A sostegno di una nuova teoria dell’evoluzione (II° parte)


di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica

 

Nel precedente articolo abbiamo cominciato ad affrontare il problema dell’eventuale superamento scientifico della Sintesi Moderna, e più esattamente del riduzionismo monodiano quale paradigma esplicativo di ogni cambiamento evolutivo.

Per comprendere esattamente cosa comporti inquadrare l’evoluzione nello schema neo‑darwinista, andiamo ad analizzare uno degli esempi di “onnipotenza della contingenza” esaminati da Stephen Jay Gould nell’ultimo capitolo de La vita meravigliosa, riguardante l’origine dei vertebrati terrestri (i tetrapodi).

Circa 370 milioni di anni fa, nel Devoniano, i pesci dominavano i mari. Si ritiene che i vertebrati terrestri moderni discendano da un piccolo gruppo di questi, l’ordine degli osteolepiformi dei pesci sarcopterigi (“dalle pinne carnose”). La maggior parte dei pesci sfoggiava, e sfoggia tuttora, pinne costituite da una serie di raggi sottili irradiantisi dall’asse dorsale. Senza nessun motivo, invece, un oscuro antenato dei sarcopterigi sviluppò una struttura della pinna molto diversa, fissata a un robusto asse aggiuntivo perpendicolare al corpo. Questa soluzione si sarebbe rivelata indispensabile per la conquista della terraferma… ma non aveva nessun tipo di vantaggio evolutivo evidente in ambiente subacqueo. Una recente ricerca condotta da Stephanie Pierce, Jennifer Clack e John Hutchinson ha in effetti evidenziato che ittiostega – a lungo ritenuto una forma di transizione tra pesci e anfibi, interamente acquatica ma capace di comode “passeggiate all’asciutto” – fosse in realtà del tutto impossibilitato a compiere i movimenti necessari per camminare. Un semplice pesce dalle pinne carnose, insomma, dotato per combinazione di alcune delle caratteristiche necessarie all’uscita dall’acqua. Come si afferma nell’articolo: «I primi tetrapodi, e i pesci che hanno dato loro origine, furono inizialmente interpretati come animali adatti all’ambiente terrestre con pinne o arti capaci di sopportare pesi. Fin dai primi anni ‘90, tuttavia, nuove scoperte fossili e interpretazioni anatomiche hanno dimostrato che i primi vertebrati dotati di arti avevano abitudini primariamente acquatiche e che gli arti si sono evoluti prima dell’abilità di “camminare” sulla terraferma”. La comparsa della caratteristica indispensabile per la futura evoluzione dei tetrapodi non sarebbe stata, dunque, nient’altro che un puro e semplice “colpo di fortuna”.

Ora, la domanda che Gould pone è la seguente: sarebbe possibile immaginare, in una Terra in cui ciò non fosse avvenuto – in un pianeta abitato cioè solo da invertebrati e vertebrati marini privi di forti arti – l’esistenza di scienziati capaci di porsi le nostre stesse domande sull’origine della vita intelligente? Secondo Gould no: gli insetti, gli unici animali forniti di buone capacità di manipolazione fine viventi in ambiente terrestre, non hanno mai mostrato una tendenza all’evoluzione di doti cognitive di alto livello, pur essendo comparsi molto prima dei mammiferi. Si badi bene: qui non si nega la possibilità di spiegare il successo evolutivo dei discendenti del primo ignoto sarcopterigio con qualche scenario neo-darwinista di “selezione del più adatto” (ne esistono diversi di plausibili), o magari di giustificare l’origine stessa del passaggio al tetrapodismo (“evidentemente si è trattato di un evento di exaptation da strutture organiche preesistenti”, si dice); piuttosto, si sottolinea la casualità di importanti “innovazioni” macro-evolutive, che si sarebbero rivelate adatte alla bisogna solo molto tempo dopo la loro comparsa. In realtà, basta pensare a quanto sia improbabile la fissazione nel genoma dell’informazione relativa a una singola proteina utile – mediante i soli meccanismi riduzionistici di mescolamento e mutazione puntiforme del DNA – per capire quanto poco convincente sia ognuno dei suddetti scenari evolutivi: anche il fenomeno dell’exaptation, in fondo, conta sul riadattamento di un numero finito di strutture organiche già funzionanti, sebbene per scopi diversi.

In definitiva, bisogna rendersi conto che l’intera storia della vita sulla Terra è costellata di “coincidenze fortunate” di questo genere; e sebbene sia sempre possibile una spiegazione riduzionistica conforme allo schema “mutazione genetica casuale ‑ selezione naturale”, capace di spiegare a posteriori ognuno di tali eventi, questa soluzione non si può ritenere soddisfacente dal punto di vista scientifico. Come abbiamo più volte osservato, infatti, l’assunto riduzionistico che l’evoluzione non sia in definitiva altro che una lunghissima successione di “eventi fortunati” – ognuno, tra l’altro, con una probabilità bassissima di verificarsi, data la relazione non lineare tra genotipo e fenotipo – conduce a una sola possibile conclusione logica: deve esistere una quantità infinita di risorse probabilistiche (casi possibili e tempo a disposizione) utilizzabili dal processo evolutivo. In altre parole, il dogma monodiano porta alla credenza nel multiverso. Un’idea, questa, che non è affatto sostenuta dalla scienza e che entra in conflitto, più in generale, anche con la logica (vedere per esempio quiqui e qui).

Se, dunque, l’interpretazione della realtà fatta a partire da certe premesse assiomatiche porta a conclusioni poco sostenibili dal punto di vista logico e scientifico, che cosa ne dobbiamo dedurre? Indubbiamente che ci deve essere qualche errore – di carattere scientifico o logico – nelle premesse, oppure nelle varie ipotesi assunte nel corso dell’interpretazione successiva.
A me sembra che il dilemma si possa ricondurre a due alternative:

  1. O è sbagliato l’approccio riduzionistico al problema dell’evoluzione biologica;
  2. O è sbagliata l’idea di un’evoluzione guidata solo dal caso.

 

Si capisce che nessuna delle due alternative è in contrasto con una visione teistica, mentre solo la seconda lo è decisamente con quella ateistica (salvo che non si voglia ammettere, con Richard Dawkins e lo scrittore di fantascienza David Brin la possibilità di un ID alieno). Da un punto di vista strettamente scientifico, sanamente agnostico, la prima alternativa sembrerebbe dunque essere l’unica possibile. Certamente, l’abbandono di un paradigma così profondamente consolidato quale quello riduzionistico potrà sembrare a tanti un salto nell’ignoto; tanto più che molti intravedono in questa operazione il “rischio” di giungere a una forma di conoscenza della realtà materiale comunque “sporcata” da tentazioni teleologiche o neo-platoniche, che trovano francamente intollerabili. Ma tant’è: se la scienza vorrà mantenere il suo carattere galileiano originario, dovranno essere le interpretazioni filosofiche a piegarsi all’evidenza empirica, e non viceversa.

Potrebbe dunque valere la pena di costruire una teoria evolutiva che emerga finalmente dalle sabbie mobili della Sintesi Moderna? Secondo il famoso microbiologo Carl Woese, certamente sì. Si tratterebbe, in realtà, di mirare alla fondazione di una vera e propria “Fisica dei Sistemi Viventi” (definita così in analogia con la Fisica dei Sistemi Complessi). Insomma, si dovrebbe tentare di sottrarre la teoria dell’evoluzione dalle grinfie del Caso monodiano, allo scopo di riportarla nell’alveo della Necessità scientifica e riconciliarla così con l’evidenza empirica.
A me pare che la strada verso la costruzione di una Fisica dei Sistemi Viventi dovrà necessariamente procedere attraverso i seguenti passi:

  1. demolizione (parziale) del vecchio edificio dogmatico, attraverso argomenti epistemologici e osservazioni scientifiche (“pars destruens”);
  2. costruzione di una possibile “impalcatura” per la futura erezione del nuovo edificio, soprattutto attraverso considerazioni epistemologiche non limitate dal paradigma riduzionista, e
  3. graduale inserimento di vecchi e nuovi dati scientifici come “mattoni” per la costruzione del nuovo edificio (“pars construens”).

 

Come sappiamo, molti scienziati e filosofi hanno lavorato e stanno lavorando al punto 1 dell’elenco precedente; pochi ai punti 2 o 3. Eva Jablonka e Marion Lamb, per esempio, hanno proposto una teoria dell’evoluzione “a quattro dimensioni”  in cui si rigetta l’immagine dell’”Albero della Vita” di darwiniana memoria (più correttamente, alla luce di quanto si sa oggi grazie alla paleontologia, del “Cespuglio della Vita”) e si adotta invece quella di una “rete” di strette relazioni che si estendono sia nello spazio (attraverso la condivisione orizzontale dei genomi) che nel tempo (attraverso l’ereditarietà: genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica). D’altra parte, la teoria di Jablonka e Lamb, pur rifiutando il principale caposaldo del neo-darwinismo (il gradualismo) – e giungendo perfino ad ammettere la possibilità di trasmissione ereditaria di tipo lamarckiano – non sembra ancora capace di distaccarsi da un quadro interpretativo riduzionistico: non viene infatti prospettato alcuno schema di livello superiore (una Fisica dei Sistemi Viventi, insomma) che spieghi in qualche modo i meccanismi di interazione che creano e tengono insieme la “Rete della Vita”. Un’altra just-so story, dunque, solo di dimensioni gigantesche.

Eppure, nell’evoluzione a quattro dimensioni fanno capolino due importanti elementi nuovi: l’ereditarietà comportamentale e simbolica. Ora, il comportamento e i simboli sono oggetti di studio tanto scientifico quanto filosofico, che fanno parte di quel mondo “mentale” che tende a sfuggire, come sappiamo, ad un’analisi riduzionistica (vedere qui e qui). Insomma, si intravede nella teoria di Jablonka e Lamb un “punto cieco” che lascia probabilmente spazio a una rilettura delle scienze evolutive finalmente affrancata dal dogma monodiano.

Credo, in conclusione, che si debba e si possa fare molto di più dal punto di vista interpretativo, rispetto a questi – pur importantissimi – tentativi di rifondazione di un paradigma scientifico ormai sclerotizzato, quale è il neo-darwinismo. È evidente, infatti, che un’impresa del genere richieda, oltre a una quantità di prove sperimentali, dosi massicce di “interpretazione filosofica”. In quest’ultimo senso, ogni contributo (per quanto piccolo) può essere importante. Penso, perciò, sia proprio arrivato il momento in cui chiunque abbia fiducia nella scienza galileiana e creda nella capacità della ragione umana di leggere la Realtà (ma soprattutto non tema di incappare in tentazioni teleologiche), cominci seriamente a darsi da fare per la realizzazione della tanto attesa “pars construens” di una nuova teoria dell’evoluzione, per la costruzione di una vera Fisica dei Sistemi Viventi.

Un interessante tentativo sta per essere avviato sul sito web di Enzo Pennetta, www.criticascientifica.it, come viene spiegato in questa pagina.

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La menzogna della “teoria del gender” e l’incapacità ad educare

Può sembrare una presa di giro, ma ahimè non lo è. Nils Pickert è divenuto famoso sui casi di cronaca in quanto si è messo ad indossare la gonna per imitare e solidarizzare con il bizzarro comportamento del suo piccolo di 5 anni.

Il padre, definito dai media “premuroso di sani principi”, non poteva certo obiettare al ragazzino che la gonna la usano le femmine, ma da “attento educatore” all’eguaglianza di genere ha preferito indossarla insieme al bimbo e passeggiare allegramente per le strade di Berlino. Dopotutto, si giustifica Nils, «non mi sta neppure così male».

Il problema è nel fatto che oggi se ne trovano molti di genitori così, (che, beninteso, grazie al cielo non arrivano ad indossare abiti dell’altro sesso), che accettano la teoria su l’eguaglianza di genere o cosiddetta “teoria del Gender”, e che la insegnano ai propri figli come corretta educazione per la crescita. Ritenuta corretta perché neutra, relativista, dunque svuotata del concetto di “educazione”. Ma cosa è questa fantomatica “Teoria del Gender” ? Cercherò in poche parole semplici di spiegarla.

Tradizionalmente gli individui vengono divisi in uomini e donne sulla base delle loro differenze biologiche, infatti il sesso e il genere costituiscono un tutt’uno. La “Teoria del Gender” propone invece una suddivisione, sul piano teorico-concettuale, tra questi due aspetti dell’identità:
a) il sesso (sex) che costituisce un corredo genetico, un insieme di caratteri biologici, fisici e anatomici, maschili o femminili.
b) il genere (gender) che rappresenta una costruzione culturale, la rappresentazione, definizione e incentivazione di comportamenti che rivestono il corredo biologico e danno vita allo status di uomo, donna, gay, lesbo, trans, bisex e altri 17 generi, secondo la “Australian human rights commission”.

Il genere, secondo questa teoria, diventa un prodotto della cultura umana, il frutto di un persistente adeguamento sociale e culturale delle identità, ed è per questo che un uomo può illudersi di “scegliere” di diventare donna e così via. In sostanza, il genere è un carattere appreso o che io scelgo a mio piacimento, non qualcosa di pre-esistente.

Niente di più menzoniero. Come già sosteneva Sigmund Freud, che certo non lo si può definire un oltranzista cattolico, l’uomo e la donna sviluppano la propria psicologia interiorizzando il proprio corpo sessuato durante l’infanzia e l’adolescenza. Quando questo non accade, i soggetti non accettano il proprio corpo reale rappresentandone uno che non corrisponde alla loro realtà personale: il corpo immaginato è diverso dal corpo reale e da questo passo si arriva ad identificarsi per ciò che non si è, portando questi soggetti difronte ad un disorientamento sessuale.

Anche il Dott. Roberto Marchesini, noto psicoterapeuta, in una intervista alla rivista Il Timone, parlando della “teoria del Gender” così esplica : «Innanzitutto si tratta di un atteggiamento di ribellione nei confronti della realtà che non può che aumentare la sofferenza e l’angoscia nell’uomo. Secondariamente, questa teoria porta ad una visione che muta radicalmente la natura dei legami relazionali. La relazione, anche sessuale, non è più il compimento di un progetto della natura umana, ma diventa questione di scelta, anche ideologica, sradicata dal livello biologico, persino variabile nel tempo. Infine, come è nel destino di ogni ideologia, anche la “teoria del gender” si sta trasformando quasi in una dittatura, che limita la libertà di pensiero e di espressione e discrimina chi non si adegua a questa visione dell’uomo».

Signori, la natura, (apparte i casi facenti riferimento a gravi patologie, quali l’ermafroditismo) è costituita da maschi e femmine, uomini e donne, un motivo dovrà pur esservi. Non è dato a noi scegliere il proprio sesso, ma bensì di riconoscerlo, di rispettarlo ed identificarci in esso, “c’est la vie”. Quindi vi do un consiglio, se un domani vostra figlia vi chiedesse di farle la barba rispondete così: «No tesoro, la barba se la fa il babbo, semmai quando sarai più grande tu al suo posto ti metterai sulle labbra un bel rossetto», vedrete che la bambina non si scandalizzerà affatto.

Niccolò Corsi

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A sostegno di una nuova teoria dell’evoluzione (I° parte)


di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica

 

Quando si tenta di fare critica scientifica al neo-darwinismo è difficile, se non impossibile, evitare l’accusa di sostenere tout court il creazionismo (in forma più o meno camuffata) e quindi di porsi al di fuori del discorso scientifico. Nel migliore dei casi, può capitare di sentirsi dire qualcosa del genere: “Va bene la critica, ma se ci si limita a quella e non si propone un’alternativa valida… la critica rimane scientificamente lettera morta e l’alternativa alla teoria neo-darwiniana coincide, di fatto, con il creazionismo”. In realtà, questo tipo di osservazione (quando è espressa in buona fede) ha senso, se si pensa a come la critica al neo-darwinismo sia effettivamente usata da certe organizzazioni per sostenere posizioni religiose fondamentaliste, decisamente anti-scientifiche. Sennonché, alle volte ci si dimentica – o si finge di dimenticare – che non tutti i dissidenti dal neo-darwinismo sono pastori protestanti della Bible belt statunitense.

Prima di proseguire nel discorso, conviene fermarci brevemente per richiamare alcuni concetti. Innanzitutto, è chiaro che l’evoluzione (intesa come cambiamento nel tempo della struttura e della composizione della biosfera terrestre) è un fatto scientifico innegabile, suffragato da innumerevoli prove. Di norma, si usa distinguere tra macro‑evoluzione e micro‑evoluzione. Con il termine macro‑evoluzione si indica la comparsa nella biosfera di nuove funzioni, organi e gruppi tassonomici;  la micro‑evoluzione si identifica invece di solito con la variabilità intra-specie (che include l’apparizione di nuove varietà o sotto-specie), ma più in generale comprende tutti i fenomeni che implicano la specializzazione o la perdita di funzioni attraverso piccole variazioni ereditabili. Per esempio, l’evoluzione dell’occhio e la comparsa dei cordati, dei tetrapodi (i vertebrati terrestri) e degli euteri (i mammiferi placentati) costituiscono tutti casi di macro‑evoluzione. D’altro canto, la separazione del cane (Canis lupus familiaris) dal lupo (Canis lupus lupus) è una faccenda puramente micro‑evolutiva.

Per quanto riguarda le evidenze scientifiche dell’evoluzione, quelle della macro-evoluzione sono esclusivamente paleontologiche; per la micro‑evoluzione, invece, esistono moltissime osservazioni “in vitro”, oltre a quelle classiche “in vivo” (come il famoso caso della Biston betularia).  Tra le prove di laboratorio va ricordato, in particolare, lo storico esperimento sui batteri di Lenski, che è una splendida dimostrazione di adattamento micro-evolutivo (dovuto, nello specifico, alla perdita di una particolare funzione enzimatica). Senza entrare nel dettaglio, ricordiamo che il neo-darwinismo (per meglio dire, la “Sintesi Moderna dell’evoluzione”) è quella particolare interpretazione scientifica dei fenomeni evolutivi per cui la macro‑evoluzione non differisce sostanzialmente dalla micro‑evoluzione. In altri termini, secondo la teoria neo-darwiniana dell’evoluzione gli eventi macro-evolutivi sono dovuti al lento accumularsi – nel corso di ere geologiche – di una lunga serie di cambiamenti micro-evolutivi. Niente di più, niente di meno.

Ora, il punto è questo: la Sintesi Moderna (figlia, come è noto, della teoria originaria della selezione naturale di Darwin e della genetica, sviluppata intorno alla metà del XX secolo) è in grado di spiegare in modo pienamente soddisfacente la micro‑evoluzione. Per fare ciò, non richiede di andare oltre la semplice interpretazione dei fenomeni biologici fornita dalla fisica e dalla chimica della fine del XIX secolo, di impianto tipicamente riduzionistico. Purtroppo, però, la spiegazione della macro‑evoluzione non si può affatto considerare una conseguenza immediata di tale teoria: è richiesto, per così dire, un supplemento interpretativo, un fondamento filosofico che assicuri che l’approccio riduzionistico sia davvero in grado di giustificare ogni aspetto della realtà scientificamente esplorabile. Tale fondamento (totalmente filosofico, perché non suffragato da nessuna prova scientifica) è perfettamente stigmatizzato nell’opera più nota di Jacques Monod, “Il Caso e la Necessità”.

Caso (o politica, o chissà cos’altro) volle che nel corso del XX secolo il neo-darwinismo – vale a dire la rappresentazione monodiana dell’evoluzione – diventasse dominante tra gli specialisti del campo, assurgendo al rango di dogma indiscutibile. Questo nonostante le sempre più schiaccianti evidenze del fatto che un’interpretazione riduzionistica non basti a render conto di tutti gli aspetti della realtà materiale: evidenze provenienti dalla meccanica quantistica e dalla fisica dei sistemi complessi, ma anche dalla stessa biologia. È ormai assodato, per esempio, che la relazione tra genotipo e fenotipo di un organismo (vale a dire, tra l’informazione genetica e la sua espressione nel vivente) è di carattere altamente non lineare: le piccole variazioni fenotipiche caratteristiche della micro‑evoluzione coinvolgono di norma aree del genoma distanti eppure fortemente interdipendenti, mentre le mutazioni genotipiche puntiformi risultano neutre dal punto di vista macro-evolutivo o hanno effetti distruttivi sull’individuo. Secondo il premio Nobel Barbara McClintock il genoma è un organello reattivo che può essere spinto alla riorganizzazione da qualche “shock”, portando alla comparsa di nuovi gruppi tassonomici: dunque, il DNA non andrebbe più considerato come il semplice portatore passivo di informazione del dogma monodiano – lentamente mutante nel tempo per effetto di piccole variazioni casuali – ma come un sistema complesso, capace di reagire in modo non lineare a sollecitazioni esterne. Inoltre, è ormai dimostrato che uno dei motori più importanti nei fenomeni evolutivi non è la mutazione genetica casuale, ma il trasferimento orizzontale di geni tra individui di una data popolazione. Tutto ciò è difficile da spiegare nella prospettiva strettamente riduzionistica del neo-darwinismo di stampo monodiano; ed è per questo che sono esistiti ed esistono scienziati che, pur essendo lontanissimi da idee creazioniste, lo hanno giudicato errato: Goldschmidt, Schindewolf, De Vries, Løvtrup, Croizat, Lima-de-Faria (per citarne solo alcuni).

Insomma, non sempre la critica al neo-darwinismo è da intendersi come strumentale a qualche sconsiderata teologia fondamentalista (così come il neo-darwinismo stesso, in quanto teoria scientifica, non dovrebbe essere strumentale a qualche altrettanto sconsiderata, e altrettanto fondamentalista, ateologia). D’altra parte, fin dalle origini il darwinismo si è cautelato da ogni tentativo di falsificazione scientifica. Il suo fondatore ebbe infatti a dichiarare: «Se si potesse dimostrare che esista un qualsiasi organo complesso, che non possa essere stato prodotto in alcun modo mediante molte piccole modificazioni successive, la mia teoria sarebbe completamente rovesciata. Ma io non riesco a trovare nessun caso del genere» (tratto dal capitolo VI de “L’origine delle specie”). In pratica, Darwin stabilì che per confermare la validità della sua teoria nella spiegazione di una data problematica evolutiva, sarebbe bastato escogitare una plausibile storia di adattamento e selezione naturale – non importa quanto improbabile, non importa se non verificabile. Pertanto, nonostante le pressioni provenienti da ogni area della scienza, è perfettamente possibile continuare ad avere fede nella Sintesi Moderna, a patto di riuscire a trovare una spiegazione riduzionistica, una narrazione selezionista darwiniana – una just-so story, insomma – che dia conto dello specifico fenomeno biologico esaminato. Il fatto è che questo è sempre possibile: considerata l’universalità del codice genetico nella biosfera terrestre, si può sempre immaginare che si sia verificata, a un certo punto nel remoto passato, un’opportuna mutazione genetica, seguita da una determinata successione di selezioni e adattamenti micro-evolutivi che hanno prodotto l’effetto osservato!

C’è un piccolo particolare, però: ogni nuova just-so story introduce un elemento sempre più pesante di fortuna nella narrazione della storia della vita. In altre parole, nella prospettiva darwiniana le cose sarebbero andate “proprio così” nel corso dell’evoluzione, non perché fosse inevitabile che lo facessero, ma perché qualche imponderabile fattore contingente avrebbe tutte le volte impostato, per un puro accidente fortuito, il corso degli eventi in un certo modo. Guarda caso, questo risultava sempre essere il modo più appropriato affinché, in un lontano futuro, potessero comparire organismi di capacità cognitive e complessità crescenti. Quest’ultima riflessione appariva particolarmente evidente a Stephen Jay Gould, che dedicò l’ultimo capitolo del libro “La vita meravigliosa” all’elencazione di una serie (parziale) delle “felici circostanze” che hanno portato alla comparsa della vita intelligente sulla Terra. Secondo l’analisi di Gould, se anche uno solo degli scenari descritti si fosse svolto in maniera differente, con ogni probabilità oggi il nostro pianeta non sarebbe abitato da una specie in grado di sviluppare scienza e tecnologia affidabili.

D’altra parte, il dogma monodiano non lascia via di scampo: nell’ambito di tale schema, ogni innovazione evolutiva dipende esclusivamente da particolarissimi eventi contingenti e da concomitanti mutazioni genetiche casuali, ognuna con una probabilità di verificarsi inesprimibilmente piccola. Cosa esattamente implichi questa concezione, e quali indicazioni possano esserci in vista di un suo eventuale superamento, lo vedremo però meglio la prossima volta.

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Un fiasco il film su Eluana: Bellocchio se la prende (ancora) con i cattolici

L’ultimo film del militante radicale ed ex comunista maoista Marco Bellocchio è intitolato “Bella addormentata” ed è ispirato alla triste vicenda di Eluana Englaro. Il regista, come abbiamo già avuto modo di far notare, ha approfittato per incrementare la confusione sulla vicenda, presentando una donna in stato vegetativo con gli occhi sbarrati e attaccata ad una macchina che la tiene in vita, costretta in questo stato da una madre isterica e cattolicissima. Nulla di più falso.

Eluana respirava autonomamente, nessuna macchina la teneva in vita, ed era costantemente circondata dall’amore di medici e suore che l’hanno curata e accudita per quindici anni. E’ stato il padre, Beppino Englaro, ad averla portata nella clinica, e alla fine ha pensato di ringraziare affermando: «me l’hanno violentata per 15 anni!». Un genitore tanto amorevole che, secondo quanto risulta dalle cronachemanco si trovava a Udine il giorno della sua soppressione. Eluana era tanto attaccata a Beppino che i medici di Sondrio hanno verificato che se a stimolarla era la madre, la donna sembrava «rispondere», obbediva cioè «a ordini semplici». Una notte, hanno appuntato, ha perfino pronunciato più volte e in modo inconfondibile la parola «mamma».  D’altra parte è ormai dimostrato che gli stati vegetativi «hanno ancora una forma di coscienza di sé stessi, oltre ad una certa coscienza del mondo esterno», come hanno rivelato anche i numerosi “risvegliati” (anche qui).

Tornando al tentativo radicale di Bellocchio di mistificare i fatti,  Lucia Bellaspiga, l’ultima giornalista ad aver visitato Eluana, ha spiegato«nel film sembra che Beppino Englaro abbia messo fine alle sofferenze di Eluana. Peccato che Eluana non soffrisse minimamente e, ripeto, non era attaccata a nessuna macchina. In quei fatidici giorni avevo intervistato il dottor Carlo Alberto Defanti, neurologo di Eluana, favorevole all’eutanasia. Gli chiesi se Eluana soffrisse. Risposta: assolutamente no, non ha nessun tipo di patimento. Anzi, è molto sana, forte e ben curata dalle suore della Misericordia».

Il regista non solo ha mostrato una realtà differente rispetto a Eluana ma anche rispetto al mondo cattolico. Persone descritte come ossessionate, urlanti e oranti, mai pensanti come ha notato il filosofo Adriano Pessina. Un esempio: la militante cattolica e pro-life che si reca a Udine per sbraitare sotto le finestre della giovane donna in coma, viene mandata da Bellocchio in un motel assieme ad un giovane laico conosciuto pochi istanti prima, mentre la si vede nascondere il crocifisso che porta al collo. Questa è la squallida idea che il regista ha voluto far passare rispetto alle persone di fede cattolica, come è stato fatto notare su “Libero”.

Nonostante le ovazioni da parte de “Il Corriere della Sera“, che ha parlato di 16 minuti di applausi alla Mostra del cinema (mentre  per “Il Sole24ore «sono stati misurati» e per “Il Messaggero” il film «non convince»), nonostante l’incredibile campagna di stampa, nonostante i baci, gli abbracci e gli occhiolini scambiati con Beppino Englaro, il film “Bella addormentata” non è stato manco preso in considerazione dalla giuria del festival e non è andata meglio con il pubblico pagante,  avendo incassato in quattro giorni di programmazione soltanto il ricavato da 62.455 biglietti staccati. In molti si sono domandati il motivo allora di una tale enfatizzazione da parte dei media. Il regista ha così sperimentato la frustrazione dei radicali, noti per battaglie ideologiche tanto promosse dalla stampa e a cui poi nessuno si interessa, e si è sfogato annunciando di non voler più correre per il Leone d’Oro. Annuncio che ha suscitato indifferenza, diversamente a quando invece se l’è presa ancora una volta con i credenti, replicando alle critiche: «Perché i cattolici non fanno un loro film su Eluana Englaro?».

Bellocchio non ha ancora capito che ai cattolici non interessa fare un film su Eluana, ma preme soltanto che la verità non venga costantemente mistificata. Su di loro e su Eluana, che con questo film è stata uccisa due volte.

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La matematica e la fede religiosa: un rapporto lungo trenta secoli (II° parte)


 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e giornalista

 
 

L’idea che un personaggio televisivo come Piergiorgio Odifreddi (un ex seminarista convertito al comunismo e all’ateismo militante, senza alcun vero merito scientifico) può far passare, è che tra matematica e religione ci sia una perfetta incomunicabilità. Di qua i numeri, da un’altra parte Dio. La storia della matematica è però lì a dirci il contrario, qui si può leggere la prima parte di questo percorso.

Sulla stessa scia di Keplero e degli altri grandi pensatori citati nella prima parte, si colloca a ben vedere tutto il pensiero matematico e in generale scientifico, per secoli e secoli, a partire dalle origini. Sempre la matematica è vista come una scoperta dell’uomo, non come una sua invenzione. Si ritiene cioè che il linguaggio matematico sia efficace, funzioni, non per caso, ma perché coglie l’oggettività di un ordine, l’esistenza di leggi universali: ordine e leggi universali che richiedono un Legislatore supremo. Un Dio “dell’ordine e non della confusione” (“God of order and not of confusion”), come ebbe a dire un altro dei più grandi matematici della storia, Isaac Newton.

Ha scritto il fisico contemporaneo Paul Davies: “Come avviene che le leggi dell’universo siano tali da favorire l’emergenza di menti a loro volta capaci di riflettere e modellare accuratamente queste stesse leggi matematiche? Come è successo che il cervello dell’uomo, che è il sistema fisico più complesso e sviluppato che conosciamo, abbia prodotto tra le sue funzioni più avanzate qualcosa come la matematica, capace di spiegare con tanto successo i sistemi più basilari della realtà fìsica? Perché la mente, che si colloca al culmine dello sviluppo, si ripiega su se stessa e si collega con il livello base dell’esistenza, cioè con l’ordine retto da leggi su cui l’universo è costruito? A mio avviso questo strano “loop” suggerisce che la mente è qualcosa che è legata ai più fondamentali aspetti della realtà fisica, sicché se vi è un significato o un fine all’esistenza fisica, allora noi, esseri coscienti, siamo di sicuro una parte profonda ed essenziale di questo fine”[6].

Eric T. Bell, autore del celebre volume “I grandi matematici”, inizia la sua narrazione partendo dai filosofi greci, per passare quasi subito a Cartesio (1596-1650) e Pascal (1623-1662). Bell ricorda, di entrambi, la fede esplicita in un Dio Creatore, e il rapporto privilegiato con il celebre matematico padre Mersenne, intorno al quale nasceva in quegli anni l’Accademia Francese di Scienze. Si potrebbero anche ricordare la dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio di Cartesio, convinto che “le verità matematiche che voi chiamate eterne sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente”, e la visione profondamente religiosa del matematico Pascal, inventore, tra le altre cose, della prima “calcolatrice”, la “pascalina”. Costui, perfettamente in linea con la teologia medievale, sosteneva da un lato che “la natura ha perfezioni per mostrare che è l’immagine di Dio, e difetti per mostrare che ne è solamente l’immagine” (Pensieri, 580), dall’altro specificava così la sua visione del rapporto tra scienza e fede: “Il Dio dei Cristiani non è un Dio solamente autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi, come la pensavano i pagani e gli Epicurei. […] il Dio dei Cristiani è un Dio di amore e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di cui Egli s’è impossessato, è un Dio che fa internamente sentire a ognuno la propria miseria e la Sua misericordia infinita, che si unisce con l’intimo della loro anima, che la inonda di umiltà, di gioia, di confidenza, di amore, che li rende incapaci d’avere altro fine che Lui stesso” (Pensieri, 556).

Dopo Cartesio e Pascal, nella lista dei grandi matematici della storia, Bell pone il già citato Newton, e, dopo di lui, Leibniz (1646-1717): siamo sempre di fronte ad un filosofo, metafisico, giurista, fisico e matematico, che oltre a perfezionare il calcolatore già inventato da Pascal e ad offrire un importante contributo al calcolo infinitesimale, era fermamente convinto, sino a dimostrarla a priori, dell’esistenza di Dio, visto come “soggetto di tutte le perfezioni, cioè l’essere perfettissimo”. Dopo Leibniz, che già a ventun anni aveva scritto un trattatello intitolato “Testimonianza della natura contro gli atei”, Bell ricorda il grande Leonardo Eulero (1707-1783), definito “il matematico più prolifico della storia”: siamo nell’età della nascente miscredenza, degli atei materialisti francesi, alla d’Holbach e alla Diderot. Eulero, invece, è un fervente protestante che ogni sera raduna la famiglia per leggere insieme brani della Bibbia. Leggiamo un aneddoto curioso su di lui: “Invitato dalla grande Caterina a visitare la sua corte, Diderot consacrava i suoi ozi a convertire i cortigiani all’ateismo; avvertita, l’imperatrice incaricò Eulero di mettere la museruola al frivolo filosofo. Era una missione facile, perché parlare di matematica a Diderot, era come parlargli cinese…Diderot fu avvertito che un matematico d’ingegno possedeva una dimostrazione algebrica dell’esistenza di Dio e che l’avrebbe esposta davanti a tutta la corte, se avesse desiderato ascoltarla; Diderot accettò con piacere…Eulero si avanzò verso Diderot e gli disse gravemente e con un tono di perfetta convinzione: ‘Signore, a+b alla n, fratto n, uguale a x: dunque Dio esiste: rispondete‘. Questo discorso aveva l’aria di essere sensato agli orecchi di Diderot. Umiliato dalle pazze risate che accolsero il suo silenzio imbarazzato, il povero filosofo domandò a Caterina il permesso di tornare in Francia…”. Sappiamo che Eulero si era limitato a fare un po’ di commedia, in quell’occasione, ma anche che in seguito provò a fornire “due solenni dimostrazioni dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima”[7]. Non interessa qui sapere quanto quelle dimostrazioni siano veramente efficaci, quanto notare che anche Eulero non trasse dai suoi studi matematici motivi per la miscredenza, al contrario!

Anche il grande matematico italiano Paolo Ruffini, cattolico fervente, scriveva pochi anni dopo Eulero, nel 1806, una dimostrazione matematica dell’esistenza dell’anima, mentre il matematico napoletano Vincenzo Flauti cercò di dimostrare Dio per via matematica nella sua “Teoria dei miracoli”. Imitato in questo tentativo ardito da George Boole (1818-1864), pioniere della logica matematica, nel suo “Leggi del pensiero” e da uno dei più grandi geni della matematica e della logica di tutti i tempi, Kurt Gödel (1906-1978), il quale tra gli anni ’40 e gli anni ’70 del Novecento, intento com’era “ricondurre il mondo ad unità razionale”, scrisse pagine fitte di formule tese a dimostrare l’esistenza di un Dio non solo come Ente Razionale ma con gli attributi del Dio cristiano[8]. Gödel era filosoficamente un realista, credeva cioè nella matematica come scoperta (“le leggi della natura sono a priori”, non una “creazione umana”); criticava fortemente lo “spirito dei tempi” suoi, improntato al materialismo ed al meccanicismo; da battista luterano qual’era, e da matematico, professava la fede in un Dio trascendente, “nel solco di Leibnitz più che di Spinoza”; sosteneva l’irriducibilità della mente al cervello, dei processi psichici a spiegazioni solamente meccaniche, e affermava che “il cervello è un calcolatore connesso a uno spirito” individuale ed immortale; riteneva “confutabile” l’idea che il cervello umano “sia venuto nel modo darwiniano”, per cause puramente meccaniche e casuali e rifletteva sul fatto che il mondo, dal momento che “ha avuto un inizio e molto probabilmente avrà una fine nel nulla”, non si giustifica da se stesso[9].

Si potrebbe continuare a lungo, nella lista dei grandi matematici credenti, citando Carl Friedrich Gauss (1777-1855) considerato da molti “il principe dei matematici”, che fu un uomo dalla natura profondamente religiosa, abituato a leggere il Nuovo Testamento in lingua greca, convinto che “il mondo sarebbe un non senso, l’intera creazione una assurdità, senza immortalità” dell’anima e senza Dio[10]; il cecoslovacco Bernad Bolzano (1781-1848), sacerdote cattolico, che diede importanti contributi alla matematica, anticipando alcune idee di Cantor; il norvegese Niels Henrik Abel (1802-1829), figlio e nipote di ecclesiastici protestanti; il tedesco Karl Theodor Wilhelm Weierstrass (1815-1897), un matematico tedesco, spesso chiamato “padre dell’analisi moderna”, di cui portano il nome teoremi, teorie e oggetti matematici, figlio di un protestante convertito al cattolicesimo e cattolico anch’egli (tanto da insegnare in varie scuole cattoliche)[11]; il tedesco Bernhard Riemann (1826-1866), considerato uno dei massimi matematici di sempre, anch’egli figlio di un pastore protestante, che fu sempre spirito “religiosissimo” e devoto[12]. Oppure potremmo citare il grande Georg Cantor (1845-1918), figlio di padre luterano e di madre cattolica, grande appassionato di filosofia e teologia medievale, così simpatizzante per la Chiesa cattolica da desiderare il consenso alla autorità cattolica romana riguardo alle sue speculazioni sui numeri infiniti (speculazioni che confinavano, diciamo così, con la metafisica e la teologia).

Da: Francesco Agnoli, Scienziati dunque credenti, Cantagalli, Siena, 2012

 

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Note
[6]. Citato in Bersanelli-Gargantini, “Solo lo stupore conosce”, Rizzoli 2003
[7]. E. Bell, “I grandi matematici”, Sansoni, Firenze, 1966, p.147-148.
[8]. R. G. Timossi, “Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel. Storia critica degli argomenti ontologici”, Marietti 1820, Genova Milano, 2005.
[9]. Gabriele Lolli, “Sotto il segno di Gödel”, Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare cap. VIII. Lolli ricorda anche quattro lettere scritte da Gödel alla madre, nel 1961, per esprimere “le sue ragioni per credere in un’altra vita”, mentre ad un amico malato, Gödel scriveva: “L’affermazione che il nostro ego consiste di molecole di proteine mi sembra una delle più ridicole mai sentite…”.
[10]. G. Waldo Dunnington, “Carl Friedrich Gauss: Titan of Science”, The Mathematical Association of America, 2004, pp. 298-311. Dunnington riporta questa frase di Gauss: “Ci sono domande le cui risposte io porrei ad un valore infinitamente più alto che quello della matematica, per esempio quelle riguardanti l’etica, o il nostro rapporto con Dio, il nostro destino ed il nostro futuro; ma la loro soluzione resta irraggiungibile sopra di noi, fuori dall’area di competenza della scienza”. Inoltre nota il biografo che il grande matematico amava moltissimo il seguente passo di James Thomson: “Padre di luce e vita! Dio Supremo!/Il Bene insegnami, insegnami Te!/Salvami da follia, vanità e vizi,/da ogni ricerca vana; nutri l’anima/di sapienza, di pace e di virtù -Sacra, carnale, eterna beatitudine!”.
[11]. Félix Klein, Róbert Hermann, “Development of mathematics in the 19th century”, Math Sci Press, 1979, p.260.
[12]. John Derbyshire, “Prime obsession: Bernhard Riemann and the greatest unsolved problem on mathematics”, J. Nenry Press, 2003: viene riportata anche la lapide posta sulla sua tomba, in cui si legge “Qui riposa in Dio Bernhard Riemann…”, e in conclusione una frase di san Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”.

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Psichiatra Italo Carta contrario ad adozione gay: «violenza alla realtà e rischi patologie»

Come enfatizzano spesso i quotidiani, anche la Francia, dopo lo zapaterismo spagnolo, si appresta a snaturare il concetto antropologico di “matrimonio” aprendo tale riconoscimento anche alle coppie omosessuali, compresa la possibilità di adottare dei bambini privandoli del diritto a crescere con un padre e una madre.

Recentemente la prestigiosa Royal Spanish Academy, l’istituzione ufficiale responsabile della regolazione della lingua spagnola, ha mantenuto nel suo “Dizionario della lingua” il concetto di “matrimonio” come «l’unione di marito e moglie, approvato da certi riti o formalità legali, per stabilire e mantenere una comunità di vita e di interessi». Esso è pre-esistente alla legge, non modificabile da essa, anche perché il termine deriva dal latino matris munia, ovvero “doveri della madre”, implicando dunque la relazione tra coloro che generano e coloro che sono generati ed escludendo pertanto le relazioni omosessuali. Non a caso anche l’Enciclopedia Treccani,  descrive tale termine come «l’unione fisica, morale e legale dell’uomo (marito) e della donna (moglie) in completa comunità di vita, al fine di fondare la famiglia e perpetuare la specie». Il teologo Mauro Cozzoli ha poi approfondito bene la questione del perché non esiste alcun “diritto” al matrimonio omosessuale (perché per essere tale deve avere consistenza oggettiva) e spiegato il motivo per cui la «sapienza antropologica ed etica dell’umanità ha conosciuto e codificato un solo istituto matrimoniale dato dall’unione piena, stabile e pubblica tra un uomo e una donna. Non attribuendo, per ciò stesso, dignità di matrimonio a unioni poligamiche, di mera convivenza e omosessuali».

Occorre poi sfatare il mito che l’opposizione alle nozze gay sia soltanto per motivi etici, morali e religiosi. Non è affatto così, come viene ottimamente spiegato “PsychCentral”, innanzitutto perché il matrimonio non è un’istituzione religiosa ma laica e naturale. Una critica è stata inoltre sostenuta, un esempio su www.rischiocalcolato.it, anche facendo notare il significativo inasprimento fiscale a carico dei contribuenti in caso di un’eventuale equiparazione delle unioni gay al matrimonio tradizionale. Anche diversi omosessuali sono contrari al matrimonio gay e all’adozione, riconoscendone le questioni problematiche. Abbiamo già parlato di Richard Waghorne e  Andrew Pierce, mentre ultimamente si è fatto sentire anche David Blankenhorn, sostenitore dei diritti gay negli Stati Uniti: «il matrimonio è fondamentalmente centrato sui bisogni dei bambini. Ridefinire il matrimonio per includere le coppie gay e lesbiche eliminerebbe del tutto nel diritto -e indebolirebbe ancora di più nella cultura-, l’idea basilare di una madre e un padre per ogni bambino».

E non abbiamo ancora considerato tutto l’aspetto scientifico legato all’inadeguatezza delle relazioni omosessuali di crescere ed educare dei bambini e dunque contribuire al bene della società intera.  Ne ha parlato l’American College of Paediatriciansne hanno parlato anche il presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera (SIPO) e il presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS). Recentemente ha preso nuovamente posizione anche il prestigioso psichiatra italiano Italo Carta, ordinario di Psichiatria presso l’Università degli Studi di Milano (lo aveva già fatto in questa occasione).

Il dott. Carta, intervistato da “La Stampa” ha affermato: «ritengo che le coppie di omosessuali e quelle di lesbiche che non solo adottano un bambino ma si fanno ingravidare e inseminare preparino un grave rischio di patologie per la prole».  Ovvero «depressioni, disturbi della personalità e dell’identità […], collasso della funzione simbolica paterna». Lo psichiatra si è anche lamentato del fatto che queste questioni «ormai sono in mano a gruppi di pressione e politici entusiasti di aumentare il proprio consenso. Dell’aspetto psicologico clinico importa poco a tutti». In una coppia omosessuale il bambino avverte inevitabilmente «la violenza fatta alla realtà, con cui il ruolo paterno e materno vengono assunti, e la mancanza del diventare madre o padre per donare il figlio all’altro e stabilire un rapporto di reciprocità».  Il suo punto di vista è condiviso da tutta una serie di scienziati, filosofi e giuristi che in parte abbiamo elencato qui.

Il docente di psichiatria ha anche accennato a studi americani che dimostrano tutto questo, come ad esempio quello recentemente pubblicato sulJournal of Marriage and Family” da Daniel Potter dell’American Institutes for Research,  con il quale viene dimostrato che i bambini cresciuti all’interno di relazioni non tradizionali, comprese quelle omosessuali, tendono a «fare peggio» dei loro coetanei cresciuti con un padre e una madre. Il sociologo dell’Università del Texas, Mark Regnerus, ha condotto un’altra indagine sui  “figli” (ormai cresciuti) di genitori omosessuali, dimostrando un significativo aumento di problematiche psico-fisiche rispetto ai figli di coppie eterosessuali. Loren Marks della Louisiana State University, ha invece confutato i pochi studi in cui si rilevava che i figli di genitori gay o lesbiche non sarebbero svantaggiati rispetto a quelli di coppie eterosessuali, dimostrandone l’inattendibilità dal punto di vista scientifico. Nel 2001 si è guarda caso scoperto che decine di studi di questo tipo sono stati appositamente male interpretati per non «attirare le ire degli omosessuali».

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In Italia il film “October Baby”, la donna quasi abortita per rispetto ai diritti della donna

Anche in Italia verrà distribuito dal 18 settembre 2012 il film che narra la storia di Gianna Jessen, sopravvisuta all’aborto salino, la donna più odiata dal movimento abortista e femminista.

Hanno cercato di sopprimerla per rispettare il presunto diritto della donna di decidere quale essere umano debba vivere o morire, ma l’aborto non è andato come previsto. Oggi Gianna è una bellissima donna, nonostante le difficoltà fisiche che si porta dietro a causa del tentato aborto subito.

Gira il mondo testimoniando la sua storia, chiedendo alle donne di riflettere meglio su ciò che viene loro spacciato come diritto e agli uomini di essere tali, cioè di non aver paura di amare le loro mogli e il frutto di questo amore.

Il DVD verrà distribuito in Italia da CLC Italia, il film sarà in inglese ma con sottotitoli in italiano.

 
 

Qui sotto la sua bella testimonianza  dell’8 settembre 2008 davanti al Parlamento australiano

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Olimpiadi di Londra 2012: un’esplosione di fede religiosa

Vietati nelle sedi di lavoro e nei luoghi pubblici, indossati con orgoglio durante le Olimpiadi di Londra 2012; i simboli religiosi sono approdati sul terreno inglese nonostante le leggi britanniche ne vietino l’esibizione. Ed il “politically correct” imposto dalla regina è stato oltrepassato, senza alcun tentennamento dai gareggianti.

Dal segno di croce del corridore giamaicano Usain Bolt (invitato in Vaticano per il prossimo aprile) all’inginocchiamento dell’inglese musulmano Mohamed Farah, di origine somala, a Vittoria Douglas che ha lodato Dio in un’intervista rilasciata alla NBC: molti atleti, prima o dopo la gara disputata, hanno cercato forza e coraggio nella preghiera. Con un gesto,un’immagine, una testimonianza. La fede ha certamente vinto questa edizione delle Olimpiadi.

Mentre per Shaherkani Wojdan, dell’Arabia Saudita, è stata la prima partecipazione ai giochi con indosso il velo, durante gli 82 secondi di lotta olimpica, per il 27enne Carlos Ballve questa è stata l’ultima Olimpiade prima di appendere al muro il bastone da hockeista professionista e cambiare la maglia da gioco con la tunica sacerdotale. Nel 2005, durante il campionato mondiale di hockey under 21, l’atleta ha preso coscienza dell’importanza di Dio nella sua vita, a seguito di un viaggio a Medjugorje . Alla chiamata del Signore, Carlos espresse un desiderio: “Fammi realizzare il mio sogno di partecipare ai Giochi Olimpici”. Così, ha continuato ad allenarsi con la sua squadra mentre iniziava gli studi in seminario. E se la fede è perseveranza, questi atleti, abituati a sudare per ottenere i risultati sperati, partono già in vantaggio. E senza alcuna inibizione. Come

La squadra delle pallavoliste brasiliane che insieme all’intero staff tecnico, si è inginocchiata per pregare insieme un emozionato “Padre nostro”, dopo la vittoria della medaglia d’oro . O come Meseret Defar che dopo aver tagliato il traguardo in gara dei 5.000 metri per vincere l’oro, ha mostrato alle telecamere l’effigie della Vergine Maria tirata fuori dalla propria maglietta. Altri numerosi esempi meritano una citazione; a partire dall’allenatore della nazionale di pallavolo brasiliana Jose Roberto Guimaraes che ha riferito ai giornalisti di essere pronto a percorrere il Cammino di Santiago in Spagna o Leonel “Leo” Manzano che ha portato a casa una medaglia d’argento per gli Stati Uniti nei 1500 metri, dopo aver pregato in mondovisione. La nuotatrice spagnola Mireia Belmonte ha invece offerto le due medaglie d’argento vinte (800 metri stile libero e 200 metri farfalla) a Nostra Signora di Monserrat.

Testimonianze di fede ed al contempo dei valori che si nutrono della fede come l’umiltà, la carità, la sincerità. Un esemio tra i tanti è Alex Giorgetti, attaccante italiano della Pro-Recco e membro della nazionale Italiana maschile di pallanuoto, quest’anno campione del mondo che ha voluto condividere la propria vittoria con Fra Miljenko Šteko, capo dell’ufficio Informazioni di Medjugorje al quale ha consegnato la palla firmata da tutti i giocatori della squadra italiana e poi con il giornalista della stazione radiofonica “MIR” Medjugorje. A loro ha raccontato il suo incontro con Gesù e Maria e di come sia davvero molto felice dopo aver completamente cambiato vita. Ha vissuto senza preghiera e sacramenti prima della sua conversione: “Poiché l’Italia non vinceva il campionato del mondo da ben vent’anni, decisi che se avessimo raggiunto un buon risultato sarei venuto a Medjugorje a ringraziare Gesù per questo. Ebbene, non solo siamo diventati campioni del mondo, ma sono anche stato premiato come miglior giocatore del campionato. Ecco perché ho deciso di venire a ringraziare Gesù e Nostra Signora per tutte le grazie che mi ha concesso. Ho salito la collina dell’Apparizione e la montagna della Croce a piedi nudi ed è stata un esperienza davvero bella per me. Mi sento contento e soddisfatto e non vedo l’ora di tornare in Italia a testimoniare la bellezza di questo luogo”, che è stata la sua vittoria più grande.

Livia Carandente

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L’enigma della Sfinge e il continuum dell’esistenza umana

 
di Stefano Bruni*
*pediatra

 

«Qual é quell’animale che al mattino ha quattro zampe, a mezzogiorno ne ha solo due e la sera tre?» É imponente; incute molto più che semplicemente timore. Con il suo corpo di leone alato e la sua testa di donna, la Sfinge sorveglia dal Citerone l’accesso a Tebe. Quando si precipita verso di loro per bloccarne il passaggio, alla sua vista tremano per la paura le gambe dei viandanti. Ad ogni persona che intende entrare nella città la Sfinge propone il suo quesito: “Qual é quell’animale…”. Bisogna risolvere l’enigma. Non é un gioco, un ragionamento che si possa rimandare. É questione di vita o di morte. Chi non sa non passa, non entra nella città. Anzi, peggio: chi non sa viene divorato, finisce agli inferi. E sono tanti quelli che finiscono tra le fauci di quella chimera che non é nè uomo né animale eppure é uomo e animale insieme.

Solo Edipo, l’uomo dal piede gonfio, un uomo in viaggio alla continua ricerca di se stesso (già, perché basta essere alla ricerca semplicemente di se stessi per capire, non occorre essere alla ricerca della Verità per dare la risposta giusta, in questo caso), indovina: «È l’uomo, quell’animale: agli inizi della vita, la mattina, gattona, cioè si muove utilizzando braccia e gambe insieme; a mezzogiorno, nella fase centrale della sua esistenza cammina con le sole gambe in posizione eretta; e nei suoi ultimi anni, quando la vita ormai volge al tramonto, per sostenere il proprio passo ha bisogno del bastone». Cosa succederebbe oggi se una moderna Sfinge, evoluta, ponesse la stessa domanda di allora, dopo averla aggiornata alla luce delle attuali conoscenze scientifiche: «Qual é quell’animale che all’alba nuota e sguazza come un pesce, al mattino cammina su quattro zampe, il pomeriggio su due e la sera su tre?».

Oggi le nostre conoscenze sull’essere umano sono enormemente piú vaste rispetto a quelle che l’uomo aveva nel VII secolo a.C. quando Pisandro descriveva il mito della Sfinge poi ripreso da Apollodoro L’embriologia ci ha mostrato scenari fantastici. Con le moderne tecniche di imaging oggi possiamo contare le vertebre dell’embrione giá 36 giorni dopo l’ovulazione e l’avvenuta fecondazione ed individuare distintamente i suoi arti in forma di abbozzo già a 32-35 giorni di vita e le sue dita ben definite a 8-9 settimane di gestazione. A 11 settimane le dita del feto (che pesa 8-14 gr ed è lungo 3-4 cm) sono ricoperte da unghie e a 15 settimane, sui polpastrelli, le impronte digitali sottolineano l’unicità del singolo individuo. Anche uno che non sia specialista del settore, cercando semplicemente in Google la voce “3d ultrasound images” può divertirsi a guardare le meravigliose immagini di feti piccolissimi che fanno “boccacce” e smorfie varie, compresi sbadigli, o succhiano il pollice.

Possiamo registrarne con un elettrocardiografo esterno il battito cardiaco quando l’embrione non é ancora più lungo di 2 cm (7 settimane dopo l’ovulazione) ma già a 22 giorni di vita (embrione lungo 2 mm) un gruppo di cellule cardiache inizia a pulsare in modo sincrono. A 11 settimane è possibile registrare con un elettroencefalogramma l’attività delle cellule cerebrali fetali ma già dalla 7a settimana l’embrione di 18 mm è capace di movimenti attivi. Gli studiosi ci dicono che (e ci spiegano come: la cute diviene sensibile grazie al funzionamento dei recettori sensitivi) un feto é in grado di provare dolore già a partire dalla 10a settimana di vita e forse anche prima, ancora nello stato embrionale, a partire dall’8° (https://www.uccronline.it/2010/04/22/aborto-e-dolore-fetale/), e piacere (succhiandosi il pollice, ad esempio, intorno alla 26° settimana). D’altra parte già alla 10° settimana la struttura del cervello è completa ed il feto inizia a presentare riflessi nervosi.

A 10 settimane, con l’entrata nel periodo fetale, il nuovo essere umano ne presenta già chiaramente la forma, a partire dalla facies, dove si possono notare gli abbozzi di orecchie, naso (il bulbo olfattivo responsabile della sensazione olfattiva è già reperibile nel cervello a partire dalla 7° settimana di vita) ed occhi (retina già pigmentata). Nello stesso periodo si formano le corde vocali ed il feto è in grado di emettere suoni. Oggi sappiamo che un feto si calma o si agita ascoltando diversi generi di musica e che impara a riconoscere ben prima della nascita la voce della mamma e il ritmo del cuore di lei che infatti lo calmano, una volta nato, quando é agitato, se vi entra in contatto. Sappiamo che gli stimoli esterni (suoni, che inizia a sentire alla 23° settimana; sapori, che grazie alla formazione delle papille gustative intorno ai 60 giorni di vita è già in grado di iniziare a percepire; stimoli luminosi, cui il feto è già sensibile a 24 settimane di vita quando è lungo un paio di dm; temperatura e movimenti) mediati dall’ambiente intrauterino costituiscono per il feto un’importante esperienza che gli permetterà di adattarsi all’ambiente extrauterino. A 11 settimane di vita sono riconoscibili i caratteri sessuali secondari e dunque è possibile sapere se il bambino sarà maschio o femmina. A 18 settimane di vita, quando è lungo 14 cm e pesa intorno ai 150 gr il feto inizia a presentare un ritmo sonno-veglia e mostra di preferire specifiche posizioni materne o situazioni ambientali esterne (suoni, luminosità, movimenti) rispetto ad altre.

Sarebbe impossibile riportare tutta l’enorme bibliografia riferita alle varie scoperte nel campo dell’embriologia e della vita dell’essere umano prima della nascita. Un sito scientifico molto bello (ma è solo uno dei tanti) riporta, settimana per settimana di gestazione, un riassunto delle dimensioni dell’embrione e del feto e delle principali caratteristiche anatomo-funzionali degli stessi. Ma davvero le pubblicazioni scientifiche e i testi divulgativi sull’argomento sono numerosissimi e accessibili a chiunque anche in rete. Con tutte queste conoscenze sarebbe logico aspettarsi che tutti oggi siano in grado di rispondere alla domanda della nuova, moderna Sfinge. Eppure, ancora, l’uomo sembra non aver conosciuto a sufficienza se stesso, la propria essenza, la propria origine.

Giá, perché la risposta é sempre la stessa: “È l’uomo, quell’animale, che all’alba della sua vita, quando si forma e si sviluppa nel corpo di sua madre é immerso nel liquido amniotico (per qualche tempo é dotato anche di manine e piccoli piedi che paiono palmati) e in questo liquido sguazza proprio come un pesciolino”Ma quanti saprebbero rispondere oggi? Non certo i tanti che si ostinano a considerare ancora embrione e feto un “grumo di cellule” o un “tumore che parassita la madre”, qualcosa d’inutile e talvolta fastidioso, un … “coso” la cui incapacità di vita autonoma lo rende inferiore, “altro” rispetto alle “persone”. Non certo i tanti che, contro ogni evidenza scientifica, rifiutano di considerare un continuum lo sviluppo di quell’essere. Un continuum che ha la sua origine in un miracolo: due cellule che sono umane ma che non sono l’essere umano, due cellule che portano tante informazioni ma non tutte le informazioni necessarie alla definizione del nuovo individuo, due cellule vive ma che non sono la VITA, ebbene queste due cellule si fondono e si trasformano reciprocamente per dar luogo ad una nuova VITA, ad un nuovo essere umano, vivente, unico e irripetibile. Un essere umano che non sarà mai uguale a nessun altro ma non sarà mai nemmeno uguale a se stesso lungo tutto il corso della propria vita.

La vita non é solo chimica. E per quanto bene un chimico conosca la tavola periodica degli elementi e sappia maneggiare e combinare tra loro atomi di diverso peso molecolare non potrà mai creare la vita. L’uomo non é un pesce, anche se nell’utero della propria mamma nuota sospeso nel liquido amniotico; cosí come non é un gatto o un cavallo o un qualsiasi altro animale quadrupede quando, intorno agli 8-9 mesi, inizia a muoversi sfruttando l’appoggio su tutti e quattro gli arti. L’uomo che nuota nel ventre materno e che gattona, per qualche tempo, una volta venuto al mondo, è lo stesso uomo che ad un certo punto, col suo carico si esperienze fatte in utero e nei primi mesi e anni di vita, con i suoi ricordi e le sue emozioni, stratificate una sull’altra nel corso delle stagioni, a partire da quel tempo 1 che é lo zigote (scusate ma non mi piace chiamarlo tempo 0), inizia a muoversi su due gambe in posizione eretta. Né l’uomo anziano, che ha bisogno del sostegno del bastone, e talvolta anche della stessa cura che si ha di un bambino, é meno uomo rispetto all’uomo delle età precedenti. L’uomo é sempre uomo, fin dal primo momento della sua esistenza. E il primo attimo in cui é stato ció che non ha più smesso di essere é il meraviglioso istante, nascosto e “magico”, della fecondazione. L’ultimo sarà il momento in cui restituirà la propria vita.

Bene. Ora fate finta che la Sfinge vi sottoponga l’enigma: “Qual è quell’animale…”. Prendetevi un po’ di tempo prima di rispondere; sedetevi comodi e verificate coi vostri occhi quiqui e ancora qui quello che vi ho raccontato fino ad ora. Poi rispondete a voi stessi e alla Sfinge: “Quell’animale è …”.

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La conversione cattolica dell’ex star di “Baywatch”, Donna D’Errico

Già in altre occasioni abbiamo parlato di conversioni, di stravolgimenti in materia di fede che, però, si manifestano anche in molti altri ambiti della vita. In questo articolo si parlerà di un ennesimo caso, scelto dalla redazione come esempio e testimonianza di un evento non solo possibile, ma anche frequente.

Donna D’Errico è un’attrice, conosciuta per aver posato, nel 1995, per la rivista Playboy, dunque per la successiva partecipazione alla serie televisiva Baywatch: in questo periodo sta invece partecipando alla produzione di un documentario sull’arca di Noè ed i recenti sospetti riguardo la presenza della stessa sul monte Ararat, in Turchia.

La scelta è certamente dovuta al fascino su di lei esercitato dal racconto biblico fin da quando era bambina, come ha raccontato. Ma soprattutto ad un cambiamento radicale nella sua vita: la conversione al cattolicesimo, tanto da considerarsi ora “totalmente religiosa” (e sottolinea che si può essere religiosi o non esserlo, ovvero che termini quali “spirituale” non hanno alcun significato), va a messa tutte le domeniche e recita il rosario tutte le sere con i suoi figli prima di andare a dormire.
Il suo passato nella rivista di Playboy è ora visto dalla donna come un errore, un periodo al quale ha ormai chiuso la porta. «Mi sembra di essere stata un’altra persona. Una persona che non è ciò che sono oggi», ha dichiarato Donna D’Errico.

La sua storia richiama inevitabilmente alla mente quella di Claudia Koll, nota attrice italiana, inizialmente coinvolta in film erotici diretti da Tinto Brass, e poi convertitasi alla fede cattolica.

 

Qui sotto una testimonianza di Claudia Koll sulla sua conversione

Michele Silvi

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