Aborto e mortalità materna: le balle dell’UAAR

Nel sito ateo più visitato d’Italia, quello dell’Uaar – acronimo che sta per Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti –, nel riferire la notizia della recente manifestazione pro-life tenutasi nelle Filippine contro un disegno di legge volto a facilitare l’accesso alla contraccezione, si è scritto che in questo Stato «i dati su aborti clandestini, incidenza delle morti delle madri, gravidanze indesiderate e incremento demografico sono preoccupanti». E’ il solito tormentone: legalizziamo l’aborto e, abbattendo il numero degli aborti clandestini, ridurremo la mortalità materna. Un ragionamento che a molti pare a tutt’oggi convincente, ma che in realtà non sta in piedi. Vediamone brevemente il, anzi “i” perché.

Tanto per cominciare disponiamo di dati sufficienti per ritenere che la legalizzazione dell’aborto, anziché ridurla, contribuisca ad aumentare l’incidenza del fenomeno (anche in Puccetti R. “La menzogna dell’aborto che cura” in Corbelli G.,  “Mamme che piangono”, Fede&Cultura 2012). Il che mette già in crisi una fondamentale premessa dell’abortismo. Non solo: sono stati recentemente pubblicati studi che hanno messo in luce come il tasso di mortalità materna sia correlato non già alla legalizzazione dell’aborto bensì alla qualità delle cure e dei servizi alla maternità. Del resto vi sono Stati nei quali, benché l’aborto sia illegale, non solo si registra un bassissimo tasso di mortalità materna, ma questo risulta addirittura in calo.

Pensiamo alla Polonia, che dal 1990 al 2010 ha ridotto drasticamente questo tasso da 17 a 5 decessi ogni 100.000 nati vivi; stesso discorso per Malta, mentre in Irlanda, Stato che lo scorso ottobre ha respinto la raccomandazione a legiferare in materia di aborto contenuta nel resoconto dell’Universal Periodic Review , da decenni il tasso di mortalità materna è stabile. Viceversa sappiamo che laddove l’aborto – pratica in seguito alla quale la donna corre un rischio di mortalità triplo rispetto a quello conseguente ad una gravidanza – è stato legalizzato talvolta la mortalità materna è aumentata. Particolarmente significativo è il caso dell’Etiopia, dove, con la legislazione abortista, la mortalità materna è addirittura triplicata (anche in Puccetti R. – Noia G. – Del Poggetto M.C. – Di Pietro M.L. (2009) “Aborto farmacologico: risposta a Parachini e coll.” «Bioetica »3 A; 665-674: 673);

E nelle Filippine? Davvero «i dati» sulle «morti delle madri» sono «preoccupanti»? Ora, posto che si tratta di un Paese economicamente non avanzatissimo, effettivamente il tasso di mortalità materna è molto alto. Il punto però è che questo non risulta in aumento, anzi: si sta riducendo anno dopo anno. Dal 1990 al 2010 – affermano i dati del Global Health Observatory – si è infatti ridotto drasticamente decrescendo da 170 a 99 decessi ogni 100.000 nati vivi . Un dato, converrete, decisamente positivo.

Perché allora gli amici Uaar lo nascondono scrivendo il contrariola mortalità delle madri è salita del 36%»)? E perché insistono sulla presunta correlazione tra aborto legale e decremento della mortalità materna? Non è chiaro. Esattamente come non è chiara la ragione per la quale si tifa per una proposta di legge che «intende facilitare l’accesso alla contraccezione» dal momento che essa – com’è stato più volte spiegato (si veda anche qui)– non solo non riduce ma addirittura incentiva gli aborti. L’impressione è che si ragioni per slogan e senza competenza. Un sospetto che solleva il dubbio che, nonostante istruzione e scuola dell’obbligo, l’ignoranza sia ancora difficile da abortire.

Giuliano Guzzo

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La matematica e la fede religiosa: un rapporto lungo trenta secoli (I° parte)


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

L’idea che un personaggio televisivo come Piergiorgio Odifreddi (un ex seminarista convertito al comunismo e all’ateismo militante, senza alcun vero merito scientifico) può far passare, è che tra matematica e religione ci sia una perfetta incomunicabilità. Di qua i numeri, da un’altra parte Dio. La storia della matematica è però lì a dirci il contrario.

Partiamo da Pitagora, il celebre filosofo greco al cui nome è associato il teorema forse più famoso di tutti i tempi, sempre citato al principio di ogni storia della matematica (magari insieme ad Archimede). Pitagora aveva le idee molto chiare: la matematica non è una invenzione dell’uomo, ma una scoperta. E’ la realtà stessa ad essere intessuta di matematica, fondata sul numero. La filosofia greca coglie l’ordine, la razionalità dell’universo; la filosofia di Pitagora identifica il numero come fonte di questa razionalità. Scrive l’astrofisico italiano Mario Livio nel suo “Dio è un matematico”: “I pitagorici radicavano letteralmente l’universo nella matematica. In effetti per loro Dio non era un matematico ma la matematica era Dio”. Ciò significa che i Pitagorici coglievano come vera sostanza della realtà qualcosa di intangibile, di invisibile; qualcosa che precede la realtà materiale, che la supera e la informa.

Sarà poi Platone, con la sua metafisica, a dare alla matematica un ruolo fondamentale nella conoscenza umana, ritenendo l’esistenza delle realtà matematiche “un fatto oggettivo tanto quanto l’esistenza dell’universo stesso”[1]. Fatto: l’universo fisico esiste, non è capriccioso e caotico, ma ordinato. Riflessione filosofica: la matematica, immateriale, ne rappresenta il fondamento, la sostanza. Si vede bene che siamo, benchè in epoca ancora pagana, sulla strada di una concezione teista, che non pone il mondo “a caso”, ma al contrario, ne riconosce l’ intelligenza, l’armonia, la matematicità. Da dove viene questa armonia? Per Platone dal mondo metafisico delle idee, e, tramite esse, dall’opera del Demiurgo.

Prima dunque che Galileo scriva che “la matematica è l’alfabeto col quale Dio ha scritto l’universo”; prima che il grande pisano definisca la natura come “il libro…scritto in lingua matematica”– alludendo molto chiaramente, quanto all’autore del libro, ad un Dio Creatore- è evidente a chi affronti questa disciplina che la matematica nasce da un atto di fede nella non assurdità del mondo; da un atto di stupore di fronte al fatto che ciò che ci circonda non è regolato dal capriccio, ma dall’ intuizione, per dirla con Platone, che “Dio geometrizza sempre”. Scriverà in pieno Novecento il grande matematico cattolico Ennio De Giorgi: “il mondo è fatto di cose visibili e invisibili e la matematica ha forse una capacità, unica tra le altre scienze, di passare dall’osservazione delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili”.

La matematica dunque ci mette di fronte ad un fatto: l’universo si presenta come qualcosa di intelliggibile alla nostra ragione. Non è un dato scontato. Per Einstein “il mistero più grande è che il mondo sia comprensibile”, cioè che il pensiero sia in grado di fornire un ordine alle esperienze sensoriali. Per il premio Nobel L. De Broglie invece “noi non ci meravigliamo abbastanza del fatto che una scienza sia possibile, cioè che la nostra ragione ci fornisca i mezzi per comprendere almeno certi aspetti di ciò che accade attorno a noi”[2]. Non ci meravigliamo abbastanza, si potrebbe chiosare, del fatto che una sola creatura si ponga anzitutto domande che vanno ben al di là dei bisogni primari, delle esigenze che evoluzionisticamente sarebbero necessarie alla sopravvivenza, e che sia in grado di andare al fondo della realtà, a ciò che la regola e la fonda. Il mistero dell’intelleggibilità del cosmo fa il paio con il mistero di una creatura, e solo quella, che vuole e sa leggere tale intelleggibilità. A dimostrazione, ne dedurrebbe un credente, che entrambe le ragioni, quella di Dio che fonda l’universo, e quella dell’uomo, fatto “a immagine e somiglianza di Dio”, che lo interpreta e lo penetra, hanno una origine comune.

Sono ben comprensibili, allora, non soltanto la divinizzazione del numero di Pitagora e la metafisica di Platone, ma anche il linguaggio biblico, così spesso ripetuto nell’epoca delle cattedrali: Dio ha fatto l’universo “secondo numero peso e misura” (Sap.11, 20). Quest’idea appartiene anche alla storia del pensiero medievale, in particolare di quello francescano, tutto intento nello scorgere nella natura, nella sua bellezza, non un ammasso informe, non una materia principio del male, ma i segni della Ragione e della Bontà creatrice. Di qui l’idea di un grande antenato della scienza moderna, il medievale Roberto Grossatesta, per cui Dio è il “Numerator et Mensurator primus”; oppure il pensiero di san Bonaventura, il quale scriveva: “tutte le cose sono dunque belle e in certo modo dilettevoli; e non vi sono bellezza e diletto senza proporzione, e la proporzione si trova in primo luogo nei numeri: è necessario che tutte le cose abbiano una proporzione numerica e, di conseguenza, il numero è il modello principale nella mente del Creatore e il principale vestigio che, nelle cose, conduce alla Sapienza”[3].

Giovanni Keplero, scopritore delle leggi del moto dei pianeti, non argomenterà in modo dissimile la sua fiducia nella bontà e bellezza della creazione. La sua intuizione di fondo fu infatti che la matematica è “la struttura ontologica dell’Universo”. Da ciò svilupperà “il suo intero lavoro di astronomo, in cui ritroveremo strettamente intrecciate fra loro l’esplicita ripresa di antiche dottrine pitagoriche e neoplatoniche e una fervente fede cristiana”. Infatti, “certo del fatto che l’intera creazione dipenda da un disegno divino perfetto, Keplero crede di averne trovato il segreto nell’idea che l’Universo sia costruito sulla base di figure geometriche note sin dalla geometria antica con il nome di ‘solidi regolari’ […]. Dietro una tale rappresentazione dell’universo vi è una concezione metafisica ben precisa. Keplero è convinto, infatti, che la stessa mente di Dio sia costituita da idee geometriche originarie di cui la mente dell’uomo diviene partecipe”. “Non è un caso che poi Keplero interpreti in senso trinitario l’intera struttura del cosmo…Ciò che anima Keplero, è utile ricordarlo, non è tanto la convinzione di un meccanicismo originario, quanto l’idea che l’Universo sia pervaso da una armonia matematica divina[4]. Al punto che Keplero scriveva: “La geometria precede l’origine delle cose, è coeterna alla mente di Dio, è Dio in persona (cosa c’è in Dio che non sia Dio?); la geometria ha fornito a Dio gli archetipi della creazione e fu impiantata nell’uomo contemporaneamente alla somiglianza di Dio”[5].

Da: Francesco Agnoli, Scienziati dunque credenti, Cantagalli, Siena, 2012

 

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Note
[1]. Mario Livio, “Dio è un matematico”, Rizzoli, Milano, 2009, p.48, 49.
[2]. L. De Broglie, “Fisica e Metafisica”, Einaudi, Torino, 1950, p.216.
[3]. Citato in Stefano Zecchi, “Storia dell’estetica”, vol.I, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 159.
[4]. Costantino Esposito, Pasquale Porro, “Filosofia moderna”, Laterza, Bari, 2009, p. 67-69.
[5]. Citato in R. Timossi, “Dio e la scienza moderna”, Mondadori, Milano, 1999, p.41.


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Il fondamento dell’essere, commento al pensiero di William Carroll


 

di Alessandro Giuliani*
*biostatistico e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità

 

 

L’intervento al meeting di Rimini del prof. William Carroll, professore di Scienza e Religione ad Oxford, di cui una bella sintesi appare su “Ilsussidiario.net” è una luce che squarcia la nebbia, semplice ed essenziale, ci riporta ai fondamenti del pensiero rendendo sostanzialmente inutili lunghe e penose diatribe sul ‘problema delle origini’ e sui rispettivi ambiti di scienza e religione.

La sua tesi fondamentale è riassunta in questa frase «le scienze naturali hanno come loro oggetto il mondo delle cose che mutano: dalle particelle subatomiche, alle ghiande, fino alle galassie. Ogniqualvolta c’è un mutamento ci deve quindi essere “qualcosa” che muta. Gli antichi avevano ragione: dal nulla non deriva nulla se s’intende il verbo “derivare” come indicante un mutamento. Tutti i mutamenti richiedono, quindi, una realtà materiale sottostante». La filosofia (attenzione, non necessariamente la teologia) ha invece a che vedere con l’essere, con il sostrato fondamentale su cui il mutamento si innesta, sull’essenza della ‘realtà materiale’ appunto. Questa semplice notazione divide immediatamente gli ambiti senza nessun pericolo di sovrapposizioni indebite e di confusione di piani.

Direi che più o meno tutta la filosofia, da Parmenide ad Heidegger, si è aggirata intorno al problema della definizione dell’essere, salvo poi, (per sopraggiunta pigrizia intellettuale? Per sfiducia nelle proprie capacità? Per motivi biecamente accademici?..) dimenticarsi del suo ruolo specifico (e tutto sommato della sua ragion d’essere) per limitarsi ad inseguire le scienze con postille e commenti a posteriori sostanzialmente inutili e leziosi. E’ impossibile dare anche una pallida idea del dibattito filosofico di millenni sul problema dell’essere, per cui mi limiterò alle suggestioni più immediate suscitate dalla lettura delle affermazioni di Carroll cercando di giustificare come solo una previa separazione di ambiti tra la scienza e la filosofia permetta poi di gettare un ponte tra le due sponde (un ponte è cosa ben diversa dall’essiccamento del fiume che scorre in mezzo, anzi la presenza di un ponte sancisce ulteriormente la necessità di considerare due ambiti -le rive- distinti) e di come questo ponte abbia un carattere profondamente religioso. Di seguito quindi dei ‘ricordi a memoria’ di pensieri che mi hanno convinto nel profondo:

1) Tommaso d’Aquino: nei ‘Preambula Fidei’ (quindi qualcosa che ‘viene prima’ della fede, non un articolo di fede) inserisce il sentimento di una unità sostanziale del mondo data dal fatto che tutte le creature, ma anche i sassi, i pianeti, gli elementi, condividono la caratteristica dell’essere, questa caratteristica, proprio perché è comune non proviene autonomamente da loro, proprio perché nulla è incausato e la causa, per essere una causa, deve essere esterna alla cosa causata. Questo, dice Tommaso, è il primo ‘sentore’ di Dio.

2) Enrico Medi: sulla stessa linea il grande scienziato e profondo cattolico Enrico Medi, uno dei più brillanti allievi di Fermi, scrive una bellissima ‘preghiera dello scienziato’ in cui si immagina di rivolgersi ad un elettrone dicendogli (più o meno) ‘tu hai l’essere ma non sei l’essere, quindi Qualcuno te lo ha fornito’.

3) Don Giussani: molto direttamente, unificava il senso religioso alla percezione del ‘tutto’ e cioè di una necessaria unità del mondo, costituita dal suo partecipare ad una realtà che in parte ci comprende ma da cui, proprio perché ne abbiamo sentore, possiamo, con la parte ‘divina’ di noi trarci fuori a contemplarla.

4) Blaise Pascal: è chi più di tutti mi ha fatto assaporare il senso delle parole di Carroll e la loro necessità, quando da un parte ci fa capire la stupidità di chi voglia dare una spiegazione razionale ai Fondamenti (spazio, tempo, principio di non contraddizione, esistenza di una realtà esterna a noi..) chiarendo però che queste cose non sono per noi inconoscibili ma che le conosciamo con una facoltà diversa rispetto alla ragione, con quel cuore che ‘..ha ragioni che la ragione non comprende’. Ma è proprio qui che Pascal (da grandissimo scienziato) getta quel ponte tra le rive di cui parlavo prima quando semplicemente ci fa notare che quei forti sentimenti del reale (che non scordiamocelo mai, viene da res, che vuol dire cosa, stiamo quindi parlando di ciò che più concreto non può essere, non di aria fritta) , dell’essere, sono indispensabili per avventurarsi nella scienza che altrimenti non avrebbe alcuna possibilità di sussistere diventando un puro esercizio auto-referenziale.

Cosa succede allora se, come ahimè spesso capita di questi tempi, si vuol far credere che l’anima non è altro che un gioco di neuroni, confondendo il ‘come avviene un’azione’ con il suo motivo d’essere? Niente di più, niente di meno di quello che notava il grande Gilbert Keith Chesterton quando ironizzava su chi, osservando il signor Smith prendere a calci nel fondoschiena il signor Potter, spiegava l’evento in termini di ‘flessione coordinata del ginocchio e del piede guidata dalla mira verso le parti molli di Potter..’ invece di cercare di capire cosa Potter avesse fatto per scatenare una tale reazione. Molto semplice da confutare un tale atteggiamento, ma Gilbert ci avvertiva anche con spirito profetico cento anni fa (e questa volta la citazione è esatta, è del 1911 e viene dalla sua opera ‘Eretici’): «La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. È una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto». Sembra scritto ieri …. Speriamo bene ….

 

Qui sotto l’intervento di William Carrol al “Meeting” di Rimini

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Ecco come abbattere i 5 falsi miti sulle Crociate

Le crociate rappresentano uno degli eventi più fraintesi della storia occidentale. La stessa parola “crociata” ancora oggi viene utilizzata con una connotazione negativa, quando ad esempio si intende sottolineare un conflitto i cui moventi siano più ideologici che ideali; lo stereotipo più collaudato, invece, è quello che descrive avidi nobili europei dediti alla efferata conquista dei musulmani pacifici, con ricadute negative che perdurano ancora oggi grazie anche alla diffusione di tale tesi “a senso unico” nei maggiori testi scolastici occidentali.

La storia delle crociate in realtà richiede una sorta di purificazione che è oltretutto doverosa anche alla luce degli ultimi studi che provengono da ambiti accademici molto accreditati. Consapevoli della complessità della tematica, cercheremo di sintetizzare i fatti storici, riprendendo un articolo molto più approfondito, comparso su “Crisis magazine”circa i luoghi comuni consolidati, penetrati nell’immaginario collettivo. Un articolo simile è stato pubblicato in Ultimissima 17/05/11.

 

Mito #1: “le crociate furono guerre di aggressione non provocata”:
E’ una falsità, poiché fin dai suoi inizi, l’Islam è stato un movimento violento e imperialista. A 100 anni dalla morte di Maometto, gli eserciti islamici avevano conquistato terre cristiane in Medio Oriente, Nord Africa e Spagna. La stessa Città Santa di Gerusalemme è stata presa nel 638, gli eserciti musulmani avevano conquistato i due terzi del mondo cristiano e i turchi stavano spingendo verso Costantinopoli, il centro della cristianità bizantina. Nell’XI secolo i cristiani in Terra Santa e i pellegrini che vi si dirigevano vennero a trovarsi in una situazione di costante persecuzione. Dopo la battaglia di Manzikert del 1071, lo stesso imperatore bizantino chiese aiuto ai cristiani in occidente, ma solo con  Papa Urbano II venne indetta la prima crociata nel 1095. Dunque le crociate furono missioni di difesa armata, con l’obiettivo di liberare i cristiani d’Oriente e Gerusalemme dal giogo dei musulmani.

Mito # 2: “le crociate miravano al saccheggio e alla sopraffazione”: 
Secondo una corrente di studi più antichi, il boom della popolazione europea registratosi nella metà del secolo XI ha reso necessario le crociate per offrire terre e titoli ai figli di nobili che erano tagliati fuori dalle eredità riservate ai primogeniti. Gli studi degli ultimi quarant’anni, invece,  hanno evidenziato, sulla base dei documenti esaminati, come  la maggior parte dei crociati erano primogeniti. Come ha affermato il prof. Madden, direttore del Saint Louis University’s Center for Medieval and Renaissance Studies, «non è stato colui che non aveva nulla da perdere a partecipare alle crociate, quanto piuttosto colui che ne aveva di più (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 12). Ovviamente, come ha ricordato Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000, non sono comunque mancati episodi inutilmente violenti.

Mito #3: “i crociati massacrarono gli  abitanti di Gerusalemme”: 
Questo mito non tiene conto delle regole di guerra vigenti nell’XI secolo. Lo sterminio degli abitanti che avevano rifiutato di arrendersi prima di un assedio era una pratica comune per qualsiasi esercito, cristiano o musulmano. Gli abitanti erano consapevoli di tutto questo quando hanno scelto di non arrendersi, al contrario sarebbero stati autorizzati a rimanere in città e mantenere i loro possedimenti. Nelle città che si sono arrese, infatti, Crociati hanno permesso ai musulmani di mantenere la loro fede e praticarla apertamente. Nel caso di Gerusalemme, la maggior parte degli abitanti era comunque fuggita alla notizia dell’esercito cristiano in arrivo, chi è rimasto è morto, è stato riscattato o espulso dalla città.

Mito #4: “le crociate ebbero per obiettivo anche lo sterminio degli ebrei”:
Ci si riferisce, all’operato del Conte Emich di Leiningen, ma non solo a lui, il quale da convinto antisemita, imperversò nel 1095 lungo la valle del Reno per dirigersi contro le comunità ebraiche, convincendosi dell’inutilità a marciare per 2500 miglia per liberare i cristiani d’Oriente, quando i “nemici di Cristo”, secondo lui, erano in mezzo ai cristiani. In realtà la sua iniziativa, con l’ausilio di pochi fanatici disposti a tutto, non ebbe mai l’approvazione della Chiesa e anzi molti vescovi cercarono di proteggere gli ebrei locali che si trovavano nelle loro diocesi, come il vescovo di Magonza. Imponenti i discorsi di San Bernardo di Chiaravalle durante la seconda crociata (1147 – 1149) contro l’antisemitismo: «Gli ebrei non devono essere perseguitati, né uccisi, né costretti a fuggire! » (in “Epistolae”). Questi sporadici attacchi non sono dunque da attribuire ai Crociati ma a piccoli gruppi di uomini armati che ha seguito la loro scia.

Mito #5: “le crociate sono la fonte della tensione moderna tra Islam e Occidente”: 
Coloro che cercano risposte per spiegare l’11 settembre 2001 citano le crociate come causa scatenante per l’odio islamico e credono che i musulmani stiano cercando di “correggere gli errori” che derivano da esse. In realtà ci si dimentica che le crociate sono state dimenticate dal mondo islamico fino al XX secolo. A tal proposito è interessante notare come la prima storia araba delle crociate sia stata scritta solo nel 1899 e che il risentimento musulmano nei confronti delle crociate, non ultimo i deliranti appelli di Osama Bin Laden alla “jihad contro ebrei e crociati”, affondi piuttosto le sue radici nel nazionalismo, oltre che nella più recente chiusura del mondo islamico ai costumi occidentali. Dal punto di vista islamico, le Crociate furono un insignificante periodo storico, della sola durata di 195 anni (1096-1291), per la semplice ragione che non ebbero mai successo, a parte la Prima Crociata in cui è stata conquistata Gerusalemme ripresa però da Saladino nel 1187. Le perdite di uomini furono in massima parte cristiane, non certo musulmane! Curioso poi l’aneddoto ricordato nel 1899 da Kaiser Wilhelm durante il suo viaggio a Damasco, volendo visitare la tomba del grande Saladino, il vincitore dei Crociati, l’ha trovata in un grande strato di degrado, dimenticata e lasciata decadere. Lo storico Thomas F. Madden ha commentato: «la memoria artificiale delle crociate è stata costruita dalle moderne potenze coloniali e tramandata dai nazionalisti arabi e islamisti» (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 222).

 

Conclusione:
Le crociate non soltanto erano mosse da alti sentimenti di difesa della libertà dei cristiani d’Oriente, oppressi dagli imperatori islamici, ma ritardarono anche di tre secoli l’invasione dell’Europa, tanto che lo storico René Grousset parla di responsabilità “mondiale” che la Chiesa si è assunta nella loro promozione (R. Grousset, “La storia delle crociate”, Piemme 2003). Verrà il giorno in cui si smetterà di considerare le crociate un peccato capitale della Chiesa Cattolica eseguito criminalmente dall’intero mondo occidentale?

Salvatore Di Majo

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Il vantaggio di essere cristiani: credenti e non creduloni


 

del card. Giacomo Biffi,
arcivescovo emerito di Bologna

da Avvenire 3/09/12

 

Vi do una notizia un po’ riservata. Vi rivelo un segreto; ma, mi raccomando, resti tra noi. La notizia è questa: grande è la fortuna di noi credenti. Grande è la fortuna di chi è «cristiano»; cioè appartiene, sa di appartenere, vuole appartenere a Cristo. Grande è la fortuna dei credenti in Cristo. Però non andate a dirlo agli altri: non la capirebbero. E potrebbero anche aversela a male: potrebbero magari scambiare per presunzione il nostro buon umore per la felice consapevolezza di quello che siamo; potrebbero addirittura giudicare arroganza la nostra riconoscenza verso Dio Padre che ci ha colmati di regali. C’è perfino il rischio di essere giudicati intolleranti: intolleranti solo perché non ci riesce di omologarci – disciplinatamente e possibilmente con cuore contrito – alla cultura imperante; intolleranti solo perché non ci riesce di smarrirci, come sarebbe «politicamente corretto», nella generale confusione delle idee e dei comportamenti.

Conoscere il senso di ciò che si fa
È già una fortuna non piccola e non occasionale – che ci viene dalla nostra professione di fede – quella di conoscere il senso di alcune piccole consuetudini e di alcune circostanze occasionali. Per esempio, tutti mangiamo il panettone a Natale, ma solo i credenti sanno perché lo mangiano. Non è che il loro panettone sia necessariamente più buono di quello dei non credenti: è semplicemente più ragionevole. Un altro esempio: un po’ d’anni fa eravamo tutti eccitati e in tripudio per il suggestivo traguardo del Duemila che ci sarebbe stato dato di raggiungere: ma l’emozione e la festa dei credenti erano meglio motivate. Noi non ci sentivamo emozionati e in festa soltanto per la rotondità della cifra (duemila!); eravamo presi e allietati dal forte ricordo di un evento che è centrale e anzi unico nella storia: il ricordo del bimillenario dall’ingresso sostanziale e definitivo di Dio nella vicenda umana. Quell’anno appunto ci veniva più intensamente richiamata la memoria dell’Unigenito del Padre che è divenuto nostro fratello e si ravvivava in noi con vigore singolare la grande speranza che duemila anni fa ha incominciato ad attraversare la terra. Come si vede, tutta l’umanità festeggiava il Duemila; ma la nostra festa era innegabilmente più consistente e più razionalmente fondata.

Conoscere il senso di tutto
Chi è «di Cristo» riceve in dotazione anche la certezza dell’esistenza di Dio. Ma non di un Dio filosofico, che all’uomo in quanto uomo non interessa granché; non di un Dio che viene chiamato in causa solo per dare un cominciamento e un impulso alla macchina dell’universo, e poi lo si può frettolosamente congedare perché non interferisca e non disturbi; non di un Dio che, dopo il misfatto della creazione, parrebbe essersi reso latitante. Questa è, press’a poco, la concezione «deistica», e non ha niente a che vedere né con l’insegnamento del Signore né con la nostra vita. C’è anzi da dire che tra il deismo e l’ateismo, per quel che personalmente ci riguarda, la differenza non è poi molta. Il nostro Dio è «il Padre del Signore nostro Gesù Cristo», come amava ripetere san Paolo. E lo si incontra, incontrando Gesù di Nazaret e il suo Vangelo: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio – lo ha detto lui esplicitamente – e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).

Credenti e creduloni
Coloro che si affidano a Cristo – che è «Luce da Luce», cioè il Logos sostanziale ed eterno di Dio – sono inoltre abbastanza difesi dalla tentazione di affidarsi a ciò che è inaffidabile. Anche questa è una fortuna non da poco. È stato giustamente notato come il mondo che ha smarrito la fede non è che poi non creda più a niente; al contrario, è indotto a credere a tutto: crede agli oroscopi, che perciò non mancano mai nelle pagine dei giornali e delle riviste; crede ai gesti scaramantici, alla pubblicità, alle creme di bellezza; crede all’esistenza degli extraterrestri, al new age, alla metempsicosi; crede alle promesse elettorali, ai programmi politici, alle catechesi ideologiche che ogni giorno ci vengono inflitte dalla televisione. Crede a tutto, appunto. Perciò la distinzione più adeguata tra gli uomini del nostro tempo parrebbe non tanto tra credenti e non credenti, quanto tra credenti e creduloni.

La sfortuna dell’ateo
Si può intuire quanto sia grande a questo proposito la nostra fortuna, soprattutto se ci si rende conto davvero della poco invidiabile condizione degli atei. I quali, messi di fronte ai guai inevitabili in ogni percorso umano, non hanno nessuno con cui prendersela. Un ateo – che sia veramente tale – non trova interlocutori competenti e responsabili con cui possa discutere dei mali esistenziali, e lamentarsene. Non c’è nessuno contro cui ribellarsi, e ogni sua contestazione, a ben pensarci, risulta un po’ comica. Di solito, in mancanza di meglio, finisce coll’aggredire i credenti; ma è un bersaglio che non è molto appagante, perché i credenti (se sono saggi) se ne infischiano di lui e non gli prestano molta attenzione. Un ateo, se non vuol clamorosamente rinunciare a ogni logica e a ogni coerenza, è privato perfino della soddisfazione di bestemmiare. E questa è la più comica delle disavventure. Clave Staples Lewis (l’autore delle famose Lettere di Berlicche), ricordando il tempo della sua incredulità, confessava: «Negavo l’esistenza di Dio ed ero arrabbiato con lui perché non esisteva».

Un Dio buono, che non permette il male
Gesù poi – rivelandoci, attraverso il mistero della sua passione e della sua gloria, che anche l’umiliazione, la sofferenza, la morte trovano posto in un disegno d’amore che tutto riscatta e alla fine conduce alla gioia – ci preserva anche dalla follìa di chi arriva a ipotizzare, fondandosi sulla sua stessa personale esperienza, che un Dio probabilmente esiste; ma, se esiste, è malvagio e causa di ogni malvagità. È il sentimento espresso, per esempio, nella spaventosa professione di fede di Jago nell’Otello di Verdi all’atto secondo: «Credo in un Dio crudel che m’ha creato simile a sé». Il Dio che ci è fatto conoscere dal Redentore crocifisso e risorto, è un Dio che ci vuol bene e, come dice san Paolo, fa in modo che «tutto concorra al bene per quelli che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (cf. Rm 8,28); tutto concorre al nostro bene anche quando noi sul momento non ce ne avvediamo. È la verità consolante ed entusiasmante che Gesù ci confida, quasi suprema sua eredità, nei discorsi dell’ultima cena: «Il Padre vi ama» (Gv 16,27). Il Padre ci ama: con questa certezza nel cuore ogni difficoltà, ogni tristezza, ogni pessimismo diventa per noi superabile.

Conoscendo il Padre conosciamo noi stessi
Facendoci conoscere il Padre, Gesù ci porta anche alla miglior comprensione di noi stessi: ci fa conoscere chi siamo in realtà, quale sia lo scopo del nostro penare sulla terra, quale ultima sorte ci attenda. «Cristo – dice il Concilio Vaticano II – proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22). Così veniamo a sapere – e nessuna notizia è per noi più interessante e risolutiva di questa – che siamo stati chiamati ad esistere non da una casualità anonima e cieca, ma da un progetto sapiente e benevolo. Veniamo a sapere che l’uomo non è un viandante smarrito che ignora donde venga e dove vada né perché mai si sia posto in viaggio, ma un pellegrino motivato, in cammino verso il Regno di Dio (che è diventato anche suo) e verso una vita senza fine. Il dilemma tra l’essere increduli e l’essere credenti è in realtà il dilemma tra il ritenersi collocati entro un guazzabuglio insensato e il conoscere di essere parte di un organico e rasserenante disegno d’amore. L’alternativa, a ben considerare, sta fra un assurdo che ci vanifica e un mistero che ci trascende; alternativa che esistenzialmente diventa quella tra un fatale avvìo alla disperazione e una vocazione alla speranza. Perciò san Paolo può ammonire i cristiani di Tessalonica a non essere malinconici e sfiduciati come gli altri; «come gli altri – egli dice – che non hanno speranza» (1Ts 4,13). Questa è dunque la sorte invidiabile di coloro che sono «di Cristo»: dal momento che «conoscono le cose come stanno», non sono costretti ad appendere ai punti interrogativi la loro unica vita.

«Dove c’è la fede, lì c’è la libertà»
Un’altra grande fortuna di coloro che sono «di Cristo» è quella di essere liberi. Abbiamo ricevuto a questo riguardo una precisa promessa: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Il principio di questa prerogativa inalienabile del cristiano è la presenza in noi dello Spirito Santo: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,17); quello Spirito che, secondo la parola di Gesù, ci guida alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13). Vale a dire, come abbiamo appena visto, ci chiarifica «le cose come stanno». Sant’Ambrogio enuncia icasticamente questo caposaldo dell’antropologia cristiana, scrivendo in una sua lettera: «Dove c’è la fede, lì c’è la libertà».

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I sermoni di Stefano Rodotà e l’ossessione per le nozze gay

Macché Paola Concia, macché Franco Grillini: il vero nemico del matrimonio tra uomo e donna, in Italia, si chiama Stefano Rodotà. E’ lui che, ormai da anni, martella puntualmente per le nozze gay con articoli ed interventi vari. Una cosa impressionante. Per l’illustre giurista infatti, il vero problema del Paese non è la disoccupazione, la pressione fiscale record, il divorzio, l’invecchiamento della popolazione o altro, bensì «il disagio esistenziale» delle coppie omosessuali che «non possono ricorrere al matrimonio» (“La Repubblica”, 7/6/2006).

Tutta colpa, secondo lui, dei cattolici e in particolare dei promotori del “Family Day”, che anni fa «hanno proclamato la morte dei disegni di legge sulle unioni di fatto» (“La Repubblica”, 26/6/2007). Scosso da tutto ciò, il Nostro però non si è arreso. Ed ha continuato a ricordarci l’esempio sia dei paesi «che hanno già riconosciuto il matrimonio omosessuale» (“La Repubblica”, 14/7/2006), sia di quelli in cui vi sono «norme» anche «sulle adozioni da parte di gay» (“La Repubblica”, 10/7/2006).

La ragione di tanta insistenza sta nel fatto che per Rodotà con il riconoscimento delle nozze gay «il diritto comincerebbe a riscattarsi, riprendendo almeno la sua forza simbolica, la sua funzione di legittimazione di comportamenti civili» (La Repubblica, 17/6/2011). Come dire: le coppie gay ci sono, dunque vanno riconosciute ipso facto. Il diritto ridotto a notaio dalla prassi: ragionamento sopraffino, complimenti. Si vede che c’è dietro un’intelligenza superiore, universitaria. Anche perché se la logica è quella cosa ci impedirà, domani, di regolamentare positivamente la prostituzione, l’eutanasia, il consumo di eroina? Il diritto esercita «la sua funzione di legittimazione di comportamenti» e siamo a posto. Tutti felici e contenti.

Tornando a noi e Rodotà, il problema è che finché nel Belpaese non saranno legalizzate le nozze gay, ci toccherà sorbirci i pistolotti del professore cosentino. Che anche poco tempo fa ha pensato bene – nel caso qualcuno, dopo cento articoli, avesse ancora dubbi sul suo pensiero – di tornare a spiegarci perché è giusto il «matrimonio tra persone dello stesso sesso» (“La Repubblica”, 19/7/2012). Ora, c’è un limite a tutto, adesso basta: urge approvazione tempestiva del matrimonio gay. Onorevoli, fate presto, svelti. Fatelo per Rodotà e per tutti noi, prigionieri dei suoi sermoni.

Giuliano Guzzo

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Il matematico John Lennox: «più amo la scienza e più credo in Dio»

Un’altra conferenza pubblica di grande interesse per John Lennox, professore di matematica presso l’Università di Oxford e autore dell’eccellente “Fede e Scienza” (Armenia 2009).

«I new atheist», ha spiegato il matematico, «vogliono farci credere che non siamo altro che una raccolta casuale di molecole, il prodotto finale di un processo senza guida. Questo, se è vero, pregiudicherebbe la razionalità cui abbiamo bisogno per studiare la scienza. Se il cervello fosse in realtà il risultato di un processo non guidato, allora non c’è ragione di credere nella sua capacità di dirci la verità». Il ragionamento di Lennox non è molto lontano da quello realizzato acutamente qualche tempo fa dal prof. Giorgio Masiero e prof. Michele Forastiere in ambito strettamente biologico, quando hanno argomentato l’estrema improbabilità che il darwinismo possa spiegare l’origine dell’ Homo Sapiens (questa visione non c’entra nulla con il creazionismo!). E, se si crede che possa farlo, o risulta irrazionale credere che l’uomo potrà un giorno trovare una giustificazione scientifica al naturalismo, o si cade in un’insanabile contraddizione logica.

Come si può, infatti, credere nella affidabilità del nostro cervello se si è convinti di essere poco più che scimmioni addomesticati, un agglomerato casuale di molecole, un “nient’altro che” come amano descriverci i devoti riduzionisti. Tra noi e gli scimpanzé, ci ricordano i detrattori di Dio e del genere umano, ci sono il 99% di geni in comune (il 90% invece con il corallo, ma questo Telmo Pievani non lo dice mai, chissà perché). Non esiste la morale: è un’illusione. Non esiste il libero arbitrio: è un’illusione. Non esiste la coscienza: è un epifenomeno del cervello. Non esistono il bene e il male: tutto è relativo, tutto è un’illusione. Non esiste Dio: è tutta una proiezione mentale spiegabile scientificamente, non siamo voluti da nessuno, dobbiamo batterci per sopravvivere e poi sparire nel nulla da cui siamo venuti. Propagandare tutte queste convinzioni è la missione dei laicisti, un invito indiretto al suicidio collettivo. Chi oserebbe mai prestare fiducia alla sua ragione? Chi continuerebbe a vivere in questa “valle di lacrime” dove tutti gli affetti vengono tranciati dall’inevitabile e puntuale scorrere del tempo e tutto quel che si costruisce faticosamente viene spazzato via dall’inesorabile passare dei giorni? Se ci fosse davvero qualcuno convinto del “credo” laicista, egli potrebbe soltanto essere un masochista.

Riprendendo le parole di Lennox, egli ha anche spiegato: «per me la bellezza delle leggi scientifiche non fa che rafforzare la mia fede in modo intelligente, la forza creativa del divino nel mio posto di lavoro. Più capisco la scienza, più credo in Dio a causa della meraviglia per la raffinata ampiezza e l’integrità della sua creazione. Lungi dall’essere in contrasto con la scienza, la fede cristiana rende effettivamente perfetto il senso scientifico». Lo studio dell’ordine razionale dell’universo come aiuto e conferma alla fede cristiana. «Ma i miei più grandi motivi per credere in Dio», ha continuato il matematico di Oxford, «sono, sul lato oggettivo, la risurrezione di Gesù e, dal lato soggettivo, la mia esperienza personale di Lui e ciò che scaturisce dalla fiducia in Lui giorno per giorno negli ultimi 60 anni».

Entrando nello specifico di questa meraviglia che sorge nell’uomo grazie al progresso scientifico, Lennox ha usato l’analogia di alcune lettere disegnate su una spiaggia di sabbia: «La risposta immediata è quella di riconoscere il lavoro di un agente intelligente. Quanto è più probabile, quindi, un creatore intelligente dietro il DNA umano, il colossale database biologico che contiene non meno di 3,5 miliardi di “lettere”?».  Non a caso il responsabile del sequenziamento del genoma umano, il genetista Francis Collins, si è convertito proprio dopo il risultato raggiunto, affermando: «Ero sbalordito dall’eleganza del codice genetico umano. Mi resi conto di aver optato per una cecità volontaria e di essere caduto vittima di arroganza, avendo evitato di prendere seriamente in considerazione che Dio potesse rappresentare una possibilità reale». Oggi ritiene che «le lettere del DNA umano siano il linguaggio di Dio».

 

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«Grazie per non aver abortito», lettera di un bambino cresciuto a sua madre


di Stefano Bruni*
*pediatra

 

Questa lettera è dedicata a mia mamma ma è dedicata anche a tutte le altre mamme presenti e future, perché troppo spesso dimentichiamo di ringraziarle per averci messi al mondo e per averci amati per una vita intera nonostante i tanti condizionamenti provenienti dal mondo che le circonda.

 
 

Cara mamma,

oggi ho deciso di scriverti una lettera. Non l’ho mai fatto prima d’ora perché davo per scontato che tu sapessi già tutto quanto ho da dirti: le mamme leggono in profondità nel cuore dei propri figli fin da quando, piccolissimi, ancora non sanno esprimersi, fin da quando, ancora nel loro grembo, ne sognano il futuro.

Ma in realtà non bisognerebbe mai dare nulla per scontato, soprattutto quando si tratta di dire ad una persona che ci ha sempre amato quanto le siamo grati per il suo amore. Soprattutto di questi tempi, nei quali è più facile pensare solo a se stessi, essere egoisti. Ed è per questo che oggi ho deciso di scriverti.

Grazie per avere concepito l’idea di mettermi al mondo, prima ancora di avermi concepito, insieme a papà, “materialmente”, donandomi fin da subito un po’ di te stessa e un po’ di quello che è papà attraverso i vostri cromosomi ed i vostri geni. Ed infatti io oggi sono il ritratto di papà fisicamente e assomiglio molto di più a te se parliamo del mio carattere, della mia sensibilità. Ho in me tanto di voi ma sono anche così diverso da te e da papà. Nel bene e nel male, sono un essere umano vivente unico e irripetibile e questo è un fatto biologico certo ed indiscutibile ma anche il miracolo della vita umana. Se non mi aveste concepito o non mi aveste fatto nascere oggi io non ci sarei. Magari la cosa importa a pochi ma a me, siatene certi, importa moltissimo.

Grazie per avermi portato dentro di te per nove lunghi mesi, nonostante le nausee, il dolore alla schiena, la difficoltà a dormire e a trovare una posizione comoda per distenderti, a causa dell’addome che mano a mano che io crescevo in te si dilatava e si tendeva nel tentativo di contenere la mia vitalità e la mia tensione verso l’esterno, verso il giorno in cui avrei preso il mio spazio nel mondo.

Grazie per avermi passato ferro per il mio sangue, calcio per le mie ossa, zinco per il mio sistema immunitario ed ogni altro nutriente che ho sottratto al tuo sangue, alle tue ossa, al tuo organismo per crescere nei novi mesi del mio sviluppo come embrione prima e come feto poi. Grazie per avermi accarezzato, attraverso il pancione, per avere accompagnato con un sorriso ogni mio calcetto, anche quando ti dava un po’ fastidio o ti svegliava la notte o ti procurava un dolce dolore.

Grazie per avere sopportato l’ansia di una minaccia di aborto che ti ha limitato nelle tue attività quotidiane. Grazie, mamma, perché quando un medico ti ha detto: “Signora, o lei o suo figlio”, tu non hai pensato per un solo momento di rinunciare a me ma hai messo la tua vita in pericolo per non danneggiarmi, per permettermi di vedere la luce; non hai rinunciato alla speranza di vedermi, magari anche solo per poco, non hai mai anteposto il tuo diritto alla vita al mio, il tuo diritto e quello di papà ad una vita felice insieme, al mio diritto di crescere e trovare giorno dopo giorno il mio posto nella vita.

Grazie per avere benedetto ogni doglia, ogni contrazione di un apparentemente interminabile travaglio e poi ogni punto di sutura ed i dolori dei giorni successivi. Grazie per avermi nutrito dopo avermi fatto nascere così come mi avevi nutrito dopo avermi concepito, perché non sono mai stato un grumo di cellule, per te, ma l’abbozzo di un essere umano in via di sviluppo. Grazie per le migliaia di pannolini cambiati senza mai protestare, per le notti insonni passate a consolare i miei pianti senza brontolare, per i viaggi con papà cui hai rinunciato serenamente in seguito alle mie malattie di bambino, per le preoccupazioni che ti ho dato quando ero ragazzo così come per quelle che ho continuato a darti ora che sono uomo e padre a mia volta (ma per una mamma, si sa, il suo bambino è sempre il suo bambino) senza mai farmi pesare i miei comportamenti.

Grazie per avermi insegnato giorno dopo giorno cosa può fare l’amore nella vita delle persone, come può contagiarle. Grazie per avermi insegnato il rispetto degli altri, il potere negativo di un broncio e quello positivamente devastante di un sorriso. Grazie per avermi insegnato che la vita è un dono meraviglioso che è nostra ma non ci appartiene, perché è un dono che Qualcun altro ci ha fatto servendosi dei nostri genitori. E che come tale non ne decidiamo noi l’inizio né possiamo decretarne una fine anticipata o, viceversa, possiamo allungarla di un solo istante a nostro piacimento. Grazie perché mi hai insegnato che la vita va sempre difesa, soprattutto quando è più debole o sofferente, malata, stanca.

Grazie per tutti i sacrifici che hai fatto, insieme a papà (e li conoscevate già tutti, fin dal primo istante, perché tu e papà eravate giovani, sì, ma non sprovveduti), anche economici, per farmi crescere sano, studiare, diventare quello che oggi sono e che mi piace essere diventato, con tutti i miei limiti ma anche le grandi possibilità di lavorare sui miei punti di debolezza per trasformarli in punti di forza.

Il mio lavoro mi ha portato e mi porta quotidianamente a contatto con bambini sofferenti, malati, malformati. Mi sono domandato spesso se oggi ti ringrazierei se io fossi stato uno di questi bimbi malati. Ma come una mia eventuale malattia avrebbe potuto offuscare tutto ciò che avresti fatto comunque per me? Mi avresti forse voluto meno bene? Avresti rinunciato a me? Non avresti forse sopportato maggiori sofferenze, fisiche e psicologiche, a causa della mia stessa sofferenza? E allora come non avrei potuto ringraziarti comunque, anzi con ancora maggiore gratitudine?

Grazie mamma, di tutto. Grazie per avermi amato da sempre, fin dai tuoi sogni di ragazzina, mentre giocavi con le bambole; perché, checché ne dicano certuni, il desiderio della maternità, se non viene volutamente soppresso, è innato in ogni donna. Grazie perché mi amerai fino al tuo ultimo giorno e, ne sono sicuro, anche dopo.

Tuo figlio

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L’inganno di Flores D’arcais: «Martini è morto per eutanasia»

La morte dell’ex arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini era un’occasione troppo ghiotta perché laicisti, anticlericali e pro-death non ne approfittassero per portare acqua alla loro ideologia, così come le associazioni di omosessuali hanno fatto per la morte di Lucio Dalla. Facendo finta di essere dispiaciuti della morte dell’insigne biblista, ne hanno strumentalizzato la vicenda per la promozione della legge sull’eutanasia e il suicidio assistito. Il tutto è avvenuto attraverso tre tipologie di tentativi:

 

PRIMO TENTATIVO: “Martini era attaccato alle macchine”:
Il primo tentativo è stato quello di far credere che il cardinale fosse attaccato a delle macchine che lo tenevano in vita, così da poterlo paragonare a Piergiorgio Welby. Ha scelto di imboccare questa strada Mario Riccio, medico anestesista e rianimatore all’Ospedale di Cremona, che nel dicembre 2006 ha ucciso Welby: «Martini è il Welby della Chiesa», ha affermato. Lo ha seguito subito Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” secondo il quale Martini «ha deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita». Tentativo infelice, è stato fin troppo facile far notare che Martini non era attaccato a una macchina per continuare a vivere, come hanno spiegato i medici.

 

SECONDO TENTATIVO: “Martini ha disobbedito alla Chiesa rifiutando l’accanimento terapeutico”
La seconda tattica è stata quella di far credere che la Chiesa obblighi i suoi fedeli a sottostare all’accanimento terapeutico, e il card. Martini sia morto rifiutando tale imposizione. Questa è stata sicuramente la strada più battuta a livello statistico (qui riassunte bene), citiamo per esempio il militante radicale Federico Orlando, condirettore di “Europa”, quotidiano del Partito Democratico, il quale ha scritto: «il valore più alto che mio padre ci ha trasmesso» è stato «la dignità dell’uomo, come il rifiuto delle sante torture da parte del cardinale, che era parso eresia quando a contestarle fu il padre di Eluana Englaro». Da notare le “sante torture” per indurre che siano state “imposte dalla Chiesa”, e il paragone con Eluana Englaro, la quale -è fin troppo facile ricordare- non era in fase terminale, non subiva dunque accanimento terapeutico ed era in stato vegetativo, impossibilitata a comunicare.

Martini, al contrario, ha scelto coscientemente, come possono fare tutti i pazienti vigili, di non sottostare ad alcun accanimento terapeutico, ovvero di non farsi applicare un sondino per la nutrizione artificiale. Una morte dignitosa, dato che la Chiesa ritiene immorale l’accanimento terapeutico tanto quanto l’eutanasia. Infatti il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, ha commentato«Anch’io come Carlo Maria direi no a quelle terapie: l’accanimento terapeutico è rifiutato dalla Chiesa e da tutti i cattolici. Non solo è sconsigliato ma direi anzi che è proibito, come è proibita l’eutanasia. Così come non si può togliere la vita, allo stesso modo non la si può prolungare artificialmente». Il dottor Giovanni Zaninetta, medico presso la Casa di Cura “Domus Salutis”, ha puntualizzato:  «Innanzitutto nel caso del Cardinale, non si è trattato di rifiutare una terapia che in qualche modo poteva tenerlo in vita, ma ha semplicemente accettato il decorso della sua malattia, che in progressivo peggioramento, non poteva essere in alcun modo fermata». «Il caso di Eluana fu ben diverso», ha continuato il medico «perché la sua situazione era stabile e accettare di sospendere le cure significava compiere un’azione che avrebbe portato alla fine della sua vita».

 

TERZO TENTATIVO (FLORES  D’ARCAIS): “La sedazione palliativa equivale all’eutanasia”
Quest’ultima tattica è stata la più cretina, scelta (non a caso) dal solo filosofo laicista Paolo Flores D’arcais. Qui il livello di strumentalizzazione ha raggiunto i massimi livelli: fingendo compassione per Martini, Floro Flores D’arcais ha ripreso la lettera che la nipote dell’ex arcivescovo di Milano, Giulia Martini, ha inviato a “Il Corriere della Sera”, dove racconta gli ultimi istanti di vita.  Ha scritto la nipote: «Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato». Una cosa normale, si chiama “sedazione palliativa” (o “farmacologica”), ovvero la somministrazione di un farmaco con lo scopo di far perdere la coscienza a un malato in fase terminale gravato dalla presenza di uno o più sintomi refrattari. La procedura esclude la somministrazione di farmaci letali e il risultato è quello di far dormire profondamente il paziente per evitarli sofferenze. Come ha scritto la “Rivista italiana di Cure Palliative”: «non ci sono prove che la sedazione terminale/palliativa accorci la vita», è un continuum delle cure palliative, e con essa «non esiste un’accelerazione della morte nei malati sedati. Anzi, cinque studi hanno evidenziato una maggiore sopravvivenza nei malati sedati». Occorre comunque stare attenti all’utilizzo, come si è scritto su “L’Osservatore Romano”«la sedazione farmacologica è e deve restare pratica rara in cure palliative, riservata a quei casi che si trovano a pochissimi giorni dal naturale decesso, a volte a poche ore».

Tuttavia Flores D’arcais ha pensato bene di far credere ai lettori de “Il Fatto” (noti per non essere proprio delle aquile) che la somministrazione della sedazione palliativa sia un privilegio (magari per i soli cardinali!) e poi che si possa identificare come un vero atto di eutanasia.  «Carlo Maria Martini», ha scritto, «ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria agonia e la propria morte […]. Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla». Al contrario, ha continuato il filosofo, lo Stato e la Chiesa vorrebbero impedire che il malato si addormenti all’approssimarsi della morte, «per imporre al paziente ore e giorni di vigile sofferenza che vorrebbe rifiutare». Essere sedati/addormentati (come prima di un’operazione chirurgica, per intenderci) sarebbe per Flores D’arcais un «privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di un diritto». E poi il tentativo subdolo: «ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi». Nella concezione di Floro Flores D’arcais, gli ospedali sono dei lager sovietici in cui i pazienti terminali sono costretti a rimanere vigili all’approssimarsi della morte.

Arrivato alla fine del delirio, il filosofo laicista ha quindi invocato «una “legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo». Flores D’arcais vuole una legge che permetta la sedazione palliativa, già in uso in tutti gli ospedali? Non male come espressione di intelligenza laica…rimane comunque convinto che «la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi (quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per dire no». Peccato per lui che hanno già detto “si”, anzi la Chiesa ritiene addirittura le cure palliative «una forma privilegiata della carità disinteressata».

I casi sono due: o Paolo Floro Flores D’arcais ha davvero confuso la sedazione palliativa con l’eutanasia e quindi è ancora più annebbiato di quanto tutti sospettano; oppure ha tentato il giochino sporco di scambiare appositamente le due pratiche per indurre una sollevazione mediatica/popolare. In ogni caso, ancora una volta, il filosofo laicista ne esce malconcio, una figura quasi peggiore di quella realizzata in una delle sue ultime apparizioni televisive.

 

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Grazie Bellocchio, alla fine potevi fare anche peggio

Sono soldi sprecati quei 150 mila euro versati dal Film Commission del Friuli Venezia Giulia per “La Bella addormentata”, film ispirato alla triste vicenda di Eluana Englaro in concorso alla 69esima edizione della Mostra del cinema di Venezia? La risposta è prevedibilmente positiva.

Bellocchio ha affermato e riconosciuto: «Non c’è pregiudizio, nè partito preso, certo il mio non è un film imparziale, in arte credo che l’imparzialità non esista, ma è sincero, e per nulla ideologico. Ho le mie idee, ma il film non ne è il manifesto. Credo che osservando bene si capisca la mia posizione». Secondo “Il Corriere della Sera” il film ha ricevuto una “standing ovation”, per “Il Sole24ore invece gli applausi «sono stati misurati»Secondo “Il Messaggero” il film «non convince», “Il Foglio” ha parlato di «film ideologico», mentre secondo l‘ironico inviato di “Libero” il regista riesce a far cambiare idea sull’eutanasia perché la «dolce morte» viene invocata dagli spettatori a causa della noiosa lentezza della pellicola.

Il film è pieno di cliché, come spiega Maurizio Caverzan. Quello che passa è che i cattolici e coloro che sono contrari all’eutanasia sono degli isterici esagitati, «quasi a far intendere che per difendere la vita allo stato terminale bisogna avere una fede patologica». Di «soliti cliché», parla anche Lucia Bellaspiga, l’ultima giornalista ad aver visitato Eluana a Udine prima della sua soppressione. Nel film c’è una giovane in stato vegetativo, una bambola di porcellana, la cui madre egoista e cattivisisima la tiene in vita sgranando istericamente il rosario. Nessuna traccia nel film «di ciò che realmente accade nelle migliaia di case in cui davvero si vive con un figlio in tali condizioni, nessuna traccia della fatica quotidiana e del coraggio, della speranza e della fede, nemmeno della povertà e delle battaglie per la vita», commenta la giornalista. Anche per il direttore del Centro studi per la ricerca sul coma  “Gli amici di Luca”, Fulvio De Nigris, «manca la normalità di chi ogni giorno vive accanto a una persona nelle condizioni di Eluana Englaro». E’ un buon film, ha spiegato, ma «a senso unico.  Fa sentire le famiglie che vivono con un proprio caro in coma e gravemente disabile, minacciate non nella loro libertà di scelta, ma nel loro diritto alle cure. Rappresentare anche queste famiglie è un diritto di verità, specialmente per un anarco-pacifista come si definisce lo stesso Bellocchio».

Un altra falsità: la giovane nel film è attaccata ad una macchina che la tiene in vita, mentre Eluana respirava autonomamente. E’ un classico trucco da Radicali, e non a caso Bellocchio, ex militante di Unione Comunisti Italiani, firmatario del manifesto contro il commissario Luigi Calabresi (definito “torturatore”), dal 2006 è militante nel partito radicale. Prossimamente presenterà il film a Udine alla presenza di Beppino Englaro, di cui ha letto il libro ed è amico.

Un’altra figura controversa è quella di Maria, cattolica e attivista “pro life” che parte per Udine e va a pregare sotto le finestre dietro le quali la donna in stato vegetativo sta morendo. Ma mentre prega si innamora di Roberto, attivista laico sul fronte opposto e corre in albergo con lui. Il primo piano insiste sul crocifisso che porta al collo, ma che si butta dietro le spalle mentre si spoglia. Il messaggio è chiaro: “l’incoerenza dei cattolici”, anche perché dopo aver fatto sesso lei cambia idea e si batte per l’eutanasia. Tuttavia, ha fatto notare Caverzan, la giovane cattolica è il «personaggio più risolto e sorridente del film». Anche il filosofo Adirano Pessina ha notato che «Il mondo cattolico viene presentato in forma monolitica, come cattolicesimo orante e non pensante» e dall’altra parte manca «anche quel turbamento di coscienza che spesso vedo nei non credenti».

Nel film tutti i cattolici appaiono invasati, mentre in quei giorni del 2009 a Udine dominava una grande sobrietà, preghiera e silenzio. Feroci e irreali, continua la recensione di “Avvenire”, appaiono anche i medici e ancora una volta il messaggio è chiaro: “ecco chi deve decidere sulle vostre vite”. In una scena iniziale c’è una drogata che ruba gli spiccioli dalle offerte in Chiesa e i fedeli la scacciano senza pietà. Alla fine è in ospedale, dove rinuncia al suicidio grazie a un medico capace di amarla, il quale poco prima l’aveva “salvata” anche da un incolpevole prete passato a benedirla e offrirle la sua vicinanza.  «Non ho fede, ma rispetto e guardo con interesse e curiosità chi invece ce l’ha», ha detto Bellocchio. Pensiamo allora come avrebbe dipinto i cattivi credenti se non avesse avuto rispetto di loro!

Comunque ringraziamo il radicale Bellocchio per essersi trattenuto, alla fine poteva andare anche molto peggio. Basta solo pensare che in un altro film presentato al Festival di Venezia, “Paradise Faith”, una donna ultra-cattolica fa autoerotismo con un crocifisso

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