la fisica ci arriva con i teoremi di Vilenkin. Il tempo, ragionò Agostino, non è Dio: allora è una cosa creata da Dio. Se il mondo ha avuto un inizio, come c’insegna la Bibbia, anche il tempo ha avuto un inizio. D’altra parte, aggiunse, non ha senso chiedersi che cosa Dio facesse prima dell’inizio, perché non c’era un prima: “Non chiedere che cosa Dio facesse allora: non c’era allora dove non c’era il tempo” (da “Le confessioni”). Anche secondo la fisica moderna il tempo è definito solo entro l’Universo e quindi non ha senso parlare di tempo “prima” dell’inizio dell’Universo: “Sarebbe come cercare un punto a sud del Polo Sud: non è definito” (S. Hawking). Di suo, la fisica aggiunge la data d’inizio dello spettacolo (13,7 miliardi di anni fa), per la precisione quantitativa, ma questo è il suo mestiere.

Col Kalam, la metafisica fece passi ulteriori: non esiste uno spazio separato dal tempo, ma un’unità reale in cui la dimensione temporale è connessa alle tre spaziali; né lo spazio-tempo è assoluto, ma le sue estensioni sono relative all’osservatore: “Non c’è nessuna differenza tra l’estensione temporale che, rispetto ad uno di noi, distingue il prima dal poi, e l’estensione spaziale che, rispetto ad uno di noi, divide il sopra dal sotto” (Al Ghazali, “Incoerenza dei filosofi”). In assenza di corpi né lo spazio, che ne indica la superficie limitante e le distanze reciproche, né il tempo hanno senso: “Il tempo è la durata in cui un corpo è a riposo o in moto: se il corpo è privato di questi stati cessa di esistere e anche il tempo cessa di esistere. […] Corpo e tempo co-esistono” (Ibn Hazm, “Dettagliato esame critico”). Spazio, tempo, corpi e moto sono nel Kalam concetti correlati. Queste assunzioni sono oggi alla base della relatività einsteiniana.

Ancora, secondo un’intuizione che privilegia i numeri interi ai reali ed anticipa la meccanica quantistica, una quantizzazione è applicata dal Kalam ai corpi, alle loro proprietà, all’energia (il calore) e allo spazio-tempo, tutti gli enti essendo composti di un numero finito di particelle elementari. Lo spazio reale è suddiviso in unità, senza le quali perderebbe la sua coerenza: lo spazio reale è una struttura aggregata di celle indivisibili. È quanto mille anni dopo sarà postulato in geometrodinamica, la quale specula che su piccola scala lo spazio non è un fluido continuo, ma una schiuma di celle la cui distensione lineare non supera la “lunghezza di Planck”. Così, la distanza reale che separa l’arco dal bersaglio non è l’astratta linea euclidea, al più modello della situazione reale e mai sua copia perfetta: la freccia percorre un numero finito di distensioni contemporanee, molto corte per i nostri sensi, ma non nulle se la loro somma deve risultare in una distanza diversa da zero! Che cosa ci dà in più oggi la fisica? Non un concetto, ma la precisione di un numero:  L = 1,62 × 10-33 cm, che è “la lunghezza di Planck”. Il Kalam c’insegna che un metro reale è un aggregato di distensioni contemporanee dello spazio reale; la fisica predice che in un metro reale ci sono almeno 100/L = 61,73 milioni di miliardi di miliardi di miliardi di tali celle planckiane.

Anche il tempo per questi teologi ha una struttura discreta. Secondo il rabbino M. Maimonide (XII sec.) la successione degli istanti che produce una durata misurabile dalla clessidra evidenzia l’esistenza di una soglia temporale minima: “Il tempo è composto di atomi, e questi sono indivisibili” (da “Guida dei perplessi”). Il tempo è una struttura aggregata di intervalli indivisibili, intrinseci alla realtà mondana che è mutevole, per contrasto alla distensione eterna in cui si svolge la vita di Dio. Oggi il tempo è un parametro continuo in fisica, ma ciò appare necessitato più dalla nostra ignoranza aritmetica che dalla sua struttura reale a piccola scala: infatti le leggi della fisica sono valide solo sopra il limite detto “tempo di Planck” e l’unificazione della meccanica quantistica con la relatività generale potrà richiedere una quantizzazione del tempo. Per i nostri metafisici il tempo scorre a scatti, come una ruota dentata: tic, tic, tic,… gli istanti (“ana”) si succedono l’uno all’altro, sono brevi per i nostri orologi biologici, ma non nulli! Il tempo appare continuo, ma è un’illusione, come al cinema dove vediamo succedersi senza soluzione le scene che, invece, sono registrate ad intervalli successivi, di breve durata rispetto ai tempi biologici delle nostre retine. Che ci dà in più oggi la fisica? Un numero: T= 5,39  × 10-44 sec, che è il “tempo di Planck”. Maimonide c’insegna che un minuto è un aggregato di distensioni non contemporanee dell’anima, la fisica predice che in un minuto tali distensioni elementari sono in numero non inferiore a 60/T= 1,11 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi.

Il Kalam assume che i corpi sono ricreati in ogni momento da Dio: creati in uno stato, tornano nel nulla e sono ricreati in un altro stato; e che le leggi di natura sono contingenti e indeterminate: gli eventi sono probabilistici, non deterministici. A livello microscopico, il moto avviene per salti discreti (“tafra”), in cui gli atomi di un corpo occupanti una cella di spazio per un ana di tempo sono annichilati per ricomparire un ana di tempo dopo nella cella di spazio contiguo. Queste nozioni sono le più antiche intuizioni di meccanica quantistica: esse precorrono i salti quantici di Bohr, l’effetto tunnel, gli operatori di creazione e annichilazione, l’interpretazione di Copenaghen. “In un certo senso credo che, come sognavano gli antichi, il puro pensiero può cogliere la realtà” (A. Einstein, H. Spencer Lecture 1933). Un sistema geometrico euclideo, continuo e liscio, dello spazio-tempo è una descrizione appropriata per un mondo astratto costituito di parti autonome non correlate, ma è insufficiente a spiegare il movimento nell’Universo reale, un movimento che non è solo moto nello spazio-tempo, ma anche cambiamento di stato.

La quantizzazione metafisica medievale risolve i paradossi di Zenone sul moto, ma non basta a spiegare l’infinità di forme e di processi in cui la Natura si esprime, a meno d’invocare l’intervento costante di Dio. Oggi la gravitazione quantistica implementa lo spazio reale (il “vuoto fisico”) con metriche non euclidee, campi di forza e fluttuazioni di energia che gli danno a priori una struttura causale in grado di connettere il qui al e l’ora all’allora della storia dell’Universo, evitando l’occasionalismo teologico. Che la fisica moderna postuli l’hermiticità dell’operatore di Heisenberg e l’unitarietà del propagatore di Feynman nello spazio hilbertiano degli stati fisici o che l’ontologia medievale definisca la creazione come relazione continua della creatura con Dio (che non è solo il creatore iniziale, ma anche “causa dell’azione di ogni cosa in quanto le dà la capacità di agire, la conserva, la applica nell’azione”, Tommaso d’Aquino, “De potentia”), in ogni caso la contraddizione tra essere e divenire si risolve nel principio di un logos.

Sarebbe bello continuare a conversare con questi teologi, all’ombra rinfrescante di un aranceto profumato dei giardini di Baghdad e Cordoba, in un silenzio turbato soltanto dallo zampillio dell’acqua nelle fontane ottagonali intarsiate di arabeschi, e coglierne ad una ad una le infinite perle di sapienza metafisica. Nella loro originale concezione digitale, essi afferrarono in nuce la struttura della realtà fisica e precorsero la realtà virtuale. Ma non c’è più tempo. Shukran, Ibn Hazm e Al-Ghazali! Shalom, Maimonide!

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Nella notte di Pasqua migliaia i battesimi di adulti neoconvertiti

L’ultima edizione dell’Annuario Pontificio e dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae ha rilevato che (anche) nel 2010 un aumento di 15 milioni di cattolici nel mondo, i quali sono oggi 1 miliardo 196 milioni e una presenza mondiale che rimane stabile attorno al 17,5%. Vicino a Pasqua (giorno della Resurrezione) sono migliaia gli adulti in tutto il mondo che decidono di battezzarsi, dopo una percorso di conversione e di catechismo, chiamato catecumenato. L’anno scorso abbiamo parlato dei 3000 adulti francesi, dei 150 mila adulti cinesi, dei 3400 adulti di Hong Kong.

Nel 2012, la diocesi di Orange, in California, ha battezzato 921 persone e 668 cristiani di altre denominazioni, il 14% in più rispetto all’anno precedente. La diocesi del Texas ha fatto una cosa molto simile, mentre a New York sono stati 1470 i battezzati adulti nella notte di Pasqua. Nel 2011 i nuovi battesimi di adulti erano 43.000, mentre 73.000 sono stati i battesimi di adulti delle altre comunità cristiane. In Francia i battesimi di adulti quest’anno sono stati poco meno di 3.000 persone nella notte di Pasqua, di cui un terzo sono tra i 25 ei 35 anni.

In Spagna dopo la GMG dell’estate scorsa sono entrati 51 nuovi studenti in più seminario rispetto al 2010 (un incremento del 4,2%), mentre nel Regno Unito circa 200 ex anglicani sono entrati nella Chiesa cattolica. Essi si aggiungono ai 900 accolti nel 2011, tra i quali 61 sacerdoti e cinque ex vescovi anglicani.  Sempre in Inghilterra e Galles, dove la Chiesa cattolica è una minoranza, ma è comunque una forte presenza, sono 3.800 gli adulti che sono entrati nella Chiesa cattolica durante la recente Veglia pasquale. Naturalmente molti altri verranno battezzati più avanti nel corso dell’anno. Sempre nel 2012, ad Hong Kong, nonostante una limitata libertà religiosa, nella Notte di Pasqua sono stati battezzati 3.500 adulti (nel 2011 erano 3400, nel 2010 erano 3.000, e nel 2006 erano 2.400). In Cina nella notte di Pasqua ci sono stati 22 mila battesimi (il 75% adulti), 615 in più dell’anno scorso, ma anche in Corea del Sud si sta verificando un forte incremento di conversioni: ogni parrocchia ha dai 200 ai 400 battesimi di convertiti dal buddhismo all’anno e negli ultimi dieci anni si è passati da tre a 5 milioni di cattolici. In più, ci sono anche 130-150 nuovi sacerdoti ogni 365 giorni.

Dati poco certi arrivano dall’Africa. Alcune agenzie parlano di quasi 3 milioni di adulti battezzati nel periodo pasquale 2012, ma ancora sono cifre da confermare.

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Il devozionismo alla scienza e l’errore di Vito Mancuso

Recentemente abbiamo pubblicato una piccola recensione del libro del prof. Alessandro Giuliani intitolato Scienza: istruzioni per l’uso, attraverso il quale il ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità ha messo in guardia da una certa devozione alla scienza che si percepisce nel mondo culturale odierno, la quale -spiega Giuliani- è dannosa innanzitutto alla stessa ricerca scientifica.

Sulla falsariga di questa posizione così realista si è inserito recentemente anche Antonio Allegra, docente di Storia della filosofia nell’Università per stranieri di Perugia e Dottore di ricerca in filosofia e scienze umane. Anche lui ha rilevato un «pericolo in cui oggi la cultura diffusa, forse anche quella di ispirazione religiosa, rischia di incorrere», si tratta di una «deferenza o reverenza, nei confronti della scienza. Non si fraintenda: il rispetto della scienza è opportuno, anzi auspicabile; ma la reverenza inappropriata che caratterizza, in maniera un po’ schizofrenica rispetto a ostilità che pure sono frequenti, l’atteggiamento dominante rispetto ad essa, può fare danni gravissimi». Il filosofo nota che «molto spesso la scienza in questione non è altro che scientismo. Un’ideologia onnicomprensiva ed onniesplicativa che solo gli ingenui potrebbero credere tramontata col XIX secolo positivista: anzi, nella crisi di altri riferimenti ideologici potenti rischia di insediarsi come unica visione del mondo superstite. Ora, lo scientismo, come tale, non è affatto disponibile a dialogare seriamente con altre visioni del mondo, e trae dal complesso di inferiorità altrui nuove ragioni di superbia».

In particolare questo periodo storico è caratterizzato dalla moda definita (dal cognitivista Piattelli Palmarini) “neuromania”: neuroetica, neuroestetica, neuroteologia, neurodiritto…, «solo la parallela e analoga moda delle spiegazioni evolutive può essere paragonabile: abbiamo infatti anche un’etica evoluzionistica, una teologia evoluzionistica, etc. Siamo travolti da una massa sconsiderata di convegni, pubblicazioni, articoli di giornale la cui problematizzazione è inversamente proporzionale al tono messianico». Chiunque se ne può accorgere sfogliando alcuni quotidiani, “Corriere della Sera” e “Repubblica” su tutti (su quest’ultimo da considerare gli articoli scritti in larga parte da Elena Dusi). Questa divulgazione spiccia, non solo ignora le critiche interne alla tradizione scientifica, ma «taglia fuori la riflessione antropologica in generale». Gli esempi sono noti: la moralità corrisponde all’ossitocina (cfr. Sandro Modeo in un recentissimo articolo nell’inserto “Lettura” de il “Corsera”), il gene della generosità, quello della fedeltà, quello gay e così via. Ciò che sta dietro a tutta questa proposta riduzionista e determinista è «un ridimensionamento molto grave della dimensione della libertà, ridotta, almeno nei casi filosoficamente più consapevoli, ad un’apparenza da demitizzare o nella migliore delle ipotesi a un’utile finzione». Se infatti il determinismo (ormonale o di altro genere) è vero, come vorrebbero affermare queste facili spiegazioni teoriche totalizzanti, scrive il filosofo Allegra, allora «non ha senso rivendicare di essere, e sempre più voler essere, liberi». Questa è cattiva scienza, «non solo perché tali asserti scientifici hanno ancora uno statuto molto provvisorio, ma perché si tratta di operazione teoricamente primitiva». Il passato della filosofia, spiega, «è da sempre ricco di siffatti tentativi, irrisi dai pensatori più consapevoli. Che oggi molto spesso vengano presi sul serio è indice sconfortante del contemporaneo stato dell’arte».

Il docente ha concluso con un accenno al problema nel pensiero religioso, cioè quel «complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifico-tecnologica», il quale rischia di «generare un’ostilità preconcetta e ignara, da un lato; e dall’altro una ingenua reverenza». Viene citato correttamente l’esempio del teologo Vito Mancuso, il cui successo mediatico è ovviamente «legato all’abile miscela di aggiornamento scientifico di stampo “evoluzionistico” e suggestioni di tono spirituale (per inciso: abissalmente lontane dalla carnalità cristiana e dal peso inaggirabile del peccato ovvero del limite)». Mancuso sfrutta la scienza per correggere continuamente la sua teologia (sua, perché non c’è nulla di cattolico in quanto afferma). Ma «derivare conseguenze a livello antropologico a partire dai risultati scientifici, è di norma una tentazione da rifiutare».

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Il prof. D’Andria e il ritrovamento della tomba dell’apostolo Filippo

Quasi ogni anno l’archeologia biblica ci regala scoperte più o meno importanti per il cristianesimo. Quest’estate, nell‘estate 2011, è stata diffusa la notizia del ritrovamento della tomba dell’apostolo Filippo a Hierapolis, in Turchia, risalente ovviamente  al primo secolo dopo Cristo. Dopo le ovvie cautele, doverose in casi come questi, Alfredo Valvo, docente di Storia romana ed Epigrafia latina all’Università Cattolica di Milano aveva delineato la portata della scoperta: «Innanzitutto conferma della tradizione. Archeologia ed epigrafia si dimostrano una volta di più indispensabili per confermare le notizie delle fonti letterarie, prime fra tutte i Vangeli e gli Atti degli Apostoli (per quanto riguarda Filippo)».

Oggi, 3 maggio, la Chiesa ricorda proprio San Filippo (e San Giacomo minore), due apostoli che fecero parte dei dodici scelti da Gesù, e Zenit.it ha intervistato uno dei ricercatori autori della sensazionale scoperta, ovvero il prof. Francesco D’Andria, archeologo dell’Università di Lecce e attuale direttore della Missione Archeologica Italiana: «Il valore di questo ritrovamento è indubbiamente di altissimo livello, non solo per quanto riguarda la tomba dell’apostolo ma soprattutto perché intorno a quella tomba abbiamo individuato e in parte scoperto un nuovo grande complesso archeologico che si estende per l’intera collina orientale di Hierapolis. Un complesso costituito da due chiese, una grande strada processionale, gradinate in travertino, cortiletti, cappellette, fontane, una serie di vasche termali per la purificazione, alloggi per i pellegrini, un complesso che dimostra come San Filippo, a Hierapolis, nei primi secoli della storia cristiana, godeva di una grandissima popolarità e il culto a lui attribuito era massimo».

Dai Vangeli si ricava che San Filippo era un pescatore originario di Betsaida, sul Lago di Genezaret, citato solo da Giovanni (in diverse occasioni). Giovanni -spiega il prof. D’Andria- racconta come Filippo sia entrato nel gruppo degli apostoli fin dall’inizio (fu il quarto dopo Giacomo, Giovanni, Andrea e Pietro) della vita pubblica di Gesù, chiamato direttamente dal Maestro. Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che Filippo era presente con gli altri al momento dell’Ascensione di Gesù al cielo e il giorno di Pentecoste quando si verificò la discesa dello Spirito Santo, il resto delle informazioni proviene dalla tradizione: «dopo la morte di Gesù, gli apostoli si dispersero in giro per il mondo per diffondere il Messaggio evangelico. E secondo la tradizione e antichi documenti scritti dei Santi Padri, sappiamo che Filippo svolse la sua missione in Scizia, nella Lidia, e, negli ultimi anni della sua vita, a Hierapolis, in Frigia. Policrate, che verso la fine del secondo secolo era vescovo di Efeso, in una lettera scritta a Papa Vittore I, ricorda i personaggi importanti della propria Chiesa, tra cui gli apostoli Filippo e Giovanni. Di Filippo dice: ‘Fu uno dei dodici apostoli e morì a Hierapolis, come due delle sue figlie che invecchiarono nella virginità…. Altra sua figlia… fu sepolta in Efeso». La scoperta dunque, conferma ovviamente le informazioni di Policrate -già ritenute attendibili dagli storici- ma anche quel che viene tramandato dalla tradizione cristiana.

Filippo morì nell’anno 80 dopo Cristo, quando aveva circa 85 anni, martire per la sua fede, crocifisso a testa in giù come San Pietro, venne quindi sepolto a Hierapolis. Nell’antica necropoli di quella città fu trovata una iscrizione che accenna a una chiesa dedicata a San Filippo, mentre in una data non precisata, il corpo di Filippo venne portato a Costantinopoli per sottrarlo al pericolo di profanazione da parte dei barbari. E nel sesto secolo, sotto Papa Pelagio I, trasferito a Roma e sepolto, insieme all’apostolo Giacomo, in una chiesa appositamente edificata per loro (oggi si chiama chiesa ‘Dei santi apostoli’).

Nella bella intervista, l’archeologo racconta gli emozionanti passi compiuti per arrivare all’incredibile scoperta, spiegando quali siano le prove “matematiche” che hanno portato a certificare l’appartenenza della tomba trovata a San Filippo.  Conclude: «il 24 novembre scorso, io ho avuto l’onore di presentare la scoperta presso la Pontificia accademia archeologica di Roma davanti a studiosi e rappresentanti del Vaticano. Anche il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, primate della Chiesa ortodossa, ha voluto ricevermi per avere i dettagli della scoperta, e il 14 novembre, festa di san Filippo per la Chiesa Ortodossa, ha voluto celebrare la Messa proprio sulla tomba ritrovata a Hierapolis. Ed io ero presente, emozionato come non mi era mai capitato, anche perché i canti della liturgia greca risuonavano dopo più di mille anni tra le rovine della chiesa. Nei prossimi mesi riprenderemo i lavori e sono certo che ci attendono altre importanti sorprese».


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Recensione del libro: “Scienziati, dunque credenti”

 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

C’è compatibilità tra scienza sperimentale e fede in un Dio creatore? Tra scienza e Chiesa? Tra scienza e miracoli? Può un uomo di oggi continuare a credere in Cristo, senza essere ed apparire ridicolo e fuori del tempo? Se ne dibatte spesso, per lo più in termini filosofici. Lo si fa anche in questo libro, discutendo sui Dio, l’anima, i miracoli, la Chiesa… Ma soprattutto si interrogheranno gli scienziati, i grandi fisici, astronomi, matematici… e si scoprirà che tutti i padri della scienza moderna hanno creduto in Dio.

Si scopriranno le preghiere di Keplero e di Pascal; gli interessi per la Bibbia di Newton; la fede genuina di Pasteur… Si apprenderà che un monaco, padre Benedetto Castelli, ha fondato l’idraulica ed ha inventato il primo pluviometro; che un , padre Andrea Bina, ha inventato il primo sismografo moderno; che Niccolò Copernico era un religioso cattolico; che il primo teorizzatore del Big bang e dell’espansione delle galassie è stato il sacerdote belga Georges Edouard Lemaître; si apprenderà che il padre dell’aeronautica, Francesco Lana de Terzi, è un padre gesuita, come il “principe dei biologi”, Lazzaro Spallanzani e come un pioniere dell’astrofisica, Angelo Secchi; che il padre della geologia e della cristallografia, Niels Stensen, si fece sacerdote e poi divenne vescovo, e che il fondatore della genetica fu il monaco Gregor Mendel…Si apprenderà che i matematici Gauss ed Eulero leggevano tutte le sere il Vangelo, che i matematici A. L. Cauchy, Ennio De Giorgi e Maria Gaetana Agnesi si dedicavano, oltre che alla matematica, all’assistenza ai poveri secondo lo spirito cristiano…

Forse qualcuno leggerà per la prima volta che le uniche grandi persecuzioni contro scienziati sono avvenute durante la laicissima rivoluzione francese (a danno di scienziati particolarmente devoti, come Luigi Galvani e Paolo Ruffini), e, soprattutto, nell’URSS ateo e comunista, dove chi proponeva teorie scientifiche vere, ma non ortodosse rispetto al marxismo, ha perso il posto e, non di rado, la vita.

Francesco Agnoli, “Scienziati, dunque credenti” (Cantagalli, Siena, 2012, pagine 185, euro 14). 

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