L’archeologo Dan Bahat: «il Santo Sepolcro è autentico»

Un campo dove la scienza e la fede sono stretti alleati è sicuramente quello dell’archeologia. Negli ultimi cento anni la portata delle scoperte realizzate nei dintorni di Gerusalemme ha permesso di spazzare via secoli di teorie anti-cristiane, le quali identificavano Gesù e i Vangeli come inattendibili frutti di mitologie e invenzioni umane. Oggi non soltanto non è più possibile negare l’esistenza storica di Gesù, ma è possibile sostenere con la maggior parte degli storici che i Vangeli (almeno tre su quattro) sono opere immediatamente successive alla Sua morte, quando ancora erano in vita testimoni oculari (che facilmente avrebbero potuto smentire informazioni false).

Ha provato a fare un rapido punto sulla situazione l’archeologo israeliano Dan Bahat, in Italia in questi giorni per partecipare al Festival biblico di Vicenza. Interrogato da “Avvenire”, ha spiegato che «rispetto all’Antico Testamento la nostra conoscenza di Gerusalemme è cambiata totalmente con gli scavi nella collina della città di Davide, dove abbiamo trovato numerosi reperti sulla distruzione del 586 a.C., quella di Nabucodonosor», inoltre «sta tornando alla luce la città di Erode che è anche quella in cui è vissuto Gesù. La Gerusalemme di oggi è costruita sulla città romana che è tardiva, risale a un secolo dopo. Solo attraverso l’archeologia abbiamo potuto conoscere la città erodiana e così oggi abbiamo ritrovato quella che era la strada principale, la , il quartiere dove vivevano i sacerdoti. E poi il sistema centrale della fognatura, un’altra scoperta molto importante perché durante la rivolta contro i romani gli ebrei avevano nascosto lì dentro molte cose. Reperti che ci hanno aiutato a scoprire dettagli importanti sulla vita nel tempio».

Anche fuori da Gerusalemme gli scavi hanno aggiunto informazioni fondamentali: «Penso agli scavi a Kayafa, che è il luogo della battaglia tra Davide e Golia: si trova a Beit Shemesh, una trentina di chilometri a ovest di Gerusalemme. Abbiamo trovato un’iscrizione che cita le parole dei profeti: non fate del male alla vedova, proteggete gli orfani. Indicazioni morali che sono dei profeti più tardivi, come Isaia e Geremia. Sempre lì, poi, è venuto alla luce un centro di culto dell’epoca di Davide, decimo secolo a.C.: è la conferma che il suo regno era esteso, la dimostrazione che Davide non fu solo una figura mitologica».

Al Festival biblico però, Bahat ha parlato del Santo Sepolcro: «Sono molti gli elementi che mi fanno dire: questo può davvero essere il posto della sepoltura di Gesù. Archeologicamente non ha nessun senso identificare il sepolcro di Gesù con la Tomba del Giardino, come fanno i protestanti. Dobbiamo dire la verità. E secondo me è altrettanto importante distinguere il Santo Sepolcro da altri luoghi della vita di Gesù indicati dai francescani nel XIV secolo. Quelli sì hanno un valore solo spirituale, non storico». Probabilmente l’archeologo si riferisce alla Via Dolorosa, come ha spiegato in una precedente intervista.

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Brevi interviste sulla fede ad attori e vip

Sul sito di “Avvenire” sono comparsi piccoli estratti di interviste sulla fede ad alcuni volti noti credenti e non credenti, in particolare attori e attrici. Le riprese sono state realizzate da “Nova-T”, il centro di produzioni televisive e multimediali dei Frati Cappuccini.

 
 

Un estratto dell’intervista all’attore Andrea Giordana

 

Un estratto dell’intervista all’attrice Claudia Koll

 

Un estratto dell’intervista all’attore Gianluca Guidi

 

Un estratto dell’intervista all’attrice Giuliana Lojodice

 
 

Su “TV2000”, di proprietà della Conferenza Episcopale Italiana, è partito invece un programma chiamato “A tu per tu” (qui canale Youtube), ovvero una serie di incontri televisivi sul tema della fede con personaggi di spicco della cultura, condotto dal giornalista Gian Filippo Belardo e dal prof. Ferdinando Montuschi, Emerito di Psicologia Speciale all’Università di Roma Tre. Il 21 marzo 2012, proprio a questo programma, ha partecipato Lucio Dalla, morto 10 giorni dopo.

Qui sotto l’intera intervista a Lucio Dalla, l’ultima della sua vita

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Pediatri italiani (SIPO e SIPPS): «fortemente contrari ad adozioni omosessuali»

Come riportavamo pochi giorni fa, un gruppo di 150 medici di tutta l’Australia ha firmato una sottomissione di richiesta al Senato per opporsi al matrimonio omosessuale. Tra questi ci sono diversi psichiatri, come Kuruvilla George, che è anche membro del Victorian Equal Opportunity and Human Rights Commission nonché uno dei più importanti ricercatori australiani.

Nelle loro motivazioni hanno anche criticato fortemente la concessione agli omosessuali di poter adottare dei bambini, privando questi ultimi del diritto di crescere con un padre e una madre. In particolare, hanno citato la posizione dell’American College of Paediatricians, secondo cui «esporre i bambini allo stile di vita omosessuale può aumentare il rischio di danno emotivo, mentale e anche fisico».

 

Anche in Italia si è mosso qualcosa, Francesco Paravati, presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO), intervistato durante la trasmissione “KlausCondicio”, programma condotto da Klaus Davi in onda su YouTube, ha dichiarato in merito alle cosiddette “nuove famiglie” (divorziati, conviventi, omosessuali…): «Quello che c’è di scientifico oggi dimostra che il bambino cresce confuso nell’identità perché perde i punti di riferimento, sia nelle “famiglie” monoparentali  che nelle unioni omosessuali. Il problema a carico del bambino è una difficoltà ad interloquire con punti di riferimento chiari». In questi contesti familiari, ha continuato Paravati, «il bambino rimane ancora più, diventa un bambino meno sociale, un bambino che matura più tardi, con ritardi nel linguaggio». In particolare, i figli delle coppie omosessuali «in Italia sono 100 mila, ma negli Stati Uniti sono milioni e il problema è davvero ragguardevole e occorre davvero una riflessione. La problematica è data principalmente dal fatto che il bambino, sopratutto nei primi anni di vita, è più confuso in cui manca un riferimento ad un’identità di entrambi i genitori. Avere due mamme, una mamma che fa da papà diventa difficoltoso, anche nei riscontri dell’ambito sociale. Il punto principale è la crescita in uno stato di confusione per quanto riguarda i punti di riferimento genitoriali, importante nella vita psicologica di un bambino». Non ci sono evidenze su impatti sulla salute fisica, ma «non vanno sottovalutate le problematiche sul benessere dell’umore e del linguaggio, che possono essere impattate in un bambino che cresce in un contesto particolare».

Rispetto alla posizione di alcune associazioni scientifiche, il presidente della SIPO avverte che «quando si chiedono osservazioni scientifiche occorre sempre del tempo per valutare il fenomeno. Le problematiche delle “nuove famiglie” sono fenomeni recenti, tutti i risultati di qualunque organismo scientifico sono perciò preliminari e non definitivi. Avrei comunque un atteggiamento pregiudiziale». In conclusione, rispetto alle famiglie monoparentali (separazione), «il problema del bambino è decisamente complesso. Queste famiglie sono confuse nei loro confronti, spesso i genitori hanno troppi anni per accudirli, esistono 4-6 nonni in seguito alla prima e seconda unione. E’ una situazione devastante per i bambini».

 

Qui sotto l’intervista al dr. Paravati

 
 
 

Posizione analoga è stata quella di Giuseppe De Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), affiliata alla SIP Società Italiana di Pediatria, ha escluso ogni possibilità alle adozioni gay: «noi ci batteremo sempre sul fatto che la famiglia è composta da uomo e donna con figli, e possibilmente con più di un figlio». Ha poi continuato il pediatra, rispetto alle famiglie monoparentali: «se nel contesto sociale il bambino si trova a vivere solo con la mamma o solo con il papà, sicuramente c’è una diversità, c’è qualcosa che non funziona». Parlando di unioni omosessuali, «io mi auguro che in Italia e in Europa non venga mai approvata una legge sulle adozioni gay, questi bambini che emulano la famiglia, i genitori…si rischia di fare un esercito di gay, è qualcosa che non vedo bene, è tendenzialmente ad alto rischio che il bambino abbia problemi psichiatri e psicosomatici. Creiamo un diverso, un qualcosa di anti-naturale, noi abbiamo maschi e femmine e non vedo altre caselle». Il pediatra si allinea dunque alla posizione dell’American College of Paediatricians, affermando: «sono sicuro che la stragrande maggioranza di questi ragazzi possono avere dei problemi non indifferenti. Se la famiglia è il punto di riferimento, allora io che sono figlio di due gay come posso fare tutto il contrario di quello che fanno i miei genitori?». La famiglia deve insegnare anche il comportamento sessuale, «ci sono attività e comportamenti che il bambino vuole condividere con il padre e altri con la madre. Noi dobbiamo combattere sul fatto che il nucleo uomo-donna-bambini non deve sfaldarsi». De Mauro ha infine ribadito la più totale contrarietà all’adozione da parte di coppie gay, «non permetterei mai, se fossi io a decidere in Italia, di far allevare un figlio -con tutto il rispetto ai gay- ad una coppia omosessuale. L’importante è difendere il bambino, a me interessa questo».

Il furbo Klaus Davi (comunque molto corretto in queste entrambe interviste) introduce allora l’argomento dell’orfanotrofio, con la classica domanda-ricatto: «ma è meglio lasciare i bambini in orfanotrofio o farli adottare da due genitori dello stesso sesso?». Il presidente della SIPPS si dimostra molto abile ad uscire dal tranello: «ci sono tante coppie eterosessuali che desiderano l’adozione», occorre migliorare e velocizzare le fasi burocratiche. «L’omosessuale faccia l’omosessuale, ma non è adatto ad accudire un figlio, non può andare contro natura. Io penso al bambino, noi pediatri vogliamo una salute fisica e psicologica del bambino».

 

Qui sotto l’intervista al dr. De Mauro

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La fede o il dubbio? Ecco perché il cattolico “adulto” tradisce Gesù


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

Tra l’uomo che ha fede e l’uomo che non la ha ci dovrebbe essere una differenza fondamentale: che il primo professa una serie di certezze, di Verità indubitabili, non negoziabili, mentre il secondo contrappone a queste certezze il dubbio, talora lo smarrimento. Fede, infatti, significa certezza nell’esistenza di Dio, cioè di un significato, di una Verità, di un Bene assoluto. Questa certezza è presente in chi crede in una religione rivelata, nell’esistenza di un Dio che è sceso incontro all’uomo, in prima persona. Il cattolico è dunque un uomo di solide certezze. Non un uomo “in ricerca della Verità”, come spesso si dice, ma un uomo che la ha già incontrata e che ricerca, invece, con grande fatica, di amarla e di penetrarla sempre di più, certo di non poter mai giungere sino al fondo.

Eppure, nel pensiero cattolico contemporaneo, non sembra che sia così. Il “cattolico adulto”, per usare una definizione di comodo, è figlio del modernismo, così ben analizzato da Pio X nella Pascendi Dominici Gregis: egli vuole essenzialmente sposare la sua fede in Cristo con le filosofie contemporanee, che dissolvono la Verità nell’individualismo, nel libero esame, nello scetticismo. Per questo, che si parli di Dio, di etica, o di tutto ciò che è importante, si fa sempre difensore del dubbio, come metodo e come obiettivo. Vi sono parole che da sole bastano a farlo inviperire: Verità, principi non negoziabili, errore…insomma tutto ciò che allude ad una chiara definizione, ad una evidente e certa distinzione tra ciò che è vero e ciò che non lo è.

In mille occasioni, il cattolico modernista risponde al suo oppositore con frasi ironiche di questo genere: “Beati quelli pieni di certezze come te, io non ne ho”. Dove si deve leggere, tra le righe, un misto di compatimento e di finta umiltà: chi professa il dubbio metodico si crede anzitutto più intelligente, e in secondo luogo più umile, rispetto ad un interlocutore che ha certezze solo perché un po’ grullo, sempliciotto e saccente. Cristo? Io non ho certezze, professa il cattolico adulto, e intanto trasforma il mandato di evangelizzare tutte le genti, in un indifferentismo che chiama ecumenismo. L’aborto? Io non ho certezze, ribadisce, tendendo la mano al radicale e votando la legge 194; L’eutanasia? Nel dubbio finisce sempre per invitare Beppino Englaro a parlare nella sua parrocchia…

Invece, a mio parere, la Fede e il dubbio non possono stare insieme, almeno non in questo modo. La Fede è la certezza che ciò che Cristo ha rivelato sia vero, buono, giusto, per ogni uomo. Non per fiducia in una propria personale posizione o filosofia; ma per fiducia in Colui che è creatore dell’universo. La Fede è dunque intransigente, come l’amore. Chi ama, ama davvero, integralmente, o quantomeno desidera farlo. Chi crede nel Salvatore non può disegnarsene uno da seguire a tempi alterni e secondo le voglie: non sarebbe un Salvatore, ma, al massimo, un filosofo, o un saggio. Ciò non significa che chi crede rinunci alla sua intelligenza, al suo giudizio, ad una analisi personale. Significa, al contrario, che la Fede è anche una libera scelta, della ragione e della volontà, ma una scelta, diciamo così, una volta per tutte: non è un scegliere di volta in volta, liberi da vincoli, da principi, ma un aver imboccato una strada, quella indicata da Cristo, perché se ne è riconosciuta la validità, la verità, la bellezza. In essa si vuole stare, pur cadendo mille volte.

La fede, insomma, è obbedienza alla Verità rivelata, non a se stessi. Un cattolico che ha fede dunque, scaccia i dubbi: Dio esiste e di conseguenza, nella vita morale, il bene e il male non sono relativi al suo volere o al suo discernimento…E’ questa grulleria o saccenza? Al contrario, questa visione della fede contiene in sé, oltre che una grande saggezza (l’uomo non si è mai salvato da solo), una grande umiltà: l’uomo di fede non dubita del suo Salvatore, ma di sé, certamente, e molto! Confrontarsi con i dogmi e le Verità rivelate significa infatti mettersi sempre in discussione; significa tendere verso un dover essere e sentire la propria inadeguatezza. L’ uomo di fede, così, mentre con la mente e col cuore professa il Credo, nella pratica sperimenta la sua miseria, e mette in dubbio il suo stesso operato, costantemente.

Al contrario, il cattolico che vanta la sua apertura mentale, che si lancia negli elogi sperticati del dubbio fine a se stesso, non solo nega la propria fede, ma lungi dal professare una vera umiltà, finisce per porsi, di fronte alle singole scelte, con lo stesso atteggiamento dell’uomo che non crede, cioè al di là del bene e del male. Si lascia infatti aperta ogni strada e ogni scelta, nella teoria, per poterla percorrere, poi, nella pratica. Elogia il dubbio, ma in verità erge se stesso a criterio di ogni decisione, negando una Verità che lo sovrasti e a cui adeguarsi. Nella Fede cattolica vi è dunque grande spazio, certamente, per il dubbio: riguardo a se stessi, lo ripeto, ed anche, come è umano, riguardo a Dio. Ma non c’è spazio per il dubbio metodico, rivendicato come parte integrante, anzi costituente, della Fede stessa.

Da “Il Foglio” (26/04/12)

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Il biologo David Sloan Wilson: «Dawkins e PZ Myers sono fondamentalisti»

Per moltissimi il nome PZ Myers non dice nulla. Egli è un biologo e rientra in quella divertente cerchia definita “New Atheist”, ovvero i teorizzatori dell’ateismo scientifico, tutti protetti sotto la grande ala del “líder máximo” Richard Dawkins. In Italia, per capirci, militano in questa frangia estrema i noti Piergiorgio Odifreddi e Paolo Flores D’Arcais. Il livello -come già si è capito- è dunque molto basso. PZ Myers è un buon evoluzionista, conosciuto però per essere una persona aggressiva contro i credenti e poco tollerante. Si definisce anche “pro-choice”, e afferma: «io sono anche disposto a dire che sono pro-aborto, e vorrei incoraggiare più persone ad abortire».

Tanti scienziati evoluzionisti, cattolici e cristiani, amano confutare le teorie degli atei fondamentalisti, approfittando per evidenziare l’ottimo rapporto tra fede e scienza, come d’altra parte –dicono i sondaggi– è convinzione della maggioranza degli scienziati moderni. I più attivi e noti in questo dibattito sono il genetista cristiano Francis Collins e il biologo cattolico Kenneth Miller.

Molto più interessante è però sottolineare quanto i “New Atheist” siano criticati anche dai loro stessi “fratelli nella fede”, ovvero scienziati non credenti ma -tuttavia- rispettosi e realisti. Uno di essi è sicuramente David Sloan Wilson, biologo e docente presso la Binghamton University. In questi giorni ha infatti scritto un interessante articolo, prendendosela proprio con PZ Myers (il quale ha già subito il cosiddetto “fuoco nemico”, quando è stato nominato dagli atei americani “l’idiota della settimana”). Sloan Wilson sostiene che giustificare la miscredenza attraverso l’adesione all’evoluzione biologica -come fa PZ Myers- è un grande errore, ma «è altrettanto assurdo che Myers dica che l’impatto negativo della religione sul benessere umano si può capire soltanto aprendo gli occhi». A sentire i suoi ragionamenti -ha continuato il biologo- «vengono in mente i fondamentalisti religiosi e i demagoghi politici». Il mondo reale, ha troppe sfumature per essere ricondotto al bianco e al nero, non si può guardare all’11/09/01 e affermare che “la religione è un male per l’uomo”, come fanno noti esponenti laicisti. «Quando dico che Myers sta pensando come un fondamentalista e un demagogo», ha proseguito Sloan Wilson, «sto affermando un’ipotesi verificabile […], tutto quello che dobbiamo fare è confrontare quel che Myers pensa e scrive in materia di evo-devo, con quello che pensa e scrive sul tema della religione», con il grande rischio di «offendere le persone sulla base di teorie e informazioni difettose. E’ richiesta l’umiltà, che è l’opposto della millanteria ideologica».

La critica  è molto simile a quella che il biologo ha in passato rivolto anche a Richard Dawkins, spiegando che egli «non riesce a qualificarsi come evoluzionista proprio sui due argomenti per i quali è universalmente ben noto: la religione e la teoria del “gene egoista”». Dopo aver dimostrato perché, ha quindi concluso affermando che «Dawkins non è un evoluzionista, in parte perché non riesce a mantenersi entro certi limiti», cioè, «una persona non si qualifica come evoluzionista solo perché ha il dottorato di ricerca in evoluzione ed ha guadagnato una reputazione distinta studiando soggetti Y, X», ma dipende da cosa dice e in quale campo pretende avere un’opinione. Uno scienziato ha autorità soltanto in tematiche scientifiche e nel suo stretto campo di interesse, usare la propria laurea scientifica per invadere altri territori, compreso quello religioso, è roba da fondamentalisti.

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Luoghi comuni su Chiesa e nazismo

La simpatia della Chiesa verso il nazismo è una delle più deboli leggende nere, ma anche una tra le più diffuse e persistenti. Su questo argomento sono sorti tanti luoghi comuni divenuti spesso cavalli di battaglia per gli anticlericali che sogliono paragonare il cattolicesimo al partito nazionalsocialista. Si sostiene, per esempio, che il Vaticano avrebbe mandato al potere i nazisti, persuadendo il Partito del Centro a votare per Hitler in cambio della promessa di un Concordato, per poi abbandonare il partito una volta che questo fu stipulato. Nella realtà, la prospettiva di un concordato non ebbe alcuna parte nei negoziati tra il Centro e Hitler in vista della votazione del decreto dei pieni poteri e il partito cattolico non si sciolse per via delle pressioni vaticane (lo stesso Pacelli apprenderà dell’autoscioglimento dai giornali), ma per via delle minacce che già avevano colpito tutte le forze politiche.

Inoltre, il Concordato venne stipulato non per ricavare vantaggi, nonostante molti continuino a ripeterlo, ma per difendersi dai nazisti. La gerarchia ecclesiastica era ben consapevole della loro inaffidabilità tanto che il cardinale Faulhaber affermò: “con il Concordato siamo impiccati, senza il Concordato saremmo impiccati, torturati e squartati” (M. Burleigh, In nome di Dio Bergamo 2007 pp. 203-207).

Un’altra bufala riguarda il fatto che Hitler fosse cattolico. Se è vero, infatti, che nei discorsi pubblici ci teneva a presentarsi come il difensore della cristianità contro il bolscevismo, è pur vero che privatamente fu assai critico verso il cristianesimo che considerava una religione ebraica (come documentato nelle “Conversazioni a tavola”) e che tali affermazioni pubbliche erano contraddette dalla sua politica ecclesiastica.  Infatti, durante tutto il periodo del Terzo Reich entrambe le Chiese furono perseguitate e, come rileva lo storico Sergio Romano, “se avesse vinto la guerra, Hitler avrebbe trattato le Chiese cristiane come stati sconfitti”. Gli abitanti della Germania erano per la maggior parte cristiani (formalmente), ma molti alti gerarchi nazisti (tra cui Hitler stesso) erano fieri avversari del cristianesimo come Martin Bormann, Heinrich Himmler, Alfred Rosenberg, Baldur von Schirach e si proponevano d’eliminarlo. Il moto dell’esercito tedesco “Gott mis uns” (“Dio è con noi”), era già presente fin dai tempi degli imperatori tedeschi e il regime nazista scelse di tenerlo per non accentuare i dubbi già presenti della classe degli ufficiali tedeschi verso il regime.

Non vi fu, inoltre, alcuna alleanza tra i papi e il nazismo per un fronte comune contro il comunismo, anzi  durante la guerra la Santa Sede si rifiutò di benedire l’attacco tedesco alla Russia, sia per via del suo atteggiamento improntato alla neutralità, sia perché entrambe le dittature erano anticristiane come spiegò monsignor Domenico Tardini (allora segretario di Stato vaticano) in un colloquio con l’ambasciatore italiano Bernardo Attolico: «[Il comunismo] È il peggiore nemico della Chiesa. Ma non è l’unico. Il nazismo ha fatto, e sta facendo, una vera e propria guerra alla Chiesa» (A. Tornielli. Pio XII. Un uomo sul trono di Pietro, Milano 2007 pp. 359-360).  Per contrastare l’idea di questa supposta alleanza basterebbe far presente la lettera circolare di Herman Goring intitolata “Decreto sul cattolicesimo politico nella quale ordinava a tutte le autorità politiche e giudiziarie di procedere contro ogni tentativo dei cattolici d’immischiarsi negli affari dello stato o l’idea accarezzata da Hitler di far prigioniero il papa documentata da una nota del diario di Goebbels del luglio del ’43 (M. Phayer, Il papa e il diavolo, Roma 2008 p. 121).

Una “prova” che i critici del papato portano a sostegno del filonazismo di Pio XII è il presunto aiuto del Vaticano alla fuga di alcuni nazisti (spesso negando o minimizzando l’apporto dato dal papa alla fuga o al nascondiglio di ebrei e partigiani durante la guerra). È noto infatti, che il vescovo Alois Hudal aiutò a far fuggire molti gerarchi, ma non vi è unanimità sugli studiosi, se egli agisse per conto proprio o sull’assenso della Santa Sede. Un indizio che agisse per sua iniziativa sta nel fatto che il vescovo austriaco era malvisto negli ambienti vaticani tanto che nelle sue memorie Hudal si lamentò dell‘ostilità subita da Pio XII e da Montini e attaccò il rifiuto delle gerarchie ecclesiastiche a formare un’alleanza con la Germania per fermare il “comunismo ateo”. All’epoca poi, il papa autorizzò il gesuita americano Edmund Walsh a presentare un dossier al Tribunale dei Crimini di guerra a Norimberga in cui si documentavano i crimini e le atrocità dei nazisti (David G. Dalin, “La storia come calunnia. Daniel Goldhagen diffama la Chiesa Cattolica”).

Il fatto che Pio XII non avesse denunciato pubblicamente durante la guerra le atrocità naziste non implica in alcun modo una qualche simpatia per il regime tedesco perché il papa durante la guerra non denunciò pubblicamente neppure le atrocità di Stalin, preferendo agire di nascosto per aiutare le vittime dei totalitarismi e scegliendo di scomunicare i comunisti solo quattro anni dopo la fine del conflitto ossia quando i nazisti non potevano più sfruttare la sua condanna anticomunista a scopo di propaganda. Al contrario, l’antipatia di Achille Ratti e di Pacelli nei confronti del regime tedesco e della sua ideologia è ben nota e documentata, ma poco importa ai calunniatori della Chiesa che alla storia preferiscono la propaganda.

Mattia Ferrari

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Le disastrose conseguenze della rivoluzione sessuale

A volte, un libro sposa perfettamente la visione di un esperto con gli interessi del suo pubblico. Adam and Eve After the Pill: Paradoxes of the Sexual Revolution (editori Ignatius Press), di Mary Eberstadt, docente presso la Stanford University’s Hoover Institution, è un’analisi di decenni di libertà sessuale. Il libro raccoglie le reazioni femminili alle conseguenze della rivoluzione sessuale.

Ma non è un libro solo per donne: tutt’altro. E’ una visione caleidoscopica a ogni angolo di una nazione, l’America, che ha abbandonato il nucleo familiare. Nel notare i danni del sesso extraconiugale e della conseguente aridità sessuale, Eberstadt dedica almeno un capitolo a ciascun gruppo oppresso dalla liberazione sessuale: donne, uomini, giovani adulti e bambini. Ogni segmento della società cui è stata promessa libertà dalle costrizioni della fertilità forzata, si è ritrovato derubato di un marito devoto, di una moglie soddisfatta, di un’unità familiare intatta, o di una giovinezza libera dallo sfruttamento sessuale. Per ognuno di essi, Eberstadt supporta le proprie argomentazioni con rigorose citazioni di risultati della ricerca scientifica.

La filosofa nota che molti rifiutano di credere che qualcuno possa dissentire dall’edonismo e comparando costoro ai credenti del Comunismo, asserisce che gli apologisti odierni del declino domestico condividono ciò che Jeane Kirkpatrick ha chiamato “la Volontà di Non Credere”. Quelli che promuovono promiscuità, pornografia e i preludi alla pedofilia come non pericolosa, si ritrovano prendere il posto degli estremisti religiosi che loro una volta loro stessi deridevano, recitando articoli di fede in cui l’evidenza dimostrerebbe che il Dio dei puritani ha fallito. I capitoli sugli effetti che la pornografia ha avuto su uomini e donne, sono forse i più facili con cui connettersi emotivamente. Secondo l’autrice, il risultato dell’impennarsi della pornografia è una nazione, l’America, bombardata sì da un immaginario sessuale della più esplicita e grottesca varietà, ma parimenti afflitta da una crescente “aridità sessuale” tra marito e moglie.

Due economisti della Wharton School hanno condotto un’inchiesta scoprendo che la felicità femminile è crollata a partire dal mondo industrializzato fino agli ultimi 35 anni – un periodo coincidente con la loro putativa “liberazione”. Eberstadt connette i punti tra la crescita della porno-dipendenza negli uomini, l’offerta di donne in vendita di tutte le età, le guide facilmente reperibili su sesso facile senza legami, l’aumento di “uomini-bambini” in una perpetua adolescenza, e l’insoddisfazione femminile nell’unità familiare che si logora. Due capitoli esplorano ciò che Friedrich Nietzsche ha chiamato “la trasvalutazione dei valori”, ossia il fatto che la disapprovazione morale che ricadeva sulla pornografia una generazione fa, ora ricada sul tabacco. Nessun essere umano a modo penserebbe di orinare in pubblico, tanto meno indurrebbe un bambino a fare ciò, eppure molti considerano il consumo di porno da parte degli adolescenti innocuo, se non istruttivo. Il suo libro, coscienziosamente ricco di note a piè di pagina, documenta come i giovani che sono stati esposti alla pornografia sono “più propensi ad avere più partner nella loro vita sessuale, più propensi ad avere un unico partner sessuale solo negli ultimi tre mesi di relazione, più propensi ad aver usato alcol o altre sostanze nel loro ultimo incontro sessuale, e… più propensi ad aver punteggi più alti nel test della permissività sessuale”. Insomma, più probabilità di sesso a un’età più giovane, di praticare sesso più rischioso, e forzare un altro in sesso non consensuale.

L’ultimo capitolo, sulla Humanae Vitae di Papa Paolo VI, prova la prescienza del testo più deriso nella storia della rivoluzione sessuale. Eberardt termina su una nota positiva, riferendosi al Dr. Albert Mohler e ad altri protestanti evangelici e conservatori che stanno rivalutando la loro posizione sulla contraccezione in forza del disastro che la rivoluzione sessuale ha generato.

La redazione

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Quel che la scienza “spiega” e…che lo scientismo non sa


 
 

di Giorgio Masiero*
*fisico e docente universitario

 
 

Nel dialogo platonico “Teeteto”, Socrate richiama il mito di Iride, dea della conoscenza e figlia di Taumante, dio dello stupore, per fondare su questo sentimento umano l’origine della filosofia e della scienza: “Teeteto: Sono straordinariamente meravigliato di quel che sia l’apparirmi davanti di tutte queste cose; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini. Socrate: Amico mio, è proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia; e chi disse che Iride fu generata da Taumante non sbagliò”. Lo stupore è un grande turbamento dell’anima: davanti ad un evento inatteso e meraviglioso, perdiamo la consueta consapevolezza e andiamo in estasi (“ec-stasis”, in greco: uscire da se stessi).

Lo stupore è forse la prima sensazione provata dalla coscienza confusa d’un infante che s’interroga: perché? Poi, man mano che la visione della cornucopia del mondo si accresce nel bambino, i perché diventano sempre più frequenti. Solo col passare degli anni ed il sopraggiungere degli affanni nell’adulto sfumano nell’assuefazione o degradano nella noia, salvo riapparire di tanto in tanto. I veri filosofi e scienziati, però, si affacciano ogni giorno alla finestra del mondo con gli occhi dei bambini: non si abituano mai allo spettacolo policromo dell’essere, né si accontentano di contemplarlo, ma vogliono conoscerne le cause; ed hanno sete di sapere i fini che si posero quelle cause; e perché quei fini e non altri… “Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire” (Qohelet).

Gli scientisti invece, sono quelli che non si meravigliano davanti a nessuna meraviglia. Con una scrollatina di spalle ti dicono: “E beh? La scienza, prima o poi, spiega tutto”. L’handicap di non provare stupore non è necessariamente uno svantaggio competitivo nel mercato del lavoro: può aiutare in una carriera di tecnico specializzato o all’opposto nel ruolo di tuttologo incensatore della scienza onnisciente e onnipotente. La scienza “spiega” tutto? Il dizionario Sabatini Coletti definisce la spiegazione come “chiarimento di ciò che è oscuro o difficile da comprendere”, ed è quello che intende ogni persona quando, davanti ad un evento che non capisce, dice: “Spiegami!”. Una spiegazione, perciò, è una successione di ragionamenti che, di passo in passo, riportano ad assunzioni intuitive ciò che a prima vista non si capisce. Il modello insuperabile di spiegazione è quello matematico di dimostrazione (dal latino de-monstrare = far vedere bene), applicato sistematicamente da Euclide nei suoi “Elementi” di geometria (IV-III sec. a.C.). Euclide prese sul serio i criteri scientifici dettati da Aristotele: “Tra i possessi del pensiero con cui cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra questi ultimi sono l’opinione e il discorso, mentre sempre veraci sono la dimostrazione e l’intuizione, e non sussiste alcun genere di conoscenza superiore alla dimostrazione se non l’intuizione. L’intuizione dovrà essere il principio della dimostrazione, e quindi di ogni scienza” (“Analitici secondi”). Euclide pose perciò all’inizio della sua ricerca scientifica sulle proprietà dello spazio alcune assunzioni (postulati), dettate dall’intuizione e chiare come la luce del sole, e ne dedusse passo a passo le conseguenze logiche (i teoremi, dal greco theoréo = vedo), la cui verità risulta inizialmente oscura alla mente, ma che alla fine del percorso dimostrativo si “contempla”.

Prendiamo il teorema di Pitagora: “Nei triangoli rettangoli il quadrato dell’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati dei cateti”. Quando da bambini l’abbiamo udito per la prima volta abbiamo provato stupore, parendoci una bella coincidenza che tutti i triangoli rettangoli godessero di quella proprietà. C’è gente che non ne coglie l’evidenza e lo accetta soltanto perché sa che c’è una spiegazione nei libri di matematica. Però, davanti alla tassellatura rappresentata nella figura qui sotto, tutti ne contempliamo la verità in 3 passi logici di somma e sottrazione di 3 coppie di triangoli uguali.

Ecco, le spiegazioni in matematica coincidono tutte con procedure simili a questa di risalire per piccoli passi a postulati  “che sono insiti nella ragione umana in modo naturale e constano essere verissimi, al punto che se li ritenessimo falsi dovremmo rinunciare a ragionare” (Tommaso d’Aquino, “Contra Gentiles”).

Nelle scienze naturali, però, il vocabolo “spiegazione” assume significati del tutto diversi dall’ideale matematico. La sua applicazione diviene così tecnicistica in ogni disciplina, che spesso le spiegazioni degli esperti sui fenomeni che interessano la gente (dalla meteorologia alla medicina alla finanza, ecc.) li rendono ancora più oscuri al profano. Prendiamo la fisica: qui la spiegazione d’un fenomeno avviene con la sua descrizione matematica, un’equazione. Per spiegare la gravitazione, Newton propose l’equazione:

f = G × m1 × m2 : r 2

L’equazione uguaglia la forza di attrazione tra due corpi al prodotto delle loro masse moltiplicato per una costante G e diviso per il quadrato della loro distanza. Questa equazione spiega perché una mela cade per terra? Neanche per sogno, e Newton era il primo a saperlo rispondendo a chi lo interrogava: “Hypotheses non fingo”, io non fabbrico ipotesi. (Tra parentesi: avessero l’umiltà di Newton gli sbruffoni cantatori di storie di tanta “scienza” moderna!) L’equazione dice soltanto che c’è una forza che fa cadere la mela (e ciò sa anche l’animale che scuote un albero per raccoglierne i frutti) e quantifica la forza, così che la possiamo calcolare quando vogliamo, dalle traiettorie balistiche ai moti celesti. Questo è tutto con la cosiddetta spiegazione scientifica. Ma la teoria newtoniana non può spiegare perché l’equazione ha quella forma, perché contiene il quadrato (e non il cubo o la radice quadrata) della distanza, né perché G ha il valore 6,67 × 10-11, perché c’è una forza tra due corpi indipendente dalla loro costituzione materiale, perché è attrattiva piuttosto che repulsiva, come si propaga, ecc., ecc. Le grandi teorie della fisica moderna (la gravità generale e la meccanica quantistica) poi, svuotano ulteriormente il significato comune di spiegazione poiché, oltre ad esprimersi con equazioni di forma inspiegabile contenenti costanti di valori inspiegabili, si fondano per giunta fin dalle loro assunzioni (arbitrarie) su concetti oscuri e contro-intuitivi (varietà curve pseudo-riemanniane, onde-particelle, spazi vettoriali complessi ad infinite dimensioni, ecc.) che non hanno relazione con l’esperienza ordinaria e che soltanto mediante esercizi di training autogeno gli “adepti” (gli aspiranti fisici) si abituano a maneggiare. Quando in un articolo ho spiegato le onde elettromagnetiche con un “campo tensoriale 4-dimensionale di ordine 2 antisimmetrico”, un lettore commentò: “Mai sentito. A naso potrei pensare ad un miscuglio di parole dotte privo di significato. Spiegami”. Che altro potevo fare se non rinviarlo ad un corso di geometria differenziale?

Questa è la situazione della fisica che, nell’ottica riduzionistica che fa da sfondo oggi al naturalismo, è la scienza fondamentale cui tutte le scienze vanno ricondotte. Nella stessa concezione, quindi, non migliore è la potenza esplicativa di tutta la scienza moderna. La biologia per esempio, di fronte al problema della vita, deve spiegare la creazione locale di ordine dal caos, che allo stato delle osservazioni scientifiche (e al netto di fantasie aliene) è la stupefacente eccezione presente in un pianeta appartenente ad un Universo, dove la regola è ovunque l’opposta come sancita dalla “legge più importante di tutta la scienza” (A. Einstein): la crescita dell’entropia che definisce la freccia del tempo. Concediamo pure al riduzionismo che una seria teoria fisica, affrancandoci dall’affabulazione ingenua del darwinismo, riesca un giorno a descrivere il meccanismo della vita. E allora? Ci troveremo nella stessa situazione delle altre teorie fisiche: di sapere descrivere tramite un sistema di equazioni “come” (hanno avuto origine le specie sulla Terra), ma di non sapere il “perché” di quelle equazioni, di quella forma e con quelle costanti. È il limite fisiologico delle spiegazioni scientifiche, per definizione di metodo galileiano, cari lettori! Certo, io sarei il primo in questo caso a cantare un successo epocale dell’interdisciplinarità tra fisica e biologia, a prevedere anche nuove applicazioni tecnologiche a vantaggio dell’umanità, ma non direi mai che con ciò la scienza “spiega tutto”. Al contrario, volgendomi alla sua storia, mi aspetterei l’insorgere di nuove domande di fronte al mistero dell’essere, arretrato ad ogni nuova scoperta solo d’un passo.

C’è sempre la Endlösung di spiegare il molto postulando il tutto: è la congettura d’infiniti mondi disgiunti con tutte le leggi possibili, con tutti i valori di G e tutti gli esponenti di r. In uno di questi mondi “la Luna è fatta di formaggio erborino” (S. Hawking). Però – mentre al lavoro interrogo gli annoiati erranti del multiverso sulla potenza esplicativa d’una proposta che, postulando più assunzioni dei fatti che intende giustificare, supera il record bijettivo della “Teogonia” di Esiodo (dove ad ogni fenomeno naturale corrispondeva una sola divinità) – alla pausa pranzo lascio tali sogni ai cultori di Gorgonzola del nostro unico Universo reale. Se sono chiamato a sciogliere un groviglio, per il suo invincibile filo tagliente io mi affido al rasoio di frate Occam: “Non moltiplicare gli elementi oltre il necessario”.

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Spagna: la Chiesa cattolica permette un risparmio sociale di 20 miliardi

Il quotidiano spagnolo La Razón, quarto per vendite nel Paese, ha pubblicato un articolo interessante intitolato: “La Chiesa permette un risparmio sociale di oltre 20 miliardi.

Stretti nella morsa della crisi economia, alcuni media spagnoli di area socialista -come anche in Italia- hanno infatti attaccato la chiesa cattolica definendola un peso in più  da sopportare. Le risposte sono state molteplici, in molti hanno infatti mostrato il fondamentale contributo nella sanità, nell’istruzione e nell’assistenza sociale, indispensabili pilastri durante la crisi.

«Il contributo economico dell’opera sociale della Chiesa spagnola», si legge, «è incalcolabile, perché è difficile trovare la cifra esatta, ma in ogni caso si parla di una cifra astronomica». Soltanto parlando di istruzione, ci sono 5.347 scuole cattoliche in cui studiano più di 1.399.000 studenti. «Se questi luoghi fossero statali», si continua, «il costo per lo stato sarebbe di 4.399 milioni di euro». Un altro punto interessante è il risparmio in campo sanitario: la Chiesa possiede 4.800 centri medici, un centinaio di ospedali, oltre 1.000 cliniche ambulatoriali, centri per anziani, per malati cronici, ecc. «Almeno 3.650.000 spagnoli hanno beneficiato dalla sua attività di beneficenza durante la crisi», scrivono. Per non parlare dell’attività della Caritas, che ha fatto risparmiare 230 milioni di euro, mentre l’opera di Manos Unidas (una ONG cattolica di volontari) ha salvato oltre 41 milioni.

Il quotidiano spagnolo affronta poi un altro campo fondamentale, il turismo (religioso), il quale in ognuno degli ultimi quattro anni «ha generato un’attività di 830 milioni di euro». E infine «va anche ricordato il grande sforzo economico della Chiesa cattolica nel mantenere il suo patrimonio culturale, di cui 42 proprietà spagnole fanno parte del Patrimonio Unesco».

E così, anche gli anticlericali spagnoli sono belli che sistemati.

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Omosessualità, determinismo e libero arbitrio

Un recente articolo pubblicato sulla rivista “Psychological Bulletin” si è concentrato sulle differenti reazioni dell’opinione pubblica quando un comportamento appare guidato dalla volontà o determinato geneticamente, compresi i comportamenti omosessuali. Gli autori, gli psicologi Ian Dar-Nimrod dell’University of Rochester Medical Center e Steven J. Heine dell’University of British Columbia, hanno iniziato la loro discussione, affermando che gli esseri umani tendono a “essenzializzare” alcune entità che incontrano, cioè percepiscono come “naturale” ciò che li rende quello che sono e che in loro «genera le comuni caratteristiche apparenti dei membri di una categoria particolare», scrivono.

Per sostenere la “naturalità” della loro posizione, queste persone si affidano alla genetica: «i “geni”», scrivono i due psicologi, «spesso fungono da segnaposto per questa essenza immaginata, e questo ha implicazioni importanti», ovvero gli elementi che definiscono l’essenzialismo psicologico (cioè la visualizzazione di un carattere come immutabile, fondamentale, omogeneo, discreto e naturale) sono percepiti come fattori genetici. Questo porta ovviamente a «svalutare il ruolo dei fattori ambientali ed esperienziali», fa sentire predestinati, visualizzando i “geni” come la causa fondamentale della propria condizione (“i miei geni mi portano a fare…”). Inoltre, ci si convince che tutti i membri di un certo gruppo debbano condividere una certa essenza genetica, e «tale condizione non dovrebbe essere osservata in coloro che non condividono lo stesso fondamento genetico di base» (pag. 801). Tutto questo però porta ad una grave conseguenza: «può indurre alla cosiddetta “fallacia naturalistica”, che si traduce nel fatto che questi comportamenti vengono percepiti come più moralmente accettabili. Qui le proprietà etiche sono erroneamente derivate ​​da presunte proprietà naturali», avvertono. Gli autori osservano anche che la “fallacia naturalistica” ha beneficiato i gay e lesbiche, ma ha sfavorito i criminali e gli obesi, in quanto questo errore emerge più fortemente quando i risultati sono associati a comportamenti che sono visti come volontari, ovvero l’omosessualità percepita come “naturale” porta ad una maggiore accettazione, mentre è vero il contrario per chi ha un comportamento criminale o è obeso. Sintetizzano, scrivono gli autori: «l’omosessualità può essere vista in modo più positivo se è percepita come il risultato di una naturale, predisposizione genetica, piuttosto che come una scelta di vita fatta consapevolmente» (pag. 802). Il punto è che l’omosessualità non ha una chiara origine genetica.

Gli autori esaminano proprio il tema dell’orientamento sessuale come un esempio di come la “fallacia naturalistica” possa guidare un dibattito politico. In particolare hanno analizzato la reazione dell’opinione pubblica alla scoperta nel 1993 (Hamer et al.) di un marcatore genetico (Xq28), che in parte avrebbe dovuto rappresentare l’omosessualità maschile (il famoso “gene gay”, anche se poi tutti i tentativi di replicare i risultati hanno fallito: Rice, Anderson, Risch, & Ebers, 1999). La società ha cominciato a concepire l’omosessualità come in un rapporto immutabile di causalità con i geni, eliminando dal dibattito la storica posizione psicoanalitica che -ancora oggi- ritiene l’omosessualità una probabile conseguenza di madri prepotenti e padri freddi e distaccati. «Ancora una volta», scrivono i due autori, «la prova che gli argomenti genetici portano a reazioni qualitativamente diverse rispetto a quelle ambientali» (p. 806).  I comportamenti che hanno implicazioni morali, rilevano ancora, «perdono la loro forza morale, se la gente guarda quei comportamenti come al di là della volontà individuale» (p. 806). Interessante anche il fatto che gli autori ritengono che questo pregiudizio dell’essenzialismo genetico sia stato alla base anche della «crescita delle ideologie eugenetiche in tutta la storia. Quando i geni sono percepiti come li locus della causalità, ne consegue che gli sforzi per migliorare l’umanità si concentreranno sul miglioramento genetico», in modo diffuso da Darwin al XX secolo (pag. 811).

Gli autori sostengono che i mass media sono complici nell’aver fatto svolgere ai geni un ruolo più centrale rispetto ai dati suggeriti dalla ricerca scientifica, fornendo costantemente un quadro troppo semplificato della ricerca genetica, in chiave eccessivamente deterministica. L’altro errore dei media, secondo gli psicologi, è equiparare il comportamento omosessuale a una caratteristica geneticamente determinata, come il colore della pelle (spesso, ad esempio, si equipara in modo tendenzioso l’opposizione alle nozze gay con l’opposizione alle nozze miste). Anche i ricercatori hanno gravi responsabilità in quanto, avendo bisogno dell’attenzione dei media e di finanziamenti a fondo perduto, possono contribuire a promuovere i pregiudizi essenzialisti delle persone (ad esempio parlando di “gene egoista”, “gene del tradimento”, “gene gay”). Il risultato di queste rappresentazioni, secondo gli autori, è che «le persone che ottengono la loro conoscenza della genetica attraverso i media hanno più probabilità di concepire le influenze genetiche in modo troppo deterministico, immutabile, e, infine, in modo erroneo» (p. 812).

All’articolo è seguita una replica di Eric Turkheimer, psicologo della University of Virginia, il quale ha introdotto l’argomento del libero arbitrio (inteso da lui non in modo metafisico ma come «la nostra capacità di rispondere alle situazioni complesse in modi complessi e imprevedibili e il processo di costruzione del sé»). Come dimostrano gli studi sui gemelli, ha scritto, è l’ambiente di crescita non condiviso (affidati a due famiglie diverse) che modella le differenze di comportamento (anche sessuale): «siamo liberi di diventare ciò che vogliamo», scrive, «anche se faremo uno forzo maggiore per alcuni tratti rispetto che ad altri». Secondo le statistiche comparative sulle varianze non condivise (NEP), «cambiare l’orientamento sessuale richiede in generale un impegno minore che modificare tratti della personalità o curare la depressione, ma un maggiore sforzo rispetto a ridurre il peso corporeo o cambiare un atteggiamento criminale». Nella loro controreplica, Dar-Nimrod e Heine, si mostrano d’accordo sul fatto che «i geni sono importanti per tutti i comportamenti umani complessi, ma non ne determinano nessuno […] poiché non sono noti comportamenti umani complessi in cui i geni rendono incapaci di resistere all’esecuzione di un comportamento, l’argomento genetico non dovrebbe essere usato come base per le valutazioni morali. I geni forniscono una fonte di influenza ma il loro ruolo nella produzione di eventuali comportamenti complessi è lontano dal determinismo. Inoltre, la quantità di influenza che i geni hanno sui comportamenti è notevolmente più piccola di quanto si possa pensare».

Questo studio (interessante anche il commento allo studio fatto da Christopher H. Rosik, psicologo, docente alla Clinical faculty della Fresno Pacific University e direttore di ricerca presso il “Link Care Center”), in conclusione, dimostra che non vi sono forti nessi tra l’omosessualità e l’ereditabilità genetica e dire il contrario è errato ma aiuta all’accettabilità morale del comportamento omosessuale (ecco perché c’è e c’è stata questa pressione sul “gene gay” da parte della lobby omosessuale) e delle sue conseguenze (matrimonio gay, adozione ecc.). Gli autori dimostrano infine che il determinismo è una posizione errata, non c’è nessuna influenza genetica in grado di determinare completamente il comportamento umano.

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