Il Fatto Quotidiano è in crisi, ma le bufale anticlericali continuano

Nel 2010 Antonio Padellaro, direttore de Il Fatto Quotidiano, ha affermato: «Avevamo detto: proviamo a fare un giornale che abbia una proprietà e non un padrone. Che non debba mai chiedere il permesso a nessuno». Dopo due anni una delle migliori firme, Luca Telese, se ne è andato,  assieme ad un pugno di giornalisti e sei soci, perché Beppe Grillo è ormai il nuovo padrone di Padellaro e Travaglio (anche se Grillo riteneva nel 2006 che chi lavora con Padellaro perde la sua reputazione).

Non che ci sia qualcosa di male nei grillini, ma la contraddizione de Il Fatto è clamorosa, leggendo Telese. Secondo Angela Azzaro, vicedirettrice del settimanale “Gli altri”, «”Il Fatto” vive della dinamica scandalistica. Il quotidiano di Antonio Padellaro ha successo perché si inserisce in questo circolo vizioso di scandalo e populismo. Vuole colpire la “pancia” del lettore. Se la prendono con i plastici di Bruno Vespa ma sono solo più volgari e ingenui delle rappresentazioni capziose che compaiono sui più raffinati giornali. Spesso mettendo in piazza la vita privata delle persone, condannandole ancora prima che ricevano un avviso di garanzia».  

Un’analisi assolutamente precisa del metodo di lavoro degli amici di Padellaro, sopratutto per quanto riguarda il loro grande nemico: la Chiesa cattolica. I giornalisti de Il Fatto, come Marco Politi e Marco Lillo sono dei veri esperti di creazione di bufale anticlericali, tanto che ormai gli altri quotidiani si guardano bene dal riprendere i loro sedicenti scoop (ed è inutile che si lamentino di questo ogni volta!).

Sarà perché proprio di recente è cambiato amministratore e Padellaro e Travaglio sono stati messi in minoranza, sarà perché Padellaro e Travaglio sono stati salvati (guarda che fortuna!) per un cavillo incredibile dalla colpevolezza di diffamazione, ma il processo andrà avanti con un altro giudice, resta il fatto che lo sfogo contro la Chiesa è diventato di recente serrato e quotidiano. Lo ha sottolineato anche l’editorialista di “Avvenire”, Gianni Gennari.

All’inizio di maggio Il Fatto  è andato in tilt su un convegno dell’Agesci (guide e scout cattolici) dedicato all’omosessualità (tenutosi a novembre). Si sono chiesti a “Il Fatto”: è meglio usare questo caso per attaccare la Chiesa circa la discriminazione dei gay, oppure è meglio attaccarla facendo vedere che gli scout “sono più avanti” e affidano agli educatori gay delle responsabilità importanti? La risposta è stata: “tutte e due, tanto che c’importa a noi?”. E infatti il 5/5/12 Marco Politi ha attaccato la Chiesa attraverso la seconda modalità, facendo notare che secondo l’Agesci ci possono essere capi-scout gay e che sono dunque «da attendersi ruvide reazioni vaticane». Ma il giorno prima era uscito un articolo in cui si informava che  l’Agesci aveva detto «no al coming out dei “capi” gay e giovani scout omosessuali». In realtà sono due bufale, in quanto sono stati trasformati gli atti di un convegno in vere e proprie norme interne dell’organizzazione, per questo altri quotidiani hanno parlato di “stampa in fuorigioco” ed inutile “bufera mediatica”

Sempre a maggio, Il Fatto ne ha combinata un’altra. L’obiettivo era colpire il movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione, un’interessante realtà che non accetta di nascondere la fede in sacrestia, divenendo molto scomoda per il laicismo promosso da Padellaro e amici. E’ stato dunque pubblicato un documento, trafugato illegalmente (è ricettazione?), del responsabile di CL, don Julian Carron destinato al Nunzio apostolico in Italia, monsignor Giuseppe Bertello, nel quale il sacerdote spagnolo suggerisce quale successore di Dionigi Tettamanzi il card. Angelo Scola, allora patriarca a Venezia. Il solito Marco Lillo, sagace compare di Politi, ha fatto passare il documento come una forte pressione di CL al Vaticano, interessati a “conquistare” tramite un cardinale “amico” anche l’arcivescovado di Milano, oltre che le stanze papali (il Papa ha scelto quattro esponenti di CL come aiutanti di casa sua). Tuttavia, come è stato fatto ampiamento notare, don Carron rispondeva semplicemente ad un invito rivolto a lui, come ad altri responsabili di movimenti e associazioni oltre che – di default – a vescovi, proprio dallo stesso Bertello per sondare, come da prassi, candidature da porre all’attenzione del Santo Padre per la nomina del successore di Tettamanzi. Nulla di nuovo. Si è poi scoperto, oltretutto, che Benedetto XVI la pensava esattamente come don Carron.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, è bene comunque arrivare ai giorni recenti in cui il solito Marco Lillo (ormai in gara con Politi a chi le spara più grosse) ha dato notizia del rapporto Moneyval, il comitato degli esperti anti-riclaggio europei, sullo Stato Vaticano. Secondo Lillo «lo Stato Vaticano è stato bocciato otto volte». Poi si scopre leggendo l’articolo che è stato bocciato 8 volte su sedici, quindi si potrebbe dire che è stato promosso otto volte su sedici (come mai Lillo sceglie un’altra formula?).  Secondo il giornalista d’assalto, dunque, «l’inclusione della Città del Vaticano nella lista grigia dei paesi poco affidabili durante l’assemblea plenaria di Strasburgo che si terrà dal 2 al 6 luglio, sembra sempre più probabile». Peccato che su “Il Corriere della Sera” venga smontata l’ennesima bufala de Il Fatto, perché si rivela che «alla Santa Sede» è stata data «una valutazione negativa in 8 dei 49 criteri standard in base ai quali viene attualmente valutata la trasparenza finanziaria di un Paese». 8 su 49, dunque, e non 8 su 16 come vorrebbe inventarsi Lillo, così «il punteggio complessivo assegnato al Vaticano dal rapporto ispettivo Moneyvall — che verrà discusso a Strasburgo il 4 luglio — rimane pur sempre al di sotto dei 10 punti negativi». Certo, non sappiamo se davvero il Vaticano entrerà nella white list, ma il Vaticano «potrebbe avercela fatta» (finalmente, aggiungiamo noi!).

Il Fatto Quotidiano ha molto in comune con l’ipocrisia dei radicalifingono di essere superiori ad ogni schieramento, ma poi sono sempre più schiavi dell’ideologia anticlericale; fingono di rifiutare i finanziamenti pubblici ai giornali ma poi –come rivela “L’Unità”«fino a poco fa si battevano in difesa dei giornali “imbottiti di soldi pubblici”», con giornalisti che «ci lavoravano tranquillamente senza porsi alcun problema di coscienza».

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Le violenze abortiste contro i pro life non si fermano (ecco i video)

Per i fautori dell’aborto qualsiasi critica contro questa “conquista di civiltà” è da impedire in tutti i modi, con buona pace del confronto democratico e di qualunque libertà di opinione. Questa la prima considerazione che sorge spontanea a seguito di quanto accaduto di recente a Vancouver, in Canada, dove i pro-aborto hanno sistematicamente boicottato le manifestazioni promosse dal Canadian Centre for Bio-Ethical Reform, organizzazione che, se da un lato non teme affatto di ricorrere all’uso di immagini crude per richiamare l’attenzione sulla disumanità delle pratiche abortive, dall’altra parte ha patito non poco l’uso di metodi violenti quali insulti, danneggiamenti ed altre azioni violente, tanto da obbligare le forze dell’ordine ad aprire una indagine per individuare i responsabili di questi atti.

Le azioni di disturbo sono state contraddistinte da una sconcertante aggressività, con gli abortisti che non hanno esitato, tra le altre cose, a contestare l’esecuzione dell’inno nazionale canadese e a bloccare il traffico veicolare pur di impedire al caravan affittato dal Canadian Centre di circolare liberamente per propagandare la campagna pro-life dell’ente canadese. Lo stesso veicolo è stato vandalizzato da un abortista in bicicletta, come dimostra questo video:

 

Un gruppo di giovani canadesi pro-life, invece, sono stati invece bagnati con del latte e coperti di insulti, mentre mostravano dei cartelli contro l’aborto. La polizia, come mostra questo video, ha fermato subito l’uomo:

 

Non meno grave, invece, è quanto accaduto negli Stati Uniti dove il noto attivista abortista Ted Shulman, di cui ci siamo già occupati dando notizia del suo arresto avvenuto lo scorso anno, si è dichiarato colpevole per le minacce di morte da lui stesso perpetrate nei confronti di Padre Frank Pavone e del Prof. Robert George, entrambi conosciuti sia dal grande pubblico sia dal mondo accademico americano per il loro impegno contro l’aborto. Shulmann, figlio di una attivista pro-aborto autrice negli anni ‘70 di un libro in cui invitava le donne ad imitarla nel disfarsi disinvoltamente dei frutti delle sue “disattenzioni”, è stato messo in condizione di non nuocere dagli agenti federali dopo il ritrovamento nel suo appartamento di cianuro e altre sostanze mortali che comprovano la sua estrema pericolosità sociale, tanto da essere stato privato della libertà dal giorno del suo arresto senza alcuna cauzione. Padre Pavone ha auspicato che Shulmann con questa dichiarazione di colpevolezza possa iniziare un personale cammino di conversione e di pentimento che lo induca a rinunciare alle sue posizioni a favore dell’aborto.

A Rockford (Illinois, USA), uno scuolabus utilizzato da bambini della “Lady of the Sacred Heart Academy”, con immagini pro-life di giovani donne con neonati sui fianchi e che invitata a “pregare per l’interruzione degli aborti, è stato incendiato da un gruppo di sostenitori dell’interruzione di gravidanza. Qui sotto il servizio di una televisione locale:

 

In realtà gli abortisti non sono nuovi a queste intemperanze, non solo oltreoceano, ma anche in Europa: nel 2011, durante il Salone del libro di Torino, una ventina di estremiste dell’aborto legate ai centri sociali hanno violentemente impedito la presentazione del libro del presidente del Movimento per la Vita, Carlo Casini come abbiamo informato a suo tempo. In Svizzera invece, le forze dell’ordine hanno fatto ricorso a gas lacrimogeni e cannoni d’acqua pur di garantire l’ordine pubblico durante una pacifica manifestazione dei pro-life per le strade di Zurigo. Il 25 gennaio 2012, infine, lo stesso copione è andato in scena in Spagna, più precisamente a Barcellona.

Questi episodi dimostrano senza alcun dubbio l’esistenza di gruppi che sono disposti veramente a tutto pur di difendere l’aborto legale, impedendo alla radice persino la manifestazione di qualunque pensiero e/o opinione di segno opposto. Il rifiuto del dialogo, il tentativo di mettere a tacere con qualunque mezzo i pro-life, di fatto getta delle ombre inquietanti sull’immediato futuro, come dimostrano anche fatti ancor più tragici di quelli da noi descritti in questo articolo. Concludiamo queste riflessioni prendendo le parole usate da Padre Pavone nei confronti di Ted Shulmann: «la violenza contro di me e altri dirigenti è da respingere e lo stesso deve avvenire anche per la violenza commessa contro i bambini nel grembo materno».

Salvatore Di Majo

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Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (IV° parte): l’esistenza di Dio nell’Illuminismo


 

di Luca Ferrara*
*dottorando in scienze filosofiche

 

Nel primo articolo abbiamo posto le premesse per un possibile confronto tra Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino, nel secondo articolo abbiamo introdotto le due quaestiones dell’Aquinate, all’interno della seconda sono contenute le celebri “cinque vie” per la dimostrazione di Dio e nel terzo articolo abbiamo esposto le cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio formulate da San Tommaso.

Il pensiero di Kant è attraversato da una molteplicità di tensioni speculative non sempre componibili, delle quali, alcune sono riconducibili alle diverse fonti di cui si nutre il criticismo, mentre altre sono nuove esigenze teoretiche che il pensatore tedesco pone in modo autonomo rispetto agli impulsi culturali ricevuti dall’ambiente di Konigsberg. Perciò riteniamo necessario in primo luogo contestualizzare il problema dell’esistenza di Dio sotto questa duplice considerazione.

Una consuetudine storiografica, in gran parte superata anche dalla stessa storiografia filosofica di ispirazione cattolica, ha spesso considerato l’Illuminismo dominato da una matrice culturale agnostica o atea, irriverente o indifferente nei confronti della religione e della metafisica, purtroppo non si può non rilevare come tale consuetudine, pur essendo in gran parte superata, sussista ancora in ambito scolastico e in ambito giornalistico, come una sorta di pregiudizio periodizzante, il quale spesso fa da filtro ad una vera comprensione del Settecento.

L’Illuminismo è un fenomeno culturale che investe ampi settori della società, travalicando gli stretti steccati del sapere accademico, facendo della critica un metodo capace di operare una decostruzione fondante per ogni forma di disciplina: un dato, una nozione, un concetto è tale solo all’interno di un sistema, il quale a sua volta deve rispondere a criteri precisi che legittimino l’impianto che il sistema ha assunto. Ma quali sono questi criteri? Si potrebbe rispondere senza esitazione che le norme che permettono di giudicare una forma di sapere risiedono nella ragione e nei suoi principii. Ma non erano queste norme le medesime del razionalismo seicentesco? Che differenza sussisterebbe allora tra le due epoche? Per l’Illuminismo lo studio di una disciplina e della sua organizzazione concettuale non si esaurisce nell’ordine delle ragioni, nell’utilizzo attento delle regole di un metodo, certo queste sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per condurre un’analisi accurata, volta a fondare i diversi tipi di sapere. È necessario conoscere se ciò che intende stabilire la ragione in un determinato campo disciplinare è alla sua portata, e poi considerare quali ricadute abbia nella società tale forma di sapere così fondato: la conoscenza acquista valore solo se si traduce in un guadagno sul piano pratico, tale da rivelarsi un vantaggio per il genere umano. Tale posizione teorica viene sintetizzata nel celebre motto vichiano — verum et factum convertuntur —, all’interno del quale è presente un’assunzione teorica solo parzialmente esplicitata: ogni teoria acquista valore solo se si incarna in un determinato modello procedurale: il sapere teorico nell’atto stesso del suo costituirsi deve porre in essere la procedura che lo conferma e lo invera. Si pensi al ruolo giocato dall’esperimento nella fisica e nella chimica, come garanzia della bontà epistemica della formula matematica, ma l’esperimento, viceversa, non può essere costruito senza la formula matematica che disegna le proporzioni le relazioni . Dunque una teoria passata al vaglio della ragione è una teoria suscettibile di un’applicazione pratica, tangibile[1].

Inoltre, bisogna considerare che nel corso del Settecento, si assiste ad una parcellizzazione dei saperi — conseguenza del processo di progressiva specializzazione sia teorica, sia tecnica —, che va a ridefinire la gerarchia tra le molteplici forme di conoscenze di cui è suscettibile lo spirito umano. I saperi non seguono un ordine ontologico, stabilito a priori, rinvenibile tramite un processo di astrazione progressiva, ma seguono un ordine funzionale, in modo da rispondere ad un bisogno concreto, il quale sorge nel preciso momento in cui si viene a porre nella mente del ricercatore. L’assunzione dell’ordine alfabetico (il modello è l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert) equipara le diverse materie che compongono lo scibile umano, sicché la priorità di una disciplina rispetto ad un’altra dipenderà di volta in volta dall’interesse da cui è presa la mente dello studioso. Inoltre, la partizione alfabetica delle diverse discipline era indice di una riconosciuta autonomia: ogni forma di sapere, nonostante fosse connessa alle altre nella misura in cui era espressione della medesima fonte (la ragione umana), godeva di un ampio margine di indipendenza rispetto alle altre, in virtù del fatto che fosse espressione di una particolare funzione della ragione.

Dunque, il progetto di Diderot e di D’alembert di un’enciclopedia, intesa come dizionario ragionato delle scienza, delle arti e dei mestieri, risponde ad un’esigenza ben collocabile nel contesto culturale del Settecento. Ma all’interno di questo mutato quadro del sapere che importanza poteva ancora rivestire il problema teologico? Se la metafisica non era più la regina delle scienze, non veniva meno anche la funzione del sapere filosofico, come sapere ?

Il progetto di Diderot  e D’Alembert rappresenta degli aspetti significativi dell’Illuminismo, ma non li esaurisce tutti. L’Illuminismo è un fenomeno culturale europeo che si declina in una pluralità di modi a seconda dei contesti. In particolare in Inghilterra prende piede la corrente denominata deismo che riprende il problema teologico e la questione dell’esistenza di Dio, le quali vengono affrontate su nuove e con rinnovato rigore, mentre la metafisica viene riformulata e ridefinita nelle sue istanze in Germania grazie all’opera speculativa di Wolff e Baumgarten. Sia il deismo inglese che la metafisica wolffiana assegnano un ruolo centrale alle prove dell’esistenza di Dio. Toland, uno dei massimi esponenti del deismo, prendendo le mosse dal celebre saggio lockiano La ragionevolezza del cristianesimo (1695), sosteneva, nel sua opera Cristianesimo non misterioso (1696), l’assenza di contraddizioni nella fede cristiana, la sua razionalità (giudizio che in parte ribalterà nel Pantheisthicon), distinguendo gli elementi misteriosi, non riconducibili alla ragione dagli elementi razionali. Altri importanti esponenti del deismo saranno Matthew Tindal che nell’opera Cristianesimo antico quanto la creazione (1730) sostiene che la rivelazione messianica sia una seconda rivelazione di una morale naturale sempre presente nell’uomo fin dalla creazione. Il deismo tendeva a ridurre il cristianesimo ad un nucleo di verità essenziali, espungendo tutte quegli aspetti ritenuti fantastici o favolistici, in quanto creazione dell’immaginario collettivo degli autori biblici. Ma il deismo riconosceva ampio valore alle prove dell’esistenza di Dio. La fede era considerata un fatto razionale, proprio perché basata su prove. Credenti in un Dio razionale, inteso come architetto del mondo lo erano anche Voltaire e Rousseau.

Se volgiamo poi lo sguardo al nostro paese, pur non potendo non notare come sia prevalente l’interesse economico-civile su quello speculativo, gli autori italiani come Genovesi, Galiani o Verri mostrano un profondo rispetto nei confronti delle tematiche religiose, non assumendo mai posizioni che si possono configurare come atee o agnostiche. Gli autori illuministi che negano in modo netto la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio sono diversi, ma indubbiamente sono numericamente inferiori rispetto agli autori che sostengono la possibilità di una fede naturale, fondata su asserti razionali. Tra questi Hume è sicuramente il più acuto, colui il quale pone gli argomenti speculativamente più interessanti.

In primo luogo l’autore scozzese nega validità ontologica ed epistemica al principio di causalità. Alcune delle più celebri dimostrazioni dell’esistenza di Dio si fondavano proprio sulla causalità riscontrabile nei processi naturali. Inoltre, Hume nei Dialoghi sulla religione naturale (1779), criticava tre prove dell’esistenza di Dio: la prova ontologica; la prova cosmologica; la prova teleologica. Queste tre prove erano quelle che fornivano la base teorica del deismo. Secondo Hume non era possibile dimostrare l’esistenza di Dio tramite queste tre prove, perché ognuna di esse faceva leva su argomentazioni logiche che non avevano riscontro nel corso della nostra esperienza: l’esistenza è qualcosa in cui posso credere se ne faccio esperienza.

Nel prossimo articolo valuteremo le prove dell’esistenza di Dio all’interno del pensiero kantiano.

 

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Note

[1]Non è un caso che il filosofo a cui si richiamerà gran parte del mondo intellettuale illuminista sarà Locke. Il celeberrimo Saggio sull’intelletto umano.

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L’istantanea conversione dell’ateo Alphonse Marie Ratisbonne

“La storia della Chiesa è piena di conversioni, ma alcune sono più imprevedibili di altre”. Così inizia questo recente articolo preso dal sito spagnolo “Religion En Libertad”,  il quale descrive la conversione dell’avvocato Alphonse Marie Ratisbonne, molto simile a quella di sant’Agostino, del beato John Henry Newman e ancora di più a quella di Andrè Frossard. Ratisbonne, di famiglia ebrea, ateo, scettico, cinico e fortemente anticlericale, trascorse la vita nell’ozio e nei piaceri ma in pochissimi istanti e attraverso esperienze apparentemente casuali abbandonò tutta la sua vita passata per dedicarsi a ciò che per tutta la vita aveva odiato: Dio e la Chiesa.

Partiamo dall’inizio di questa imprevedibile storia: siamo nel 1839, Alphonse ha ormai 27 anni, è  laureato in giurisprudenza e già avviato alla carriera di banchiere e prima di sposarsi con sua cugina Flore, decide di fare un ultimo viaggio in alcune grandi città europee. In questi momenti gli torna alla mente suo fratello, Theodore. Non lo sente da molti anni, infatti Theodore si è fatto sacerdote cattolico! Che ironia! Alphonse non poteva sopportare la scelta del fratello, perciò aveva troncato i rapporti con lui. Ma a sua insaputa, il fratello prete lo affidava tutti i giorni alla Immacolata Concezione, affinché potesse cambiar vita (e pensare che il dogma dell’Immacolata verrà proclamato solo anni dopo!).  Alphonse nel suo lungo viaggio si ferma anche a Roma, dove constata le condizioni degli ebrei nel ghetto. Nella Città Eterna incontra un suo vecchio amico, il barone Theodore de Bussierè, convertitosi da poco al cattolicesimo. Costui farà da guida per la città ad Alphonse e agli altri ebrei in viaggio con lui, a una condizione, di portare al collo la medaglia miracolosa di Catherine Labourè, in futuro poi santa Catherine. Alphonse non ha alcun problema, la porta come fosse un ninnolo, col senno di poi capirà.

I giorni passano, e arriviamo al 20 Gennaio 1842. L’amico Theodore lo porta con sé per una commissione, il pagamento per il funerale di un uomo importante deceduto due giorni prima, che sicuro diventerà molto importante per Alphonse. Il calesse arriva alla chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, vicino a piazza di Spagna. Il barone entra e Alphonse, per non rimanere al freddo decide di seguirlo a sua volta. Essendo buio, il nostro uomo non può vedere i capolavori del Bernini o del Borromini, ma viene attratto da una luce particolare proveniente da una cappella laterale. E in un singolo istante (come avvenne in modo speculare per lo scrittore Frossard) tutto cambiò: d’un tratto si trovò in ginocchio a contemplare la bellezza di una donna stupenda in piedi davanti a lui. La sua immagine era molto simile a quella della medaglia che aveva al collo. Lo stesso Alphonse racconta questa visione: “Ho alzato gli occhi verso la luce e vidi, in piedi presso l’altare, grande, maestosa, bella e graziosa la Beata Vergine Maria…”.

La Madonna non parla, ma Alphonse percepisce dal solo sguardo della Vergine un forza tremenda. “Improvvisamente ho capito l’orrore dello stato in cui mi trovavo, la deformità del peccato” scriverà successivamente. Capisce tutto da solo, senza che la Beata Vergine dica nulla, i suoi occhi bastano a fargli vedere l’abisso del male. Dopo solo undici giorni dall’evento miracoloso, Alphonse decise di farsi battezzare ed adottare come nome quello di Marie. Tutti i suoi amici, la sua famiglia e anche la sua futura moglie lo abbandonarono, ma questo non gli tolse in nulla la grazia trovata. Ciò che lo colpì maggiormente, subito dopo la celestiale visione, fu di scoprire che l’uomo per il quale De Bussierè era venuto in quella chiesa romana era il conte de la Ferronay, ministro del re di Francia morto due giorni prima dopo aver fatto richiesta al suo confessore di offrire la propria vita per la conversione di un peccatore, Alphonse stesso. Ratisbonne diventò sacerdote e dopo sei anni di studi entrò prima nell’Ordine dei Gesuiti ed in seguito andò nella Congregazione delle Religiose di Nostra Signora di Sion ad aiutare suo fratello Theodore.

Ammirazione dunque per un uomo come Alphonse Ratisbonne, che, come Sant’Agostino nella prima parte della sua vita, visse dissoluto ma che toccato il fondo trovò l’Unico che può far davvero riemergere dall’abisso. Sembra proprio paradossale: non i più puri Dio ha preferito, ma coloro che arrivano fino a detestarlo, vengono scelti come suoi araldi.

Luca Bernardi

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Gravi problemi per i bimbi cresciuti da genitori omosessuali

Famiglie La rivista scientifica “Social Science Research” ha pubblicato due studi molto interessanti sulle problematiche dei bambini cresciuti all’interno di una relazione omosessuale.

Sono studi importanti in quanto riequilibrano le posizioni in campo: finora, infatti, le prime ricerche su questo tema hanno sostenuto la non-differenza, negando le diversità tra i bambini di coppie eterosessuali e omosessuali, successivamente ricerche promosse dalla lobby gay hanno tentato addirittura di sostenere una crescita migliore da parte dei figli di omosessuali. Ma, come ha spiegato Francesco Paravati, presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO), «le problematiche delle “nuove famiglie” sono fenomeni recenti, tutti i risultati di qualunque organismo scientifico sono perciò preliminari e non definitivi». Anche Rosa Rosnati, docente di Psicologia sociale alla Cattolica di Milano, ha spiegato che attualmente le ricerche sul tema «sono su gruppi molto piccoli e condotte a breve termine. È ovvio che un bambino possa vi­vere con due genitori dello stesso sesso. Dal punto di vista biologico e psicologico, però, un figlio ha bisogno di un uomo e di una don­na per crescere. Poi, certo, ci possono essere figure sostitutive, che assicurano buone rela­zioni. Ma un conto è ciò che è preferibile e un altro è la capacità di adattamento dell’essere umano».

Uno di questi due nuovi studi è quello del sociologo dell’Università del Texas, Mark Regnerus (qui il paper integrale), il quale vanta di un impianto metodologico inedito quantitativamente e qualitativamente, sia perché si basa sul più grande campione rappresentativo casuale a livello nazionale, sia perché per la prima volta fa parlare direttamente i “figli” (ormai cresciuti) di genitori omosessuali, dimostrando che il 12% pensa al suicidio (contro il 5% dei figli di coppie etero), sono più propensi al tradimento (40% contro il 13%), sono più spesso disoccupati (28% contro l’8%), ricorrono più facilmente alla psicoterapia (19% contro l’8%), sono più spes­so seguiti dall’assistenza sociale rispetto ai coetanei cresciuti da coppie etero­sessuali sposate. Nel 40% dei casi hanno contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%), sono genericamente meno sani, più poveri, più inclini al fumo e alla criminalità.

L’autore dello studio ha spiegato che non si vuole esprimere un giudizio sulle capacità genitoriali delle coppie dello stesso sesso, ma prendere semplicemente atto di una diversità di questi figli, che si traduce spesso in un problema. Tuttavia si domanda se valga la pena «spendere un significativo capi­tale politico ed economico per supportare queste nuove ma rare famiglie, quando gli a­mericani continuano a fuggire dal modello di genitori biologici eterosessuali sposati, di gran lunga più comune ed efficace e ancora, alme­no a giudicare dai dati, il posto più sicuro per un bambino». Anche lui riconosce che i pochi studi finora pubblicati, che sostengono la teoria della “nessuna differenza” tra bambini cresciuti in famiglie etero e gay, «si basano su dati non casuali e non rappresentativi, utilizzano campioni di piccole dimensioni che non consentono la generalizzazione alla popolazione più ampia di famiglie gay e lesbiche».

Il secondo studio è stato realizzato da Loren Marks della Louisiana State University, nel quale si critica fortemente la posizione dell’American Psychological Association (APA), secondo la quale i figli di genitori gay o lesbiche non sono svantaggiati rispetto a quelli di coppie eteorsessuali. La studiosa ha analizzati i 59 studi citati dall’APA per sostenere la propria tesi, dimostrando che essi mancano di campionamento omogeneo (1), gruppi di confronto (2), caratteristiche del gruppo di confronto (3), presenza di dati contraddittori (4), portata limitata degli esiti dei bambini studiati (5), scarsità di dati sul lungo termine (6) e mancanza di potenza statistica (7). La conclusione è che le forti affermazioni, comprese quelle compiute dall’APA, non sono empiricamente giustificate. La ricercatrice si è dunque allineata al giudizio del prestigioso psicologo Nicholas Cummings, ex presidente dell’American Psychological Association, secondo cui «l’APA ha permesso che la correttezza politica trionfasse sulla scienza, sulla conoscenza clinica e sull’integrità professionale. Il pubblico non può più fidarsi della psicologia organizzata per parlare di prove, piuttosto si deve basare per quel che riguarda l’essere politicamente corretti. Al momento la governance dell’APA è investita da un gruppo elitario di 200 psicologi che si scambiano le varie sedi, commissioni, comitati, e il Consiglio dei Rappresentanti. La stragrande maggioranza dei 100.000 membri sono essenzialmente privati ​​dei diritti civili». Secondo David J. Eggebeen, del Department of Human Development and Family Studies della Pennsylvania State University, lo studio della Marks «offre argomenti ragionevoli per una maggiore cautela nel trarre forti conclusioni basate sulla ricerca disponibile».

E’ inutile dire che la prevedibile reazione (a dir poco animalesca) della lobby gay a questi risultati è stata davvero violenta. I commenti sono stati questi: “odiosi bigotti”, “gregari dell’Opus Dei”, “dovrebbero vergognarsi”, presentano dati “”intenzionalmente fuorvianti” e “cercano di screditare i genitori gay e lesbiche”, “scienza spazzatura” e “disinformazione pseudo-scientifica”. Addirittura qualcuno ha auspicato «l’inizio della fine della credibilità di Mark Regnerus per le agenzie di stampa rispettabili». Altri parlano anche di minacce personali alla sua famiglia. Tuttavia, come ha fatto notare il “New York Times”, al di là dell’isterismo omosessualista, «gli esperti esterni, in generale, hanno detto che la ricerca è stata rigorosa, fornendo alcuni dei migliori dati sul tema». Ma che però non sarebbero «rilevanti nel dibattito sul matrimonio e adozione gay». Non la pensa così W. Bradford Wilcox, docente di Sociologia presso l’Università della Virginia, secondo cui invece «lo studio di Regnerus ci sta portando ad un nuovo capitolo. Il primo capitolo ha suggerito che non vi è alcuna differenza, il secondo ha detto che ce ne sono e il terzo capitolo sta cercando di capire le differenze».

Sono arrivate anche critiche serie,  come è normale per ogni studi scientifico, le quali si sono concentrate quasi esclusivamente sullo studio di Regnerus. Tuttavia, anche tra i polemici come il demografo Cynthia Osborne, si riconosce che «lo studio Regnerus è il più scientificamente rigoroso della maggior parte degli altri studi in questo settore». Allo stesso modo, il sociologo della Pennsylvania State University Paul Amato, scrive che «è probabilmente il meglio che possiamo sperare, almeno nel prossimo futuro». Walter Schumm, docente di “Family Studies and Human Services” presso la Kansas State University ha commentato: «Una cosa è certa: questo studio rappresenta un serio tentativo di ottenere informazioni obiettive che raramente sono state disponibili prima, e non deve essere liquidato semplicemente a causa del disagio che può provocare». Anche per uno dei più noti network scientifici, PhysOrg, lo studio «fornisce nuove e convincenti prove che numerose differenze di benessere, sociali ed emotive, esistono tra i giovani adulti cresciuti da donne lesbiche e coloro che sono cresciuti in una famiglia tradizionale».

Alle normali critiche ricevute, inoltre, i due ricercatori –Mark Regnerus e Loren Marks- hanno puntualmente ed esaurientemente risposto (qui e qui), confermando che «i bambini sembrano più adatti ad avere una vita adulta con successo quando trascorrono la loro intera infanzia con i loro padri e madri biologici sposati e specialmente quando i loro genitori restano sposati anche dopo» (in linea, oltretutto, con tutta la mole di studi disponibili oggi).

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Esce il libro del fisico David Glass: una razionale risposta al “new atheism”

La scienza fornisce alcune delle migliori ragioni per credere in Dio, questo è quello che sostiene David Glass, fisico teorico e informatico (con master in filosofia) presso il Computer Science Research Institute dell’University of Ulster (Irlanda). E’ autore del libro “Atheism’s New Clothes: Exploring and Exposing the Claims of the New Atheists” (InterVarsity Press 2012) che potremmo tradurre con: “I vestiti nuovi dell’Ateismo: esplorare e rivelare le affermazioni dei Nuovi Ateisti”.

Nel libro Glass sostiene che i New Atheist (come Richard Dawkins, Daniel Dennett, Sam Harris e Cristopher Hitchens) non sono riusciti a rispondere ai migliori argomenti dei credenti e che la scienza, ben lontana dal distruggere la fede in Dio, fornisce invece delle ottime ragioni a supporto. Il fisico irlandese ha dunque analizzato e risposto alle obiezioni maggiori, anche aiutandosi con la scienza, la storia e la filosofia.

Il libro è stato decisamente apprezzato da diversi teologi, scienziati e accademici, tra cui il docente di Matematica dell’Università di Oxford, John Lennox, che ha già avuto modo di confrontato sia con Richard Dawkins che con Christopher Hitchens (autore di “Fede e Scienza”, Armenia 2009). Il matematico ha commentato: «Con consumata abilità analitica e scrupolosa correttezza, David Glass dimostra che gli imperatori del New Atheism sono nudi. Questo libro, che è sia scientifico che filosofico, è una lettura che deve essere aggiunta alla crescente letteratura sul dibattito scienza-religione e alla difesa intellettuale del Cristianesimo»Rodney D. Holder, matematico (e astrofisico), direttore dell’Istituto Faraday del College di Sant’Edmund (Cambridge) e autore di “Dio, il Multiverso e Ogni cosa” (Ashgate 2004), ha descritto il libro come «una sostenuta, misurata e attentamente ragionata, ma in ultima analisi devastante critica agli argomenti e alla retorica del culto moderno del “nuovo ateismo”. Un vero piacere da leggere». Per Paul Copan filosofo analitico presso la Palm Beach Atlantic University, l’autore «non solo si basa sul lavoro dei principali filosofi teisti, ma costruisce anche un solido argomento per il teismo cristiano».

Timothy McGrew, docente di storia e filosofia della scienza presso la Western Michigan University, ha affermato «I “nuovi atei” fanno certamente rumore, ma sono anche ragionevoli? In questo libro straordinariamente accessibile, David Glass rivela la loro incapacità di capire quello che frequentemente attaccano»Per Alan Hibbert, professore emerito di Matematica Applicata presso la Queen’s University Belfast, «i “new atheist” affermano che la fede in Dio, e in particolare il cristianesimo, è illogica e (a differenza della scienza) non si basa su prove. In questo libro, David Glass sostiene in modo convincente che la fede cristiana è invece assai sostenuta da prove tangibili e sono i “nuovi atei” ad ignorare le prove, una volta al di fuori delle loro sfere di competenza immediate. Coloro che si sentono minacciati dai stridenti, a volte arroganti, toni dei “nuovi atei”, troveranno molto qui per essere aiutati a “dare ragione della speranza che è in loro”».

Il libro per ora è in lingua inglese, tuttavia nella nostra Biblioteca è presente la sezione “Scienza e Fede” nella quale sono elencati i migliori recenti titoli italiani sul tema.

Davide Galati

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La British Medical Association fermamente contraria al suicidio assistito

In un editoriale del “British Medical Journal”, una delle riviste mediche più importanti della Gran Bretagna, la dott.ssa Fiona Godlee ha invitato i medici ad assumere una posizione “neutrale” rispetto al suicidio assistito, in quanto «la decisione spetta alla società e ai suoi rappresentanti in Parlamento». Dunque l’ideale sarebbe «né il sostegno, né l’opposizione ad un cambiamento della legge, in modo da riflettere la diversità di opinioni personali e religiose tra i medici e i loro pazienti, e incoraggiare un dibattito aperto».

Una posizione molto controversa, rinunciataria, anche perché secondo recenti indagini l’80% dei medici inglesi si oppone a eutanasia e suicidio assistito. Secondo “The Care Not Killing Alliance”, una coalizione di 30 organizzazioni pro-life, è in corso una «campagna attentamente orchestrata» per minare l’opposizione storica della professione medica al suicidio assistito, utile «ad ammorbidire l’opinione pubblica e parlamentare prima della nuova pressione per modificare la legge». Anche in un forte articolo sul “Dailymail” viene condannata questa presa di posizione, affermando che «la lobby dell’eutanasia è guidata da cinici imperativi economici circa il costo delle cure palliative per gli anziani e gli infermi».

Occorre comunque ricordare che in un articolo di maggio 2012, sempre sul “British Medical Journal”, Iona Heath, presidente del Royal College of General Practitioners (l’organo professionale dei medici di medicina generale) ha scritto un articolo titolato: “Cosa c’è di sbagliato nella morte assistita”, riconoscendo che «il supporto al suicidio assistito si fonda sul rispetto per l’autonomia individuale, ma l’influenza che una legislazione che consente la morte assistita può avere sul paziente, è intrinsecamente rischiosa […].  E’ fin troppo facile per le persone malate e disabili credere di stare diventando un fardello intollerabile per le persone più vicine a loro, e anzi, spesso sono un peso. In tali circostanze una richiesta di morte assistita rischia di diventare una sorta di sacrificio da parte della persona morente, con la complicità interessata dei parenti, professionisti e tutori». Il ragionamento è impeccabile e rivela proprio il rischio di stravolgere il compito del medico, il quale eliminerebbe direttamente il paziente divenuto troppo “ingombrante” (o che si sente tale). Una sconfitta per la medicina, come ha spiegato il neurologo Paolo Marchettini. La legalizzazione della morte assistita «nonostante le migliori intenzioni, ci può rendere ancora più vulnerabili», ha commentato la dr. Heath. Dall’altra parte però, occorre prestare attenzione al rischio di accanimento terapeutico: «quando i medici non riescono a riconoscere e ammettere la sofferenza esistenziale del morente», ha continuato l’articolo sul BMJ, «si rifugiano in eccessivi interventi tecnologici, i pazienti si spaventano e smettono di fidarsi dei propri medici arrivando a chiedere la morte assistita». Non è un caso, infatti, che l’esplosione del dibattito sull’eutanasia sia avvenuto proprio oggi, quando siamo in possesso di una incredibile e spaventosa capacità tecnologica. «Non voglio la morte assistita», ha spiegato la  Heat, «ma nemmeno voglio un tubo PEG».

La cosa più significativa, però è che la British Medical Association (BMA), la prestigiosa associazione medica proprietaria del “British Medical Journal”, ha preso leggermente le distanze dall’editoriale di cui abbiamo parlato all’inizio, in cui si invitano i medici alla neutralità, affermando: «le opinioni espresse nella rivista non necessariamente riflettono la posizione di BMA». Ha poi rivelato che la British Medical Association è «fermamente contraria» alla legalizzazione del suicidio assistito. Una posizione simile a quella della New Zealand Medical Association, che poche settimane fa ha annunciato in un comunicato che l’eutanasia non è una pratica etica e non può essere tollerata in alcun modo. La German Medical Association ha invece optato per una posizione più morbida ma non meno chiara: «il coinvolgimento dei medici nel suicidio non è un compito medico».

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Dott.ssa Lanfranchi: «uso di anticoncezionali minaccia salute delle donne»

Quello della pillola contraccettiva è un tema caldo attualmente in America, poichè l’amministrazione Obama ha legiferato che alle lavoratrici venga fornita obbligatoriamente un’ assicurazione sanitaria che provveda gratuitamente anche gli anticoncezionali, la sterilizzazione e i farmaci abortivi, scatenando una durissima reazione dei vescovi cattolici e del mondo pro-life.

La professoressa Angela Lanfranchi,  oncologa e docente presso la Robert Wood Johnson Medical School del New Jersey, presidente e co-fondatrice del Breast Cancer Prevention Institute, ha parlato il 2 giugno a Washington ad un simposio organizzato dalla American Life League, esaminando l’impatto sociale, medico e spirituale della pillola anticoncezionale sulla vita americana. Infatti, benchè la pillola anticoncezionale sia ampiamente utilizzata dalle donne in America, i suoi effetti negativi sono oggi evidenti, cioè il rischio di ischemia, ictus e cancro della mammella, come attestato sia dalla National Toxicology Advisory Panel che dalla U.N. International Agency on Research of Cancer. Purtroppo, molte delle più importanti associazioni che studiano il cancro rifiutano di riconoscere questi dati, ricattate dalla necessità di donazioni evitano di assumere posizioni controverse o impopolari, ignorando o addirittura negando il legame tra la pillola e il cancro.

La Lanfranchi ha parlato anche della capacità della pillola di provocare aborti (un dato di fatto di cui molte donne non si rendono conto), poichè assottiglia il rivestimento dell’utero e può causare ad un embrione già creato difficoltà nell’impianto, anche a causa di interferenze biochimiche. La teologa Dr.ssa Pia de Solenni ha spiegato che l’insegnamento della Chiesa sulla sessualità è rivolto ad una concezione di “amore nella sua pienezza.” La Chiesa riconosce che il sesso è buono e naturale, destinato a comunicare unità, intimità, fiducia e amore autentico; è “vivere per l’altro,” offrire un dono totale di sé, corpo, mente e anima, il che è ovviamente ostacolato in modo grave se non si è pronti ad accettare la vita nascente.

Anche le associazioni di afroamericani hanno le loro esponenti pro-life, quali ad esempio Gloria Purvis, la quale ha sostenuto che, nel favorire la contraccezione e l’aborto presso la gente di colore (cfr. Ultimissima 20/08/2011), vi sia anche un’aggravante di stampo eugenetico, un intento di ridurre il numero dei neri d’America.

Linda Gridelli

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Richard Waghorne, un gay contro le nozze gay

E’ stato fatto recentemente notare che negli Usa quando la definizione di “matrimonio” è stato sottoposta ad referendum in 32 stati, ha vinto tutte le volte il matrimonio naturale. Questo perché dove ci sono leggi di matrimonio omosessuale, è sempre a causa dell’imposizione di giudici attivisti, non certe del voto popolare. Il dissenso è ampio, dai credenti ai non credenti, dagli eterosessuali e perfino agli omosessuali. Un esemplare di quest’ultima categoria, è certamente Richard Waghorne, ricercatore in filosofia politica e commentatore su diversi quotidiani anglosassoni.

Più volte ha scritto in opposizione al riconoscimento giuridico di una relazione omosessuale, anche se raramente «ho sentito il bisogno di dire che io stesso sono gay», ha rivelato sull’Irish Daily Mail. Ha confessato di essere «abbastanza preoccupato per come si stanno mettendo le cose», decidendo di esporsi in modo così personale perché cosciente di come «il dibattito sul matrimonio gay può collassare sulle accuse di omofobia. Il messaggio, esplicito o implicito, è spesso quello che l’essere anti-matrimonio gay significa essere in qualche modo anti-gay. Figure pubbliche che si oppongo devo farlo abitualmente ricevendo gli insulti di bigottismo o omofobia». Ha quindi continuato: «la risposta riflessa di molti sostenitori del matrimonio gay è quello di dipingere ogni forma di dissenso come pregiudizio, come se l’unica ragione per difendere il matrimonio come è esistito fino ad oggi fosse stata una certa varietà di bigottismo o uno squilibrio psicologico».

La denuncia della “caccia alle streghe eterofobica” da parte di Waghorne è precisa e puntuale, ma egli si spinge anche oltre dicendo che «in realtà le persone gay dovrebbero difendere la concezione tradizionale del matrimonio con la stessa forza di tutti gli altri. Dato che il matrimonio tradizionale viene ostacolato in nome del popolo gay, con conseguenze per le generazioni future, è tanto più importante che le persone gay che si oppongono al matrimonio gay comincino a parlare».  Da omosessuale ritiene il matrimonio gay una forma di egoismo, poiché esso «non è un bonus sociale per l’innamoramento e l’accordo nel fare una relazione duratura». Certo, se il matrimonio fosse solo un riconoscimento ad una storia d’amore, allora «non ci sarebbe alcun motivo per differenziare quali relazioni debbano essere incluse e quali no». Ma il matrimonio è ben altro, ovvero è l’ambito vitale dentro al quale «i bambini devono essere cresciuti da un uomo e una donna».  Lo ha anche spiegato su questo sito il prof. Aldo Vitale, ricordando che «l’analisi etimologica del termine medesimo matrimonio, dal latino “matris munia”, cioè doveri della madre, esso non può che contemplare la relazione tra l’ordine delle diverse generazioni, cioè il rapporto tra genitori e figli, ovvero tra coloro che generano e coloro che sono generati».

Waghorne ne è assolutamente cosciente: «Non tutti i matrimoni, ovviamente, coinvolgono l’educazione dei figli, ma la realtà è che i matrimoni tendono verso l’educazione dei figli», e ovviamente la relazione omosessuale è sterile. La domanda è dunque spontanea: «perché una relazione omosessuale deve essere trattata come un matrimonio, nonostante questa differenza fondamentale?». Esiste un patrimonio di ricerca, ha continuato, che «dimostra  come il matrimonio tra uomo e donna fornisce ai bambini i risultati migliori di vita, i bambini cresciuti in questi matrimoni sono migliori in tutta una serie di misure. Questo non è certamente per denigrare le altre famiglie, ma sottolineare l’importanza del matrimonio come istituzione».  Dunque, «se le coppie gay sono considerate ugualmente ammissibili al matrimonio, -anche se esse non sono adeguate verso l’educazione dei figli e non possono, per definizione, dare al bambino una madre e un padre-, allora la comprensione fondamentale di ciò che è il matrimonio in realtà viene scartata».

«Per dirla personalmente», ha concluso il commentatore omosessuale, «non mi sento minimamente discriminato per il fatto che non posso sposare una persona dello stesso sesso. Capisco e accetto che ci siano buone ragioni per questo». Secondo Waghorne, comunque, il “caso” del matrimonio gay si esaurirà presto perché «gran parte del sostegno al matrimonio gay oggi è istintivo, deriva dal fatto che la gente non vuole essere considerata come anti-gay». Quando l’attenzione mediatica si abbasserà, allora terminerà anche il clima da “caccia alle streghe” creato per impaurire chi ha idee diverse dall’Arcigay.

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Studio conferma: collegamento tra aborto e nascita prematura

Ci sarebbe un chiaro collegamento tra aborto e nascite premature. Quello che è meno chiaro è perché la comunità scientifica continua ad ignorarlo. Il dottor Byron Calhoun, professore e vicepresidente del dipartimento di ostetricia e ginecologia della West Virginia University-Charleston denuncia chiaramente la «sepoltura» di tale nesso nella letteratura medica e definisce come «disonesto, irrispettoso e in malafede» chi si ostina a negarlo. In uno studio pubblicato da C-FAM, lo stesso Calhoun analizza diversi decenni di letteratura medica indagando sui risultati di ricerca sul legame tra aborto e nascita pretermine.

Nella mole di studi esaminati dal dottore (alcuni di questi riportati nel dossier dedicato dell’UCCR), risulta anche un rapporto di quest’anno dell’Organizzazione mondiale della sanità, in cui viene evidenziato come 15 milioni di bambini nascono prematuramente ogni anno, con le complicazioni annesse e di cui, più di un milione tra questi non sopravvive. Sebbene nel report dell’agenzia Onu, la questione venga liquidata con una  mancanza d’informazioni sufficienti, il dottor Calhoun afferma che in almeno 127 studi emerge «un statisticamente notevole rischio di nascita prematura dopo un aborto». Nella ricerca viene inoltre citata una significativa meta-analisi del 2009, in cui risulta un incremento del rischio del 64 percento in seguito ad una sola interruzione volontaria delle gravidanza. Giunge alle medesime conclusioni un’altra meta-analisi dello stesso anno, che con disarmante chiarezza suggerisce: «maggior è il numero di aborti precedenti alla prima gravidanza, maggiore è il rischio di nascita pretermine». Entrambe, sono poi state confermate da uno studio cinese del 2010, in cui è stata inoltre avanzata una distinzione tra aborto medico e chirurgico. La ricerca ha infatti stimato che, in una storia clinica in cui le due tecniche di interruzione di gravidanza sono combinate, la percentuale di rischio sale al 218 percento.

Il fenomeno, definito «fin troppo comune», nella comunità medica, in cui vengono ignorati dati o riportati selettivamente i risultati degli studi relativi a questa questione, rischia di far pesare le sue conseguenze direttamente sulle donne «malinformate sui rischi dell’aborto». Tutti coloro che sono coinvolti in qualche modo con la salute della donna devono «essere informati sul costo della nascita prematura, in termini sia economici che di sofferenza umana», altrimenti, se il nesso tra aborto e nascita pretermine continuerà ad essere ignorato, conclude Calhoun, «milioni di bambini continueranno a morire e milioni di famiglie a soffrire, invano». La notizia è stata riportata da EWTN News.

Nicola Z

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