I Radicali contrari al finanziamento pubblico? Ma chi ci crede?

Il Partito Radicale è presente sulla scena italiana dal 1955 (seppur riformato nel 1989), fondato da Marco Pannella, dal maestro massone Paolo Ungari, da Leopoldo Piccardi, che contribuì all’elaborazione teorica delle leggi razziali, da Eugenio Scalfari e dall’antifascista Ernesto Rossi, collaboratore però del “Popolo d’Italia” diretto da Benito Mussolini. I radicali hanno fatto dell’anticlericalismo la loro bandiera, tuttavia il miglior risultato elettorale è stato un 3,45% (alla Camera) nel 1979. L’ultimo sondaggio di Spincon.it, è ancora una volta impietoso: il partito di Bonino e Staderini è riuscito a calare dal 3% al 2,8%. Pannella ha  quindi avuto la pensata di andare a corteggiare Beppe Grillo: «ti aspetto da sempre».

Fallimento perfino per i pochi militanti radicali candidati come consiglieri, come ad esempio Salvatore Grizzanti per  il municipio di Asti. Si legge che pur di essere eletto le provate tutte, dalla martellante campagna sui social forum alla distribuzione dei condom elettorali con l’evocativo slogan “Grizzanti fallo sicuro”. Ha anche pensato di farsi sponsorizzare dal Divino Mago Otelma, tra i più attivi militanti del partito di Emma Bonino. Il risultato? La miseria di 75 voti. Grizzanti l’ha presa bene, in modo anche realistico: «Ognuno di quei 75 voti dunque mi riempie d’orgoglio e gratitudine. Noi radicali siamo abituati a prendere mazzate ma non per questo fanno meno male». Impegnati da sempre in battaglie violente e diffamatorie (si veda il recente accanimento sull’ICI per la Chiesa, evaporato in una settimana) non sono mai risultati di alcuna utilità al Paese, nonostante il tentativo di espandere i loro tentacoli con la creazione della “doppia tessera”, ad esempio, come rivelato dall’ex loro tesoriere Danilo Quinto (si veda qui e qui). Battaglie violente e metodi “sporchi”, come i ricatti sentimentali attraverso la strumentalizzazione dei disabili per introdurre l’eutanasia o i noiosi appelli allo sciopero della fame del per-nulla-magro Marco Pannella (volendo emulare Gandhi, che però al contrario suo non poteva contare su un partito politico), propaganda già denunciata da Sergio Romano. 

Curioso e sospetto poi il loro attivismo verso la situazione disumana presente nelle carceri. L’ex tesoriere Danilo Quinto mette in guardia: «il metodo radicale non ha nulla da spartire con la libertà e con la verità. Quel metodo non distingue tra mezzi e fini. A quel metodo, fondato sull’interesse, importano solo gli obiettivi da conseguire». A loro interessa solo «coltivare nicchie di consenso elettorale. A Pannella non interessano i grandi numeri, si è proposto ed ha organizzato, con grande intelligenza, un partito d’elite, che si è sempre rivolto a piccoli nuclei di persone, per farli divenire simbolo di iniziative, poi condivise da molti. Usando tutti i mezzi a disposizione, sono stati individuati via via i temi e i relativi portatori d’interesse, per ottenere immediatamente il consenso, per sedimentarlo e renderlo riconoscibile, “sicuro”». I loro proclami sulle carceri servono «per formare un bacino elettorale consistente e prezioso alla bisogna», cercando il consenso di familiari, avvocati, parti della magistratura, direttori e guardie penitenziarie, associazioni. Quinto, che i radicali li conosce benissimo, avverte: «non basta dire che le battaglie siano giuste, per condividerle. Occorre sempre guardare da chi vengono condotte e perché vengono condotte». Guarda caso Pannella si è lamentato recentemente del fatto che in alcune carceri non è stato permesso il voto alle Comunali.

Dicono di essere contro il finanziamento pubblico ai partiti, poi però –rivela sempre il loro ex tesoriere- «non hanno mai rinunciato alla loro quota di finanziamento pubblico […], per lunghi anni, quei soldi pubblici sono stati utilizzati per pagare le spese di Radio Radicale». Dopo il referendum, promosso nel 1993 contro la legge che istituiva il finanziamento pubblico a favore dei partiti, i soldi sono stati utilizzati dai radicali «per le campagne politiche (le cui spese, in preventivo, venivano persino pensate in ragione dei risultati che si sarebbero ottenuti e con il conseguente denaro che si sarebbe incassato) o per coprire i costi degli apparati e delle strutture».  Senza contare tutti gli altri privilegi ed esenzioni che contano associazioni a loro collegate. Per non parlare dei soldi pubblici destinati a Radio Radicale (10 milioni all’anno, qui un altro approfondimento). Per il 2012, a favore di Radio Radicale è stata autorizzata la spesa di 3 milioni di euro («Radio Radicale è in sala di rianimazione…quindi riuscirà ad andare avanti ancora per qualche mese» ha detto Vidmar Mercatali del Pd)

Nessuno degli ex parlamentari del Partito Radicale, inoltre, ha mai rinunciato al vitalizio mensile, pur essendo stati in Parlamento per un solo giorno. Curioso il caso della pornostar Cicciolina, eletta con i radicali dal 1987 al 1992, cinque presenze in aula ma sufficienti a garantirle un vitalizio di 3mila euro lordi dal 26 novembre scorso. Lo stesso tipo di vitalizio per l’ideologo Toni Negri, grazie a 9 sedute di Parlamento (condannato per associazione sovversiva e insurrezione armata contro i poteri dello stato, candidato su diretto consiglio di Pannella per sottrarlo al carcere), citiamo l’attivista omosessuale  radicale Angelo Pezzana, deputato per ben una settimana, che oggi riceve per questo 3.108€ al mese, lo stesso dicasi per il radicale Pietro Craveri. Identico discorso (cioè 3.108 euro) per l’avvocato radicale Luca Boneschi, un mese da deputato e una sola seduta in Parlamento. Rino Piscitelli, dopo una settimana di Parlamento, a 47 anni ha cominciato a percepire un assegno da 7.959 euro al mese.

Si è poi scoperto che durante l’ultima direzione del Pd, lista nella quale i radicali sono stati eletti in Parlamento, i democratici hanno versato al partito di Pannella 630 mila euro di rimborsi per le ultime politiche, facendo sbottare il tesoriere del PD Antonio Misiani: «Questi fanno la battaglia contro il finanziamento ma poi non disdegnano i nostri rimborsi…».

 

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Anche in Italia la Marcia pro life, i quotidiani si scatenano

Finalmente anche in Italia (parallelamente al Canada) è arrivata la Marcia per la Vita, ed è stata un vero successo: 15 mila persone! Un evento organizzato completamente dal basso che ha radunato intere famiglie, medici scienziati, movimenti cattolici e anche la politica (www.marciaperlavita.it). Uno spartiacque –come spiega Mario Palmaro– tra il prima e il dopo: anche in Italia si è riusciti, contro il pensiero dominante, ad organizzare e mobilitare tutti coloro che ritengono un’ingiustizia insopportabile la legalizzazione dell’uccisione di un essere umano, per i presunti diritti della donna (su questo i malconci sopravvissuti all’aborto, come Gianna Jessen, insistono giustamente parecchio).

La pesante reazione isterica del potere mediatico è stata la cartina tornasole per misurare la portata di questa vittoria, ed è stato divertente fare un giro di lettura dei vari articoli. Tra i più scatenati “Repubblica”, il “Manifesto” e “L’Unità”, poi a seguire il “Fatto Quotidiano” (che -per la cronaca- per la prima volta nella sua storia oggi pubblica un articolo in difesa addirittura di un cardinale cattolico!!!). “Repubblica”, dopo aver elogiato il pedofilo Roman Polansky in un articolo a tutta pagina, ha dedicato all’evento ben 4 articoli, con tanto di storiella di una donna sconvolta perché dei medici pro life le hanno fatto vedere il suo bambino appena abortito, a sottolineare la “violenza” degli anti-abortisti. “L’Unità” (tre articoli!) ci ha messo parecchia rabbia, con titoli del genere “Fondamentalisti in marcia”, evitando ovviamente di parlare delle centinaia di mamme e papà con passeggino e concentrandosi sulla presenza di alcuni esponenti di Forza Nuova. Su “Il Fatto Quotidiano” Daria Lucca, prima di insultare i medici obiettori, ha proposto di organizzare una class action contro i partecipanti alla marcia -definiti “fanatici”, “fondamentalisti” ecc.- per la diffamazione verso chi compie l’aborto. E se le centinaia di famiglie che hanno marciato formassero una class action contro la Lucca per diffamazione a mezzo stampa?

Il “Messaggero” (5 articoli!!), ha pubblicato la sua dose di bufale (come i cartelli sulle “donne assassine”, sulle “donne pagate per manifestare”, che poi erano otto ragazzi/e retribuiti/e che facevano fundraising, sui 200 autobus gratuiti, poi smentita dallo stesso quotidiano). Ha anche intervistato il cattolico Alberto Melloni, che da buon progressista del “Corriere della Sera” si è affrettato a scandalizzarsi e a dire che il Papa non ha parlato di tale Marcia, e quindi -secondo lui- ne avrebbe preso le distanze. La Marcia contro il “pensiero unico”, come ha scritto Giuliano Ferrara, è servita anche per svelare i lupi travestiti da agnelli.

Numerosi i blog che hanno preso in giro (ottimo l’articolo di “Campari e De Maistre”) le reazioni intolleranti e diffamatorie di alcuni quotidiani. La gente, presente in queste fotografie, è stata apostrofata in tutti i modi più dispregiativi ammessi su un quotodiano: “fondamentalisti”, “terroristi”, “nazisti”, “omofobi”, “razzisti” “antisemiti”, “integralisti”, “fascisti”, “violenti” ecc.  Francesco Agnoli ha riassunto ironicamente su “Il Foglio” il terrorismo femminista e abortista che è stato attivato per screditare le belle e sorridenti famiglie pro-life, ricordando che lo stesso accanimento non si vede affatto quando il sindaco di Roma, Alemanno, appoggia la fiera porno-esibizionista del Gay Pride (la polemica è basata anche sulla partecipazione del Sindaco con la fascia tricolore e il patrocinio dato dal Comune). Per lo meno non c’è stata nessuna aggressione fisica, come invece accade puntualmente ad ogni marcia pro-life all’estero.

Significativo l’articolo apparso su “Il Tempo”: «resta comunque il dato, squallido, della strumentalizzazione squisitamente politica e vagamente elettorale di un evento che in una democrazia dovrebbe essere garantito, a prescindere. Resta altrimenti difficile per il cittadino comprendere come mai un’istituzione debba dare il patrocinio al Gay Pride e non alla marcia per la vita». Il quotidiano romano accusa la mistificazione fatta dal centrosinistra. Effettivamente i quotidiani che hanno sollevato le ire reazionarie sono tutti orientati verso una certa ideologia politica (torna in mente il bellissimo “L’Eskimo in redazione”, di Michele Brambilla), la stessa che attraverso il suo leader, Pierluigi Bersani, ha aperto in questi giorni alle unioni omosessuali. Certo, l’on Beppe Fioroni (Pd) ha valorizzato la Marcia. Le elezioni sembrano vicine, occorre riflettere.

 

Qui sotto uno dei video della Marcia, realizzato da “Io amo l’Italia”

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Il successo dell’epigenetica mette in discussione il riduzionismo genetico

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Paolo Tortora, professore ordinario di Biochimica presso l’università di Milano Bicocca, dove è anche Coordinatore del Dottorato in Biologia. È referee per alcune riviste scientifiche internazionali e collabora con l’Istituto Iinserm U710 di Montpellier (Francia)».

 

di Paolo Tortora*
*docente di Biochimica presso l’Università di Milano Bicocca

 

 

Una recente ricerca condotta in collaborazione tra un gruppo di scienziati di Ginevra e uno di Montpellier, e pubblicata sulla rivista specializzata Translational Psychiatry, riporta una scoperta di grande interesse nel campo della genetica (Perroud N, et al., 2011 Transl Psychiatry 1, e59). La ricerca in questione dimostra che esperienze negative vissute nell’infanzia possono produrre, nei soggetti che le hanno subite, modificazioni epigenetiche del DNA.

L’epigenetica studia quelle modificazioni ereditabili dei caratteri codificati nel genoma (che è l’insieme del patrimonio genetico di un organismo) non provocate da mutazioni in senso classico, vale a dire da cambiamenti della sequenza in basi del DNA. Le basi molecolari delle modificazioni epigenetiche sono alquanto complesse: si tratta di un repertorio di modificazioni chimiche del DNA medesimo tra cui le più frequenti sono le metilazioni; oppure di ulteriori modificazioni che interessano gli istoni, quelle proteine che nei cromosomi sono strettamente associate al DNA. L’epigenetica non è in realtà una scienza recentissima, anche se il suo maggiore sviluppo ha avuto luogo soprattutto negli ultimi 15-20 anni, nei quali è emerso che un numero sempre maggiore di eventi coinvolti nella regolazione dell’espressione genica possiede una componente epigenetica.

Tornando all’articolo citato, gli autori hanno dimostrato che soggetti maltrattati nell’infanzia presentano metilazioni in quel tratto di DNA (gene) denominato recettore dei glucocorticoidi, che ha il ruolo di attivare gli effetti fisiologici di questi ormoni controllando a sua volta l’espressione di un determinato repertorio di altri geni. Tali effetti sono molteplici e diversificati, ed includono anche l’adattamento a situazioni di stress. Nel caso descritto da questi ricercatori, le condizioni ambientali hanno dunque prodotto una modificazione permanente del genoma. Senza stabilire un rigoroso determinismo, gli autori del lavoro scientifico ritengono anche plausibile che tale modificazione si traduca in disturbi della personalità, o perlomeno determini una maggiore predisposizione ad essi. Tali osservazioni suggeriscono quindi la possibilità che il genoma venga modificato dall’ambiente, ed è proprio in questo che risiede il loro particolare interesse. Come sopra accennato, ciò non rappresenta in realtà una novità assoluta, come attestano le numerose pubblicazioni scientifiche comparse negli anni recenti nel campo dell’epigenetica. Interessante a questo riguardo è in particolare l’opera della ricercatrice israeliana Eva Jablonka (si veda in particolare il suo libro “Evoluzione quattro dimensioni”, Utet, 2009).

Ma oltre alla possibilità che l’ambiente modifichi il genoma attraverso meccanismi epigenetici, altri contributi scientifici hanno messo addirittura in evidenza la possibilità che tali modificazioni epigenetiche possano essere trasmesse alla progenie. A questo riguardo, due studi sono famosi, tra gli altri. Uno studio classico concerne gli eventi legati alla carestia in Olanda nel 1944-1945 (Luney, LH, 1992 Paediatr Perinat Epidemiol 6, 240-253.). I bambini nati in quel periodo erano sottopeso rispetto a quelli nati prima e dopo; inoltre in età adulta avevano una maggiore incidenza di cardiopatie e altre malattie croniche. Tali osservazioni non presentano nulla di sorprendente, date le condizioni di denutrizione che questi soggetti avevano dovuto sopportare durante la loro vita intrauterina. Ma la scoperta inaspettata fu che le donne nate in quel periodo e diventate a loro volta madri, diedero alla luce bambini essi stessi sottopeso e più soggetti a cardiopatie. L’interpretazione di gran lunga più plausibile di tali risultati è che tali caratteristiche siano state trasmesse alla seconda generazione attraverso modificazioni epigenetiche del genoma. Il secondo esempio è molto simile e riguarda gli effetti di un ormone estrogeno sintetico, il dietilstibestrolo. Diversi decenni fa si scoprì, sia nel caso di esseri umani che di animali da esperimento, che l’esposizione durante la vita intrauterina a tale composto poteva produrre alterazioni permanenti che si sarebbero manifestate nella vita adulta come anormalità degli organi riproduttori, in particolare neoplasie dell’utero (Newbold et al. 2006 Endocrinology 147, S11-S17). Di nuovo, si osservò anche che tali anomalie potevano essere trasmesse alle generazioni successive, una circostanza che indica chiaramente un meccanismo di trasmissione epigenetico.

Si deve dunque riabilitare il Lamarckismo, vale a dire l’antica teoria che sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti? E in aggiunta, che impatto hanno queste osservazioni sulle teorie Darwiniste? A queste domande non è né possibile né opportuno dare riposte semplici. Innanzitutto, tali scoperte non mettono in discussione le leggi fondamentali della trasmissione dei caratteri ereditari, secondo le quali questi ultimi sono primariamente codificati nella sequenza in basi dei vari geni. In merito alla teoria Darwinista nelle sue varie formulazioni, non si può negare che essa abbia una sua autoevidenza, là dove asserisce che la variabilità di caratteri viene generata casualmente (in senso moderno si tratta di mutazioni che interessano la sequenza in basi del DNA), e che i caratteri più adatti alla sopravvivenza della specie sono quelli che tendono a diventare prevalenti nelle generazioni successive. Tuttavia la domanda da farsi è in che misura tali schemi interpretativi possano rendere conto pienamente dell’evoluzione biologica e dell’origine della straordinaria varietà di “phyla” e di specie che conosciamo. Ebbene, ritengo che ad oggi nessuno abbia sufficienti elementi per dare una risposta esaustiva a tale domanda.

In effetti, le scoperte citate mettono in evidenza che gli elementi in gioco circa le leggi dell’eredità dei caratteri e dell’evoluzione, sono ben più complesse di quanto non si ritenesse solo pochi decenni fa. A questo riguardo mi pare opportuno descrivere una dinamica normale sottesa al progresso della conoscenza scientifica in qualsiasi ambito. Accade che scoperte fondamentali si traducano nella formulazione di teorie che rivoluzionano in tutto o in parte le concezioni preesistenti. Ora, tali nuove teorie non rappresentano soltanto un punto di arrivo nel progresso della conoscenza, ma sono anche senza eccezione un punto di partenza per ulteriori sviluppi. Da questi emerge successivamente un quadro interpretativo che presenta una complessità inizialmente insospettata. L’attuale successo e sviluppo dell’epigenetica costituisce una documentazione molto eloquente di una tale dinamica. Essa dimostra che non è possibile considerare il Darwinismo come un recinto entro il quale racchiudere tutti i fattori implicati nei meccanismi evolutivi e dell’eredità. Piuttosto, esso può rappresentare una buona ipotesi di lavoro da prendere come punto di avvio per ampliare lo sguardo, così da formulare teorie nuove che riconducano ad una visione organica sia le vecchie che le nuove conoscenze. Dunque il darwinismo non può essere considerato un dogma immutabile, come in qualsiasi ambito della conoscenza scientifica.

Da ultimo, mi sembra anche opportuno notare che le scoperte menzionate mettono anche seriamente in discussione quelle concezioni riduzionistiche, secondo le quali il comportamento delle specie viventi, inclusa quella umana, sia riconducibile deterministicamente al funzionamento dei geni. Qualsiasi specie, ma soprattutto quella umana, è irriducibile a schemi interpretativi elementari, e il caso della epigenetica non è che uno dei molteplici elementi che smentiscono questa visione della biologia e dell’uomo.


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A scoprire le fonti del Nilo fu il gesuita Pedro Paez

Come abbiamo già avuto modo di parlare, senza la Chiesa e i monasteri, tutta la cultura greco-latina si sarebbe persa, anche materialmente. Senza gli amanuensi benedettini non si sarebbero conservati i documenti e i codici dell’antica cultura latina, che sono stati copiati a volte senza neppure che si capissero. Nessuno, infatti, scriveva più il latino di Cicerone, ad esempio.

La nostra cultura e il progresso scientifico deve molto ai sacerdoti, ai monaci, ai religiosi. Tanti sono gli esponenti principali di specialità filosofiche e scientifiche, che dividevano la loro giornata tra la messa e lo studio. Come don Stanley Jaki (1924–2009), fra i principali rappresentanti della filosofia della scienza, come padre Georges Lemaitre (1894–1966), fondatore della teoria cosmologica moderna, come don Paul Joachim Schebesta (1887-1967), il più importante antropologo specializzato sui Pigmei e sui Semang, come padre Agostino Gemelli (1878–1959), pioniere della psicologia clinica e del lavoro, come il matematico sacerdote Giovanni Boccardi (1859-1936), fondatore della Società Astronomica Italiana, come il sismologo don Giuseppe Mercalli (1850–1914,), inventore della celebre scala, come Francesco Denza (1834–1894) sacerdote fondatore della meterologia in Italia e della Società Meteorologica Italiana (assieme a don Filippo Cecchi), come don Antonio Stoppani (1824–1891), fondatore della geologia e della paleontologia, come padre Gregor Johann Mendel (1822–1884), fondatore della genetica moderna.

Don Eugenio Barsanti (1821–1864) fu l’ideatore del primo motore a scoppio, padre Angelo Secchi (1818-1878) fondò la spettroscopia astronomica nell’Osservatorio Vaticano, l’abate Giovanni Caselli (1815-1891) inventò il pantelegrafo (precursore del fax), Francesco de Vico (1805–1848) fu il primo osservatore degli anelli di Saturno, don Luigi Galvani (1737–1798), scoprì l’elettricità biologica, don Lazzaro Spallanzani (1729–1799) fondò la biologia moderna, padre Giovanni Battista Beccaria (1716–1781), inventò il parafulmine e fu uno dei più grandi studiosi dell’elettrologia, padre Giuseppe Boscovich (1711-1787) fondò l’osservatorio astronomico di Brera e fu il primo a fornire una procedura per il calcolo dell’orbita di un pianeta, don Giovanni Girolamo Saccheri (1667–1733), è padre delle geometrie non euclidee, don Niccolò Stenone (1638–1686) fondò la geologia, padre Athanasius Kircher (1602-1680) fondò l’egittologia, padre Benedetto Castelli (1577–1644), fondò l’idraulica e poi ancora più indietro nel tempo, da Copernico a Grossatesta.

In un libro pubblicato di recente  “Antes que Nadie”, lo scrittore spagnolo Fernando Paz ha rivelato che fu un gesuita spagnolo, Pedro Paez, a scoprire le sorgenti del Nilo, e non Richard Francis Burton e John Hanning Speke, come insegnano i libri di storia.  Burton e Speke in effetti scoprirono l’origine del Nilo Bianco, nel punto più lontano dalla foce, nel lago Vittoria, ma in un fiume quello che conta è il flusso idrico, e in questo caso è il Nilo Blu, scoperto dal missionario padre Páez. Il sacerdote portò il Vangelo in posti sconosciuti, passando dal paludismo ai pirati, dalla cattura da parte dei turchi, a torture e carcere, e infine alla vendita come schiavo a un sultano dello Yemen. Poi la traversata a piedi nudi del deserto, cibandosi di cavallette. Páez percorse e descrisse zone come il deserto di Habramaut e Rub-al-Khali, della cui scoperta, due secoli più tardi, altri europei presero il merito.

Nella sua “Storia di Etiopia”, scritta nel 1620, raccontò la scoperta delle fonti del Nilo, mentre  accompagnava il re in una passeggiata a cavallo, descrisse la cosa con distacco, come non rivendicò mai nessuna scoperta. Gli interessava di più annunciare l’unica vera “buona notizia” (evangelium).

 

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La tesi di Carlo Flamigni: «impedire la nascita di figli non perfetti è compassione»

Interessante la recensione apparsa sull’“Osservatore Romano” a cura della storica Lucetta Scaraffia, docente di Storia Contemporanea presso l’Università “La Sapienza”, del libro di Karl Binding e Alfred Hoche, “Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens” (“La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore”), uscito in Germania nel 1920.

Il libro rivela, spiega la storica, che il pensiero eugenetico portato ai suoi esiti estremi era diffuso e condiviso anche prima dell’avvento al potere dei nazisti. L’eugenetica venne promossa inizialmente Francis Galton, cugino di Darwin, basandosi proprio sul darwinismo eugenista, quest’ultimo venne introdotto in Germania dallo psichiatra Hoche, guarda caso allievo di Ernst Haeckel, uno degli autori. I due autori, Binding e Hoche non erano nazisti, ma la loro opera trovò ampia diffusione da parte dei seguaci di Hitler, attraverso essa si stabilirono i motivi per l’eliminazione delle persone malate gravemente o affette da disturbi psichici. Sono gli stessi motivi e argomenti, afferma Scaraffia, «utilizzati oggi dai fautori dell’eutanasia e della selezione dei feti», la cosiddetta “cultura della morte”.

Binding e Hoche, infatti, sostengono che non si può considerare vita in senso pieno quella di chi, a causa della malattia, è esposto a un’agonia dolorosa e senza speranza, o quella degli idioti incurabili, che trascinano esistenze senza scopo e utilità, imponendo alla comunità oneri di sostegno pesanti e inutili. Essi inventano una definizione, che è sopravvissuta oltre al nazismo, diffusa ancora oggi sui quotidiani: «vite non degne di essere vissute». I due eugenisti parlano anche di “morte caritatevole”, «le stesse parole che ritornano negli scritti di molti bioeticisti contemporanei, e di molti politici che sostengono proposte legislative di tipo eutanasico», ribadisce la storica. I due autori eugenisti affermano anche che «per noi impedire certe nascite per avere un figlio non perfetto, ma semplicemente normale, è un atto di compassione e di sofferenza».

Avete trovato qualcosa di strano in queste ultime due righe? No? Significa allora che la tesi della storica Scaraffia è confermata! La citazione infatti non è di Binding e Hoche, come abbiamo scritto, ma è stata presa da una recentissima intervista (21 aprile 2012) a Carlo Flamigni, padre della fecondazione assistita, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e presidente onorario dell’associazione di atei fondamentalisti italiani. E’ lui infatti, mentre parla di fecondazione assistita, a sostenere che «impedire certe nascite per avere un figlio non perfetto, ma semplicemente normale, è un atto di compassione». Incredibile, vero? Tesi eugeniste diffuse sotto il nazismo, ripetute nel 2012 sulla “Gazzetta di Reggio” . Secondo la storica, questo libro «dovrebbe dunque imbarazzare fortemente coloro che sostengono l’eutanasia pensando di non avere niente a che fare con il nazismo […] l’eugenetica è ancora viva, e non è stata liquidata insieme al passato nazista».

Ad onor di cronaca, riportiamo anche il pensiero di Flamigni sulle coppie gay: «L’importante è che si eviti la parola matrimonio per designare questo tipo di legame. I diritti, però, devono essere gli stessi previsti per i coniugi. Intanto gli omosessuali devono smettere di spaventare la gente con certe esibizioni nei Gay Pride». Rispetto all’eutanasia, Flamigni la introdurrebbe solo quando il popolo sarà abbastanza plagiato dai media: «occorre aspettare i tempi in cui essa non susciti sgomento fra la popolazione».

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La Bibbia è “l’alfabeto per leggere il mondo”

Alla Biblioteca Nazionale di Parigi, specchio della cultura occidentale, la voce “Gesù Cristo” è seconda per numero di schede. La prima, significativamente, è “Dieu” (“Dio”). Questo dovrebbe già essere significativo sul valore del cristianesimo nella nostra cultura. Il cattolicesimo non è una “religione del Libro” (come l’ebraismo, l’islam e il protestantesimo, qui un utilissimo riferimento), tuttavia basterebbe anche ricordare che la Bibbia è da secoli il libro più venduto e più tradotto al mondo (anche il più letto?), come risulta da continue classifiche internazionali.

L’ultima è quella realizzata recentemente dall’americano James Chapman, che è arrivato evidentemente ad inserire la Bibbia al primo posto. Lo stesso ha fatto la rivista culturale “Apollodoro”, inserendo nella classifica dei libri che hanno “rivoluzionato la storia”, dopo la Bibbia, il Corano e la “Summa Theologiae” di San Tommaso d’Aquino. Più sorprendente, come abbiamo già riportato, il fatto che nel 2011 in Norvegia la Bibbia sia stata il libro bestseller, con tanto di code  degli acquirenti durante la notte per ottenere una copia della nuova traduzione. Nel 2010, in Italia, diecimila personalità della cultura, come mons. Gianfranco Ravasi, Giuseppe De Rita, Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack, Tullia Zevi, hanno firmato un appello a sostegno dell’ iniziativa di introdurre la lettura della Bibbia nelle scuole: «Conoscere la Bibbia significa conoscere le nostre radici e la nostra storia». 

Per l’occasione citiamo alcune parole scritte nel 2006 da uno dei firmatari, l’editorialista de “Il Corriere della Sera” Claudio Magris in merito al Libro. Ha citato il pensiero del non religioso Bertolt Brecht, per il quale la Bibbia era il libro che aveva in lui suscitato “l’impressione più forte”: «nella Bibbia, Brecht trovava un alfabeto per leggere il mondo; la grandezza di un testo che dice brutalmente e senza indorare la pillola la nuda verità della vita e della morte, l’ eros e la violenza, l’ incanto e il sapore di cenere, l’ altezza cui possono arrivare gli uomini salendo al di sopra di se stessi fino a concepire un assoluto che li trascende, li sorregge o li annienta, e la bassezza cui quegli stessi uomini possono giungere». Come ha scritto Northrop Frye, «la Bibbia è il grande codice della civiltà». Continua Magris sul “Corsera”«è dunque la storia – arcaica e profetica, emergente da un oscuro passato e protesa al futuro – dell’ umanità […] La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento – e la tragedia e il mito greco continuano infatti a fornire le chiavi e le immagini per capire chi e cosa siamo, la colpa e la salvezza, l’ esilio e il ritorno».

Lo scrittore scocca anche una freccia contro i bui secoli illuministi: «Forse un gusto sterilmente raffinato e privo del senso dell’oltre non può comprendere questa sacra carnalità, come quell’aristocratica francese del Settecento, la quale si lamentava che lo Spirito Santo – per la teologia, ispiratore, anzi autore della Bibbia – scrivesse così male, ossia in modo poco elegante». E conclude: «insieme alla filosofia e poesia greca, Antico e Nuovo Testamento sono una radice primaria dell’ identità europea e occidentale, oltre che testi di portata universale. Lo sono ugualmente per i credenti come per chi non li crede ispirati direttamente in modo speciale da Dio […]. Le radici dell’ Europa sono in buona parte ebraico-cristiane, grazie alle quali nel nostro Dna sono entrate pure molte linfe della civiltà medio-orientale; riconoscerlo non è una professione di fede ma una constatazione storica e negarlo è un’automutilazione».

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Il mistero della coscienza: non è nel cervello e non arriva dall’evoluzione

«La maggior parte degli atei sembrano essere certi che la coscienza dipende interamente (e sia riducibile al) dal funzionamento del cervello. Nell’ultimo capitolo del mio libro, sostengo brevemente che questa certezza è ingiustificata. La verità è che gli scienziati non sanno ancora quale sia il rapporto tra coscienza e materia» (The End of Faith, Norton & Company 2004). Questa frase appartiene sorprendentemente al filosofo Sam Harris, conosciuto per essere uno dei leader internazionali dell’ateismo scientifico (si, farà anche sorridere, ma c’è ancora gente che ci crede).

Curiosi personaggi che fino a ieri proclamavano l’infallibilità scientifica come dogma universale, mentre oggi -dopo due secoli di ubriacatura illuminista- reintroducono la parola “mistero” al culmine delle grandi questioni umane. Certo ancora ci sono in giro soggetti superstiziosi, devoti alla “dea scienza”, come Paolo Flores D’Arcais, come Danilo Mainardi che parla apertamente di «culto della ragione» alla stregua dei rivoluzionari francesi, come Piergiorgio Odifreddi che parla della scienza in chiave mistica (da “Il Vangelo secondo la Scienza”): «concentrazione, meditazione, illuminazione. Essa può adeguatamente fornire le basi per una religione completamente decostruita, punto di arrivo finale del percorso di dissoluzione del teismo nell’ateismo». Anche nel mondo anglosassone c’è ancora qualche esemplare di positivismo, la maggioranza di essi diligentemente al seguito del gran sacerdote Richard Dawkins. Ad esempio il chimico Peter Atkins, secondo cui «in futuro, la scienza sarà in grado di stabilire che cosa si intende per coscienza […] in altre parole tutto quel genere di cose che classifichiamo come ‘spiritualità umana’. Credo anche che la scienza, quasi inevitabilmente, riuscirà a costruire macchine in grado di simulare la coscienza in modo così completo da non consentirci di distinguere la loro coscienza dalla sua o dalla mia» (da “La scienza e i miracoli”, Tea 2006). Non è una citazione del 1800, ma di pochi anni fa.

Mettendo da parte questo genere di odifreddure, interessante andare a leggere la recente opinione, ad esempio, di Robert Lanza, responsabile scientifico presso l’Advanced Cell Technology e docente presso la Wake Forest University School of Medicine, il quale scrive: «nonostante i superconduttori che contengono una quantità sufficiente di filo di niobium-titanium per fare il giro della terra sedici volte, non abbiamo una maggiore comprensione del perché esistiamo rispetto ai primi pensatori della civiltà […] Quanto più scrutiamo lo spazio, tanto più ci rendiamo conto che il segreto della vita e dell’esistenza non può essere trovato controllando le galassie a spirale o visionando lontane supernovae . Si trova più in profondità. Si tratta di noi stessi […]. Siamo molto di più di quanto ci è stato insegnato nelle ore di  biologia a scuola. Non siamo solo una collezione di atomi […] c’è di più per noi che la somma delle nostre funzioni biochimiche. La scienza non è riuscita a riconoscere le proprietà della vita che lo rendono fondamentale per la nostra esistenza». Ed infine: «La risposta alla vita e all’universo non può essere trovata guardando attraverso un telescopio o esaminando i fringuelli delle Galapagos. Si trova molto più in profondità. E’ per questo che esiste la nostra coscienza».

La “coscienza” è il filo conduttore di questo articolo, partendo da Harris e passando per Atkins. Tre mesi fa anche il filosofo Colin McGinn, docente presso l’Università di Miami, ha affrontato la tematica: «Più guardiamo il cervello, tanto meno sembra un dispositivo per la creazione della coscienza. Forse i filosofi non saranno mai in grado di risolvere il mistero». Ecco dunque, come si diceva, che la parola “mistero” torna a fare capolino. Parlando della filosofia della mente, ha delineato le 5 posizioni correnti sulla coscienza:  eliminativistacioè non esiste la coscienza, è solo una nostra illusione, essa si riduce solo a stati cerebrali, posizione sostenuta da Atkins (e da molti ateologi), come abbiamo visto, ma definita da McGinn «assurda, una forma di pazzia». C’è poi la concezione dualista: la realtà si divide in due sfere giganti: il cervello fisico da un lato, e la mente cosciente dall’altro, ma risulta essere una posizione contraddittoria e inefficace a spiegare i molti dubbi che emergono. La posizione idealista, anch’essa assurda, afferma che non esiste nulla se non la mente,  la materia è pura illusione tutto è un’allucinazione del cervello. La concezione panpsichista tenta invece di risolvere il “mistero” della coscienza affermando che essa è diffusa in tutto il mondo pre-materiale, era già presente nel Big Bang ma -spiega il filosofo- non offre alcuna prova a suo sostegno. Infine, rimane la posizione detta “mysterian”, a cui McGinn appartiene, ovvero la concezione per cui la risposta è al di là dell’apparato concettuale delle risorse umane. Più le neuroscienze studiano il cervello, afferma, e più si capisce che esso non può aver prodotto la coscienza.  «Ultimamente», conclude, «mi sono accorto che il mistero è abbastanza diffuso, anche nella più difficile delle scienze».

Concludendo, se -come afferma il dott. Lanza-, la coscienza non è un prodotto dell’evoluzione, se -come afferma il filosofo McGinn- la coscienza non è un prodotto del cervello e non è un’illusione, allora da dove essa arriva? Se non si vuole entrare in campo teologico, l’unica risposta valida è introdurre la parola “mistero”. Lo ha spiegato in modo poetico il premio Nobel per la fisica, Richard Feynman: «La stessa emozione, la stessa meraviglia e lo stesso mistero, nascono continuamente ogni volta che guardiamo a un problema in modo sufficientemente profondo. A una maggiore conoscenza si accompagna un più insondabile e meraviglioso mistero, che spinge a penetrare ancora di più in profondità» (“The Value of Science”, Basic Book 1958)

 

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La fecondazione in vitro aumenta del 37% i problemi genetici

“Maschio o femmina?”. Era il ritornello ricorrente posto agli aspiranti genitori in attesa del nascituro. E si ipotizzavano le soluzioni. Si pensava alla forma della pancia, alle sensazioni; ma il tutto restava una dolce sorpresa al momento della venuta alla luce. Poi, il sesso del nascituro è divenuto certezza, col progredire della scienza. Dunque gli interrogativi son cambiati: “a chi somiglia?”.Nonostante il piccolo o la piccola non siano ancora venuti al mondo. Le nuove ecografie infatti sembrano foto digitali. Pare che riescano ad evidenziare addirittura i tratti del viso del feto. Ancora qualche anno ed i quesiti volgeranno alla bellezza, alle dimensioni, al peso del bebè. Con relative pretese. “Lo voglio bello, intelligente, con gli occhi verdi …”. Come scegliersi un abito, un gioiello, una automobile. Il rischio di “selezionare” i tratti genetici a proprio uso e consumo esiste. Ed è “giustificato” in nome della riduzione delle disuguaglianze. Come se, diventando uguali , o perlomeno simili, potessimo diventare “giusti”. Ma per chi?

Un recente articolo pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine, poneva seri interrogativi sull’effettiva efficacia della mappatura del genoma umano per elaborare previsioni sull’insorgere di malattie. La rivista scientifica “Fertility and sterility” ha evidenziato invece come dall’analisi di gemelli monozigoti, il sequenziamento del Dna non risulta essere una tecnica capace di predire la futura salute di una persona. Stesse perplessità sussistono anche in merito al destino dei nati da fecondazione artificiale. Al contrario, il concepimento in laboratorio aumenta del 37% la probabilità di difetti alla nascita. Analoghe considerazioni, cause dirette della fecondazione in vitro, sono state rilevate da uno studio pubblicato sulla rivista dell’American Heart Associatio” (problemi vascolari). E’ stato anche riscontrato, in uno studio pubblicato nel 2010 su “Pediatrics” (rivista ufficiale dell’accademia americana di pediatria) un alto rischio di tendenza alla tumoralità per i bambini nati da fecondazione. La Fivet (Fertilizzazione In Vitro con Embryo Transfer) dunque, oltre a creare un alto numero di embrioni umani scartati, congelati o distrutti, incrementa anche il rischio di far nascere bambini con problemi genetici importanti.

Questo dato però non viene particolarmente diffuso perché l’industria della fecondazione assistita fattura attualmente 6 miliardi e mezzo di dollari l’anno; motivo per cui far andare avanti il discorso nonostante i danni che arreca alle donne che si prestano a questo tormento; di matrice psicologica e fisica, come riportato in un documentario prodotto dal “Center for Bioethics and Culture”. L’insuccesso di questa tecnica , la morte degli embrioni e l’abortività che comporta, non ne consentano l’accettazione da parte della Chiesa. Ma è veramente così degradante questa tecnica? La rivista scientifica «HEC Forum» ha risposto di “si”: «La Fivet ha strette regole che lasciano le donne fisicamente ed emotivamente esauste. Il trattamento di Fiv può avere un tremendo impatto sulle donne: è un iter assai impegnativo dal punto di vista fisico con effetti di vasta portata sul benessere psicologico di una donna […] oltre a causare rotture nel rapporto con il partner e nelle relazioni sociali».

Secondo uno studio condotto in Belgio, ancora, su 2995 nati tramite Fivet il 30% nasce prematuro e con gravi problemi di peso, necessitando nel 25% dei casi di cure intensive. I ricoveri ospedalieri neonatali sono 3 volte superiori. La sindrome di Beckwith-Wiedman, che provoca malformazioni e tumori, nei bambini nati da Fivet è 6 volte superiore. Ma non è finita: un’equipe svedese ha studiato oltre 13.000 bambini nati da fecondazione in vitro. Le conclusioni sono state così sintetizzate: «I bambini nati da FIV hanno conseguenze ostetriche peggiori rispetto alla popolazione generale. I nati singoli, indipendentemente se nati dopo trasferimento di un solo embrione o di due embrioni, hanno anch’essi conseguenze ostetriche peggiori, con tassi maggiori di prematurità e di basso peso alla nascita». Alla luce di questi considerevoli dati, delle conseguenze sottolineate da autorevoli ricercatori, la domanda cambia ancora. Possiamo tutto? E la risposta è evidente. Non ha bisogno di ricerche, o forse si. Quelle della coscienza e dell’etica. Non sempre ciò che vien dopo è progresso, spiegava Alessandro Manzoni.

Livia Carandente

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Il bioeticista Nicholas Tonti-Filippini offre argomenti contro l’eutanasia

Il prof. Nicholas Tonti-Filippini, Decano Associato e Preside di Bioetica all’Istituto Giovanni Paolo II per il Matrimonio e la Famiglia di Melbourne, già eticista presso il primo ospedale d’Australia, ha pubblicato un libro molto interessante, Caring for People Who are Sick or Dying (Connor Court Publishing 2012) in cui offre un’ottima sintesi delle proprie esperienze professionali, ma anche come ex-malato terminale, avendo avuto a lungo a che fare con numerose malattie croniche.

Argomenta da subito, si legge su Zenit.it che ne ha recensito l’opera, su un gran numero di questioni generali riguardo alla relazione tra pazienti e sistema sanitario, rimanendo nell’ambito della tradizione cattolica. Spiega che l’assistenza come oggi è intesa, ebbe origine nel Medioevo ed è incentrata sull’idea che gli esseri umani sono “infermieri” del loro corpo e di esso responsabili. Ovviamente è una visione in contrasto a quella maggioritaria di oggi, dove la vita ha senso/dignità solo se è utile o efficiente. Interessante il discorso fatto nell’ambito delle cure straordinarie, dove si ribadisce che le procedure mediche eccessivamente gravose o sproporzionate al risultato ottenuto possono (devono) essere interrotte. Il rifiuto all’accanimento terapeutico non ha  però nulla a che vedere con il suicidio, e nemmeno contraddice la naturale inclinazione a preservare la vita. Viene affrontato anche la casistica della rianimazione, che non dovrebbe essere applicata sempre. E’ un’operazione molto invasiva, poco utile in caso di malattia grave. Spesso è deleteria, in quanto in persone anziane può frequentemente rompere le costole. Il criterio per decidere cosa fare, secondo l’autore, è valutare lo stato mentale del paziente, l’eventualità che sia in possesso di informazioni mediche rilevanti e poi il giudizio del medico del paziente.

Tonti-Filippini affronta ovviamente anche la tematica dell’eutanasia, qualcosa di diverso dalla sospensione di un trattamento inutile. I sostenitori dicono che si dovrebbe rispettare l’autonomia della persona (quando si parla di conservazione della vita non esiste però nessuna autodeterminazione, si veda ad esempio l’infortunistica stradale). Ma togliere la vita a qualcuno, significa sottrarre ogni opportunità di autonomia nel futuro. Immanuel Kant, a questo proposito, affermava che il suicidio era sbagliato poiché significava trattare qualcuno come un oggetto o un mezzo, piuttosto che come un fine. Come anche il suicidio assistito, inoltre, questa pratica contraddice il ruolo principale del medico, cioè la conservazione della vita e della salute. Non per nulla, dichiara Tonti-Filippini, pressoché tutte le organizzazioni mediche nazionali nei paesi di lingua inglese hanno inequivocabilmente rigettato la pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito come contrari all’etica dell’assistenza medica.

Un’altra “leggenda nera” sul fine vita, sostiene che la sacralità della vita umana sia un credo religioso, non applicabile in una società laica. In realtà, argomenta il bioeticista australiano, l’inviolabilità della vita umana non è soltanto una nozione religiosa, ma è riconosciuta dai diritti umani a livello internazionale. Ad esempio, quando si ha a che fare con persone che vivono in uno stato di incoscienza, il rispetto per le loro vite rimane intatto, poiché esso non è basato sulle funzioni vitali che esprimono ma su ciò che sono. L’eutanasia non previene nemmeno forme di abuso, lo dimostrano proprio i paesi in cui è depenalizzata dove è evidente il cosiddetto “pendio scivoloso”. In questi Paesi, inoltre, è sensibile una certa forma di pressione su malati, anziani e disabili, i quali inevitabilmente vengono spinti a una certa decisione per non dover essere un peso per i propri familiari.

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Libero arbitrio: filosofi si prendono gioco dello scientismo di Sam Harris

Il 1° aprile scorso sul sito «Practical Ethics» dell’Università di Oxford è stato pubblicato un articolo dal filosofo Simon Rippon nel quale si rivelavano i contenuti di uno studio neuroscientifico rivoluzionario, attraverso il quale usando un nuovo tipo di scanner cerebrale sarebbe stato possibile localizzare con precisione, nella corteccia prefrontale, la sede del libero arbitrio, permettendoci di determinare con chiarezza i processi causali che conducono alle azioni libere.

A leggere i commenti ricevuti, pochi ci sono cascati. Si trattava infatti di un simpatico “pesce d’Aprile”. Ma a chi era rivolta questa burla? Lo ha spiegato lo stesso filosofo di Oxford, affermando di aver voluto prendere per il naso gli esaltati “new atheists”, come Sam Harris e Jerry Coyne (e mettiamoci pure Richard Dawkins), secondo i quali le neuroscienze sono lo strumento della verità suprema attraverso cui si può dimostrare l’inesistenza del libero arbitrio (e quindi, secondo i loro “ragionamenti”, l’inesistenza di Dio). Una concezione, quella della onnipotenza delle neuroscienze, che Rippon ha liquidato come «ridicola e confusa», perché, ha spiegato, il libero arbitrio è un profondo problema. essenzialmente filosofico.

Il filosofo Mario De Caro, docente presso l’Università Roma Tre, ha però voluto precisare che «è vero che il problema del libero arbitrio non può essere risolto dalle sole neuroscienze; ma le neuroscienze possono comunque portare un contributo molto importante alla chiarificazione del problema». Ha ricordato poi che «non pochi neuro-entusiasti argomentano che il libero arbitrio è un’illusione in quanto tutte le nostre azioni sono causalmente determinate da eventi cerebrali. Peccato che moltissimi filosofi, i cosiddetti “compatibilisti” (come Leibniz, Locke, Hume o Dennett), abbiano argomentato che la causalità deterministica non impedisce affatto il libero arbitrio, anzi ne è condizione di possibilità […]. Per mostrare che il libero arbitrio non esiste, allora, non basta provare che le nostre azioni sono determinate neurofisiologicamente; bisogna anche confutare la concezione compatibilistica del libero arbitrio». Ricordiamo che De Caro, nell’interessante libro “Siamo davvero liberi” (Codice 2010), ha avuto anche modo di sconfessare l’idea che le spiegazioni evoluzioniste (attraverso la psicologia evolutiva) possano spiegare l’origine della moralità, sottolineando l’irriducibilità dell’uomo rispetto all’animale (approfondiremo però in futuro).

Tornando al sito web dell’Università di Oxford, è interessante notare come il filosofo anti-teista Harris (autore di un recente libro, già recensito su questo sito) è spesso preso di mira, in modo molto negativo. Sempre Rippon, nel 2010, recensiva un suo lavoro con il quale l’amico di Dawkins voleva sostenere che la scienza può determinare ciò che è moralmente giusto o sbagliato. Rippon definisce questo atteggiamento, ovviamente, come “scientista” e “fallace”, impegnandosi a dimostrarne il perché. Nel novembre scorso è stato lo psicologo Brian Earp ad interessarsi degli argomenti del controverso leader dell’ateismo scientifico. Lo ha fatto con molta ironia, a tratti imbarazzato dalla tesi centrale di Harris, ovvero (ancora una volta) la presunta capacità della scienza di determinare la correttezza o meno dei valori umani: «Ciò che realmente Harris fa nel suo libro -nemmeno molto bene-», ha scritto Earp, «è il semplice e vecchio laico ragionamento sulla morale, affermando di stare usando la scienza per decidere cosa è bene e cosa è male. Che Harris sia veramente così ingenuo […] pare incredibile, e così io sospetto che lui stia esagerando per vendere più copie del libro. Provo vergogna per lui».

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