USA: gli stati più religiosi sono anche quelli più generosi

Un recente studio del Chronicle of Philanthropy ha portato alla luce che negli Usa gli stati più religiosi sono anche quelli più generosi.

Confrontando i dati relativi alle donazioni del 2008, diffusi dall’Internal Revenue Service, si è notato come gli stati del nord-est siano i meno caritatevoli. I primi cinque di questa classifica sono il New Hampshire, Maine, Vermont, Massachusetts e Rhode Island. Invece tra i più generosi compaiono il Mississippi, Alabama, Tennessee e Carolina del Sud, tutti stati situati al sud, sia di antica tradizione cattolica sia attualmente con forti presenze mormoni, la cui comunità, per chi non lo sapesse, chiede ai suoi membri di dare per la beneficenza il 10 per cento dei propri profitti. Infatti in aggiunta agli Stati sopra menzionati, il “Christian Post”  cita anche lo Utah e l’Idaho, dove possiamo trovare un’alta presenza di religiosi mormoni.

Sempre da questo studio emerge come siano più generosi i militanti del partito repubblicano piuttosto che quelli appartenenti al partito democratico. Risulta che 8 su 10 dei dieci stati americani più generosi abbiano votato nelle elezioni del 2008 per il candidato conservatore John McCain. Mentre 9 su 10 di quelli meno generosi per Obama.

Così scrive Bill Donohue, presidente della Lega Cattolica, in un suo comunicato: «E’ ben noto che i liberali siano molto meno religiosi dei conservatori». «La differenza è che i liberali pensano di risolvere i problemi della povertà con l’aumento delle tasse, prelevare soldi da investire poi nel welfare. Infatti fanno meno volontariato, sono più refrattari ad aiutare i bisognosi e quelli che cercano lavoro».

Siamo davanti ad uno studio molto interessante, che chiaramente non intende valere come dato inficiante ogni appartenente a quel determinato partito o stato. Qui si può visionare una cartina degli Stati Uniti con le percentuali relative allo studio citato.

Luca Bernardi

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Margherita Hack lo riconosce: «come scienziata non ho scoperto nulla»


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

Inizio questa mio articolo riguardo alle battaglie culturali di Margherita Hack con una precisazione. La Hack viene presentata dai suoi fans come la «voce della scienza». Si cerca di proporre questa equazione: è una scienziata, quindi, quando parla lei, parla la scienza. In altre parole: ciò che dice lei è sempre esatto, come una formula matematica o come la legge di gravita. L’equazione, falsa, funziona presso il grande pubblico per un semplice fatto: che una laurea in astrofisica fa sempre la sua impressione.

Eppure, occorre dire subito tre cose. La prima: la Hack è al centro dell’attenzione più che per i suoi meriti scientifici, per le sue posizioni in campo etico, essendo sostenitrice del testamento biologico, del matrimonio omosessuale e della liceità della ricerca sulle staminali embrionali. In campo etico, però, gli scienziati non godono di nessuno status privilegiato. La storia è piena di illustri ricercatori che hanno servito il “razzismo scientifico”, la costruzione di armi di distruzione di massa, gli esperimenti nazisti sull’uomo… La seconda: non basta una laurea in astrofisica per essere un grande astrofisico. Come non basta laurearsi in filosofia per poter sedere accanto a Socrate o a san Tommaso. La terza: è stata la stessa Hack, in varie occasioni, ad aver sostenuto con umiltà di non essere quel mostro della scienza che qualcuno, strumentalmente, vuole far credere. Quando il giornalista ateo Paolo Flores d’Arcais propose la candidatura della Hack a palazzo Madama con nomina presidenziale, lei stessa dichiarò: «È un onore, ma non credo di meritarlo, non ho scoperto nulla». Così è, in effetti. La Hack è un’abile divulgatrice, ma la sua fama è legata più che altro, come si è detto, alle sue dichiarazioni in campo etico, alla sua militanza comunista e alle sue frequenti apparizioni televisive.

Fatte queste dovute premesse, esordisco da un articolo che la Hack scrisse su «Social News» del settembre 2009. In esso si faceva una durissima requisitoria contro la Chiesa Cattolica, colpevole (a suo dire) di aver sempre lottato con ottusa ferocia contro la scienza. Dopo alcune affermazioni storicamente infondate, la Hack arriva dove voleva arrivare: cioè a sostenere che la Chiesa, oggi, opponendosi alla ricerca, uccisiva, sugli embrioni umani, ripeterebbe i mitici errori del passato: «la ricerca sulle staminali embrionali è essenziale perché la Scienza ha dimostrato che può permettere la guarigione di malattie fino ad oggi inguaribili. Frenarla per questioni religiose e ideologiche è un delitto…». La scienza, scrive la Hack, «ha dimostrato»: se le parole hanno un significato, ciò vorrebbe dire che oggi sono possibili svariate cure attraverso l’uso delle staminali embrionali. Invece non è affatto vero. All’epoca non esisteva una sola cura del genere. Ma la Hack continuava la sua requisitoria: «l’embrione è solo una cellula», di cui, evidentemente, si può fare ciò che si vuole. Peccato che sia una cellula con 46 cromosomi, cioè appartenente alla specie umana, e che ognuno di noi, quindi, sia stato null’altro che un em­brione: però lasciato vivere. La definizione dell’embrione umano data dalla Hack potrebbe però, a rigore, essere adattata così: perché non sperimentare sull’uomo, che «non è altro che un ammasso di cellule»?

Dall’articolo in questione, passo ad una delle ultime fatiche della Hack, “Perché sono vegetariana”. In essa la Hack riassume fatti e idee fondamentali della sua vita. Prima di analizzarli vorrei però riflettere su due vicende: la nascita della Hack a Firenze, in via Ximenes, e il conferimento alla Hack, nel 1994, del premio scientifico denominato «Targa Piazzi». Ximenes e Piazzi: chi erano costoro? Leonardo Ximenes (1716-1786) fu un sacerdote della Toscana del Settecento. Astronomo, geografo di sua maestà imperiale Francesco Stefano, matematico reale dell’arciduca Pietro Leopoldo di Toscana, tra le altre cose fondò l’osservatorio astronomico di Firenze che ancora oggi porta il suo nome e fu impegnato per un trentennio (1755-1785) nei principali lavo­ri idraulici e stradali del Granducato e di altri Stati italiani. E Piazzi? Giuseppe Piazzi (1746-1826) fu un sacerdote teatino, fondatore e direttore dei prestigiosi osservatori astronomici di Palermo e Capodimonte. Nel 1801 inoltre scoprì il primo degli asteroidi, cui dette il nome di Cerere, assurgendo così a fama internazionale. Casi isolati di cattolici e di sacerdoti, amici dell’astronomia, più unici che rari? Al contrario. Sarà bene ricordare che sino al 1750 circa furono per lo più le cattedrali a fungere da embrionali osservatori astronomici e a fornire lo spazio per la costruzione di importanti meridiane, tra cui quella, celeberrima, di Bologna. E proprio a Bologna, città dello Stato pontificio, nacque nel XVI secolo il primo osservatorio astronomico, con il consenso e il supporto finanziario della Santa Sede e di altre autorità ecclesiastiche. 

Tornando agli anni di Piazzi e Ximenes, fu l’abate Giuseppe Toaldo (1719-1797) l’autore del progetto di conversione della Torlonga nell’Osservatorio Astronomico di Padova. Analogamente a Firenze, Padova, Palermo, Napoli, Roma ecc., anche a Torino le origini delle locali ricerche astronomiche videro protagonista un sacerdote, che è stato anche il padre dell’elettricismo italiano: il sacerdote scolopio Giovanni Battista Beccaria (1716-1781). Potrei continuare a lungo, elencando i circa 40 gesuiti astronomi cui sono dedicati crateri lunari, oppure il fatto che gran parte della meteorologia e della sismologia nacquero grazie a monaci e religiosi. Per brevità, però, basti ricordare alla Hack e ai suoi fans che nella storia dell’astronomia i grandi nomi non sono quelli di atei (nessuno), ma quelli dell’ecclesiastico Niccolo Copernico; del cattolico Galilei; del fervente cristiano protestante Keplero; del fondatore della spettroscopia e pioniere dell’astrofisica moderna padre Angelo Secchi… per arrivare, in tempi più recenti, al sacerdote che per primo ipotizzò l’espansione delle galassie e il Big bang, Georges Edouard Lemaitre (1894-1966).

Dopo questa digressione, torniamo al librino in questione. In esso la Hack sostiene, in coerenza con la dottrina teosofica ricevuta in eredità dai genitori, e in accordo con le religioni orientali di origine indiana, di cui si dichiara ammiratrice, il vegetarianesimo e l’animalismo. Il testo è dunque una descrizione minuziosa delle sofferenze degli animali sottoposti a macellazione, sperimentazione e quant’altro, intessuta di strali verso la religione cattolica e di professioni di fede materialista. Interessa qui riflettere almeno su due fatti. Il primo: l’esaltazione delle filosofie induiste, proposta ad ogni pie sospinto in alternativa al cristianesimo, occulta il fatto che nella storia della scienza le religioni orientali non solo non hanno dato alcun contributo, ma anzi hanno funto e fungono tutt’oggi di ostacolo a qualsiasi progresso scientifico. Il secondo: la concezione della Hack porta coerentemente ad annullare la specificità dell’uomo, ridotto ad un aggregato di materia senza alcuno scopo ultimo. Così, per riallacciarmi a quanto si diceva all’inizio, allorché si ricordava l’assoluto disprezzo della Hack per l’embrione umano, rimane una forte perplessità: come può la celebre opinionista stracciarsi le vesti con tanta, encomiabile, passione, per la salvezza degli animali, senza mai spendere una parola che sia una contro la vivisezione e la macellazione degli embrioni e dei feti umani con l’aborto, la sperimentazione in laboratorio, la clonazione…?

Può, certamente, perché anche la Hack appartiene a quella grande famiglia (che va dai verdi nazisti sino a Peter Singer, passando per quella bioeticista italiana che ha riproposto recentemente la liceità dell’infanticidio) che, negando l’esistenza di Dio e dell’anima immortale, finiscono poi per abbassare l’uomo sotto il livello dell’animale. Così, ancora una volta, diventa chiaro che senza Dio anche l’uomo è destinato a perdere il suo valore e significato.

da “Il Timone“, luglio-agosto 2012 (n.115)

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L’ex 007 rumeno: «leggenda contro Pio XII creata dai sovietici»

La cosa forse più bizzarra nelle polemiche riguardanti Pio XII è il mutato atteggiamento degli ebrei nei suoi confronti. Se durante la sua vita fu ringraziato da parecchi di loro per l’aiuto offertogli durante la guerra, tanto che alla vigilia della sua morte la stessa Golda Meir ebbe per lui parole d’elogio, negli anni successivi verrà invece accusato da molti del fatto di non aver denunciato pubblicamente l’Olocausto e di non avere fatto tutto quello che era nelle sue possibilità per fermare il genocidio.

Uno dei motivi di questa triste svolta è dovuto probabilmente alla messa in scena dell’opera di Rolf Hocchuth, “Il Vicario”. In questa opera teatrale, Pio XII venne raffigurato come un freddo e spietato uomo di potere, preoccupato della salvaguardia dei suoi tesori e indifferente verso la sorte degli ebrei. L’opera ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica sebbene fosse dal punto di vista storico gravemente carente tanto da essere oggi ritenuta inattendibile anche da storici non vicini alla Chiesa. Si scoprì in seguito, inoltre, che il drammaturgo tedesco era nientemeno che un amico e difensore del noto negazionista David Irving.

Un ulteriore ombra su questo lavoro è data della ammissione dell’ex capo dei servizi segreti rumeni, il generale Ion Mihai Pacepa, che sostiene che esistano «una quantità di prove di un certo peso che dimostrano come il ritratto di Pio XII come papa di Hitler sia nato a Mosca». L’ex agente segreto spiega infatti, che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica cercò di dipingere Pacelli come un feroce collaboratore del nazismo per combattere l’anticomunismo della Chiesa. Vennero perciò falsificati dei documenti per provare la colpevolezza del papa ed è attraverso questo materiale che Hocchuth prenderà spunto dall’opera. La tesi di Paceva verrà pubblicata in un volume dal titolo “Disinformazione”scritto a quattro mani con lo storico americano Ronald Rychlak, inizialmente scettico.

L’attendibilità della tesi di Pacepa è ancora oggetto di controversie tra gli storici, ciò che invece è certo e documentato è il dissidio esistente tra il Vaticano e il nazismo.  Basta pensare che già Pacelli, ancora prima di diventare pontefice, ebbe modo di condannare il neopaganesimo dei nazisti, affermando a ridosso della pubblicazione dell’enciclica Mit brenneder sorge: «Il movimento del Reich si è sempre più compromesso con delle idee, degli orientamenti e dei gruppi ideologici, il cui obiettivo è quello di distruggere la fede cristiana e asservire la Chiesa». È altamente improbabile, del resto, che una pubblica denuncia sarebbe stata in grado di fermare lo sterminio, anzi probabilmente avrebbe scatenato ulteriori rappresaglie aumentando il numero dei morti e scatenato nuove polemiche.

Lo ha bene affermato il vescovo Jorge Mejia: «Se Pio XII avesse condannato i crimini di Hitler, tenendo conto delle possibili conseguenze di un tale passo, il mondo oggi s’indignerebbe per il fatto che per salvare la propria immagine, avrebbe esposto la vita di innocenti».

Mattia Ferrari

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Chiusa l’indagine sul prof. Regnerus: «valido lo studio contro adozioni gay»

Il responso finale dell’Università del Texsas sullo studio scientifico realizzato dal sociologo Mark Regnerus si è rivelato un durissimo colpo per la lobby LGBT, anzi un vero e proprio boomerang.

Come abbiamo scritto in Ultimissima 20/06/12, la prestigiosa rivista scientifica “Social Science Research” ha pubblicato due studi in peer-review sulle problematiche dei bambini cresciuti all’interno di una relazione omosessuale. Loren Marks, della Louisiana State University, è l’autore del primo studio con il quale si è dimostrata l’infondatezza della posizione politica dell’American Psychological Association (APA), secondo la quale i figli di genitori gay o lesbiche non sarebbero svantaggiati rispetto a quelli di coppie eteorsessuali. Lo scienziato ha analizzato i 59 studi citati dall’APA per sostenere la propria tesi, dimostrandone l’inconsistenza dal punto di vista scientifico. Nessuna polemica per questo studio, accettato quasi tranquillamente.

Il secondo studio (qui il paper integrale) è stato invece realizzato dal sociologo dell’Università del Texas Mark Regnerus, il quale basandosi sul più grande campione rappresentativo casuale a livello nazionale, ha voluto far parlare direttamente i “figli” (ormai cresciuti) di genitori omosessuali, dimostrando un significativo aumento di problematiche psico-fisiche rispetto ai figli di coppie eterosessuali.

Sacrilegio! Il movimento LGBT  ha attivato tutti i suoi canali mediatici avviando una fortissima campagna di delegittimazione del povero Regnerus. La sua foto è stata sbattuta su tutti i principali quotidiani anglosassoni, accompagnata da questa serie di commenti“odioso bigotto”“gregario dell’Opus Dei”“dovrebbe vergognarsi”, ha presentano dati “intenzionalmente fuorvianti” per “cercare di screditare i genitori gay e lesbiche”, la sua è “scienza spazzatura” e “disinformazione pseudo-scientifica”. Addirittura qualcuno ha auspicato «l’inizio della fine della credibilità di Mark Regnerus per le agenzie di stampa rispettabili». Il blogger Scott Rosensweig ha anche affermato che Regnerus ha un pregiudizio anti-gay «perché lui è cattolico». Molti hanno firmato appelli perché l’Università del Texas licenziasse in tronco il ricercatore, sbattendolo sulla strada assieme alla moglie e i suoi tre bambini, altri hanno chiesto all’ateneo di attivare una sorta di Inquisizione per tentare di censurare lo studio. L’indagine interna è stata avviata, per la gioia dei detrattori della scienza e della verità che hanno moltiplicato i loro insulti verso chi citava i risultati della ricerca scientifica.

La doccia fredda è però arrivata il 29 agosto 2012, quando sul sito web dell’Università del Texas è comparso un comunicato in cui si riporta l’esito dell’indagine interna: «L’Università del Texas ha stabilito che nessuna indagine formale può essere giustificata sulle accuse di cattiva condotta scientifica presentate contro il professore associato Mark Regnerus riguardo al suo articolo pubblicato sulla rivista “Social Science Research”». Le accuse non tengono! «Non ci sono prove sufficienti per giustificare un’inchiesta», si legge ancora, tanto che «la questione si considera chiusa dal punto di vista istituzionale». L’indagine interna ha dunque riconosciuto la legittimità del lavoro e la fedeltà al protocollo seguita dalla metodologia. La libertà accademica di ricerca ha trionfato, l’oscurantismo e la censura verso risultati ritenuti scomodi dai media ha invece fallito. Il fatidico responso, così tanto invocato, avrebbe dovuto dimostrare la falsità dello studio e invece ne ha confermato la veridicità, diventando così un inaspettato boomerang.

Certamente ora l’accusa di complottismo anti-gay si sposterà da Regnerus all’Università del Texas (e al suo rettore), che però fino a ieri era considerata dal mondo LGBT un ente prestigioso poiché aveva aperto un’indagine contro lo scienziato eretico. Prevenendo questi sicuri attacchi, è utile ricordare che l’ateneo texano è classificato costantemente come una delle migliori università pubbliche degli Stati Uniti, mentre a livello internazionale si è classificata 67° tra “le migliori università del mondo” per il “US News and World Report”, 35° nel mondo per la “Shanghai Jiao Tong University”, la 49° migliore università del mondo secondo “The Economist”, ecc.

Ben prima del responso dell’Università del Texas, comunque, lo studio di Regnerus in cui si dimostra il disagio psicofisico per i figli cresciuti da genitori omosessuali, è stato approvato dal “New York Times”, dove si ricorda che «gli esperti esterni, in generale, hanno detto che la ricerca è stata rigorosa, fornendo alcuni dei migliori dati sul tema», da un gruppo di 18 scienziati e docenti universitari tramite un comunicato sul sito della “Baylor University”  e da diversi psicologi e psichiatri che hanno scelto di prendere posizione, riconoscendo l’attendibilità degli scomodi risultati.

La redazione

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Sam Harris contro PZ Myers: le guerre religiose dei “nuovi atei”

Dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001 il fondamentalismo ateo ha raccolto migliaia e migliaia di seguaci in più. Richard Dawkins ha radunato attorno a sé un gruppetto di scienziati e intellettuali estremisti (definiti “new atheist”) e ha dato loro in compito di sfruttare la loro credibilità in campo scientifico per sconfinare indebitamente nell’ambito filosofico-teologico e tentare la conversione del mondo al nichilismo antireligioso.

Ecco dunque come sono emersi soggetti come Christopher Hitchens, morto recentemente a causa di una pesante dipendenza da alcool e fumo, il quale gioiva ad ogni bomba americana che cadeva in terra afgana: «Le bombe a grappolo non sono forse buone in se stesse, ma quando cadono su concentrazioni di soldati talebani, allora hanno un effetto incoraggiante», ha detto. Ed è emerso anche Sam Harris, filosofo e apprendista neuroscienziato, autore di “La fine della fede” (2004) e “Lettera a una nazione cristiana” (2008). Il primo libro è ancora una volta, come per Hitchens, un durissimo attacco all’Islam e poi generalizzando a tutte le religioni. Il secondo libro è un pochino più divertente, curioso ad esempio quando Harris nella sua promozione dell’ateismo cerca di rispondere a chi afferma che «mostri come Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot e Kim Il Sung sono nati nel grembo dell’ateismo». A parte Hitler, per tutti gli altri è evidentemente così, ognuno di loro ha instaurato l’ateismo di stato nel loro Paese. Infatti Harris lo riconosce: «pur essendo vero che a volte questi uomini sono stati nemici della religione organizzata. tuttavia non si sono mai distinti per la loro razionalità». Questa giustificazione è davvero superlativa, tanto che Francesco Agnoli ha commentato tra il divertito e l’allibito: quindi per Harris «ogni azione cattiva di un credente è determinata dalla sua fede, mentre le atrocità dei tiranni del Novecento, il secolo più ateo della storia, sarebbero dovute a mancanza di razionalità» (F. Agnoli, Perché non possiamo essere atei, Piemme 2009, pag. 156).

Di razionalità in questi sedicenti “new atheist” ce n’è ben poca. Non solo per le clamorose falle presenti nei loro argomenti di propaganda, ma -lo si nota- anche per le sciocche guerre religiose che combattono non soltanto verso i credenti, ma anche fra di loro: nel mese di agosto si è assistito, ad esempio, ad uno scambio di insulti e accuse tra due dei più noti esponenti: Sam Harris, appunto e il blogger biologo PZ Myers, già vincitore del premio “Idiota della settimana” elargito dal sito “Atheist Revolution”.

Tutto è nato da alcuni recenti articoli davvero critici nei confronti di Harris. Su “Mondoweiss”, ad esempio, l’ex musulmano Theodore Sayeed lo ha attaccato per il suo odio verso l’Islam e i territori musulmani -come detto sopra- e la sua posizione di difesa verso Israele. Su “Alternet”, invece, Harris è stato citato tra i 5 atei più terribili, ovvero coloro che «credono in alcune cose potentemente stupide, erodendo la credibilità di tutti gli atei». Viene definito senza mezzi termini «un inquietante anti-musulmano, in confluenza tra atei e neo-conservatori […]. Harris non riesce regolarmente a dimostrare la minima capacità di ragionare». Nell’articolo si fa rifermento, oltre al resto, ad un articolo scritto dal filosofo ateista in difesa della tortura.

Quest’ultimo articolo è stato ripreso da PZ Myers sul suo blog, il quale ha condiviso il contenuto affermando: «credo che le critiche proposte in questo articolo siano tutte corrette, ma mi rifiuto di credere che nessuno di loro [si parla dei cinque atei più terribili, tra cui Harris, nda] sia irredimibile». Di fronte a tutta questa serie di attacchi, Harris non ci ha visto più e dal suo blog ha pensato di rispondere con toni sconsolati. Proprio lui che è abituato ad offendere e diffamare le persone religiose, si è lamentato perché Internet «permette distorsioni di fatti e opinioni», sbraitando contro «gli attacchi persistenti e fuorvianti sul mio lavoro che continuano a emergere su Internet». Rispetto al suo collega di fede PZ Myers, ha affermato: «ho poi sentito che l’articolo dei “5 atei più terribili” è stato approvato con gioia da quel pastore troll di internet PZ Myers, amplificandone il suo effetto». Ha parlato del «blog odioso di PZ Myers», di «persone senza scrupoli come PZ Myers», il quale risponde ai tentativi di chiarimento continuando ad «attaccarmi ulteriormente e ad approvare le false accuse degli altri». Ha ritenuto infine PZ Myers responsabile «delle rivendicazioni più spregevoli su di me che appaiono nei commenti» del suo blog, è lui il responsabile «della circolazione e amplificazione di alcune delle peggiori distorsioni di mie opinioni trovate su Internet».

PZ Myers ha quindi replicato ironico sul suo blog: «Harris è chiaramente molto irritato […]. Sam Harris è stato un contributo significativo al movimento ateo, ed è molto più conosciuto di me». Non vi fa ridere sentir parlare di “movimento ateo”?? «Ma questo non lo rende perfetto», ha continuato prima di continuare a prenderlo in giro organizzando un finto sondaggio tra i suoi lettori, insomma le solite sciocchezze con cui ama perdere tempo il biologo cinquantacinquenne. Harris, in definitiva, ci ha effettivamente preso quando lo definisce «blog odioso».

La morale di questa ennesima prova di immaturità intellettuale da parte dei sedicenti “liberi pensatori” è riassumibile con una frase evangelica modificata: “chi di macchina del fango ferisce, di macchina del fango perisce”: la diffamazione per anni propagandata contro i credenti, ora viene usata dagli stessi autori per combattersi tra di loro.  Intanto su “Il Guardian” si informa che non solo i leader atei, ma anche i militanti di base americani stanno vivendo ore di forte scissione combattendosi tra di loro «piuttosto che combattere i credenti». 

La domanda è: ma perché hanno bisogno di sentirsi a tutti i costi in guerra contro qualcuno?

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Il cristianesimo la sola via per il riscatto degli “intoccabili” in India

Il plurisecolare sistema sociale basato sulle caste, tipico dell’induismo, conosce ancora oggi la figura dei dalit, definiti anche come “paria”. Sono in pratica gli “intoccabili”– anche se in realtà il termine nel suo vero significato li qualificherebbe come gli “oppressi”, esclusi da qualunque speranza di una vita migliore a causa di questa rigidissima e consolidata suddivisione in caste della società indiana.

La storia dell’India in realtà ha registrato una crescita nei dalit della consapevolezza dei loro diritti con significativi riconoscimenti nei testi legislativi a loro favore: nonostante la discriminazione di casta, non il sistema delle caste in sé, sia stata formalmente abolita nel 1950 dopo il riconoscimento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, l’applicazione della legge ha lasciato molto a desiderare e i dalit restano ancora oggi vittime di emarginazione e abusi e il loro status sociale li mantiene ai margini della società.
Negli ultimi decenni la penetrazione del cristianesimo in India, grazie all’opera della Chiesa Cattolica e di altre denominazioni cristiane, sta producendo degli importanti frutti che possono contribuire a quel riscatto che da tanti decenni è solamente sperato ma non pienamente realizzato.

A riprova di ciò, citiamo un recente articolo dove si tirano le somme su quanto sta avvenendo in India e come il cristianesimo stia determinando un cambiamento lento ma duraturo nel paese. Secondo Jeevaline Kumar, responsabile della Operation Mobilization’s Anti-Human Trafficking Project in Bangalore e della India’s Dalit and Women’s Advocacy, «il messaggio centrale del cristianesimo, quello basato sulla scoperta dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, ha per i dalit una notevole importanza perché prendono coscienza del fatto che la loro vita può cambiare realmente». «Le donne», spiega la Kumar, «sono i dalit dei dalit, in quanto molte di loro sono costrette alla prostituzione, sia in un bordello o in un tempio dove sussiste questa pratica sacralizzata».

Un disprezzo ancor più atroce perché il sistema delle caste insegna appunto che le donne dalit sono impure fin dalla nascita ma – osserva amaramente la Kumar – «quando si tratta di sesso, nessuno pensa a loro come intoccabili». Recentemente, la Kumar ha contribuito ad organizzare una cerimonia di laurea per 106 donne che hanno completato i corsi di studio con ottimo profitto. La maggior parte di queste donne è stata privata perfino del diritto ad una infanzia serena a causa delle discriminazioni di casta. Il messaggio del Vangelo «ha restituito loro dignità e coraggio e sono certa che tutte loro si sono riappropriate della loro infanzia».

Un segnale di speranza vera per un grande paese che negli ultimi anni ha conosciuto una entusiasmante crescita economica ma che ancora si trascina laceranti ed intollerabili discriminazioni in campo sociale con enormi quantità di uomini e donne esclusi da ogni diritto.

Salvatore Di Majo

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Eutanasia, ovvero quello che i malati non vogliono

Come c’era da aspettarsi la scomparsa di Tony Nicklinson (1953-2012), l’uomo inglese affetto dalla sindrome locked-in che dal 2010 lottava per il diritto a morire e deceduto la settimana scorsa per cause naturali, ha riacceso il dibattito sul tema della cosiddetta «dolce morte». L’eutanasia è giusta? A certe condizioni è lecito chiedere di farla finita oppure l’indisponibilità della vita umana è un valore «non negoziabile», che quindi non ammette eccezioni? Queste le domande attorno a cui non si finisce d’interrogarsi e, spesso, di dividersi.

Ci sono però, sempre in tema di “fine vita”, anche altri interrogativi almeno altrettanto urgenti eppure quasi sempre elusi. Per esempio: chi richiede davvero l’eutanasia? Qual è la reale volontà dei malati? I “casi mediatici” come quello di Nicklinson sono realmente rappresentativi delle istanze di coloro che versano in condizioni di difficoltà? E se non lo sono, perché vengono continuamente riproposti e seguiti dai mass media?

Uno sguardo più ampio rispetto a quello offertoci dai titoli di quotidiani e telegiornali può farci scoprire storie davvero sorprendenti. Come quella di madame Maryannick Pavageau, francese affetta da oltre trent’anni dalla sindrome locked-in – la stessa di Nicklinson – e insignita nientemeno che della Légion d’honneur per il coraggio con cui non ha mai smesso di battersi contro l’eutanasia. Particolarmente toccanti sono le sue parole allorquando, parlando a nome di quanti versano nella sua medesima condizione, lamenta che sovente in risposta allo sconforto viene loro offerta solo una cosa: il diritto a morire, ipocritamente presentato quale «geste d’amour». Facile, a questo punto, l’obiezione: ma quello Pavageau, come quello Nicklinson, è comunque un caso singolo. Chi ci assicura che quello della signora francese sia un caso più significativo?

Una risposta l’abbiamo e ci proviene dalla ricerca scientifica; precisamente dalla più vasta indagine mai eseguita, e pubblicata lo scorso anno, proprio sui soggetti affetti dalla sindrome locked-in. Ebbene, gli esiti di questo studio – condotto su un campione di ben 168 persone – sono stati piuttosto netti: appena il 7% ha manifestato pensieri o intenzioni di morte. Un dato quanto meno sorprendente se si considera, per esempio, che è 10 volte inferiore a quello (67%) rilevato sondando il parere degli italiani sull’eutanasia (cfr. Indagine Eurispes 2007 cit. in Cornaglia Ferraris P. “Accanimento di Stato. Perchè in Italia è diventato difficile persino morire”, Piemme, Milano 2012, p. 90).

Cade così un falso mito, e cioè l’idea che quella eutanasica costituisca una priorità rivendicata dai malati più gravi, che dovrebbero essere gli esclusivi titolari del “diritto a morire” (cfr, Casini M. prefazione a Gozzi G. “Senso e responsabilità nel suicidio assistito e nell’eutanasia. Una riflessione biogiuridica”. Editrice Veneta, Vicenza 2010, p. 15). Ebbene, non è così. E’ vero invece che frequentemente taluni casi singoli, quasi sempre contrassegnati dalla volontà del protagonista di ottenere la propria morte, divengano oggetto di interesse mediatico prolungato, dando così l’impressione – in vero fallace e fuorviante – che versare in condizioni difficili o drammatiche equivalga ipso facto a ritrovarsi in una condizione orribile, insopportabile, da superarsi presto e con la morte (cfr. Guzzo G. “Eutanasia, mass media e consenso sociale”. «Medicina e morale» 2011; 61(1):43–60).

In realtà, come abbiamo visto, a questa diffusa percezione corrisponde un riscontro fattuale di segno opposto: i malati non chiedono affatto la «dolce morte». E quando si verificano casi particolari nei quali la persona chiede l’eutanasia, è bene – senza far venir naturalmente meno il rispetto e l’attenzione che ciascuna persona merita, tanto più se malata o disabile – considerare che non di rado quanti sono in una condizione difficile terminale risultano affetti da depressione; uno su cinque lo è, per esempio,tra i malati di cancro. Pertanto una richiesta di morte, più che ad un reale desiderio – per il quale rimarrebbero comunque valide delle obiezioni di carattere mortale, che non abbiamo qui lo spazio di approfondire – equivale spesso ad una richiesta di aiuto o ad una sofferenza morale prima che fisica, spirituale prima che corporea. Esemplare, a questo proposito, il processo celebratosi «il Olanda nel 1973 contro il dott. Potsma, accusato di aver soppresso la propria madre, malata terminale di tumore. Alla richiesta se i dolori della donna avessero raggiunto il limite dell’intollerabilità, l’accusato risposte: “No, non erano intollerabili. Certamente le sue sofferenza fisiche erano aspre. Ma erano le sue sofferenze spirituali ad essere divenute insopportabili”» (D’Agostino F., “L’eutanasia come problema giuridico”, «Archivio Giuridico», Mucchi Editore, Modena 1987, p. 37).

Ora, stando così le cose è doppiamente evidente come giammai la «dolce morte» possa costituire una soluzione accettabile dal momento che – anche sorvolando il non trascurabile lato morale – trattasi di risposta fisica ad una sofferenza morale. Una sofferenza che deve essere individuata e affrontata con decisione ma anche, e soprattutto, con umanità. Senza farsi tentare dalla scorciatoia d’un presunto «geste d’amour».

Giuliano Guzzo

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La morte del card. Martini, grande uomo rasente al precipizio

E’ morto il card. Carlo Maria Martini, ex arcivescovo di Milano e insigne biblista, ieri si sono svolti nel Duomo di Milano i funerali officiati dal card. Angelo Scola e mons. Angelo Comastri, vicario di Benedetto XVI, davanti a circa ventimila persone. Definito il “cardinale del dialogo”, anche grazie all’iniziativa della “Cattedra dei non credenti” (è stata ispirata dal cardinal Ratzinger), la sua dipartita è stata -come prevedibile- fomentatrice di molte discussioni, tante quante ci sono sempre state durante il suo cammino terreno come membro della Chiesa.

Diverse le questioni emerse da approfondire: 1) la strumentalizzazione laicista della sua persona; 2) le condizioni in cui è morto; 3) l’eredità che lascia nella Chiesa; 4) le presunte contraddizioni con la visione cattolica su determinati temi; 5) la sua comunione con la Chiesa, spiegata nella nostra conclusione.

 

1) L’INDEBITA STRUMENTALIZZAZIONE LAICISTA
Come già accaduto in modo simile per la morte di Lucio Dalla, anche per Martini la stampa laicista ha cercato una strumentalizzazione per aggredire la Chiesa. La sua celebrazione su quotidiani come Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano” (qui il ridicolo tentativo di Padellaro e Travaglio) e il “Corriere della Sera” è davvero stucchevole, giustamente Antonio Socci ha ricordato le parole di Gesù quando ammonì i suoi così:  «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Luca 6,24-26). Ma perché viene osannato? Perché «non ragionava come un uomo della Chiesa, non sembrava un Cardinale», ha riassunto un intervistato. Questo è il motivo: per i laicisti era fuori dalla Chiesa, anzi era “uno di noi”, e per questo merita l’onore di Michele Serra, che lo ha definito “il capo dell’opposizione”, «un santino dei radical chic, un Papa perfetto per coloro che non credono al Papa, il guru di una religione cattolica che piace molto a coloro che si professano non cattolici», ha spiegato Mario Giordano.

Ma non c’è «torto più grande non si possa fare al cardinale Martini che trasformarlo nel Pontefice Massimo Alternativo» (come sottolineato su L’Occidentale), per questo il “Corriere della Sera”, di cui era collaboratore, lo ha tradito in modo vergognoso. “Fredduccio” De Bortoli ha anche pensato di ricattare il Pontefice affermando che «sarebbe un gesto simbolico per l’unità della Chiesa se Benedetto XVI venisse al suo funerale», ma è un evento che non si è mai verificato.

Si è perfino mosso il laicista Vito Mancuso parlando di Martini come suo “padre spirituale”ed elogiando «il cattolicesimo progressista», come «quell’ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo». Ma che significa essere (sempre e solo) a favore della “vita del mondo”? I cattolici non progressisti sarebbero invece contrari alla “vita del mondo”? Mah…poveri studenti dell’Università san Raffaele! Mancuso ha poi ricordato che, quando era giovane, da Martini «avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico», per nulla pertinente con la Chiesa dunque, come di fatto Mancuso è diventato (e invece Martini no). Più interessante il ricordo di Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica”, nonostante il tentativo di far passare l’idea che Martini si sia lasciato morire in contraddizione con la visione cattolica.

 

2) LA MORTE CATTOLICA DEL CARD. MARTINI 
Scalfari ha scritto che Martini «ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita» e lo stesso ha fatto la mandria di Radicali (più Paola Concia, il premio Nobel -rubato- Dario Fo, Mina Welby e Peppo Englaro) che hanno voluto strumentalizzare la morte del cardinale per aggredire la Chiesa. Tuttavia «Martini non era attaccato a una macchina per continuare a vivere», come hanno risposto i medici. Ha scelto di non sottostare ad alcun accanimento terapeutico: in concreto, il cardinale, malato di morbo di Parkinson da diciassette anni e arrivato a una fase della patologia tale da impedirgli la deglutizione, ha deciso di non farsi applicare un sondino per la nutrizione artificiale.

Nonostante i tentativi de “Corriere della Sera” e de “L’Espresso”, nessun paragone possibile si può fare con il caso di Eluana Englaro (non era in fase terminale e non scelse lei di togliere il sondino) e Piergiorgio Welby (che invocava una sedazione letale), come spiegato da monsignor Roberto Colombo, docente alla facoltà di Medicina dell’Ospedale Gemelli di Roma (anche qui). Il rifiuto dell’accanimento terapeutico, cioè ad interventi inutili e invasivi, è un diritto sacrosantocome recita il documento della Pontificia Accademia per la vita. L’opposizione anche della Chiesa all’accanimento terapeutico e la corretta scelta del card. Martini è stata sottolineata anche dal cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, dal filosofo Giovanni Realedall’arcivescovo Bruno Forte dal professor Girolamo Sirchia (oltre a diversi altri organi di stampa, fortunatamente).

 

3) BUON PADRE DI PESSIMI FIGLI
Martini è stato un buon padre di pessimi figli, riferimento di quella intellighenzia subdolamente anticattolica e filolaicista che vive il complesso di inferiorità verso i non credenti, cioè gente come Vito Mancuso (che lo definisce “il mio padre spirituale”), Marco PolitiIgnazio Marino, il prete mediatico Antonio Gallo e tutti i sedicenti cattolici che amano aggredire il Pontefice e la Chiesa e si lasciano volentieri accarezzare dal laicismo, di cui sono orgogliosamente complici. Un buon padre ha anche il dovere di richiamare i suoi figli, sente la “responsabilità” su di loro…forse questa è stata una debolezza di Martini, come ogni uomo ha le sue.

 

4) CONTRADDIZIONI CON LA CHIESA SUI TEMI ETICI?
Le dichiarazioni del card. Martini hanno subìto sempre un fraintendimento continuo, proprio per il suo tentativo di conciliare la visione cattolica con quella laica. Tuttavia ben pochi erano gli ambiti di sottile divisione, come viene spiegato qui.

Non insistette sul sacerdozio femminile dopo aver ricevuto risposta sulla sua richiesta di «valutare a questa possibilità», e smentì chi mise in giro la voce nel marzo 2101 di una sua approvazione per l’abolizione del celibato dei preti, anzi parlò di «una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale».
Rispetto alla Messa in latino, liberalizzata nel “motu proprio” “Summorum Pontificum” da Benedetto XVI, espresse il suo punto di vista: «Amo la messa preconciliare e il latino ma non celebrerò la messa con l’antico rito», apprezzando comunque «la volontà ecumenica a venire incontro a tutti mostrata dal Pontefice tedesco».
Rispetto all’uso del preservativo, nell’aprile 2006 lo indicò come “male minore” nel caso di prevenzione dal contagio Hiv se uno dei due partner è contagiato, una posizione personale ma ragionevole, tanto specifica quanto poco affrontata dalla dottrina cattolica. Chiedeva prudenza sulla fecondazione eterologa ed invitava l’adozione degli embrioni congelati anche da parte delle donne single, pur di impedirne la distruzione. In caso di mancanza di una famiglia «composta da uomo e donna», non avrebbe precluso l’adozione anche i single«Non si può mai approvare l’eutanasia», ha scritto, ma neanche condannare «le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo».
La sua posizione sulle unioni omosessuali, è differente da quella che vuol far passare. Ha infatti scritto: «Si può considerare cioè l’eventuale rilevanza giuridica di altre forme di convivenza, ma esse non possono pretendere l’equiparazione, quanto a status, alla famiglia», e ancora: «si deve accuratamente distinguere la famiglia da altre forme di unione non fondate sul matrimonio. Al vertice delle nostre preoccupazioni deve stare non già il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma piuttosto di sostenere positivamente e di promuovere le famiglie in senso proprio». Ha proseguito Martini: «In questa linea le nuove forme di relazionalità non possono pretendere tutte quelle forme di legittimazione e di tutela che sono date alla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Solo quest’ultima, infatti, riveste una piena funzione sociale, dovuta al suo progetto e impegno di stabilità e alla sua dimensione di fecondità. Le unioni omosessuali, pur potendo giungere, a certe condizioni, a testimoniare il valore di un affetto reciproco, comportano la negazione in radice di quella fecondità (non solo biologica) che è la base della sussistenza della società stessa. Le cosiddette “famiglie di fatto”, pur potendosi aprire alla fecondità, hanno un deficit costitutivo di stabilità e di assunzione di impegno che ne rende precaria la credibilità relazionale e incerta la funzione sociale. Esse infatti rischiano costitutivamente di gettare a un certo punto sulla società i costi umani ed economici delle loro instabilità e inadempienze».

Il cardinale Camillo Ruini ha comunque chiuso la questione spiegando: «Abbiamo avuto all’interno del Consiglio permanente della Cei un dialogo amichevole e a più voci, mai uno scontro. Non sono mai emerse del resto divergenze profonde». Nella Chiesa ci possono essere percorsi culturali diversi, anche divergenze forti, ma non ci sono mai due Chiese.

 

5) CONCLUSIONE
Di recente, nei momenti più duri della contestazione anti ratzingeriana, il card. Martini ha affermato che invece la chiesa di Benedetto XVI, «non è mai stata così fiorente come essa è ora», e che «può esibire una serie di Papi di altissimo livello», e che «la chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia». Lui stesso è stato punto di riferimento dell’ala progressista nel Conclave del 2005, facendo convergere su Ratzinger i cardinali progressisti.

Lui stesso, anni fa, si è definito in “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, un Ante-Papa, e cioè «un precursore e preparatore per il Santo Padre», uno che detta la linea al Papa e gli indica i problemi da affrontare, che lancia idee-manifesto che dai più erano giudicate come una forte presa di posizione politica. Martini ha scelto di assumere questo ruolo, bisogna semmai capire se è stata una decisione lungimirante o meno e di vera utilità al Pontefice. A lui sembrava giusto così, ma come ha spiegato perfettamente Massimo Introvigne: «Non è mai stato un progressista alla Edward Schillebeeckx o alla Hans Küng. Martini, a differenza di altri, non pensa che l’etica cattolica sia sbagliata. Non pensa che la morale cattolica debba essere demolita. Semplicemente egli vede innanzi a sé la deriva secolarista che rifiuta e rigetta la morale cattolica. E allora ritiene che adattare la morale in cui anch’egli crede fermamente alla morale secolare possa aiutare la chiesa». E’ utile questa sottomissione della morale cattolica a quella secolare? Lui ci ha provato, accettando consapevolmente gli alti rischi di diventare l’Anti-Papa, ma ha resistito. Giustamente nel suo editoriale sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia ha descritto Martini come «impegnato a cercare di piantare la croce sulla tormentata frontiera della modernità, alla ricerca di una perigliosa transazione con essa, con le eresie e gli eretici che la abitano».

Una scelta controversa la sua, e non si può negare la verità di alcune critiche che vengono avanzate. Citiamo quella di Marcello Veneziani, il quale si domanda se è giusto «assecondare lo spirito del tempo anziché invocare il tempo dello spirito», cioè è giusto lasciarsi trascinare dal progressismo mondano e staccarsi dalla Tradizione?  E ancora: «Un conto è dialogare con i “gentili”, come fa anche Ratzinger, un altro è sposare il loro punto di vista o scendere sul loro stesso terreno, fino a omologarsi, e rappresentare soltanto la versione religiosa all’interno dell’ateismo dominante»Come ha ottimamente scritto Davide Rondoni«forse avrebbe fatto meglio a non attardarsi troppo allo specchio che gli veniva retto da chi in realtà non amava e gliene fregava poco della sua fede limpida e profonda, ma si serviva di lui per una antica e sempre nuova battaglia», tuttavia «non fu mai una alternativa alla Chiesa».  Avrebbe fatto bene a rifiutare in modo chiaro l’applauso del mondo, come fece don Lorenzo Milani quando la stampa progressista diceva: “è dei nostri”Lui rispondeva indignato«Ma che dei vostri! Io sono un prete e basta! In che cosa la penso come voi? Questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica “L’Espresso”. E la comunione e la Messa me la danno loro? Devono rendersi conto che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare giudizi. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono». Lo ha citato Antonio Socci in un articolo molto duro verso il card. Martini, e non privo di ragioni.

In una intervista promossa a tutta pagina de “Il Corriere della Sera”, il card. Martini ha anche affermato che «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni». Ed è questo il punto, la Chiesa deve rimanere indietro di 2000 anni e non solo di 200, ovvero deve permanere nella roccia della Tradizione e nell’adesione al Vangelo, senza compromessi con i cambiamenti della secolarizzazione. Per questo è l’unica istituzione di riferimento morale che è rimasta (e questo spiega il quotidiano attacco dai devoti del relativismo)

Qualche debolezza di giudizio e soprattutto un tentativo ideale azzardato di adattare la morale cattolica alle sfide del momento storico, con l’alto pericolo di uscire dal confine, giustificano l’esistenza di questa discussione sulla figura dell’ex Arcivescovo di Milano. La stampa laicista invocava e aspettava con ansia questo passo giù dal precipizio, ma il card. Martini è riuscito a resistere e salutare il mondo terreno pienamente all’interno all’alveo della Chiesa. Non a caso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi lo ha ricordato con parole d’affetto, l’arcivescovo Angelo Scola nell’omelia del funerale, ha parlato di Martini come «figura imponente di questo uomo di Chiesa», a cui va «la nostra commossa gratitudine». Il card. Angelo Comastri, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano, ha affermato: «Il cardinale è un figlio della Chiesa e non deve e non può essere usato contro la Chiesa perché è stato fino in fondo figlio della Chiesa». Ed infine le parole di Benedetto XVI, il quale ha ricordato Martini come un «pastore generoso e fedele della Chiesa».

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L’on. Farina Coscioni e la strumentalizzazione della vicenda di Celeste


di Stefano Bruni*
*pediatra

 

In questo video è possibile visionare una recente puntata di “Uno mattina”, trasmissione della RAI, dove si sta discutendo del caso della piccola Celeste, una bimba veneziana di 27 mesi affetta da atrofia muscolare spinale, gravissima malattia genetica rara neuromuscolare, caratterizzata da debolezza muscolare progressiva dovuta alla degenerazione e alla perdita dei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale e dei nuclei del tronco encefalo. I bimbi che soffrono di questa terribile, e al momento incurabile, malattia sono destinati a morire nel giro di pochi mesi. Ricordo due mie piccole pazienti, entrambe bellissime, morte una decina di anni fa a causa della stessa malattia, senza che io potessi far nulla per loro.

Visto il video? Bene. Ora ditemi: cosa c’entra l’intervento sulle cellule staminali embrionali dell’onorevole Maria Antonietta Farina Coscioni in quel contesto? Premetto che ho grande rispetto per la sofferenza e la vicenda umana della signora Farina Coscioni: indipendentemente dalle scelte che sono state fatte nel suo caso personale, che si possono condividere o meno, indubbiamente è una persona che molto ha sofferto per la terribile ed incurabile malattia di cui soffriva il marito e che dunque ben conosce la tragicità del trovarsi senza nessuna speranza umana cui aggrapparsi.  Ma proprio perché ben conosce cosa passa nel cuore e nella mente dei congiunti di persone gravemente ammalate, proprio perché come tutte le persone che vivono queste tragiche situazioni anche lei ha sicuramente chiesto a suo tempo rispetto e silenzio, la Signora dovrebbe sapere che non è bello e corretto strumentalizzare la sofferenza delle persone a fini ideologico-politici.

Ospiti della trasmissione, oltre all’Onorevole Farina Coscioni, sono il Prof. Francesco D’Agostino, Presidente onorario del Comitato Nazionale per la Bioetica, e il Dr. Marino Andolina, il medico, molto esperto di trapianto di midollo e di cellule mesenchimali, responsabile del trattamento di Celeste. Si sta parlando della necessità che terapie innovative come quella proposta e somministrata dal Dr Andolina alla piccola Celeste siano sottoposte a sperimentazione e conseguentemente a rigidi controlli da parte delle autorità competenti (Istituto Superiore di Sanità ed Agenzia Italiana del  Farmaco, nella fattispecie).

Il Dr. Andolina, nel suo intervento, giustifica la correttezza giuridica del suo comportamento, e dunque ritiene che la terapia che sta somministrando a Celeste sia legittima, alla luce di alcuni decreti legislativi inerenti la preparazione e la somministrazione di cellule staminali. Il fatto è che questi decreti nel frattempo sono stati superati da una norma comunitaria del 2007 implementata in Italia con un decreto attuativo dal 2010, che assimila le terapie cellulari cosiddette avanzate ai farmaci e come tali le assoggetta alla loro specifica regolamentazione (produzione in Good Manufactoring Practice e sperimentazione clinica rigorosa), escludendole da quelle sulle trasfusioni di emoderivati. Tutto ciò per garantire la qualità del prodotto a principale vantaggio del malato che questi trattamenti dovrà poi ricevere. In Italia, al di fuori di una sperimentazione clinica controllata e regolarmente approvata da un Comitato Etico o dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’AIFA a seconda dei casi, nessun trattamento non ancora approvato dalle autorità regolatorie in quanto ancora in sperimentazione (è il caso del trattamento somministrato a Celeste) può essere somministrato ad un paziente, ai sensi del Decreto 8 Maggio 2003 sul cosiddetto “uso compassionevole”, se non sussistono tutte le seguenti condizioni: 1) che non esista valida alternativa terapeutica per una grave malattia che si vuole trattare (condizione presente nel caso di Celeste, ndr); 2) che il trattamento specifico sia già oggetto, nella medesima indicazione terapeutica, di studi clinici sperimentali di fase terza (in corso o conclusi) o almeno di fase seconda (conclusi) in caso di paziente in pericolo di vita (condizione non presente nel caso di Celeste, ndr);3) che i dati disponibili sulle sperimentazioni effettuate fino a quel momento siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sull’efficacia e la tollerabilità del medicinale richiesto (condizione non presente nel caso di Celeste, ndr).

Richiesto di dare un parere sul caso, il Prof. D’Agostino richiama chiaramente la necessità di un rigoroso controllo scientifico e sociale sull’utilizzo di terapie sperimentali (cioè non già validate scientificamente, approvate dalle autorità regolatorie ed entrate nella pratica clinica) e mette in guardia dal pericolo dello “spontaneismo”: nessuno può inventarsi una terapia e somministrarla a un paziente, soprattutto se non in grado di esprimere il proprio consenso informato come un bambino dell’età di Celeste, senza sottoporsi ai necessari iter approvativi ed ai controlli previsti dalla legge. A questo punto la giornalista chiede all’on. Farina Coscioni: «Chi decide qual è il limite tra la grinta e la voglia di sopravvivere e l’etica anche applicata alla medicina?». In altre parole: è comprensibile il desiderio di due genitori di tentare il tutto per tutto per curare la propria bimba che altrimenti sarebbe condannata a morire. Ed è comprensibile anche il desiderio di un medico di corrispondere a questa richiesta. Ma è accettabile che questo comprensibile desiderio possa indurre comportamenti in contrasto con le norme vigenti? Sarebbe eticamente accettabile? Tradotto rispetto al caso specifico: è giusto ed etico somministrare un trattamento sperimentale, sulla cui efficacia, nel caso specifico, non c’è alcuna evidenza scientifica, ad una bambina senza alternative terapeutiche, senza rispettare le norme di legge vigenti in termini di sperimentazione clinica? Ed è qui che l’on. Farina Coscioni, a mio giudizio, esce completamente dal tema e strumentalizza la vicenda cogliendo l’occasione per attaccare le “responsabilità politiche” di chi in Italia avrebbe reso la ricerca scientifica non libera grazie ad una “legge proibizionista” che vieta la ricerca sulle cellule staminali embrionali, al contempo enfatizzando i risultati della ricerca sulle cellule staminali adulte.

Peccato però che la risposta dell’on. Farina Coscioni rispetto alla domanda che le è stata posta sia di quelle che, se si fosse trattato di un tema di maturità, le avrebbe fruttato un bel 4 (in caso di professore magnanimo) in quanto assolutamente non pertinente. Peccato anche, tra l’altro, che la terapia somministrata a Celeste sia a base di cellule staminali adulte e non embrionali, come le ricorda il Prof. D’Agostino il quale, puntualmente, riporta il tema sui giusti binari, non senza aver prima ricordato che se qualche raro risultato definitivo serio oggi la comunità scientifica ha pubblicato questo è solamente sull’utilizzo delle cellule staminali adulte. Delle quali, tra l’altro, si parla assai meno, a livello mediatico, contrariamente a quanto asserito dall’on. Farina Coscioni, rispetto a quelle embrionali. L’argomento della discussione, qui, non è se le cellule staminali adulte somministrate a Celeste funzionino peggio rispetto a quelle embrionali (peraltro chi le somministra asserisce che stiano funzionando) ma se sia etico somministrare ad un paziente un trattamento sperimentale senza adeguarsi alle procedure previste, nell’interesse del paziente stesso prima di tutto.

Molto di diverso e di più importante si sarebbe potuto dire nell’occasione. Per esempio che in Italia è più difficile che in altri contesti fare ricerca perché gli investimenti pubblici sono modesti. E che a volte è complicato fare sperimentazioni cliniche per via della lunghezza e della complessità di alcuni passaggi burocratici. Sono da anni nel settore della ricerca pre-clinica e clinica e mi sarei trovato d’accordo con queste segnalazioni pur essendo d’altra parte assolutamente convinto che le regole vanno rispettate, nel prioritario interesse del paziente che alle sperimentazioni viene sottoposto. Sarebbe davvero pericoloso se chiunque in Italia potesse fare qualsiasi tipo di ricerca senza alcun controllo; pensateci…

Insomma, penso che l’on. Farina Coscioni abbia perso una buona occasione per dare un contributo serio alla discussione. E, lasciatemi essere un po’ maligno (a pensar male, si sa, si fa peccato ma qualche volta ci si prende), credo che anche chi ha invitato a quel dibattito l’on. Farina Coscioni, conoscendone perfettamente appartenenza politica e pensiero (e dunque prevedendone certamente la posizione), abbia perso una buona occasione per affrontare in maniera seria un dibattito su un tema molto importante e attuale. Tutto ciò detto, ora la cosa più importante è pensare a Celeste e ai suoi genitori e, nel silenzio, pregare per loro.

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Morto Neil Armstrong, grande astronauta cristiano

Con quella famosa frase, «questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo gigantesco per l’umanità», Neil Armstrong è entrato nella storia; è stato, infatti, il primo essere umano a camminare su un corpo celeste extra terrestre. Ingegnere aeronautico statunitense, fu assunto alla NASA come aviatore e, nel 1962, fu selezionato come astronauta sempre dalla stessa agenzia spaziale. Il 25 agosto 2012, si è spento all’età di 82 anni a causa di alcune complicazioni cardiache.

Armstrong divenne astronauta nell’epoca della grande “corsa allo spazio”, che vide fronteggiarsi le due superpotenze mondiali, Unione Sovietica e Stati Uniti, alla conquista dell’universo. La prima grande impresa fu compiuta dai russi nel 1961, quando Yuri Gagarin divenne il primo uomo a volare nello spazio. Al congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, l’allora premier dell’U.R.S.S., Nikita Kruscev, disse : “Gagarin è volato nello spazio, ma non ha trovato nessun Dio”. Kruscev considerava quel volo come una conferma della fondatezza dell’ateismo sovietico e dell’irragionevolezza delle religioni.  Dopo il crollo della potenza sovietica, alcuni ex colleghi di Gagarin rivelarono che il cosmonauta era un cristiano ortodosso, e che aveva fatto battezzare una delle due figlie proprio alla vigilia del famoso viaggio. Mentre Kruscev, quindi, “esultava” per quella che, a suo dire, era la vittoria dell’ateismo sulla religione, Gagarin confidava ad alcuni colleghi che «chi non ha mai incontrato Dio sulla Terra, non lo incontrerà neppure nello spazio».

Gagarin morì nel 1968, e non fece in tempo ad assistere all’impresa degli Stati Uniti che, non solo portarono un uomo nello spazio, ma gli diedero anche la possibilità di “passeggiare” su un corpo extraterrestre. E così, il 20 luglio 1969, la missione “Apollo XI” con la sua storica squadra (Armstrong, Aldrin e Collins), allunò sul suolo del nostro satellite; Armstrong fu il primo a toccare il suolo lunare e, davanti a milioni di telespettatori, pronunciò la storica frase.

Neil Armstrong era un uomo profondamente religioso. Durante una visita a Gerusalemme, nel 1988, chiese a Thomas Friedman, professore di archeologia biblica, di portarlo in un luogo in cui poteva essere certo che Gesù avesse camminato. Una volta arrivato nei pressi dei resti delle scale del tempio costruito da Erode il Grande, Armstrong si raccolse in preghiera. Al termine della sua meditazione, si rivolse a Friedman : «Per me, aver camminato su queste scale, ha un significato maggiore dell’aver camminato sulla Luna».

Da Gagarin  ad Armostrong, fino ad arrivare a Paolo Nespoli, astronauta italiano che ha recentemente vissuto per sei mesi all’interno della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), a circa 500km dalla superficie del nostro pianeta (con tanto di saluto del Pontefice Benedetto XVI). Nespoli ha raccontato che, per lui, trovarsi a vivere sospesi a 500Km dalla Terra «è un po’ il senso della fine della Fisica e dell’inizio della Metafisica». Se in un primo tempo, vivere nello spazio da una certa sensazione di impotenza («Uscire fuori dall’atmosfera terrestre ti dà la possibilità di vedere il mondo con degli occhi diversi; in un certo senso ti fa vedere il grande -la Terra- come fosse l’ultrapiccolo: e ciò ti fa sentire ancora più piccolo»), successivamente porta l’astronauta a riflettere sulle proprie capacità e su sé stesso: «Porsi degli obiettivi a prima vista “impossibili” è un modo per rendere più possibili le cose di tutti i giorni. E fa parte della nostra natura umana il voler tentare sempre di più, il conoscere sempre più: andare nello spazio è un’occasione per essere noi stessi».

Nicola Terramagra

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