Nuovo studio: persone religiose sono meno ciniche e aperte ad un mondo equo

La ricerca sulla psicologia della religione ha da anni dimostrato che l’uomo religioso vive mediamente una vita qualitativamente migliore dal punto di vista psico-fisico. Lo abbiamo sottolineato più volte, anche citando uno degli ultimi studi realizzati ovvero la seconda edizione dell’Handbook of Religion and Health (Oxford University, 2012) curato dal massimo esperto mondiale del campo, lo psichiatra statunitense Harold Koenig.

Una recente ricerca, pubblicata sul Journal of Religion and Health, ha voluto approfondire leggermente la questione trovando che coloro per cui la morte non e` l’ultima parola sulla vita, vedono aumentata la probabilità di credere che questo mondo sia giusto. In altre parole, queste persone erano più propense a pensare che «tutto è possibile se si lavora sodo» e che «tutti cominciano con le stesse possibilità nella vita».

Le persone religiose, ha continuato a mostrare lo studio, erano meno propense al complottismo e a ritenere che «il mondo è controllato da poche persone potenti» o che «la finanza è un campo dove la gente può diventare ricca senza dare un reale contributo alla società». Un approccio positivo, dunque, forse per qualcuno ingenuo ma comunque puro e privo di scetticismo: «la fede in Dio è associata negativamente con la fede in un mondo cinico e positivamente associata con la fede in un mondo equo», è la conclusione degli studiosi.

I risultati mostrano anche che le persone religiose sono più propense a credere che quel che accade dipende da una volontà o da una ragione, e che il caso e la fortuna hanno poca influenza. Guardando questi dati al contrario, tale responso sembra evidenziare una correlazione significativa tra chi non è religioso e la superstizione.

Gli studiosi hanno inoltre confermato gli studi precedenti, verificando che le persone religiose soffrivano meno di ansia e di altri sintomi psichiatrici, come la paranoia, l’ossessione e la compulsione.

 

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Mariano Artigas: evoluzione, creazione e divulgazione scientifica

In questo articolo parlerò del pensiero di Mariano Artigas (1938-2006), sacerdote, fisico e filosofo, membro dell'”Académie Internationale de Philosophie des Sciences” ed autore di alcuni libri sulle teorie ‘evoluzioniste‘ e sulla loro divulgazione da parte di alcuni scienziati. Nel discorso che svilupperò non mi riferirò solamente alla teoria contemporanea dell’evoluzione, derivata da quella di Darwin e chiamata anche ’teoria sintetica’ o ‘neodarwinismo‘, ma in generale a tutte quelle teorie che  in qualche modo affermano che ciò che esiste, quindi l’universo e la vita, sia nato, sviluppato ed evoluto per merito del ‘caso’. Questa impostazione ‘casualista’, data a diverse teorie biologiche ma anche cosmologiche, è dovuta a diversi scienziati, i cui più noti  sostenitori e diffusori -almeno a livello di mass media-  sono attualmente Steven Hawking per la cosmologia e Richard Dawkins per la biologia.

Artigas  mostra di non accettare acriticamente la teoria di Darwin, almeno così come viene enunciata dai suoi sostenitori nella forma attuale detta ‘neodarwinismo‘. Nei suoi interventi infatti evidenzia le contraddizioni e i punti poco chiari che tale teoria ha al suo interno,  facendo notare come molte affermazioni siano in realtà soltanto ipotesi non provate e mettendo in guardia dall’indebito sconfinamento verso la filosofia e la teologia realizzato da alcuni studiosi. Non solo, perciò, evidenzia le difficoltà che la teoria attuale ha nello spiegare le origini, ma consiglia ai divulgatori di non contaminare con la loro ideologia i risultati scientifici veramente certi, stiracchiando a loro favore un appoggio che la scienza non dà.

Per fare un esempio, nel suo libro Le frontiere dell’evoluzionismo (Edizioni Ares 1993), Arigas esplicita tre false ‘deduzioni’ che studiosi quali quelli sopra menzionati,  ’fanno derivare’ illecitamente dalla scienza: 1) la non necessità della creazione divina dell’universo,  2) l’inesistenza dell’anima, 3) la negazione dell’azione di Dio nel mondo. Rispetto alla creazione dell’Universo, cioè sul fatto che dopo il ‘nulla’ vi sia stato ‘qualcosa‘, niente di sicuro può dire la scienza in quanto essa dovrebbe osservare il ‘nulla’ antecedente e metterlo in relazione con ciò che invece esiste, ma ciò è ovviamente impossibile. Il problema della nascita dell’universo è più metafisico che fisico, esce dalle possibilità di osservazione scientifica e inutili sono le teorie evoluzionistiche. La scienza neppure può esprimersi sull’esistenza o meno dell’anima, la cui esperienza può essere fatta solo in ambito personale e appartiene ad un campo che è al di là della fisica, essendo appunto ‘non materiale’ per definizione. Neanche ci si può servire della scienza per negare l’azione di Dio nel mondo: l’universo si comporta ed evolve seguendo le leggi naturali, ma lo scienziato nulla può dire sul perché valgono queste leggi e perché esiste la natura invece del ‘nulla‘. Tutto l’esistente, fra l’altro, suggerisce una finalità, ma per la maggior parte degli scienziati moderni è una parola tabù. Per lo scientismo contemporaneo, è il ‘caso’ l’autore di tutto ciò che esiste, un ‘caso’ senza finalità ma creatore dell’ordine e della complessità e creatore di un più che probabile fine verso cui tendono tutti gli esseri viventi. Eppure da esso, anziché generare -come sarebbe stato infinitamente più probabile-, ci saremmo aspettati il caos e nulla più.

La verifica sperimentale della teoria evoluzionista rimane incerta e alle volte impossibile, molti discorsi sono spesso infarciti di ipotesi indimostrate e deduzioni piuttosto ardite. Per esempio, la veridicità della interpretazione dei fossili è tutt’ora discussa e lo stesso problema dell’origine della vita è tutt‘altro che risolto; anche il più semplice organismo vivente è infatti troppo complesso, e troppo poco tempo c’è stato perché si possa identificare il ‘caso’ come l’autore. Per lo scientismo attuale, l’affermazione “il caso è autore del tutto“ assomiglia  sempre più ad un dogma a partire dal quale vengono valutati tutti i discorsi sull’esistente:  se rispettano questo assioma allora vengono considerati già credibili e possibilmente veri, mentre tutti gli altri, quelli che negano o almeno mettono in dubbio questo presupposto, vengono respinti e derisi in partenza. C’è qualcosa di non chiaro e sospetto nella difesa che gli ‘specialisti’ del modello neodarwinista manifestano in maniera alle volte eclatante e talvolta anche verbalmente irruenta. Oltre ad una certa dose di autoreferenzialità che lascia sorpresi. Artigas manifesta i dubbi di diversi studiosi, anche evoluzionisti, sullo schema “mutazioni casuali – selezione naturale”: ogni passaggio è troppo complesso, coordinato e specifico, per escludere delle leggi generali che regolano questi processi, e che magari ancora debbono essere scoperte. Fra l’altro, a mio avviso, gli scienziati che aderiscono in maniera tenace al neodarwinismo appaiono anche un po’ sorpassati dalle tendenze moderne: troppo legati al riduzionismo, che ormai da tempo ha mostrato la sua insufficienza. Le scoperte sulla notevole complessità degli organismi viventi fanno sempre più pensare all’esistenza di leggi che sono a livelli superiori rispetto alle leggi fisiche, da cui invece i riduzionisti vorrebbero far derivare tutti i processi esistenti. Bisognerebbe quindi quanto meno assumere un atteggiamento prudente, anche perché se venissero infatti scoperte delle regole operanti su piani superiori rispetto a quello strettamente fisico, allora si potrebbe cominciare a considerare l’evoluzione come un processo fondamentalmente deterministico e voluto.

Soprattutto il salto dall’animale all’uomo non può essere spiegato in maniera semplicistica, in quanto l’uomo possiede alcune caratteristiche che si trovano al di sopra del livello fisico, chimico o biologico. «Quando si pretende di ridurre l’uomo a un animale più evoluto degli altri, bisogna negare le esperienze più ovvie, profonde e importanti», è il commento di Artigas. Resta anche aperto il problema dell’inizio della vita, del salto dal non vivente al vivente,  rimane irrisolto il problema della nascita dell’universo, del passaggio dal ‘nulla’ all’esistente. Anche in questo campo non mancano ipotesi estreme, sempre di stampo materialista, ma che sempre ipotesi rimangono, in quanto la loro verifica è impossibile o improbabile, anche in linea di principio. Quando l’ipotesi del Big Bang venne confermata dalla scoperta della radiazione di fondo, sembrò quasi che potesse coincidere con l’atto creativo, ma ulteriori speculazioni teoriche hanno cercato di dare credibilità alla tesi di un universo nato ‘spontaneamente’ dal nulla, secondo il principio quantistico di indeterminazione. Hawking si è spinto più in là, asserendo che non ci sarebbero condizioni al contorno iniziali e quindi non ci sarebbe stata una vera nascita del tempo e veri confini: l’universo sarebbe contenuto in se stesso. Da ciò ne ha dedotto che l‘universo potrebbe non aver avuto bisogno di un Creatore, ma con questo ragionamento ipotetico ha mostrato «di confondere la creazione, cioè dipendenza da Dio nell’essere, con l’inizio del tempo». Artigas fa anche notare che, anche ammettendo un universo eterno privo di inizio, ciò non escluderebbe la creazione. Già San Tommaso d’Aquino asseriva che «dire che qualcosa è stato fatto da Dio e che è sempre esistito non è una contraddizione». I ragionamenti di alcuni cosmologici, come Hawking, si basano su ipotesi della struttura dell’universo che appaiono non del tutto sicure, e soprattutto ricavano da queste ipotesi delle conclusioni non lecite, in quanto filosofiche e non scientifiche.

Artigas mostra invece come non vi sia necessariamente una opposizione tra ‘evoluzione’ e ‘creazione’: «Si può ammettere l’evoluzione e alla stesso tempo la creazione divina […]. Le scienze studiano la possibile origine di alcuni esseri da altri, mentre la metafisica s’interroga sull’esistenza stessa degli esseri». Insomma «chi ammette la creazione può ammettere che ci sia stata una evoluzione, ma in ambiti concreti, ovvero a partire da un certo stato primitivo in cui potrebbero essere esistiti già alcuni tipi semplici di esseri viventi. Al contrario chi non ammette la creazione deve necessariamente ammettere che tutto ciò che esiste ha un’origine puramente evolutiva, che la vita è sorta dalla materia inorganica e che tutti gli esseri viventi sono sorti a partire da una forma di vita primitiva; tutte ipotesi non dimostrate scientificamente. Pertanto è proprio “l’anti-creazionista” a vedersi obbligato ad ammettere alcune ipotesi che non sono provate, mentre il “creazionista” ha una totale libertà di ammetterle o meno in funzione dell’evidenza che la scienza offre in ciascun caso. Benché possa risultare paradossale, è l’evoluzionista anti-creazionista a violare le esigenze del metodo scientifico» (pag. 201).

Per concludere, è utile riportare una frase di Artigas che credo possa riassumere il suo pensiero su coloro che volendo fare divulgazione scientifica, parlano, spesso incautamente, di Dio e della creazione: «Gli scienziati che non volessero limitarsi ad esporre i dati e le ipotesi nella loro fredda rigorosità dovrebbero accorgersi che la visione del cosmo evoluzionista è del tutto compatibile con la creazione divina, con la spiritualità dell’uomo e con una corretta interpretazione della Bibbia. Se ciò non è di loro gradimento resta soltanto una soluzione dignitosa: non fare alcuna allusione in senso contrario, o a un’immagine del mondo e dell’uomo che vada oltre l’evidenza disponibile. Se un banchiere utilizza male il denaro dei suoi clienti manca di dignità. Se uno scienziato utilizza la sua scienza arbitrariamente in funzione delle sue preferenze ideologiche, oltre a mancare di dignità è responsabile di ingannare il suo pubblico su argomenti che hanno una notevole importanza vitale» (pag. 200).

Salvatore Canto

 

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

“L’obiettore è un buon medico”, parla il dott. Stefano Bruni

Come abbiamo già informato, il 6 giugno 2012 la Consulta di Bioetica Laica (già nota per altre vicende) ha avviato una crociata contro il diritto dei medici di essere obiettori di coscienza nei confronti dell’interruzione della vita dell’essere umano nella prima fase della sua esistenza (tecnicamente “aborto”). L’intollerante campagna è stata chiamata “Il buon medico non obietta”, e ha il chiaro intento di debellare l’obiezione di coscienza dei medici (grande ospitalità sui media e volantinaggio fin dentro gli ospedali).

UCCR ha voluto contattare alcuni medici, giuristi ed esperti di bioetica per chiedere loro un parere su questa azione intimidatoria verso la libertà di coscienza. La prima intervista è stata fatta al dott. Renzo Puccetti, mentre la seconda alla prof.ssa Assuntina Morresi.

 
 

Il dott. Stefano Bruni, oltre che collaboratore di UCCR, è pediatra, già dirigente medico presso il Dipartimento di Emergenza e Urgenza Pediatrica dell’Ospedale Materno Infantile di Ancona e ricercatore e docente della Clinica Pediatrica dell’Università Politecnica delle Marche. Si è occupato tra le altre cose di neonatologia, medicina d’urgenza e malattie genetiche rare. Ha cortesemente offerto il suo punto di vista sulla questione:

 

«Non sono un costituzionalista né un esperto di bioetica. Non sono un giurista né, men che meno, un filosofo. Non sono nemmeno un politicante e quanto al mio cattolicesimo sono un cattolico “bambino”, uno che si fida di ciò che suggerisce il Magistero e lo fa proprio. Ma a prescindere dal mio essere cattolico, qui voglio essere solo un medico e come medico, prima ancora che come uomo, mi sento profondamente offeso dallo slogan della campagna contraria all’obiezione di coscienza dei medici, promossa dalla Consulta di Bioetica e di recente ripresa da alcuni organi di stampa e non solo.

A motivo di ciò che non sono, non potrò approfondire i motivi filosofici o legali o bioetici per cui l’obiezione di coscienza è un diritto per un medico cui si chieda di compiere azioni contrarie all’essenza stessa del suo essere medico, prima ancora che alla sua coscienza. Un diritto che deve continuare ad essere assicurato in un paese civile o che voglia apparire tale. Ma poiché mi sento un medico “profondamente obiettore” e, dunque, sono tra coloro che la campagna della Consulta di Bioetica addita, indirettamente, come “cattivi medici”, mi permetto di condividere con voi alcuni pensieri, per spiegare perché a mio giudizio il buon medico, semmai, è colui che obietta.

Intanto cominciamo con il dire che l’obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto è un diritto sancito per legge e non corrisponde affatto ad un caso di disobbedienza civile: l’obbligo che l’obiettore si rifiuta di compiere è infatti un obbligo giuridico e la norma che riconosce all’obiettore (al medico nel caso della legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza e nel caso della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita) il diritto di sollevare obiezione è anch’essa una norma giuridica. Dunque la campagna di criminalizzazione di cui i medici obiettori sono fatti oggetto è assolutamente fuori luogo. Non che io non approverei la disobbedienza civile da parte del medico cui fosse negato il diritto all’obiezione di coscienza in nome delle sue convinzioni etiche; anzi, la troverei legittima, doverosa ed eroica. Ma stiamo parlando di un diritto tutelato dalla legge e dunque assolutamente legittimo.

Vorrei che non dimenticassimo che la libertà di coscienza, alla stessa stregua di quella di pensiero e di religione, è un diritto fondamentale dell’Uomo, così come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Convenzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, e che la Costituzione della Repubblica Italiana, all’Articolo 2 dei Principi fondamentali “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. La Risoluzione 1763 (2010) del Consiglio d’Europa conferma il diritto del medico a non partecipare a pratiche contro la vita e la propria deontologia o convinzione etica o religiosa. Lo sapevano anche nell’antichità qual è il primo e vero dovere del medico: nel giuramento attribuito ad Ippocrate (IV secolo a.C.), il medico proclama solennemente che “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.” Il giuramento del medico nei secoli si è modificato, pur tuttavia, nel testo deliberato dal Comitato Centrale della Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri il 23 marzo 2007, ancora si legge quanto segue: “… giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento; di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza; … di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona; … di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, … osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.”

Se qualcuno considerasse un po’ “sorpassato” il giuramento di Ippocrate, ancorchè nella versione moderna, e abbia dei dubbi su quale sia la vera “vocazione” del medico, il suo primo dovere, vi rimando al Codice di Deontologia Medica dove si legge che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età” e che “l’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritto inalienabile del medico. Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.” O ancora, sempre in difesa della vita e, nello specifico, contro l’eutanasia, il codice deontologico fornisce la seguente indicazione: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.”

Il medico dunque opera in difesa e non contro la vita. E le sue scelte devono essere libere da condizionamenti, con ciò intendendosi non solo il possibile condizionamento, cui tutti sono portati immediatamente a pensare, delle aziende farmaceutiche ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, le campagne di stampa o quelle promosse da sedicenti politici o consulte di bioetica autoproclamatisi difensori dei diritti, dubbi, di alcuni contro quelli, sacrosanti, come quello alla vita, di altri. Il medico, il buon medico, giura di rispettare le norme giuridiche che non risultano in contrasto con gli scopi della sua professione, cioè che non siano in contrasto con lo scopo per eccellenza della medicina e cioè la difesa della vita. Il medico, il buon medico, giura di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona.

E allora cosa deve fare il buon medico quando si trova a dover scegliere tra l’obbedienza ad una legge dello stato, che è palesemente contro la vita, e l’aderenza al suo giuramento ed alle sue convinzioni etiche (a prescindere dal suo credo religioso) se non avvalersi del diritto ad obiettare? È curioso che chi a suo tempo difendeva il sacrosanto diritto di alcuni all’obiezione al servizio militare, e che con la propria azione ha portato alla legittimazione di questa forma di obiezione di coscienza, in nome della prevalenza del diritto di un singolo su quello della collettività e della legge, oggi voglia negare questo stesso sacrosanto diritto all’obiezione di coscienza ai medici che non vogliono procurare la morte a nessun essere umano vivente. Perché due pesi e due misure? Allo stesso modo è curioso che nessuno di coloro che vorrebbero togliere ai medici il diritto a non dare la morte, si schieri contro il diritto dei ricercatori all’obiezione di coscienza nei confronti della sperimentazione animale (legge 413/93): un cagnolino, per quanto simpatico e tenero possa essere, o una cavia, o una scimmia, sono forse più importanti di un bambino o di un moribondo? Sono forse più “persona”?

Eh no, amici miei. Il buon medico è senza alcun dubbio quello che obietta. Semmai potremmo porci la domanda se sia un buono Stato quello che con le sue leggi contro la vita mette un medico nelle condizioni di dover obiettare. Parafrasando il noto motto cartesiano “cogito ergo sum”, si potrebbe dire “obicio ergo sum”, intendendo con ciò “esisto (sottinteso “come medico”) proprio in quanto sono obiettore nei confronti di leggi, che anziché tutelare la vita ne permettono la soppressione”».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Aumentano malattie sessualmente trasmissibili, fallimento del condom

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha avvertito che «milioni di persone sono affette da gonorrea e sono a rischio di rimanere a corto di opzioni di trattamento a meno che venga approvato un intervento urgente», questa è la frase con cui ha messo in guardia da un’espansione mondiale di un ceppo di gonorrea resistente ai farmaciI Paesi coinvolti sono sopratutto Australia, Francia Giappone, Norvegia, Svezia e Regno Unito, e «i dati disponibili mostrano solo la punta di un iceberg», secondo Manjula Lusti-Narasimhan, ricercatrice dell’OMS.  Dai dati pubblicati si è anche scoperto che esiste una ripresa generale nel mondo occidentale di malattie sessualmente trasmissibili (MST).  Riferendosi alle quattro più frequenti (sifilide, gonorrea, clamidia e trichomonas vaginalis), vengono diagnosticate quasi 450 milioni di nuovi casi all’anno.

Certamente a contribuire a questa ripresa è anche la diffusione nel mondo occidentale dei comportamenti omosessuali e bisessuali: nella comunità LGBT del Regno Unito, ad esempio, il numero di casi di gonorrea è cresciuto, rispetto all’anno passato, del 61%, mentre la clamidia e la sifilide sono aumentate del 48 e 25%, secondo l’Agenzia ingleseper la Protezione della Salute. Secondo uno studio del Department of Health and Mental Hygiene di New York, gli omosessuali hanno 140 volte più probabilità di avere una nuova diagnosi di HIV e sifilide rispetto agli uomini eterosessuali.  Un secondo studio ha inoltre suggerito che le persone con comportamento omosessuale o bisessuale sono un potenziale ponte di trasmissione del virus HIV verso la popolazione generale femminile.

Al di là del problema dell’omosessualità, questo continuo aumento di malattie sessualmente trasmissibile dimostra quanto sia insufficiente ed inadeguata la massiccia diffusione di preservativi, usata come unica risposta a queste problematiche. E’ evidente che non c’è un interesse (economico, sopratutto) ad offrire risposte differenti, e per questo è nato un polverone immenso quando Benedetto XVI ha detto la verità (riferendosi all’Africa, ma valido per tutti i Paesi): «non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi, pur necessari […], non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema. La soluzione può essere solo duplice: la prima, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro; la seconda, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti».

Per questo un gruppo di epidemiologi e medici ha affiancato il Papa parlando di «visione realista» del problema, per questo il Dr Edward Green, direttore della Harvard HIV Prevention Research Project ha affermato: «quando il Papa ha detto che la risposta sta proprio nella fedeltà e nella monogamia, questo è esattamente quello che abbiamo trovato empiricamente». Gli studi suggeriscono che «con la promozione intensiva del preservativo, in realtà le persone aumentano il numero di partner sessuali», è l’effetto della “compensazione del rischio” che rende totalmente controproducente la distribuzione di preservativi. Le indagini mostrano anche che nei Paesi africani a maggioranza cattolica, vi sia anche un minor tasso di AIDS e non è un caso che l’Università di Harvard abbia premiato una suora, Miriam Duggan, per aver sconfitto l’AIDS in Uganda (senza condom).

La vera risposta all’AIDS al di fuori dell’Occidente è quella di permettere l’accesso gratuito alle cure, come più volte chiesto dal card. Tarcisio Bertone e dallo stesso Benedetto XVI. In Occidente, invece, occorre capire un concetto molto semplice: non è «possibile eliminare una malattia legata spesso ai comportamenti, senza cambiare i comportamenti stessi», come ha spiegato l’epidemiologo Carlo-Federico Perno direttore dell’Unità di Virologia Molecolare al Policlinico Universitario Tor Vergata. «Il problema non è l’AIDS», ha proseguito, «ma che l’AIDS è l’epifenomeno di un problema ben più ampio, legato primariamente ad una visione positivista e libertaria» della sessualità. Ecco dunque che ritornano le parole del Pontefice: «La soluzione» è «una umanizzazione della sessualità» e non tanto la distribuzione massiccia di palloncini in lattice.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Isabella Cazzoli (UAAR): «abolire l’uso di “uomo” e “donna”»

E’ uscito in Italia il volume La teoria del «gender» e l’origine dell’omosessualità – Una sfida culturale (San Paolo 2012), scritto dallo psicanalista di fama internazionale, Tony Anatrella, specialista in psichiatria sociale, gesuita e docente alle libere Facoltà di filosofia e psicologia di Parigi e al Collège des Bernardins (persona fortemente discriminata dalla lobby gay, denunciato per reati sessuali e poi assolto dalla Giustizia francese per infondatezza delle accuse, servite solo per giustificare una feroce diffamazione mediatica)

Intervistato su “Tempi.it”, lo psicanalista ha parlato delle conseguenze che si avranno nel prossimo futuro a causa della “teoria del Gender”, ovvero la negazione della differenza sessuale fra l’uomo e la donna. Occorre osservare che nei Paesi secolarizzati, la propaganda ideologia omosessuale trova spesso come alleati i laicisti militanti, per due motivi sostanzialmente: innanzitutto perché questi ultimi hanno bisogno e intenzione di combattere  a priori ogni posizione della Chiesa cattolica, ed essendo essa critica verso il comportamento omosessuale (non verso gli omosessuali, come specifica il “Catechismo”, poiché si scinde sempre il “peccato” dal “peccatore”, a cui è dovuto pieno rispetto), gli ateisti non possono che assumere una posizione opposta. In secondo luogo, questa alleanza sussiste per la volontà comune di diffondere l’idea della neutralità sessuale, ovvero il diritto di definire in maniera ideologica quello che si è, i proprio connotati sessuali, quel che si può essere, cambiare l’identità a piacimento e quindi agire poi di conseguenza, come ha spiegato recentemente l’osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, mons. Silvano Maria Tomasi. Per quanto riguarda l’ateista, è una volontà di estrema emancipazione da Dio, dal Creatore, è l’uomo ateo che vuole farsi dio di se stesso e illudersi di decidere quel che invece è già deciso, perché per quanto si cerchi di immaginarsi diversi, si rimane sempre quel che si è. Non si può scegliere il nostro genere sessuale, come spiega lo psicologo Marchesini.

Non a caso si tratta della battaglia culturale che ha in mente una delle responsabili dell’UAAR (gli atei fondamentalisti italiani), Isabella Cazzoli, tesoriera dell’associazione. Per lei, come ha scritto, la battaglia culturale da combattere è «arrivare all’abolizione del sostantivo “uomo/donna” per sostituirlo con “persona”». Abolire il significato di “uomo” e “donna”, staccandosi dalla propria natura, perché ognuno si illuda di essere quel che vuole. Occorre ricordare alla Cazzoli, comunque, che lo stesso termine “persona” è un concetto filosofico-teologico introdotto per la prima volta dal Cristianesimo, anzi, fino a Gesù neppure esisteva né in greco né in latino una parola per esprimere tale significato.

 Fa piacere comunque rivedere la Cazzoli in attività, anche perché nella sua ultima uscita pubblica (vedi video qui sotto) non ha fatto proprio una bella figura.

 

Qui sotto il confronto tra Isabella Cazzoli e Vittorio Sgarbi a “Domenica5”

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Nuovo studio: pillola anticoncezionale aumenta rischio di infarto e ictus

Proprio recentemente rendevamo noti i risultati di un ampio studio sull’uso della pillola anticoncezionale, dove si rilevava come il suo utilizzo aumenta la pressione sanguigna nella tarda adolescenza, aumentando il rischio di cardiopatia ischemica e ictus in età adulta.

I ricercatori della Stanford University School of Medicine,  attraverso uno studio precedente pubblicato sull’“American Journal of Obstetrics and Gynaecology”hanno invece dimostrato come la pillola contraccettiva aumenta del 500% il rischio di morte per coaguli di sangue (il rischio arriva ad oltre il 1700% per le donne con una malformazione della vena).

Poche settimane fa, invece su Drug Safety un gruppo di ricercatori italiani ha mostrato attraverso una meta-analisi, che la pillola aumenta fino a 5 volte il rischio di trombosi. 

Ora tocca al prestigioso “New England Journal of Medicine”, il quale ha pubblicato uno studio danese secondo cui la pillola aumenta il rischio di infarto e ictus. L’indagine è stata condotta su oltre 1.600.000 donne fra i 15 e i 49 anni, seguite per 15 anni: la probabilità di eventi cardiovascolari aumenterebbe oltre il 50% con dosi di estrogeno etinilestradiolo dai 30 ai 40 microgrammi. Per cerotti e anelli vaginali il pericolo sarebbe pari o superiore a quello delle pillole a più alto dosaggio.

Continuiamo a ricordare l’esistenza dei Metodi naturali di regolazione della fertilità, completamente innocui dal punto di vista della salute della donna, e che permettono anche uno stile di vita positivo e responsabilizzante nell’esercizio della sessualità. Metodi che, come ha spiegato Giovanni Paolo II, rispettano «la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientamente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici». Oggi, grazie alla tecnologia moderna, possono anche ritenersi fortemente sicuri ed efficaci.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il cattolico Oscar Wilde, e il suo pentimento per la «perversione morale»

«Il cattolicesimo è la religione in cui muoio»così disse il celebre poeta e drammaturgo Oscar Wilde poco prima di morire a Parigi, il 30 novembre 1900. Lo scrittore e saggista esperto del mondo britannico Paolo Gulisano si è concentrato anche sulla conversione di Wilde nel suo libro “Ritratto di Oscar Wilde” (Ancora 2009)  in cui ha definito «un mistero non ancora pienamente svelato» la sua complessa personalità, arrivando a descrivere il profondo e autentico sentimento religioso del celebre poeta.

Il cammino esistenziale di Oscar Wilde è stato un lungo e difficile itinerario verso il cattolicesimo, una conversione -ha spiegato Gulisano- «di cui nessuno parla, e che fu una scelta meditata a lungo, e a lungo rimandata, anche se – con uno dei paradossi che tanto amava- , Wilde affermò un giorno a chi gli chiedeva se non si stesse avvicinando troppo pericolosamente alla Chiesa Cattolica: “Io non sono un cattolico. Io sono semplicemente un acceso papista”. Dietro la battuta c’è la complessità della vita che può essere vista come una lunga e difficile marcia di avvicinamento al Mistero, a Dio». Molte le persone che sono entrate in rapporto con lui e si sono convertite, come Robbie Ross, Aubrey Beardsley, e -ha continuato lo scrittore- «addirittura quel John Gray che gli ispirò la figura di Dorian Gray che diventato cattolico entrò anche in Seminario a Roma e divenne un apprezzatissimo sacerdote in Scozia. Infine, anche il figlio minore di Wilde divenne cattolico». Wilde soleva ripetere: «Il cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire» (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).

Wilde è oggi celebrato sopratutto come “icona gay”, ma Gulisano ha spiegato che «non può essere definito tout court “gay”: aveva amato profondamente sua moglie, dalla quale aveva avuto due figli che aveva sempre amato teneramente e ai quali, da bambini, aveva dedicato alcune tra le più belle fiabe mai scritte, quali “Il Gigante egoista” o “Il Principe Felice”. Il processo fu un guaio in cui finì per aver querelato per diffamazione il Marchese di Queensberry, padre del suo amico Bosie, che lo aveva accusato di “atteggiarsi a sodomita”. Al processo Wilde si trovò di fronte l’avvocato Carson, che odiava irlandesi e cattolici, e la sua condanna non fu soltanto il risultato dell’omofobia vittoriana». Tuttavia ebbe contemporaneamente diverse relazioni omosessuali, ma verso l’epilogo della sua vita si pentì del suo comportamento. Già nel celebre “De profundis”, una lunga lettera all’ex amante Alfred Douglas, scrisse: «Solo nel fango ci incontravamo», gli rinfacciò, e in una confessione autocritica: «ma soprattutto mi rimprovero per la completa depravazione etica a cui ti permisi di trascinarmi» (Ediz. Mondadori, 1988, pag. 17)Tre settimane prima di morire, dichiarò ad un corrispondente del «Daily Chronicle»«Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L’aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al più presto»  (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 669).

Mentre si trovava in punto di morte, il suo amico Robert Ross condusse presso di lui il reverendo cattolico irlandese Cuthbert Dunne. Wilde rispose con un cenno di volerlo vicino a sé (era impossibilitato a parlare), il sacerdote gli domandò se desiderava convertirsi, e Wilde sollevò la mano. Quindi padre Dunne gli somministrò il battesimo condizionale, lo assolse dai suoi peccati e gli diede l’estrema unzione (R. Ellmann, “Oscar Wilde”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 670).

Qui e qui due interessanti contributi per chi volesse approfondire.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Dovevano essere abortiti, ma la forza della vita li ha salvati

Aveva 23 anni Lacey Buchanan, quando i medici le consigliarono di abortire perché il suo bambino aveva una sindrome molto rara e, una volta nato, non sarebbe riuscito a respirare da solo. Lei e il marito, invece, decisero di portare a termine la gravidanza.  Christian è nato e sopravvissuto, molti coloro che hanno indicato Lacey come una donna cattiva per aver scelto di amare il suo bimbo. A starle vicino la comunità della chiesa a cui da sempre appartiene, che ha dato coraggio a Lacey di realizzare un video -cliccatissimo- per mostrare al mondo il valore di suo figlio: «sono felice che Christian stia diventando la faccia e la voce che dimostra che la bellezza è molto di più dell’aspetto esteriore. Quando Christian sarà abbastanza grande, chiedete a lui se è felice che lo abbia lasciato vivere. Il suo sorriso ha così tanto valore che a 14 mesi Christian sta facendo molto di più di quello che molte persone fanno in una vita», ha spiegato Lacey.

Una storia molto simile a quella di Luz Maria, concepita nel 2011 in seguito ad uno stupro ma lasciata venire alla luce dalla madre, nonostante le pressioni da parte di organizzazioni pro-choice e media. Oggi quella bambina è la gioia della sua famiglia e la  testimonianza vivente che dalla violenza può nascere la gioia, e non è giusto rispondere con un altro atto di violenza, come quello dell’aborto.

Anche Kellie Burville, di 27 anni, non ha voluto dare ascolto né ai medici né ai loro pronostici, ma solo alla vita che portava in grembo. «Quando Kellie era al nono mese di gravidanza abbiamo visto che la piccola aveva un’emorragia cerebrale. Il rischio che nascesse handicappata era del 50 per cento. Così abbiamo proposto ai genitori di abortire», sono le parole di un medico del Chelsea Westminster Hospital di Londra. Il medico spiegò anche che se la piccola fosse sopravvissuta, non sarebbe stata in grado né di camminare né di parlare, incapace di nutrirsi: «ma l’idea dell’aborto non mi ha sfiorato nemmeno per un secondo», ha raccontato Kellie. La piccola è nata solo con poche piastrine nel sangue, ma è bastata una trasfusione per regolarizzarla. E’ stata battezzata:  «Ora fa tutto quello che ti aspetti da una bimba sana. Lei è il mio miracolo», ha detto Kellie, mentre il papà spiegava la meraviglia di «vederla fare tutte le cose che i medici dicevano che non sarebbe mai stata in grado di compiere».

Una nascita difficile anche quella di Kenna Claire Moore, nata nel gennaio scorso a sole 25 settimane, con un peso di 270 grammi. Anche in questo caso i medici hanno consigliato l’aborto alla madre, che soffriva di ipertensione gestazionale indotta dalla gravidanza. Ma uccidere sua figlia non era una cosa che la interessava, anche se aveva il 60 per cento di probabilità di vedere sua figlia sopravvivere. Pochi giorni fa Nicki e Sam, i genitori di Kenna, hanno portato a casa la piccola che sembra stare in condizioni migliori. «Spero che Kenna possa ispirare altre persone che si trovano ad attraversare momenti così duri» ha spiegato la madre.

Davide Galati Luca Pavani

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Esiste davvero il “cervello gay”?

 

di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neuroeticista

 

La giornalista Ann Landers, anni fa, lo assicurava e milioni di persone ci hanno creduto e continuano ad aver fede nelle certezza che: “si nasce gay”[1]. Ci chiediamo allora: vi sono dati empirici che la scienza possa fornire per dimostrare in modo apodittico tale affermazione? In sintesi: omosessuale si nasce o si diventa?

Questo studio riassuntivo vuole confrontare nel modo più obiettivo possibile i dati che la neuroscienza e la genetica forniscono sul questa tematica. Mi concentrerò prevalentemente sulla prima parte dell’ultima domanda: “omosessuale si nasce?”. Prima di trattare l’enigma se l’omosessualità sia una condizione determinata da fattori biologici, cioè, se sia una situazione compatibile con ciò che si suol denominare “normale” all’interno della stessa natura umana, bisogna premettere alcune distinzioni e chiarimenti utili.

Bisogna precisare che: una cosa è “sentire” una tendenza, altra cosa è “acconsentire” e assecondare tale tendenza mediante atti umani deliberati. Tutti gli studi scientifici condotti in materia di omosessualità per provare se tale condizione fosse determinata da fattori biologici e neurologici, hanno coinvolto persone che si definiscono “gay”, cioè individui che oltre a percepire una tendenza sessuale verso persone dello stesso sesso biologico, praticano atti omossessuali. In questo studio verrà presa in considerazione la tesi secondo la quale l’omosessualità praticata risulterebbe qualcosa di “normale e naturale” dato che corrisponderebbe a specifici fattori genetici e a particolari conformazioni della struttura del sistema nervoso, in particolare, del cervello. I dati empirici che verranno presentati, serviranno per verificare la veridicità di questo nuovo ambito del determinismo neuroscientifico che comprende la sfera dell’orientamento della sessualità umana.

“Il sistema nervoso, quale centro d’integrazione della vita istintiva, come pure del mondo emotivo ed affettivo, ha molto a che vedere con la sessualità e considerando il fatto che il comportamento sessuale dell’uomo e della donna sono distinti, bisogna supporre a priori che i centri nervosi sessuali presentano differenze in entrambi i sessi”, in questo modo formulava il problema un esperto[2]. Nel 1978 quattro scienziati del Dipartimento di Anatomia dell’Istituto di Ricerca sul Cervello dell’Università della California (USA), pubblicarono un articolo sulla prestigiosa rivista Brain Research nel quale veniva descritta una chiara diversità morfologica tra i due sessi, maschile e femminile, a livello cerebrale[3]. Questo fu uno dei primi lavori che volevano dimostrare scientificamente il dimorfismo sessuale localizzandolo a livello dei centri nervosi. I ricercatori affermarono di aver evidenziato il fatto che uno dei nuclei ipotalamici anteriori presentava, nel ratto, un volume maggiore nei maschi, rispetto alle femmine.

Simon LeVay, neuroscienziato del Salk Institute for Biological di San Diego (uno degli attivisti gay più famosi della California), pensò subito che questo dimorfismo sessuale potesse darsi anche nella specie umana e, nello specifico, nei maschi eterosessuali ed omosessuali. Così, nel 1991 pubblicò sulla prestigiosa rivista scientifica Science uno studio in cui si provava effettivamente che anche negli esseri umani, negli uomini, si manifestava lo stesso dimorfismo sessuale dimostrato nei ratti in modo tale che il nucleo 3 dell’ipotalamo anteriore aveva un’area quasi doppia nei maschi, rispetto alle femmine[4]. Nello stesso studio LeVay ricercò le dimensioni di questo nucleo in un gruppo di 27 gay deceduti a causa dell’AIDS. La sua conclusione fu che in questi soggetti l’area risultava essere minore (in volume) rispetto agli eterosessuali e appariva, sempre secondo LeVay, simile alle dimensioni dello stesso nucleo ipotalamico delle donne. LeVay affermò quanto segue: “questi risultati indicano che il nucleo ricercato presenta un dimorfismo in relazione all’orientamento sessuale, almeno negli uomini e suggerisce che l’orientamento sessuale abbia un sostrato biologico”.

Dal semplice suggerimento si passò presto a dichiarare il fatto: “l’omosessualità ha una base biologica”! Questi risultati vennero lanciati e propagandati dai gay e dalla stampa senza alcuna distinzione e con titoli clamorosi come il seguente: “LeVay e il suo gruppo hanno dimostrato la base neurologica della gaycità”. Queste interpretazioni, decisamente di parte e non prive di pregiudizi, dei risultati e la scarsa significatività statistica dei valori riportati dallo stesso LeVay, furono sufficienti per stimolare parte della comunità scientifica che rispose con una serie di articoli critici[5]. Effettivamente numerosi neuroscienziati non si spiegavano come LeVay, noto e rispettato ricercatore, avesse potuto pubblicare un lavoro del genere con una base scientifica così patentemente insufficiente per sostenere le conclusioni addotte. Il numero di casi studiati da LeVay, considerando la dispersione dei valori statistici ottenuti, era insufficiente a concludere qualsiasi cosa. In realtà, il nucleo ipotalamico in questione presentava in alcuni soggetti gay un’area simile in volume a quella di soggetti eterosessuali e, al contrario, in certi eterosessuali il volume dello stesso nucleo risultava poco più grande di quello delle donne. Si potrebbe anche ribattere che, mentre LeVay misurava le dimensioni del nucleo come elemento disciminativo, in realtà sarebbe stato meglio, cioè sarebbe risultato più specifico considerare il numero di neuroni o la cariometria.

Swaab e Hofman affermarono in modo chiaro e lampante che le osservazioni di LeVay non erano state ancora confermate, né risultava chiara il loro ruolo funzionale[6]. Così LeVay si vide obbligato a spiegare alla comunità scientifica che ciò che pubblicò corrispondeva solamente ad una piccola parte, ad uno studio iniziale che sarebbe proseguito nel tempo. Beh, sono trascorsi più di 10 anni da questa affermazione e la comunità scientifica sta ancora aspettando con ansia lo studio completo. Dopo due anni dall’intento fallito del dottor LeVay, che voleva dimostrare la base neurologica della “gaycità”, un altro dottore, Dean Hamer rese noto al pubblico i risultati della sua ricerca sul presunto gene responsabile dell’orientamento sessuale gay. Questi risultati furono ovviamente ripresi da LeVay che nel 1993 pubblicò un libro dal titolo emblemetico: “Il cervello sessuale”[7].

Dean H. Hamer, genetista dell’Isistuto Nazionele del Cancro negli Stati Uniti e, tra l’altro noto gay, affermò di aver trovato finalmente un gene localizzato sul cromosoma X, che avrebbe potuto essere il responsabile dell’omosossualità. Prima di pubblicare questo suo lavoro, Hamer iniziò a indagare il possibile carattere ereditario di questo orientamento sessuale. Studiando un’ampia popolazione, osservò che nelle famiglie in cui si avevano più di un figlio omosessuali, un numero significativo di zii della linea materna avevano anch’essi più di un figlio omosessuale. Ciò non avveniva con la stessa frequanza nella linea paterna. Questo fece pensare a Hamer che doveva esserci un gene localizzato sul cromosoma X che poteva essere “imputato” della tendenza omosessuale. Prendendo le mosse da questa ipotesi di lavoro, lo scienziato americano ricercò sul cromosoma X un gene o marcatore che presentasse qualche variante significativa correlata all’eterosessualità. Questa variante esiste, secondo Hamer, e si trova (in 33 casi su 40, dei soggetti reclutati da Hamer) nel marcatore denominato q28 che Hamer “ribattezzò” gene Xq28 affermando: “abbiamo dimostrato che una forma di omosessualità nei maschi si trasmette in modo preferenziale per via materna ed è legata geneticamente alla regione q28 del cromosoma X”[8].

Nel 1995 il gruppo di ricerca di Hamer pubblicò un nuovo studio similare sulla prestigiosa rivista Nature Genetics[9]. Per l’ennesima volta la stampa divulgò la notizia “scoop” come avvenne in precedenza con le ricerche infondate di LeVay. Nonostante ciò, all’interno della comunità scientifica, questi risultati non furono recepiti con lo stesso entusiasmo delle comunità ed associazioni gay, anzi, un clima di scetticismo pervase sumerosi studiosi e scienziati seri. In effetti, diversi scienziati, tra i quali spiccano George Rice, Carol Anderson e George Ebers della Western University (Ontario, Canada) e Neil Risch dell’Università di Stanford, cercarono di replicare lo studio di Hamer, cosa ovvia e abbastanza scontata per gli scienziati che ci seguono (la scienza positiva funziona così da secoli). I loro risultati vennero pubblicati 6 anni più tardi rispetto al lavoro di Hamer, sulla rivista Science, la stessa in cui, precedentemente Hamer aveva esposto le sue considerazioni scientifiche circa l’orientamento sessuale. La ricerca di questo gruppo di scienziati incluse un numero maggiore di coppie di fratelli omosessuali rispetto al campione considerato da Hamer (52 coppie, contro le 40 di Hamer). Le conclusioni però furono opposte: i risultati ottenuti non permettevano di concludere, dal punto di vista della significatività statistica, che tra gay si desse l’alterazione allelica indicata da Hamer. Questi autori concludevano il loro studio con queste parole: “questi risultati non supportano l’esistenza di un gene localizzato sul cromosoma X responsabile dell’omosessualità”[10]. Lo stesso Hamer dovette perciò smorzare le sue conclusioni iniziali.

Nello stesso anno in cui comparve il primo lavoro di Hamer sull’argomento (1993), William Byne e Bruce Parsons della Columbia University pubblicarono uno studio critico dei risultati dello stesso Hamer. Per Byne e Parsons, la ricerca e le conclusioni del lavoro di Hamer suscitavano numerosi sospetti, specialmente di manipolazione. Questi due scienziati affermarono che “oggigiorno non ci sono evidenze scientifiche che supportino una teoria biologica dell’omosessualità”[11].

Tale tendenza di alcune correnti gay di ricercare in modo sfrenato una giustificazione scientifica, sia biologica, come neurologica, dell’orientamento sessuale e dell’omosessualità, è stata messa in discussione e criticata dagli stessi omosessuali. Edward Stein, infatti, manifestó pubblicamente la sua sfiducia nei confronti di una ricerca smaniosa della base biológica dell’omosessualità che, dopo tutto, conduceva molti ricercatori gay a forzare le interpretazioni dei risultati ottenuti dalle loro ricerche[12]. Le ricerche di LeVay e di Hamer sono certamente tra le più famose e citate. Ci sono però altri filoni che considerano: il diametro della commissura anteriore del cervello, le impronte dattilari, la lunghezza dell’indice della mano e la sequenza di nascita. Tutte queste ricerche hanno in comune il fatto che considerano caratteristiche biologiche che insorgono prima della nascita, cioè che si vanno determinando durante lo sviluppo embrionale. Ciò dovrebbe portare alla dimostrazione, come sostengono ancora alcuni scienziati, che l’orientamento sessuale (omosessualità inclusa) venga determinato prima della nascita. Insomma, che sia un dato di natura: si nascerebbe con una certo e determinato orientamento sessuale. Questi studi, pubblicati su riviste scientifiche prestigiose, costituiscono un’ulteriore prova in favore del grande interesse, da parte di numerosi omosessuali, nel dimostrare che tale orientamento sessuale sia un qualcosa di biologico e congenito, in modo tale che qualsiasi tipologia di “discriminazione” risulti vessatoria e “omofoba”.

Recentemente sulla rivista Neuroscientist la scienziata cinese Ai-Min Bao e il ricercatore landese Dick F. Swaab hanno pubblicato un articolo nel quale si afferma un determinismo stretto, genetico, nei confronti dello sviluppo dell’orientamento sessuale umano. Tali scienziati affermano che “allo stato attuale, non vi sono prove che l’ambiente sociale post-natale abbia un effetto cruciale sull’identità di genere o nell’orientamento sessuale”[13]. Tali affermazioni, capovolgendo completamente la logica della scienza empirica, dimostrano l’incongrunza di pensiero che si nasconde dietro un’ideologica che viene spacciata per scienza seria. Questi ricercatori sembra che si siano dimenticati completamente, per un’amnesia, che le evidenze attuali seguono una tendenza opposta alla loro visione: sempre più i biologi molecolari stanno prendendo coscienza del fatto che i geni (meglio bisogna dire, le varianti alleliche dei geni) cooperano strettamente con l’ambiente circostante. L’importanza dei fattori cosiddetti epigenetici risulta cruciale e permette all’essere umano di “sfuggire” allo stretto determinismo biologico e neuroscientifico.

Al concludere questo studio sintetico di analisi eravamo partiti dal voler dimostrare la domanda: “omosessuali si nasce?”. Bisogna perciò affermare che oggigiorno non possediamo alcuna prova neuroscientifica, né genetica, che possa sostenere in modo credibile e scientifico la pretesa che l’omosessualità sia uno stato naturale dell’essere umano, al contrario, come si è cercato di dimostrare in questo breve contesto, esistono numerosi studi condotti sull’argomento dell’orientamento sessuale umano e vi sono abbontanti evidenze empiriche che negano l’esistenza di basi genetiche e neurologiche causali responsabili della cosiddetta “gaycità”. Non esiste neppure, il celebre “cervello gay” postulato da LeVay. Tutto ciò non esclude affatto che possano esserci fattori biologici, genetici e neurologici che possano fungere da cofattori che, insieme a molti altri di diverso genere, possano contribuire, anche in maniera sensibile, allo sviluppo di un certo orientamento sessuale. Ciò che sembra abbastanza chiaro è che, nel contesto dell’omosessualità, non ci troviamo davanti ad un determinismo neuroscientifico, piuttosto si dovrebbe parlare di condizionamento psicologico e, molto probabilmente, sociologico.

 

——————————————————-
Note
[1]. Cf. J. Reisman, Kinsey and the homosexual revolution, «Journal of Human Sexuality» 21, 1996, pp. 24-31.
[2]. L. M. Gonzalo Sanz, Entre libertad y determinismo. Genes, cerebro y ambiente en la conducta humana, Ediciones Cristiandad, Madrid 2007, p. 96.
[3]. R. A. Gorski, J. H. Gordon, J. E. Shryne, A. M. Southam, Evidence for a morphological sex difference within the medial preoptic area of the rat brain, «Brain Research» 148, 1978, pp. 333-346.
[4]. S. LeVay, A difference in hypothalamic structure between heterosexsual and homosexual men, «Science» 253, 1991, pp. 1034-1037.
[5]. D. F. Swaab, M. A. Hofman, Sexual differentiation of the human hypothalamus in relation to gender and sexual orientation, «Trends Neuroscience» 18, 1995, pp. 264-270.
[6]. Ibid.
[7]. S. LeVay, The sexual Brain, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1993.
[8]. D. H. Hamer, et al., A linkage between DNA markers on the X chromosome and male sexual orientation, «Science» 261, 1993, pp. 321-327.
[9]. S. Hu, A. M. Pattatucci, C. Patterson, L. Li, D.W. Fulker, S. S. Cherny, L. Kruglyak, D. H. Hamer, Linkage between sexual orientation and chromosome Xq28 in males but not in females, «Nature Genetics» 11,1995, pp. 248-256.
[10]. G. Rice, et al., Male Homosexuality: Absence of Linkage to Microsatellite Markers at Xq28, «Science» 23, 1999, pp. 665-667.
[11]. W. Byne, B. Parsons, Human sexual orientation, «Arch Gen Psychiatry» 50, 1993, pp. 228-239.
[12]. L. M. Gonzalo Sanz, Entre libertad y determinismo…, p. 100.
[13]. A-M. Bao, D. F. Swaab, Sex Differences in the Brain, Behavior, and Neuropsychiatric Disorders, «Neuroscientist» 16, 2010, pp. 550-565.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

“Noi per Benedetto”: iniziativa contro il pregiudizio anticattolico

I movimenti ecclesiali sono un «segno luminoso della bellezza di Cristo e della Chiesa», secondo le parole del Papa, un’esperienza di amicizia con cui condividere la vita, la fede e l’appartenenza alla Chiesa. Sono diversi presenti nel mondo, in particolare la Comunità di Sant’Egidio, il Movimento dei Focolari, il Rinnovamento nello Spirito Santo ed esperienze di fede che non sono movimenti, come il Cammino neocatecumenale, l’Opus Dei e la bella realtà della Comunità Nuovi Orizzonti, fondata da Chiara Amirante. Apprezzabile in particolare l’esperienza degli amici di Comunione e Liberazione, sia per la ragionevolezza del messaggio che portano, che per l’intelligente capacità di presenza culturale (il mese prossimo inizierà il loro “Meeting di Rimini“).

Esistono tuttavia continue iniziative spontanee di aggregazione e di impegno pubblico, alcune davvero molto interessanti, come gli amici di “Noi per Benedetto”,  realtà nata spontaneamente da pochi mesi su internet e promossa da un gruppo di giovani cattolici per stringersi intorno al Santo Padre dopo mesi, anni, di attacchi contro la sua persona. Si tratta di ragazzi  di diverse realtà associative, universitarie e lavorative, che hanno deciso di alzare la voce e di denunciare a chiare lettere sul sito www.noixbenedetto.it la situazione: «siamo stanchi di vedere il Santo Padre Benedetto XVI continuamente vilipeso sull’onda di attacchi demagogici; stanchi di sentire le solite fesserie sull’ICI e le tasse, sull’anello del Papa che risolverebbe da solo la fame nel mondo, e sui preti che sono tutti pedofili già per il fatto stesso di esser preti. Stanchi di vedere puntualmente dimenticate tutte le opere di bene che, giustamente, sono fatte nel silenzio; stanchi di sentirci costantemente aggrediti per il fatto stesso di essere cattolici e passare il nostro tempo a difenderci; stanchi di vedere la nostra Chiesa passare continuamente come capro espiatorio dei mali della società, come se tutto dipendesse dagli errori umani delle persone che operano in essa; di essere considerati ingenue persone disposte a subire ogni genere di gratuito pregiudizio». Una sintesi perfetta del grave pregiudizio anticattolico di oggi.

Domenico, portavoce di “Noi per Bendetto”, ha anche segnalato uno dei più grandi segni di intolleranza della furia anticlericale di oggi: «Sicuramente, quello che ha spinto più di ogni altra cosa, sono i continui attacchi che i cattolici ricevono sui social network e sul web. Sembra quasi che professarsi credenti sia diventato un peccato, mentre il bestemmiare ed offendere il credo altrui sembra quasi una libertà inviolabile». Questo ha portato spontaneamente alla nascita di “Noi Per Benedetto”,  «per reagire davanti a quel pregiudizio, come lo ha definito lo storico americano Jenkin, ritenuto oggi, ingiustamente, l’ultimo pregiudizio “socialmente accettabile”, ossia quello anticattolico». Per ora si è in fase organizzativa, tuttavia l’obiettivo è chiaro: «alzare la testa e difendere i nostri valori, uscendo fuori da quelle “nuove catacombe” dove al momento sembra che siamo rintanati. E tutto ciò iniziando da un lato difendere il Sommo Pontefice, Vicario di Cristo, e la Chiesa Cattolica, e dall’altro divenire elemento di nuova evangelizzazione e di sensibilizzazione efficace, in difesa dei valori cristiani e cattolici, specialmente nella realtà giovanile». 

Sul loro sito web è possibile approfondire le ragioni di questa meritevole iniziativa (qui la pagina Facebook e l’account Twitter). Domenica 29 giugno 2012 si sono radunati in Piazza San Pietro per manifestare vicinanza al Santo Padre.

 

Qui sotto il video di presentazione di “Noi per Benedetto”

 

Qui sotto il video dell’Angelus 29/06/12 con i saluti di Benedetto XVI

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace