Il fallimento della contraccezione: il caso inglese

Troppi aborti tra le giovanissime? Un numero eccessivo di gravidanze indesiderate? No problem: basta promuovere più contraccezione e tutto si sistema. E’ più o meno questo il ragionamento che, ormai da molti anni, uomini delle istituzioni e talvolta anche celebri intellettuali propongono allorquando viene ricordato loro il problema mai risolto degli aborti tra donne anche molto giovani. Ora, posto che la gran parte delle pillole contraccettive – anche se taluni si ostinano a negarlo – sono potenzialmente abortive ed anche se numerosi studi hanno confutato questa credenza, riteniamo non ci sia lezione più autorevole di quella dei casi concreti. Prendiamo quindi, per stare all’attualità, il caso inglese.

Per chi non lo sapesse la Gran Bretagna è un Paese dove da alcuni anni – allarmati dal fenomeno abortivo tra le adolescenti e dal fatto che il numero complessivo delle interruzioni volontarie di gravidanza, anziché calare, abbia ripreso a salire – si è deciso di investire massicciamente nella diffusione di contraccettivi. Ebbene, con questo tipo di programma si è verificato un fatto totalmente inaspettato: le cose sono peggiorate.

Il numero degli aborti, anche se di poco, ha infatti continuato a crescere – nel 2011 sono stati 189.931, mentre nel 2010 furono 189.574 – ma soprattutto tra le giovanissime sono aumentati drammaticamente gli aborti multipli: nel 2010 in 485 hanno abortito per la terza volta, in 57 per la quarta, in 14 per la quinta, in 4 per la sesta e in 3 per la settima. Orbene, non occorre molto per capire che in un Paese dove quasi 500 adolescenti all’anno abortiscono per la terza volta è in corso un disastro educativo di immense proporzioni e, quel che è peggio, destinato a crescere.

Lo hanno confermato pochi giorni fa gli esiti di un’indagine condotta dalla società Insight Research Group, che ha intervistato donne e medici di famiglia rilevando come la crisi economica-finanziaria sia tra le cause dell’aumento degli aborti volontari. Ora, che fare? Come corrispondere al problema crescente delle gravidanze tra le adolescenti? E’ il caso di insistere con la promozione della contraccezione o si deve correre ai ripari organizzando corsi per mamme a ragazzine di 14 anni, come si è recentemente provveduto a fare nella contea di Merseyside?

La sola possibilità concreta sembra quella di voltare completamente pagina prendendo atto di una realtà: la politica contraccettiva è fallimentare contro gli aborti. Non serve. Anzi, ci sono studi che hanno messo in luce come un maggior accesso alla contraccezione, anche se nell’immediato può arginare i tassi di gravidanza e conseguentemente gli aborti, nel lungo periodo, a causa della mentalità sessualmente disinvolta che indirettamente incoraggia, finisce col favorire un aumento delle gravidanze. Un dato suffragato dal fatto che oltre la metà delle donne intenzionate ad abortire – secondo quanto emerso in alcune ricerche – in precedenza faceva regolare ricorso alla contraccezione.

La contraccezione come fallimento, dunque. Anche se la cosa sorprende assai poco, dal momento che costituisce una risposta inadeguata e materiale ad un problema (quello delle gravidanze tra giovanissime) sì reale ma anzitutto educativo. In tal senso è più che ragionevole ritenere che sostituendo la corrente apologia della contraccezione con una sana introduzione all’affettività e potenziando l’implementazione di interventi di gruppo che indirizzino il comportamento sessuale degli adolescenti, si possa effettivamente ridurre l’incidenza del fenomeno delle gravidanze indesiderate.

A questo punto però è opportuno chiedersi: saprà la cultura anglosassone riconoscere il proprio fallimento educativo? Sappiamo che più della metà dei genitori inglesi – verosimilmente delusi dai “successi” della cultura contraccettiva e consapevoli dei manifesti limiti della stessa – già ora non vuole che l’educazione sessuale venga insegnata ai bambini a scuola. Il fatto è che, per voltare pagina, occorre un ripensamento molto più trasversale, che coinvolga le istituzioni e che ricuperi con convinzione valori oggi impopolari quali la castità, la famiglia, la fedeltà coniugale. Insomma, per ripartire serve prima ammettere di aver sbagliato. Sapranno dunque i governanti inglesi fare questa coraggiosa ammissione oppure proseguiranno nell’attuale disastro?

Giuliano Guzzo

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«Credo nel matrimonio uomo e donna», i gay gli danneggiano il fast food

L’editorialista di “Spiked online”, Brendan O’Neill criticando recentemente la reazione omosessualista intrisa di razzismo verso gli abitanti del Nord Carolina che hanno democraticamente rifiutato il matrimonio omosessuale, ha commentato: «Essere contro il matrimonio gay può ora essere visto quasi come un atto di ribellione politica, contro una élite lontana che teme e detesta chi non è come lei».

Che vi sia una vera e propria “caccia alle streghe” verso chi osa smarcarsi dal mainstream omosessuale imposto dai media è ormai evidente a tutti. Più volte abbiamo segnalato casi di vera e propria discriminazione, ricordiamo le minacce di morte all’intellettuale laica Melanie Phillips, la quale ha osato criticare sul “Daily Mail” i programmi educativi del governo che obbligano i bambini ad essere «bombardati dai riferimenti sugli omosessuali in ogni materia scolastica»le minacce di stupro verso la figlia del senatore democratico Ruben Diaz Sr. che difendeva il matrimonio tradizionale, il violento agguato notturno al sindaco di Madrid Alberto Gallardon, a sua moglie e ai suoi figli, perché aveva chiesto di diminuire il volume della musica durante il “Gay Pride”le bottigliate contro la manifestazione pacifica di “American Society for the Defense of Tradition, Family and Property” a New York, l’aggressione ai fedeli durante una funzione religiosa a Milano, il dimezzamento delle stipendio di Adrian Smith, padre di due bambini, per aver scritto sul suo profilo Facebook privato che il matrimonio è “fra uomo e donna”, ecc.

L’ultimo a subirne le conseguenze è stato Dan Cathy, imprenditore a capo della catena americana di ristorazione “Chick-fil-A” e noto critico del matrimonio omosessuale. In una recente intervista ha ribadito la posizione spiegando che la sua catena alimentare (1.610 punti di ristorazione, specializzata in sandwich di pollo) è una azienda a conduzione familiare che crede nei valori della famiglia tradizionale, ovvero quella che nasce dall’unione tra un uomo e una donna. Apriti cielo, non l’avesse mai detto!

Le associazioni gay hanno organizzato boicottaggi ai suoi fast food e baci davanti ai ristoranti, i sindaci delle città di Boston, Chicago e Washington hanno minacciato di mettere al bando i “Chick-fil-A”, mentre la portavoce del consiglio comunale di New York, Christine Quinn (notoriamente gay) ha chiesto la chiusura del ristorante della catena a Manhattan. Fortunatamente il sindaco Bloomberg ha stigmatizzato il tentativo. Altri sindaci di diverse città hanno invece offerto solidarietà a Dan Cathy, addirittura Jim Furman, padrone di una società che gestisce 73 ristoranti della catena Wendy, ha fatto mettere davanti ai suoi fast food cartelli di solidarietà nei confronti della società rivale e di Cathy. Un segno di solidarietà è arrivato dai cittadini americani, tanto che i ristoranti della catena sono stati invasi letteralmente di clienti. Chicago, le città del New Jersey, Atlanta ecc. hanno visto formarsi lunghissime file di gente, con “vendite record” secondo il comunicato di “Chick-fil-A”. Solo in Arkansas si parla di 650mila persona.

Il progressista “New York Times” ha condannato le parole dell’imprenditore (cosa obbligatoria per chi vuole continuare a fare giornalismo, ormai), ma spiegando che rimangono all’interno della libertà di espressione. Questo diritto di espressione non è stato accettato nemmeno questa volta dalla lobby omosessuale la quale, nonostante la compagnia abbia precisato che  pur essendo contraria alle unioni omosessuali non ha mai fatto alcuna discriminazione tra i suoi 20 mila dipendenti (tra i quali molti gay), né tra i clienti, ha pensato bene di sfogare la sua ira vandalizzando diversi ristoranti della catena di “Chick-fil-A”. E’ accaduto ad esempio in Georgia, ma anche ad un ristorante  nella città di Frederick, nel Maryland e a Torrance in California, dove gli autori hanno spiegato di aver agito così per «promuovere un dibattito sulla tolleranza e l’accettazione». Atti di vandalismo anche a St. Luoise, mentre a Chicago un sacerdote, Gerald O’Reilly, è stato verbalmente aggredito e insultato dai membri di “Gay Liberation Network” per aver recitato qualche preghiera in risposta ad una loro manifestazione all’esterno di un fast food (il video più sotto).

A questo punto qualcuno ha messo in giro la voce che all’interno dei ristoranti della catena “Chick-fil-A” si venderebbero sandwich chiamati “Dio odia i froci” e “Pollo all’immigrato clandestino”. Pare tuttavia che non vi siano fonti attendibili in quanto nessun autorevole quotidiano internazionale ha riportato la notizia (e la cosa è davvero strana, se fosse stata una notizia veritiera avrebbero certamente fatto a gara per pubblicarla), a parte alcuni blog e piccoli siti web di parte e privi di fonte. Altri hanno anche sostenuto che Cathy abbia finanziato gruppi coinvolti in reati come la pedofilia, ma anche in questo caso scarseggiano le fonti. Se queste voci fossero vere, sarebbero ovviamente da condannare, ma comunque non inficerebbero in alcun modo il valore della libertà d’espressione circa l’opposizione alle nozze gay e lo sdegno per per l’ennesima discriminazione subita.

 

Qui sotto il video con l’aggressione verbale al sacerdote

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In Francia rinascita della fede cattolica, in particolare tra gli intellettuali

Nell’aprile scorso divulgavamo un articolo apparso sul “New York Times” circa un fenomeno di “ritorno religioso” nel mondo degli intellettuali, in particolare atei e agnostici. Sembra si stia facendo largo, infatti, una frangia sempre più ampia di miscredenti intenzionata ad abbandonare l’ascia di guerra contro i credenti, abbracciando un confronto civile e rispettoso sulla scia del filosofo inglese Alain De Botton.

In un recente articolo comparso su “Avvenire”ci si è concentrati sulla situazione francese evidenziando un trend abbastanza simile, ovvero «un rigoglio della trasmissione evangelica a livello culturale, educativo», in particolare tre «opinionisti e studiosi».

Qualcuno lo aveva già notato durante la recente campagna elettorale, dove Dio era stato messo al centro di essa, proprio nella terrà della laicità più negativa e oscurantista. Dopo i numerosi tentativi di sradicare il cristianesimo nella storia francese, in particolare durante i secoli bui illuministi, oggi  «la cappa di piombo è ormai saltata e la cultura francese riscopre, spesso con autentico entusiasmo, la sua antica anima cattolica». Molti intellettuali cattolici e cristiani della prestigiosa Académie française hanno acquisito sempre più peso, come René Girard, Michel Serres, Marc Fumaroli, Jean-Luc Marion, Max Gallo, Jean d’Ormesson, Michel Tournier e Didier Decoin. Molto brillanti anche le leve più giovani esaltate dalla critica, come Christian Bobin, Sylvie Germain, Fabrice Hadjadj e Alexis Jenni. Anche diversi artisti hanno recentemente esternato la loro fede, come Juliette Binoche, Gérard Depardieu, Anouk Aimée e la cantante Camille. Ancora non è calato, inoltre, il successo del film “Uomini di Dio”, la pellicola sulla testimonianza spirituale dei monaci di Tibhirine che ha conquistato la copertina dei settimanali e l’attenzione dei sociologi. “Avvenire” ha anche sottolineato come il quotidiano più letto del Paese, “Ouest France” (800 mila copie), si rivendichi fieramente fedele alla dottrina sociale della Chiesa e come le scuole private cattoliche non riescano più a rispondere alle richieste, dato il costante aumento da anni degli iscritti (oltre 2 milioni di studenti).

Anche le aggressioni anticlericali sembrano spegnersi in contemporanea, è da sottolineare ad esempio cheL’Express”, primo ed autorevole settimanale d’informazione, poche settimane fa ha irriso ancora una volta il noto “new atheist” Michel Onfray, scrivendo che «i suoi libri sono davvero troppo scadenti». Il noto filosofo anti-teista era già stato preso duramente di mira nel marzo scorso, e ne i mesi scorsi è stato accusato di antisemitismo dopo aver fatto un parallelo davvero pericoloso tra ebraismo e nazismo.

L’augurio del quotidiano cattolico italiano è che questa «rinnovata effervescenza sociale e culturale» possa essere «un viatico per le vocazioni e per una riscoperta dei sacramenti, oltre che per un ridimensionamento della laïcité di Stato». Il laicismo è così tanto la religione di Stato che i cattolici, ancora una volta, si sono dimostrati gli unici difensori del vero concetto di laicità.

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L’ONU e l’OMS ringraziano la Chiesa per l’impegno contro l’HIV in Africa

Verso fine maggio 2012 si è svolto in Vaticano il Convegno internazionale sul tema “La Centralità della persona nella prevenzione e nel trattamento dell’Hiv/Aids: esplorando le nuove frontiere”. All’appuntamento, aperto dal cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, ha partecipato anche Michael Sidibé, segretario generale aggiunto dell’Onu e direttore esecutivo di UnAids, il quale ha risposto in un’intervista per Radio Vaticana ad una domanda in cui gli sono state sottoposte le critiche che talvolta la Chiesa cattolica riceve per la sua posizione contraria al condom come “panacea di tutti i mali”, e che molti scambiano come un inno alla diffusione dell’HIV tra gli africani.

Sibidé ha risposto: «io penso che vi siano ambiti molto vasti sui quali siamo in accordo: non abbiamo che qualche disaccordo. Credo che la Chiesa cattolica faccia uno sforzo enorme per battersi contro la stigmatizzazione, la discriminazione ecc. I servizi comunitari che esistono – i più decentralizzati – sono i servizi che raggiungono le famiglie e che permettono loro di avere accesso alle informazioni per proteggersi e contribuiscono anche – giustamente – a consolidare questo concetto di famiglia, che è indispensabile ancor di più se ci si trova in situazione di povertà».

Continui, d’altra parte, sono gli appelli di Papa Benedetto XVI perché ai malati di Aids vengano concesse cure gratuite, come ha chiesto diverse volte anche il card. Tarcisio Bertone. Concreto è l’impegno dei cattolici in Africa, come dimostra la recente premiazione da parte dello University College di Cork, e in precedenza dall’Università di Harvard, di Suor Miriam Duggan, autrice di un innovativo ed efficace programma di lotta all’epidemia dell’HIV realizzato in Uganda (senza l’uso del condom). Abbiamo anche ricordato come nei Paesi africani a maggioranza cattolica vi sia un più basso tasso di AIDS.

In un’altra occasione, mons. José L. Redrado Marchite, Segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari ha ricordato che «in molte regioni dell’Africa subsahariana, in particolare nelle zone più remote e dove il reddito medio è particolarmente basso, gli unici a fornire le terapie antiretrovirali e ad intervenire in favore delle vittime indirette sono proprio i dispensari ed i presidi medici appartenenti a congregazioni, ordini ed istituti religiosi nonché ad alcune ong di matrice cristiana».

Tutto questo è stato confermato durante un incontro, intitolato  “HIV, l’epidemia dimenticata”, svoltosi all’interno del “Meeting per l’amicizia dei popoli”, la nota kermesse riminese, a cui hanno partecipato diverse figure di grande prestigio internazionale, dedicate a questa terribile piaga. Come si può osservare dal filmato qui sotto, si è a lungo parlato di AIDS e della situazione africana. In particolare il dott. Carlo Federico Perno, Docente di Virologia all’Università di Roma Tor Vergata, ha ribadito l’estrema necessità di combattere questa dura lotta attraverso il cambiamento dei comportamenti sessuali e non tanto con l’utilizzo e la massiccia distribuzione di soluzioni tecniche, come aveva già ribadito in precedenza. Verso la fine dell’incontro i relatori hanno anche affrontato il contributo della Chiesa cattolica, attraverso le cosiddette “Faith based organization”.

Il dott. Alberto Piatti, Segretario Generale della Fondazione AVSI e moderatore dell’incontro, ha citato alcuni dati, rivelando che l’accesso ai servizi primari sanitari in Africa, per più del 50% è garantito da ospedali missionari, e nonostante questo il “Fondo globale” per le malattie ha erogato fino a oggi, dal 2002, soltanto 541 milioni di dollari alle “Faith based organization”, su un totale di 22,6 miliardi di dollari erogati complessivamente. Paul De Lay, direttore esecutivo di UNAIDS (il programma delle Nazioni Unite per l’AIDS/HIV), ha spiegato di collaborare anche con la Caritas, affermando: «le comunità confessionali e la religione hanno un ruolo importantissimo oltre l’erogazione dei servizi, rappresentano la fonte di tanta prevenzione, assistenza e servizi di supporto. Credo sia importante sottolineare questi ruoli della religione nella vita di questa gente che viene toccata dall’epidemia». Inoltre, ha continuato, queste organizzazioni «hanno un ruolo importantissimo nel ridurre lo stigma e la discriminazione». L’AIDS, infatti, non è soltanto un problema di salute, non si può trattarlo soltanto come un problema sanitario, «e qui entra in gioco anche la fede e le organizzazioni religiose, infatti i modelli di trattamento basati sulla comunità sono molto più efficaci di quelli basati soltanto su un approccio puramente sanitario».

Anche il Direttore regionale per l’Africa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, Luis Gomes Sambo, ha dedicato parole nel suo intervento per «riconoscere ed apprezzare fortemente il ruolo e l’impegno del “Consiglio Pontifico degli operatori sanitari” del Vaticano e tutta la loro rete di strutture sanitarie presenti in Africa, riescono infatti a svolgere dei servizi preventivi e di trattamento per l’HIV e sopratutto mostrano compassione per coloro che sono colpiti e soffrono». Ma perché tutto questo impegno da parte dei cattolici, si è domandato il dott. Piatti concludendo l’incontro. Perché «desideriamo rispondere al bisogno di queste persone fino in fondo, riconoscendo in loro, come in noi stessi, “l’innata dignità” -citando le parole del Papa- dovuta dal rapporto con il Creatore».

 

Qui sotto il video dell’incontro: “HIV, l’epidemia dimenticata”

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Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino (V° parte): la metafisica nella “Critica della ragion pura”


 

di Luca Ferrara*
*dottorando in scienze filosofiche

 

Nel primo articolo abbiamo posto le premesse per un possibile confronto tra Immanuel Kant e Tommaso d’Aquino, nel secondo articolo abbiamo introdotto le due quaestiones dell’Aquinate, all’interno della seconda sono contenute le celebri “cinque vie” per la dimostrazione di Dio, nel terzo articolo abbiamo esposto le cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio formulate da San Tommaso, mentre nel quarto articolo abbiamo visto la concezione dell’esistenza di Dio nell’Illuminismo. Ora valuteremo il pensiero metafisico all’interno del pensiero kantiano.

L’opera di Kant, pur essendo influenzata da diversi motivi teoretici, assume una particolare curvatura speculativa ben riconoscibile fin dagli scritti giovanili. Senza dubbio l’autore tedesco vissuto in un periodo (1724-1804) in cui massima era l’influenza culturale e politica dell’illuminismo ha avvertito la necessità di misurarsi parimenti con alcuni dei maggiori filosofi del Settecento, sia tedesco come Wolff, Baumgarten, Crusius, sia francese e inglese, come Rousseau e Hume. Se si dovesse prendere come direttrice delle nostre ricerche la questione dell’esistenza di Dio per indagare il pensiero kantiano, essa assorbirebbe non solo un numero notevole di pagine, ma anche una mole di tempo quantificabile in alcuni decenni.

Il problema dell’esistenza di Dio è riscontrabile nell’intera produzione kantiana: negli Scritti del periodo precritico, come in quelli del periodo critico. Kant è un autore che ha messo al centro dei suoi interessi speculativi e pratici la metafisica. Ognuna delle sue opere potrebbe essere considerata un momento significativo di un’articolazione progressiva finalizzata alla formulazione di un sapere metafisico, ragion per cui la ricerca su questo tema va circoscritta. Noi affronteremo il problema dell’esistenza di Dio nella seconda edizione della “Critica della ragion pura”, dove la dimensione speculativa e la maturità teoretica raggiungono la massima espressione, e dove riscontrabile parzialmente una critica alle argomentazioni tomiste presenti nella “Summa”.

Kant, nel corso del suo sviluppo intellettuale tiene conto di molti degli autori citati nel paragrafo precedente, in particolare la sua speculazione, nella prima “Critica”, viene ad articolarsi in un confronto serrato con le posizioni di Wolff, Baumgarten e Hume. Il filosofo accetta la partizione della metafisica in due parti, proposta da Wolff e seguita da Baumgarten. La prima parte viene denominata methaphysica generalis o ontologia, la quale ha il compito di studiare le proprietà generali degli enti; mentre la seconda parte denominata methaphysica specialis, articolata a sua volta in tre parti: psicologia (studio dell’anima), cosmologia (scienza del mondo) , teologia (scienza di Dio). Kant fa propria questa partizione, ma attribuisce un significato del tutto nuovo a questa divisione. L’ontologia non è più considerata scienza dell’ente, ma, alla luce delle ricerche svolte nella “Critica della ragion pura”, è un teoria delle condizioni dell’ente; mentre la metafisica speciale, sebbene tratti di oggetti che cadono fuori dall’esperienza umana, rappresentano l’anelito perenne della ragione all’assoluto.

Vediamo ora come si articola la celebre opera kantiana e a quali problemi tenta di rispondere. La “Critica della ragion pura” consta di due parti: Dottrina trascendentale degli elementi e Dottrina trascendentale del metodo. La prima parte della prima Critica corrisponde alle due partizioni in cui si viene ad articolare la metafisica wolffiana (metafisica generale e metafisica speciale). A sua volta la Dottrina trascendentale degli elementi, preceduta da due Prefazioni (alla prima e alla seconda edizione della “Critica della ragion pura”) e da un’Introduzione, si articola in due sezioni: Estetica trascendentale e Logica trascendentale. La prima studia le forme a priori dell’intuizione, la seconda, che a sua volta si articola in altre due parti (Analitica trascendentale e Dialettica trascendentale) studia nella prima le funzioni dell’intelletto e nella seconda le idee della ragione. L’opera kantiana ha una quadruplice valenza: logica, epistemologica, gnoseologica e ontologica. Tali istanze si riassumono nel tentativo dell’autore di dimostrare la possibilità dei giudizi sintetici a priori, tramite un’analisi (critica significa, seguendo l’etimo greco, distinguere, discernere) accurata della ragione nelle sue conoscenze pure (prive di qualsiasi commistione con l’esperienza). Secondo Kant si danno due tipologie di giudizi: analitici e sintetici. Nei primi la connessione tra soggetto e predicato fa leva sul principio di non contraddizione, tramite cui è possibile riscontrare che il predicato è contenuto a priori già nella nozione di soggetto. Kant porta un esempio, poi divenuto celebre: i corpi sono estesi. Il concetto del predicato — “estesi” —, (“sono” viene considerato “copula”) è incluso nella nozione del soggetto; mentre il filosofo porta come esempio di giudizio sintetico “i corpi sono pesanti”, dove la nozione di pesantezza è riscontrabile tramite l’esperienza, ragion per cui si viene ad aggiungere al soggetto, e da questi non è deducibile a priori, perciò il filosofo li definisce sintetici a posteriori. Kant afferma che vi è una terza tipologia di giudizi — i sintetici a priori — i quali non rientrano nelle due tipologie precedenti, ma sono propri della metafisica e della scienza.

Questa partizione triplice dei giudizi stabilita da Kant rompeva con la tradizione precedente, infatti sia Hume che Leibniz avevano sostenuto la possibilità di ridurre il nostro sapere a due classi di giudizi. Per il filosofo di Lipsia le proposizioni potevano essere formulate come verità di fatto, il cui contrario era sempre possibile, oppure come verità di ragione il cui contrario era sempre impossibile. Le prime erano verità sintetiche, a cui la mente umana perveniva, tramite il prinicipio di ragione sufficiente, nel corso dell’esperienza; mentre la mente, nelle seconde, seguendo il principio di non contraddizione e il principio di identità, perveniva tramite un ragionamento, il cui valore era necessario e universale. Il filosofo scozzese considerava che le modalità nelle quali era possibile fissare la nostra conoscenza fossero o relazioni fra idee o materie di fatto. Le prime avevano un valore ideale, una necessità che era loro intrinseca (non a caso riguardavano la matematica); mentre le seconde riguardavano il campo delle nostre conoscenze empiriche. Sia Leibniz che Hume, adoperando questa duplice distinzione, sembravano porre uno iato tra reale e ideale; il tentativo operato del criticismo kantiano con la formulazione di una terza tipologia di giudizi (i sintetici a priori), si prodigava al fine di ridurre, se non eliminare questo solco tra l’ambito empirico-fattuale e l’ambito metafisico-logico.

Secondo Kant i giudizi sintetici a priori sono propri della matematica (aritmetica e geometria), della fisica e della metafisica. Nei giudizi sintetici a priori non solo il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, ma lo aggiunge in modo a priori (universale e necessario). In aritmetica — Kant porta il celebre esempio “7+5=12”— il predicato viene aggiunto al soggetto tramite una procedura a priori che è ascrivibile al forma del senso interno: il tempo. La proposizione considerata non è analitica, perché il predicato viene aggiunto nel tempo. Il tempo costituisce l’essenza del numero, ma il tempo non è nella cosa stessa, nel numero, ma ad esso bisogna pervenire per comprendere la produzione dei numeri e per fare operazioni tra loro. Il tempo mi fornisce un numero infinito di quantità pure, ma come sono connesse tra loro? Secondo il filosofo tramite una delle dodici categorie dell’intelletto. Le categorie sono funzioni dell’intelletto, e tramite esse l’intelletto pensa e conosce. Quando sono usate per sintetizzare una molteplicità empirica (le sensazioni) o pura (i numeri le linee i punti, etc…), ordinate tramite le due forme dell’intuizione (spazio e tempo) esse sono responsabili del processo conoscitivo. L’Analitica trascendentale studia nella sua prima parte (Analitica dei concetti) la relazione tra categorie e giudizio e categorie e intelletto, decretando il loro numero in modo a priori e la loro applicabilità all’esperienza, pur non derivando dal mondo empirico. Ma come è possibile che non essendo generate dall’esperienza possono venire applicate all’esperienza? L’oggetto deve conformarsi alla struttura trascendentale del soggetto altrimenti non sarebbe per noi. Come siano gli oggetti in sé nessuno lo può sapere. Le categorie schematizzate (cioè temporalizzate) forniscono conoscenza, mentre prive di riferimento all’esperienza possono generare o un’illusione trascendentale, collocando la ragione nella spiacevole situazione di trovarsi a dover affrontare un problema che lei stessa ha generato e che lei stessa deve risolvere: questi problemi sono quelli della metafisica speciale, considerati da Kant nella Dialettica trascendentale.

La Dialettica trascendentale studia la logica della parvenza. Tale parvenza si configura come un’illusione necessaria, prodotta dalla ragione stessa, nel tentativo di oltrepassare i limiti dell’esperienza. Ma cosa può fare la filosofia trascendentale per evitare che le presunte conoscenze metafisiche protraggano il loro inganno? Indagando l’origine delle presunte conoscenze metafisiche. La perenne situazione conflittuale in cui viene a trovarsi la ragione umana è generata dal tentativo di accedere ad un campo di conoscenze incondizionate (assolute), ma la ragione non si può opporre a questa tensione versa l’incondizionato, in quanto le è connaturata. L’unico modo tramite cui la ragione può evitare di cadere in contraddizione con se stessa è la possibilità di indagare la sua struttura, sicché perviene ad un dominio di conoscenze che si configurano metafisiche, nella misura in cui non riconducibili al dato empirico, ma alla struttura della ragione umana che è meta-temporale. Il filosofo tedesco riprende, come dicevamo sopra, la bipartizione wolffiana della metafisica, dando a tale suddivisione un significato totalmente diverso. La prima parte della metafisica o ontologia, per Kant non è più una teoria dell’ente come per Wolff, ma una teoria delle condizioni dell’ente (a questa parte corrisponde, nella “Critica della ragion pura”, l’Estetica trascendentale e l’Analitica trascendentale, prima parte della Logica trascendentale). La seconda parte della metafisica o metafisica speciale secondo la definizione wolffiana è tripartita in tre ambiti: psicologia razionale; cosmologia razionale; teologia naturale. A questi tre ambiti corrispondono nella Dialettica trascendentale (seconda parte della Logica trascendentale) tre idee della ragione: anima, mondo e Dio.

Kant intende, con il termine “idea”, per un verso un concetto necessario della ragione, come un modello, un archetipo a cui essa sempre tende, per un altro intende il contenuto, l’oggetto di quest’idea a cui non è possibile trovare un corrispettivo empirico. Il filosofo tedesco adopera il termine “idea” con una duplice accezione. In primo luogo, l’idea viene intesa in un significato platonizzante, come ciò di cui non si può pensare il massimo, in quanto l’idea è la totalità delle condizioni del condizionato. In secondo luogo, l’idea viene considerata nel suo contenuto, per ciò che rappresenta, nella misura in cui la ragione tenta di farne oggetto di conoscenza, ipotizzando la possibilità di fare esperienza della totalità delle condizioni del condizionato, ma ciò è contraddittorio perché travalica i limiti dell’esperienza. Se l’intelletto procede sintetizzando una molteplicità di dati ordinati dagli gli a priori di spazio e tempo tramite le categorie, la ragione procede sintetizzando giudizi tramite sillogismi. Ad ogni idea, poi, corrisponde una modalità di formare sillogismi.

Nel prossimo articolo ci soffermeremo sulla terza idea (l’idea di Dio) che riguarda il nostro lavoro di confronto tra Kant e Tommaso, pertanto rimandiamo il lettore curioso o lo studioso attento che vogliano approfondire le prime due idee (anima e mondo) della Dialettica trascendentale ai diversi commentari della “Critica della ragion pura”.

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«La posizione cattolica mi ha convinto», la conversione di due evangeliche

Sul sito web “Why I’m Catholic” vengono periodicamente pubblicate diverse storie di conversioni da altre religioni al Cattolicesimo, ne esaminiamo due che riguardano l’approdo alla Chiesa cattolica da parte di due Protestanti.

Le testimonianze non sono solo interessanti perché raccontano la gioia della scoperta della fede in Cristo all’interno della Chiesa Cattolica Romana, ma anche perché attraverso il processo che porta a una tale scelta gettano una luce su aspetti della nostra fede che, alle volte per stanchezza, per abitudine o anche solo per ignoranza non consideriamo abbastanza.

 

La prima testimonianza è di Renée Lin, convertitasi al Cattolicesimo nel 2003 dopo essere stata, da sempre, di fede Evangelica. Convinta della proprio dottrina, non si è mai sottratta al confronto con le altre religioni: ha letto il Corano e il Libro di Mormon proprio per questo, ma tuttavia non si è mai interessata alla religione Cattolica. Questa propensione al confronto l’ha portata a discutere in più occasioni con dei Testimoni di Geova trovandosi così in una situazione di stallo quando ha cercato di dimostrare, basandosi solo sulla Bibbia -come professano i Protestanti (“sola Scriptura”)-, la dottrina della Trinità, dovendo così ammettere, almeno sul momento, che il punto di vista dei Testimoni di Geova sulla non divinità di Gesù Cristo era legittimo. Per trovare argomentazioni più sostanziose è dovuta ricorrere a uno dei Padri della Chiesa, Ignazio di Antiochia. Questo le ha fatto comprendere innanzitutto come non tutto ciò che i Protestanti credono possa essere sostenuto solo ed esclusivamente sulla base della Sacra Scrittura.

Successivamente la domanda rivoltale da una persona sulla dottrina della Chiesa Cattolica l’ha spinta ad informarsi e a verificare come essa accolga alla lettera le parole di Cristo sull’Eucarestia del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, mentre la Chiesa Protestante attribuisca ad esse un solo valore figurativo. Questo ha avuto per lei un doppio effetto: da un lato le ha mostrato come la Chiesa Protestante di fatto commette quello di cui accusa le altre Chiese, in particolare quella Cattolica, cioè di non prendere sempre alla lettera la Sacra Scrittura; e dall’altro l’ha spinta ad approfondire la dottrina cattolica. Si è così resa conto che gli argomenti dei Protestanti contro le credenze Cattoliche, ad un primo momento solidi come rocce, si sono rivelati ad un’analisi più attenta molto fragili, mentre la posizione cattolica assumeva sempre più senso. In particolare, Lin ha compreso che la strategia apologetica protestante nei confronti del cattolicesimo era di: svalutare, denigrare, distorcere, negare elementi chiave dell’argomento cattolico (svalutare gli scritti dei Padri della Chiesa, nessuno dei quali, ad esempio è d’accordo con la giustificazione solo per mezzo della fede; denigrare la santità dei Santi Cattolici; distorcere le credenze cattoliche quando le si presenta in modo che sia poi più facile confutarle; negare lo sviluppo della dottrina).

Da questo lavoro personale e da queste considerazioni è iniziata la conversione di Renée Lin ,che l’ha portata nel 2003 ad entrare, assieme ai suoi due figli, nella Chiesa Cattolica.

 

La seconda testimonianza è quella di Jaymie Stuart Wolfe, anch’essa evangelica, la quale ha scoperto i contenuti e la bellezza della fede Cattolica attraverso una serie di fatti accaduti nella sua vita e che, in un primo momento, riteneva non avessero alcun collegamento tra di loro. Ecco quindi l’incontro con Madre Teresa di Calcutta, piccola, quasi invisibile nella sua umiltà, mentre intorno a lei uomini alti, importanti apparivano vuoti e l’incontro con Giovanni Paolo II e la sua richiesta a “non aver paura”. Ha poi spiegato di come l’incontro con l’eucarestia, in particolare, sia stato particolarmente decisivo nella sua vita, sopratutto quando ha deciso di informarsi e comprenderne il significato, iniziativa che le ha fatto emergere un gran desiderio e una grande rabbia verso chi fino ad allora non gliene aveva mai parlato.

Jaymie ha così iniziato un cammino di conoscenza sempre più approfondita della Chiesa Cattolica, anche grazie alla lettura della “Lumen Gentium”, che l’ha portata alla piena comunione con la Chiesa di Roma, avvenuta ufficialmente nel 1983.

 

Due belle storie, uniche nel loro vissuto ma anche molto simili, entrambe contraddistinte da un approfondimento personale della propria posizione esistenziale e dal libero confronto con le altre. Due solide testimonianze della bellezza e della forza della fede cattolica. Per chi volesse essere aiutato (o volesse aiutare altri) a fare lo stesso percorso, consigliamo il libro: “Un cattolico risponde a un evangelico” (Edizioni Segno 2010)

Davide Galati

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Comitato Nazionale di Bioetica: «l’obiezione di coscienza è un diritto inviolabile»

 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Lo scorso 30 luglio 2012, il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB)  ha approvato l’atteso parere sul rapporto tra obiezione di coscienza e bioetica nel quale si afferma, tra gli altri elementi, che «l’obiezione di coscienza in bioetica è un diritto costituzionalmente fondato (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo), costituisce un’istituzione democratica, in quanto preserva il carattere problematico delle questioni inerenti alla tutela dei diritti fondamentali senza vincolarle in modo assoluto al potere delle maggioranze, e va esercitata in modo sostenibile».

Senza dubbio, almeno ad una prima ricognizione, potrebbe apparire superfluo specificare che l’obiezione di coscienza possa essere annoverata tra i diritti costituzionalmente fondati, poiché già il portato degli articoli 19 e 21 della Costituzione medesima sembrerebbero offrire la massima garanzia per la tutela del cosiddetto “foro interno”. Potrebbe sembrare anche del tutto tautologico e ridondante ritenere, oggi come oggi, che la obiezione di coscienza costituisca una istituzione democratica, soprattutto considerando la stabilizzazione culturale dell’idea di autodeterminazione, soprattutto nell’ambito bioetico. A ciò aggiungasi, inoltre, che un’epoca come quella attuale in cui il soggettivismo morale, sia per bocca dei suoi sostenitori che dei suoi detrattori, si erge ad unico paradigma per la costruzione di un’etica pubblica e condivisa lasci trasparire la superfluità di ribadire e anche soltanto problematizzare il diritto all’obiezione di coscienza.

Nonostante ciò l’obiezione di coscienza comincia ad essere intesa come un fattore disgregante del tessuto dell’ordinamento giuridico e talvolta perfino un ostacolo allo stesso diritto di autodeterminazione che presiede a diverse tipologie di interventi medici, come per esempio l’interruzione volontaria di gravidanza. Insomma, come nota il Prof. Francesco D’Agostino, esplode in tutta la sua tragicità il paradosso contemporaneo sull’obiezione di coscienza che per un verso viene esaltata come unico riferimento per la fondazione dell’individualità, mentre per altro verso viene ad essere intesa come istituto pericoloso per la sua vocazione intrinsecamente anarchica e per la sua pretesa di insindacabilità diretta a rifiutare formalmente qualunque controllo sociale nei confronti del soggetto obiettore.  Si considerino come esempi delle due opposte prospettive da un lato la possibilità per gli atei di non giurare su Dio, intervenuta con un’apposita modifica alle norme processuali coinvolte a seguito di una celebre pronuncia della Corte Costituzionale, quale rivendicazione della libertà di coscienza del non-credente, e dall’altro l’esigenza sempre più socializzata di limitare la possibilità per medici e operatori sanitari di sollevare obiezione di coscienza in quanto questo loro diritto causerebbe una indebita interruzione di un servizio pubblico fondamentale quale è quello dell’assistenza medica e contrasterebbe, per esempio, con il diritto all’autodeterminazione delle donne che dovessero ricorrere ad IVG.

Ed ecco emergere l’autentico problema: l’obiezione di coscienza, definita come “malattia” da debellare da una nota esponente dei Radicali Italiani (proprio loro che negli anni ’70, prima che venisse varata la legge di riforma dell’ordinamento militare, lottavano affinché fosse riconosciuta la libertà di coscienza ), è la manifestazione di una istanza della coscienza che in quanto tale accede al piano veritativo della dimensione etica della vita, o è piuttosto un espediente politico-ideologico strumentalizzato dal singolo per pubblicizzare la propria individualistica weltanschauung ed opporsi all’ordine costituito con mezzi pacifici? L’obiezione di coscienza quindi non sembra essere soggetta ad univoca interpretazione, a causa di diversi motivi, primo tra i quali il travisamento sulla sua stessa natura.

L’obiezione di coscienza, infatti, lungi dall’essere una mera manifestazione dell’opinione soggettiva espressa in dissonanza con quella dominante, è qualcosa di ben diverso, qualcosa di più. Trattandosi della coscienza, della libertà della coscienza, significa trovarsi di fronte a ciò che Robert Spaemann ha identificato quale elemento costitutivo dell’essere persona («La coscienza costituisce la dignità della persona»); la coscienza dunque non è svincolata da principi ad essa superiori ai quali, anzi, deve uniformarsi, o meglio, non costituisce essa stessa un criterio per essere svincolati dai principi superiori a cui, invece, deve orientarsi; la coscienza, si potrebbe osare, è l’elemento con cui l’uomo accede alla sua identità, alla sua verità di persona («in interiore homine habitat veritas» scriveva S. Agostino ), al suo essere. L’accesso all’essere mediante la coscienza è un elemento che coinvolge tutto l’essere e tutta la coscienza; l’uomo, attraverso la coscienza, scopre se stesso, comprende se stesso (per esempio nella relazione di differenza che lo distingue dal resto del creato); l’atto della coscienza presuppone dunque l’esercizio della ragione; del resto, gli stessi principi a cui la coscienza si orienta nel suo giudicare sé e il mondo sono principi che sussistono nella dimensione del diritto naturale, cioè di quel diritto che presuppone l’esercizio della ragione, della recta ratio, per utilizzare una celebre formula.
La coscienza tuttavia non deve essere ridotta a banale psicologismo, cioè a mezzo per una riflessione incentrata sulla psicologia dell’intimismo, in quanto essa nel suo determinarsi sul piano morale, cioè nel distinguere il bene dal male, si configura quale momento di intellezione dei valori morali; in altri termini, la coscienza presuppone la soggettività dell’intellezione, ma non pone questa soggettività quale criterio di determinazione dei valori morali medesimi essendo questi fondati su elementi oggettivi: in sostanza non si ricerca il bene secondo la verità della coscienza, ma la coscienza ricerca il bene secondo verità, o, se si preferisce, la coscienza non ricerca veramente il bene fino a quando non ricerca il vero bene. Come preciserebbe Jacques Maritain, tramite la coscienza si assiste al passaggio dall’etica della felicità all’etica del bene.

Posti questi pur sommari perimetri, comunque da approfondire, per la comprensione della coscienza si intuisce la gravità della proposta di chi ritiene che debba abolirsi il diritto all’obiezione di coscienza e la forza civile che il CNB ha espresso nel parere che tutela il diritto all’obiezione di coscienza. Il diritto all’obiezione di coscienza costituisce dunque l’esercizio del diritto ad accedere alla verità individualmente, ma non individualisticamente, soggettivamente, ma non soggettivisticamente. Il diritto all’obiezione di coscienza, essendo la coscienza elemento costitutivo della persona, non può che essere inteso, dunque, come diritto fondamentale della persona, e come tale non può che essere inviolabile e costituzionalmente non solo fondabile, ma del tutto fondato. In questa prospettiva il diritto all’obiezione di coscienza non è già un diritto “contra legem”, ma “secundum legem”, sebbene occorre tener sempre presente la differenza da taluni delineata tra “obiezione” ed “opzione di coscienza”, inverandosi la prima nel caso in cui il soggetto rifiuti di obbedire alla legge positiva che contrasti con una legge morale, ed inverandosi la seconda nel caso in cui la stessa legge positiva contempli la possibilità di tenere un comportamento alternativo rispetto a quello che il soggetto dovrebbe osservare se rispettasse l’obbligo di legge al quale non può obbedire per l’insorgere del suddetto conflitto tra norma legale e norma morale.

Il CNB in sostanza ha ribadito un fondamentale principio basilare dello Stato di diritto, cioè che lo Stato non può invadere e controllare l’interiorità dell’uomo, principio già affermato nell’“Apologia” di Socrate e cristallizzato nei primi secoli del Cristianesimo allorquando le prime comunità cristiane perseguitate si rifiutarono non già di riconoscere l’autorità politica dell’Imperatore, ma di venerarlo come figura divina. Tante sono le problematiche etiche, filosofiche, religiose e giuridiche riguardo al diritto all’obiezione di coscienza, ma questi pochi spunti possono essere considerati un modesto punto di partenza per cominciare a riflettere e problematizzare la questione del suddetto diritto che, ahinoi, secondo alcuni sprovveduti del pensiero dovrebbe essere eliso dal panorama giuridico in genere ed italiano in particolare.

Si comprende, allora, perché il CNB nel suo parere abbia ricordato che in un ordinamento giuridico di uno Stato di diritto, in cui non sia la volontà del singolo a prevalere su quella della collettività né quella della collettività a prevalere su quella del singolo, si debba trovare il giusto equilibrio affinché non vi sia «né sabotaggio della legge da parte dell’obiezione di coscienza, né sabotaggio dell’obiezione di coscienza da parte della legge». Il parere del CNB lungi dall’essere una conclusione, quindi, non può che rappresentare un nuovo punto di partenza.

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Originalità e differenze della Bibbia rispetto ai testi mesopotamici

Durante la appena conclusa edizione del “Meeting per l’amicizia fra i popoli”, interessante evento culturale organizzato dal movimento ecclesiale “Comunione e Liberazione”, ha trovato spazio un incontro davvero affascinante dal titolo: “E’ veramente positiva la realtà? Dai popoli della Mesopotamia al popolo della Bibbia”, durante il quale sono intervenuti Giorgio Buccellati, tra le personalità più stimate nella comunità scientifica che si occupa delle civiltà antiche, professore emerito presso il Department of Near Eastern Languages and Cultures e al Department of History di UCLA, fondatore di “The International Institute for Mesopotamian Area Studies” (IIMAS), di cui è attuale direttore e Ignacio Carbajosa Pérez, Docente di Antico Testamento presso la Facoltà di Teologia dell’Università San Dámaso di Madrid. Il tutto è stato introdotto da Davide Perillo, direttore della rivista “Tracce” a cui il prof. Buccellati ha concesso un’intervista nell’aprile scorso.

I relatori hanno messo a confronto le religioni mesopotamiche con quella israelitica descritta nell’Antico Testamento, confutando le affermazioni secondo cui i racconti dell’Antico Testamento sarebbero direttamente dipendenti dai poemi babilonesi, ad esempio, mancando di originalità, nel tentativo di privarlo come conseguenza dell’ispirazione divina. Tuttavia, ha spiegato il prof. Carbajosa Pérez, «con l’allargarsi e l’approfondirsi delle conoscenze si sono constatate le profonde differenze tra le due concezioni della realtà». Attraverso un confronto serrato sui grandi temi dell’Origine della realtà (1), dell’Origine del male (2), e del Confronto con la realtà (3), i due studiosi hanno dimostrato queste enormi e significative differenze, al di là di alcune anologie.

Nei testi mesopotamici, ha fatto ad esempio notare il prof. Buccellati, autore del recente libro «Quando in alto i cieli…». La spiritualità mesopotamica (Jaca Book 2012), non esiste una creazione, ma la realtà prende forma da un caos amorfo, trasformandosi fino all’apparizione del dio supremo che viene indicato con cinquanta nomi: «Non c’è un assoluto, ma la realtà è un sistema omeostatico (ha una stabilità in se stesso). Non c’è un inizio, ma un divenire». Al contrario -ha continuato il prof. Carbajosa- nella Bibbia «“in principio Dio creò il cielo e la Terra”, dando indicazioni di tempo, di un inizio della storia e del fatto che non c’era niente prima dell’atto creativo». Nella concezione babilonese il male è guardato con indifferenza, è causato dalla eccessiva proliferazione di dei, mentre nella Bibbia il male viene posto come obiezione alla bontà di Dio, viene sottolineato il peccato, esso nasce dall’errato utilizzo della libertà da parte degli uomini. Per i popoli mesopotamici, ancora, il tempo è ciclico e prevedibile, c’è il politeismo, gli uomini non hanno un compito, non sono in rapporto con nessun dio, «la Mesopotamia ci propone un rapporto generico con l’Assoluto», ha spiegato Buccellati.  Invece, nella religione “creaturale”, ovvero quella emersa in Israele, si «presuppone un esser chiamati, un rapporto e un confronto con un Assoluto che chiama e che è presente. Un confronto che nel cristianesimo fa venire i brividi, perché si erige allo statuto massimo di vero e proprio evento assoluto».

Ecco dunque che da queste differenze -i dettagli nel video dell’incontro qui sotto- si capisce bene che ad un certo punto nella storia si è introdotto un cambiamento, una linea di confine netta, precisa, di frattura. Questa inedita differenza, tra due religioni nate negli stessi luoghi e nello stesso periodo storico, suggerisce l’avvenimento di un evento eccezionale, cioè lo stesso descritto nella Bibbia: Dio interviene nella storia, sceglie un popolo, lo educa anche duramente, e tutto cambia, si modifica la concezione con la realtà, il rapporto con il male e con se stessi. Ulteriori approfondimenti di tutto questo è possibile trovarli in questi due documenti: “Hebrew contact with near eastern religions” e “Was Christianity cut-and-pasted from other religions?” 

 

Qui sotto il video dell’incontro dal titolo: “E’ veramente positiva la realtà? Dai popoli della Mesopotamia al popolo della Bibbia”

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Stati Uniti: secolarizzazione e ostilità alla religione crescono assieme

Un recente sondaggio mondiale realizzato da “Gallup International” ha mostrato come a livello complessivo, il 59% degli abitanti del mondo si ritiene una “persona religiosa”, il 23% si considera “non religioso” (che non vuol dire “non credente”), mentre il 13% pensa di essere un “ateo convinto”. Questi ultimi abbondano in particolare in Cina (47%), Repubblica Ceca (30%) e Giappone (31%).

Rispetto al 2005 vi è stato un aumento globale del 3% di persone che si dichiarano atee e un calo del 9% di coloro che si definiscono “religiose”. L’UAAR -l’associazione di atei fondamentalisti- ha ovviamente ancora una volta ingannato i suoi lettori affermando che «rispetto al 2005, l’indagine ha evidenziato un aumento globale del 9% di persone che non hanno problemi a dichiararsi atee», mentre i risultati (a pagina 5 di 25) dell’indagine affermano una cosa diversa: «A livello globale, coloro che dichiarano di essere religiosi, scendono del 9%, mentre l’ateismo aumenta del 3% […]. La maggior parte di questo spostamento non è dovuto alla deriva della loro fede, ma dalla volontà di essere “non religiosi”, pur rimanendo all’interno di una fede. Vi è tuttavia un aumento del 3% nel ateismo». Dichiararsi “non religioso”, dunque, è differente dal dichiararsi “ateo”, tant’è che la tabella 8 (pag. 19 di 25) mostra come il 16% di coloro che si dichiara “cattolico” si ritiene anche “non religioso”.

Classiche mistificazioni uaarine a parte, si nota un aumento di religiosità in Romania (4%), Macedonia (5%), Moldavia (5%), Serbia (5%), Italia (1%), Finlandia (2%) e Olanda (1%), mentre si registra un calo particolare in Argentina (-8%), Ecuador (-15%), Sud Africa (-19%), Irlanda (-22%), Vietnam (-23%) e Stati Uniti (-13%). L’ateismo cresce significativamente in Francia (+15%), in Repubblica Ceca (+10%) e Irlanda (+7%), mentre cala in Bosnia (-5%), in Bulgaria (-2%) e anche in Spagna (-1%).

Rispetto all’età, i minori di 30 anni sono maggiormente credenti (66%), si tende a sentirsi meno religiosi dai 30 ai 65 anni (59-53%), per ritrovare la fede successivamente (77%). Ci sono solo il 12% di atei sotto i 30 anni, il 14% nella fascia 30-65 anni e poi un calo all’8% dopo. Rispetto al grado d’istruzione, il 52% dei laureati si ritiene una persona religiosa, il 24% è non religioso e il 19% è ateo.

Gli USA, come abbiamo visto, sono uno dei Paesi che ha risentito maggiormente della secolarizzazione in questi ultimi anni (anche se uno stesso sondaggio “Gallup” aveva rilevato nel 2011 che il 92% degli americani crede in Dio). Significativo che contemporaneamente sia uscita una relazione che esamina i casi giudiziari degli ultimi anni, trovando che l’ostilità nei confronti della religione è cresciuta a livelli senza precedenti negli Stati Uniti, proprio in questi ultimi 10 anni. Si parla di un “problema molto reale”. In Francia accade lo stesso, l’ateismo è cresciuto del 15% negli ultimi anni e la Gendarmeria francese ha mostrato come ogni due giorni ormai vi sia un atto di vandalismo verso una Chiesa o un luogo cristiano. Inutile proseguire citando in muerosi atti di discriminazione presenti negli altri Stati “fortemente atei”, come la Cina o la Corea del Nord.

La correlazione tra l’aumento secolarizzazione/violenza contro religiosi non è scientificamente provata (non potrebbe esserlo), ma tuttavia è osservabile una crescita simultanea e parallela, come abbiamo mostrato, molto probabilmente non casuale.

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«Sono cresciuto con genitori omosessuali, è stata una disgrazia»

Robert LopezIn Italia è recentemente uscito il libro di Dawn Stefanowicz, intitolato Fuori dal Buio, la mia vita con un padre gay” (edizioni Ares 2012), nel quale ha trovato il coraggio di raccontare la sua crescita con un padre omosessuale e a stretto contatto con la comunità LGBT di Toronto (Canada). Un’infanzia rovinata, «sono stata esposta a manifestazioni della sessualità di tutti i tipi […]non ho mai visto il valore delle differenze biologiche complementari tra uomini e donne […] la promiscuità mi sembrava la cosa più normale».

Ad inizio agosto Robert Lopez, docente di lingua inglese presso la California State University di Northridge, ha fatto “coming out” e ha a sua volta raccontato la sua infanzia: «crescere con genitori omosessuali è stato molto difficile, e non a causa di pregiudizi da parte dei vicini. Le persone della nostra comunità non sapevano bene cosa stava succedendo in casa»ha spiegato su “Public Discourse: Ethics, Law, and the Common Good”«I miei coetanei», ha continuato, «hanno imparato tutte le regole non scritte di comportamento e di linguaggio del corpo all’interno delle loro case, hanno capito quello che era il caso di dire e non dire in certi contesti, hanno imparato i meccanismi sociali tradizionalmente maschili e femminili.  Anche se i genitori dei miei coetanei erano divorziati, sono comunque cresciuti osservando modelli sociali maschili e femminili». Così, «ho avuto pochi spunti sociali da offrire a potenziali amici di sesso maschile o femminile, dal momento che non ero né sicuro né sensibile verso gli altri. Raramente ho fatto amicizia, e facilmente mi sono alienato dagli altri […]. Molti gay non si rendono conto di quale benedizione è essere allevato in una famiglia tradizionale».

Ancora oggi, ha continuato nel suo racconto Lopez, «ho pochissimi amici e spesso non capisco la gente a causa dei segnali di genere non detti che sono tutti intorno a me, i quali vengono dati per scontati anche dai gay allevati in famiglie tradizionali. Ho difficoltà nell’ambiente professionale, perché i colleghi mi trovano bizzarro»«Non avevo idea di come farmi attraente verso le ragazze», ha proseguito. «Sono stato subito etichettato come un emarginato a causa dei miei modi di fare da ragazzina, abiti divertenti e stravaganti». Arrivato al college Lopez è stato spinto a dichiararsi omosessuale, ma «quando ho detto di essere bisessuale non mi hanno creduto, affermando che non era pronto ad uscire allo scoperto come gay». Abbandonato il college, finalmente a 28 anni ha avuto una prima esperienza sentimentale con una donna.

Il docente universitario ha quindi citato e valorizzato lo studio sopra citato di Mark Regnerus, il quale -ha affermato Lopez- «merita fiducia e la tremenda comunità gay dovrebbe essere a lui grata piuttosto che cercare di farlo tacere». Regnerus ha fatto parlare i bambini cresciuti in relazioni omosessuali e «il movimento LGBT sta facendo tutto il possibile per fare in modo che nessuno li ascolti […]. Ringrazio Mark Regnerus perché il suo lavoro riconosce ciò che il movimento attivista gay ha cercato faticosamente di cancellare, o almeno ignorare […]. I figli di coppie dello stesso sesso hanno una strada difficile davanti a loro, lo so, perché lo sono stato anch’io. L’ultima cosa che dobbiamo fare è di farli sentire in colpa se la tensione arriva a loro e se si sentono strani. Dobbiamo loro, come minimo, una dose di onestàGrazie, Marco Regnerus, per aver trovato il tempo di ascoltare».

Oggi Lopez è un padre e, racconta, «ho messo da parte il mio passato omosessuale e giurato di non divorziare da mia moglie o di andare con un’altra persona, uomo o donna, prima di morire. Ho scelto questo impegno, al fine di proteggere i miei figli da un dramma dannoso, che rimarrà anche quando cresceranno e diventeranno adulti».

Ricordiamo che la rivista scientifica “Social Science Research” ha pubblicato nel giugno scorso due studi sulle problematiche dei bambini cresciuti all’interno di una relazione omosessuale. Il primo è quello del sociologo dell’Università del Texas, Mark Regnerus, basato sul più grande campione rappresentativo casuale a livello nazionale, il quale ha intervistato direttamente i “figli” (ormai cresciuti) di genitori omosessuali, dimostrando un significativo aumento del tasso di malessere esistenziale. Il secondo studio è stato realizzato da Loren Marks, nel quale è stata confutata la posizione (politica) dell’American Psychological Association (APA), secondo la quale i figli di genitori gay o lesbiche non sarebbero svantaggiati rispetto a quelli di coppie eteorsessuali, analizzando i 59 studi a sostegno di tale tesi, dimostrandone la scarsa rilevanza scientifica.

Un gruppo di 18 scienziati e docenti universitari ha pubblicato un comunicato sul sito della “Baylor University” sostenendo e approvando l’attendibilità statistica e metodologica dello studio maggiormente criticato dalla lobby gay, ovvero quello di Regnerus. Ad essi si è aggiunto lo psichiatra americano Keith Russell Ablow, collaboratore del ”New York Times” e di Fox News. Poco tempo dopo un terzo studio in peer-review, realizzato da Daniel Potter dell’American Institutes for Research e pubblicato sul “Journal of Marriage and Family”, si è a sua volta concentrato sui bambini cresciuti all’interno di relazioni dello stesso sesso, paragonandoli a quelli cresciuti con genitori di sesso opposto. Ha concluso che «i bambini cresciuti in famiglie tradizionali (vale a dire, con i due genitori biologici sposati) tendono a fare meglio dei loro coetanei cresciuti in famiglie non tradizionali», poiché nei test a loro sottoposti, «i bambini cresciuti da famiglie dello stesso sesso hanno riscontrato un punteggio più basso rispetto ai loro coetanei cresciuti in famiglie biologiche e sposate». 

La redazione

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