«Sono gay e contrario al matrimonio omosessuale»

Gay contro nozze gay. L’omosessuale Doug Mainwaring prende posizione contro il matrimonio tra persone dello stesso, rappresentando la voce di molte altre persone gay.

 

Un disegno di legge per legalizzare il matrimonio omosessuale nel Maryland (USA) è stato approvato dall’Assemblea Generale nel febbraio scorso, tuttavia contro tale decisione sono state raccolte ben 160.000 firme (ne sarebbero bastate 56.650) perché la decisione venga presa tramite un referendum popolare. Si voterà il 6 novembre 2012.

L’omosessuale Doug Mainwaring ha commentato tale “ribellione” popolare sul “Washington Post”, rivelando anche lo sgomento di molti omosessuali nello scoprire che anche i propri familiari avevano sostenuto la petizione, dato che i nomi dei firmatari sono stati resi pubblici.

Delle 109.313 firme certificate dal consiglio (avrebbero dovuto essere 160 mila ma ad un certo punto la commissione ha smesso di contarle), il 53% era di firmatari repubblicani (58.470), il 37% di democratici (40.046), e il restante 10% erano non aderenti a nessuno schieramento (10.645), libertari (112) e membri del Partito Verde (40). Mainwaring, che è anche co-fondatore del “National Capital Tea Party Patriots”, ha commentato: «tale risultato ha reso chiaro a tutti che non sono solo i repubblicani ad opporsi a tale legislazione. Si tratta di una preoccupazione comune».

In molti, ha proseguito l’omosessuale, «ritengono che i firmatari siano omofobi. In alcuni casi, questo può essere vero. Sono certo tuttavia che la stragrande maggioranza ritenga sufficiente, come me, visualizzare il “matrimonio” come un termine immutabile, che può essere applicato solo agli eterosessuali. E’ innegabile che, di epoca in epoca, il matrimonio è stato il più grande successo dell’umanità e fonte di prosperità, che attraversa tutte le culture e le religioni. Non dobbiamo pasticciare con esso». Ha comunque precisato: «Io sono gay. Qualche anno fa ero dall’altra parte della barricata su questo argomento. Ma più leggevo, pensavo, studiavo e tentavo di difendere la mia posizione, più mi rendevo conto che non potevo farlo. I rapporti omosessuali dovrebbero essere sostenuti dalla società, ma sono cresciuto convinto, tuttavia, che il termine “matrimonio” non deve essere modificato o regolato in alcun modo». Ha quindi concluso: «Ammettiamolo: non dovremmo tentare di forzare un qualcosa che non è mai stato pensato per le coppie dello stesso sesso. Le relazioni omosessuali sono diverse da quelle eterosessuali».

Anche Doug Mainwaring si è dunque accodato alle tante voci emerse recentemente di omosessuali contrari alle cosiddette “nozze gay”. Ci siamo già occupati di alcuni di loro: Richard Waghorne, Andrew Pierce, David Blankenhorn e Rupert Everett.

La redazione

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Leggi restrittive diminuiscono il numero di aborti (e non aumentano mortalità materna)

Le leggi restrittive sull’aborto diminuiscono il numero di interruzioni di gravidanza. Lo dimostrano i dati divulgati dal Dipartimento di Salute dell’Arizona, i quali rilevano che il numero di aborti praticati è diminuito del 7,3 per cento rispetto allo scorso anno.  Già nel 2011 si segnalava l’inizio della diminuzione di aborti.

Tale significativo declino, si fa notare, è dovuto all’emanazione di una serie di leggi pro life firmate dal governatore Jan Brewer nel 2009 e accolte dalla Corte d’Appello. Esse impongono il consenso parentale per abortire, l’ecografia, l’obbligo di fornire informazioni adeguate sui rischi dell’aborto, sullo sviluppo del feto e le possibili alternative (adozione ecc.),  la protezione per la libertà di coscienza dei medici e operatori sanitari e un adeguato periodo di attesa.

Il caso dell’Arizona mostra l’efficacia delle leggi pro-life, anche se esiste ormai un ampio corpus di ricerche che documenta l’efficacia di tali normative. I paesi in cui l’aborto è illegale o soggetto a rigorose restrizioni (come l’Irlanda e il Cile) godono ad esempio di bassi tassi di mortalità materna.

Elard S. Koch, epidemiologo del Dipartimento di Medicina dell’Università del Cile, uno degli autori che ha dimostrato il beneficio di queste normative, ha commentato recentemente«Questi dati suggeriscono che nel corso del tempo, le leggi restrittive sull’aborto possono avere effetto. In effetti, il Cile presenta oggi uno dei più bassi tassi di morti materne legate all’aborto in tutto il mondo con un calo del 92,3% dal 1989 e una diminuzione del 99,1% accumulata in 50 anni. E’ necessario sottolineare che il nostro studio conferma che il divieto di aborto non è legato ai tassi globali di mortalità materna. In altre parole, rendendo illegale l’aborto non si aumenta la mortalità materna: è un dato scientifico dimostrato nel nostro studio».

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Il furioso Furio Colombo strumentalizza la morte del card. Martini

Il cardinale Martini e l’eutanasia. Furio Colombo propone una legge sull’eutanasia a nome di Martini. Ora si scopre perché la morte del card. Martini -pienamente cattolica-, sia stata subito strumentalizzata dai suoi “figli spirituali”, in particolare Vito Mancuso e Paolo Flores D’Arcais.

 

Per una ulteriore strumentalizzazione della morte del cardinal Martini, adesso è in arrivo – secondo quando anticipato da Il Fatto Quotidiano – una «proposta di legge “Martini” sul fine vita. Autore della proposta, tenetevi forte: Furio Colombo. Basta già questo a capire il tenore dell’iniziativa che in tre articoli prevede:

a) «il diritto di decidere liberamente di non “vivere” in stato di coscienza la propria agonia e la propria morte» – per caso hanno proibito gli antidolorifici o le cure palliative?;

b) il diritto, per «ogni ammalato (irreversibilmente inguaribile)», di «ricevere una “sedazione” definitiva» – in Italia, ex. art. 579 c.p., questo si chiama omicidio del consenziente, ovviamente è un reato, ed è punito con reclusione da 6 a 15 anni;

c) che le strutture sanitarie diventino «responsabili della sofferenza fisica, psicologica e morale conseguente alla non applicazione» di questa legge – se cioè non ammazzi un malato che te lo chiede, finite nei guai tu e l’ospedale dove lavori.

Complimenti: davvero un capolavoro, come idea. Cosa poi c’entri la morte del cardinal Martini – il quale non è spirato in agonia e neppure sedato, ma che, dice Repubblica, nota testata cattolica, è stato «lucido fino all’ultimo» e il cui «decesso è avvenuto nel sonno»– con la «proposta di legge “Martini” sul fine vita» non è dato saperlo.

Povero cardinale, strumentalizzato anche da morto su cose che in realtà non lo riguardano. Agitato e mescolato.

Giuliano Guzzo

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Nuovi studi: divorzio triplica il rischio di ictus, matrimonio allontana la povertà

Uno studio pubblicato sul Journal of Stroke dimostra che gli uomini adulti che hanno sperimentato il divorzio dei genitori prima di aver compiuto 18 anni, presentano tre volte più probabilità di subire un ictus rispetto agli uomini i cui genitori sono rimasti assieme. 

«Avevamo previsto che l’associazione tra l’esperienza infantile del divorzio dei genitori e ictus avrebbe comportato conseguenze rischiose per la salute o un minor stato socioeconomico» ha spiegato una delle autrici della ricerca, Angela Dalton. «Tuttavia, abbiamo fatto dei controlli statistici per la maggior parte dei fattori di rischio noti per l’ictus, tra cui l’età, la razza, reddito e istruzione, comportamenti di salute degli adulti (fumo, esercizio fisico, obesità, e alcool). Ma anche dopo queste regolazioni, il divorzio dei genitori era ancora associato con un triplice rischio di ictus tra i maschi»«E’ possibile che l’esposizione allo stress del divorzio dei genitori possa avere implicazioni biologiche che cambiano il modo in cui questi ragazzi reagiscono allo stress per il resto della loro vita», ha spiegato un altro ricercatore, Fuller-Thomson.

Rispetto alle donne questa indagine non ha segnalato modificazioni. Tuttavia esiste un ampio corpus di ricerche che mostra conseguenze fortemente negative anche per il genere femminile. Contemporaneamente uno studio realizzato dall’Heritage Foundation ha rivelato che crescere con genitori sposati aumenta notevolmente (82%) le prospettive di sfuggire alla povertà per i bambini. Gli autori hanno affermato: «Il matrimonio è di grande beneficio per i bambini, gli adulti e la società, ha bisogno di essere incoraggiato e rafforzato». Il Dailymail ha però fatto notare che negli Stati Uniti Legislatori negli Stati Uniti i legislatori sembrano più impegnati «a promuovere il matrimonio gay, invece di puntellare il tradizionale matrimonio eterosessuale a favore dei bambini».

Queste evidenze scientifiche vanno a dimostrare quanto dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (riferito ovviamente ai matrimoni religiosi)  che ritiene il divorzio un atto immorale (dunque nemico della verità) poiché introduce anche disordine «nella cellula familiare e nella società. Tale disordine genera gravi danni: per il coniuge, che si trova abbandonato; per i figli, traumatizzati dalla separazione dei genitori, e sovente contesi tra questi; per il suo effetto contagioso, che lo rende una vera piaga sociale». Ovviamente nessuna responsabilità può essere attribuita al coniuge che sia «vittima innocente del divorzio pronunciato dalla legge civile», cioè clui che «si è sinceramente sforzato di rimanere fedele al sacramento del Matrimonio e si vede ingiustamente abbandonato».

 

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Simposio medico di Dublino: «l’aborto non serve per salvare la vita della donna»

In Irlanda l’interruzione della gravidanza è illegale a meno che non sia in pericolo la vita della madre. La Costituzione irlandese, infatti, all’art. 40, terzo comma, afferma: “Lo Stato riconosce il diritto alla vita del bambino non nato e, con la dovuta considerazione per il pari diritto alla vita della madre, garantisce nelle sue leggi il rispetto, e nella misura del possibile, tramite le sue leggi, la difesa e la rivendicazione di tale diritto”. Tuttavia in un Simposio Internazionale sulla Salute materna, che si è svolto in questi giorni a Dublino, si è concluso che «l’aborto non è medicalmente necessario per salvare la vita di una madre».

Il simposio è stato organizzato dal “Committee for Excellence in Maternal Healthcare” presieduto da Eamon O’Dwyer, professore emerito di ostetricia e ginecologia presso la National University of Ireland (NUI), ed ha visto la partecipazione dei principali esperti del settore medico, ginecologi, psicologi e biologi molecolari.

Il prof O’Dwyer ha quindi formalmente approvato il comunicato ufficiale nel quale viene appurato che: «in qualità di professionisti esperti e ricercatori in ostetricia e ginecologia, affermiamo che l’aborto diretto non è medicalmente necessario per salvare la vita di una donna. Noi sosteniamo che esiste una differenza fondamentale tra l’aborto e i trattamenti medici necessari che si svolgono per salvare la vita della madre. Noi confermiamo che il divieto di aborto non influisce in alcun modo sulla disponibilità di fornire cure ottimali per le donne in stato di gravidanza».

L’Irlanda è da mesi sotto pressione da parte dell’Europa perché modifichi le sue leggi contrarie all’aborto, nonostante la Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2010 abbia stabilito che non esiste un “diritto umano all’aborto” ricavabile dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani e, pertanto, il divieto costituzionale irlandese di abortire non viola la Convenzione. Il dottor Eoghan de Faoite, membro del comitato organizzatore del simposio, ha dichiarato: «Questo simposio mette fine al falso argomento che l’Irlanda abbia bisogno dell’aborto, ed è stato incoraggiante ascoltare i relatori internazionali descrivere l’Irlanda secondo standard elevati di assistenza sanitaria materna e un basso tasso di mortalità materna». Effettivamente,  secondo l’UNICEF, la nazione irlandese -in cui l’aborto è illegale- vanta costantemente uno dei più bassi tassi di mortalità materna nel mondo (al primo posto nel 2005, e al terzo posto nel 2008).

Lo psichiatra Sean Ó Domhnaill, consulente medico di “Life Institute”, ente pro-life, ha accolto positivamente i risultati del simposio: «La dichiarazione di Dublino afferma che l’aborto non è medicalmente necessario, è un dato di fatto accettato da parte di esperti medici. Questo è un risultato significativo a livello mondiale, dimostra che l’aborto non ha posto nel trattamento sanitario delle donne e dei loro bambini non ancora nati». Effettivamente, dunque, crolla l’argomento più gettonato dei sostenitori dell’aborto, anche perché –come abbiamo già avuto modo di rivelare– recenti studi hanno stabilito che i paesi in cui l’aborto è illegale o soggetto a rigorose restrizioni (come l’Irlanda e il Cile) godono di bassi tassi di mortalità materna.

Nel 2011 i dati del Dipartimento Britannico per la Salute hanno anche dimostrato un’ulteriore riduzione del numero di donne irlandesi che si recano in Gran Bretagna per abortire. Una recente indagine ha inoltre evidenziato che il 70 per cento dei cittadini irlandesi sostengono la protezione costituzionale per la vita nascente, compreso il divieto di aborto.

 

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Il genetista Collins: «ritengo che le leggi della natura siano opera di Dio»

Scienza e fede nelle parole del genetista cristiano Francis Collins. In queste interviste sostiene l’idea di un’evoluzione biologica teleologica, ovvero guidata da Dio seppur senza intaccare la libertà insita nella natura. Una riflessione interessante di un cristiano e scienziato di primo livello.

 

E’ considerato il più influente e importante scienziato del mondo, il genetista Francis Collins, noto per aver guidato l’equipe di ricercatori che ha decifrato il genoma umano e attuale direttore del National Institutes of Health, ovvero la principale agenzia di ricerca scientifica e biomedica del governo degli Stati Uniti (e quindi del mondo). Tempo fa ha risposto ad un paio di domande circa il rapporto tra scienza e fede. Due ambiti che lo riguardano in prima persona, essendo lui ricercatore scientifico ma anche devoto cristiano, autore anche di Il linguaggio di Dio. Alla ricerca dell’armonia tra scienza e fede (Sperling & Kupfer 2007)

Egli ha ribadito una visione realista dei rapporti che intercorrono tra i due ambiti: «la scienza cerca di ottenere risposte rigorose alle domande su “come” funziona la natura, e generalmente è abbastanza affidabile […], quindi, se volete rispondere a questo tipo di domande, come funziona la biologia per esempio, la scienza è la modalità per arrivarci. Gli scienziati sono turbati dal suggerimento che altri tipi di approcci possano essere adottati per ricavare verità sulla natura». Ecco il principale errore di alcune persone, che utilizzano argomenti teologici per spiegare contesti di competenza scientifica. Ma la fede, spiega Collins nell’intervista, «risponde a una diversa serie di domande. Ed è per questo che io non credo ci debba essere un conflitto. I tipi di domande a cui la fede può indirizzare una risposta, sono nel campo filosofico: “perché siamo tutti qui?”, “perché c’è qualcosa invece che nulla?”, “esiste un Dio?”. Queste non sono questioni scientifiche e la scienza non ha molto da dire su di esse».

Per come è fatto (per come è stato creato), l’essere umano «ha bisogno di qualcosa che vada oltre la scienza, per perseguire alcune delle cose di cui gli esseri umani sono curiosi. Per me, ha perfettamente senso». Eppure, si lamenta il genetista, «alcuni miei colleghi scienziati che sono persuasi di essere atei, a volte usano la scienza come una clava sulla testa dei credenti, suggeriscono in sostanza che tutto ciò che non può essere ridotto a una questione scientifica non è importante e rappresenta una superstizione che dovrebbe essere eliminata. Parte del problema è che questi estremisti hanno occupato il palco, queste sono le voci che sentiamo». Eppure, «molte persone sono in realtà a loro agio con l’idea che la scienza sia una modalità affidabile per conoscere la natura, ma che non sia tutto, c’è un posto anche per la religione, per la fede, per la teologia, per la filosofia. Ma questa prospettiva di armonia non attira l’attenzione più di tanto, ho paura che nessuno sia così interessato all’armonia come lo è per il conflitto».

La seconda domanda permette una risposta più personale: «il mio studio nella genetica certamente mi dice, incontrovertibilmente, che Darwin aveva ragione sulla natura di come le cose viventi siano arrivati sulla scena, per discendenza da un antenato comune sotto l’influenza della selezione naturale per periodi di tempo molto lunghi […]. Questa è una risposta a un “come?”. Lascia invece aperta la domanda del “perché?”. Altri aspetti del nostro universo, per me come per Einstein, sollevano interrogativi circa la possibilità di un’intelligenza dietro tutto questo. Perché, per esempio, le costanti che determinano il comportamento della materia e di energia, come quella gravitazionale, per esempio, hanno esattamente il valore che devono avere perché vi sia tutta la complessità dell’Universo? Questa è una cosa mozzafiato vista nella scarsissima probabilità con cui è avvenuta. E fa pensare che una mente potrebbe essere stata coinvolta nella fase di impostazione, ma allo stesso tempo non implica necessariamente che tale mente controlli le manipolazioni specifiche di cose che stanno accadendo ora nel mondo naturale». Anche la natura, come l’uomo, è dotata di libertà.

Tuttavia, conclude Francis Collins, «penso che le leggi della natura potenzialmente possano essere il prodotto di una mente. Penso che sia un punto di vista difendibile. Ma una volta che queste leggi sono entrate in vigore, allora penso che la natura vada avanti e la scienza ha la possibilità di percepire come questo funzioni e quali sono le sue conseguenze».

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Un’altra omosessuale finge aggressione omofobica, arrestata

Insanguinata e pestata, poi lasciata dinanzi all’abitazione della sua vicina di casa perchè omossessuale.

E’ la drammatica storia raccontata da Charlie Rogers alla polizia di Lincoln (Nebraska), durante lo scorso agosto. Tre uomini mascherati si sarebbero introdotti in casa, l’avrebbero legata e con della vernice spray avrebbero scritto parole offensive sui muri della sua residenza. Questa versione, ricca di dettagli brutali, è stata esposta dalla presunta vittima agli inquirenti; e non solo. Anche i media infatti hanno presto fatto rimbalzare il terribile caso dal web alle Tv, suscitando anche l’attenzione della politica e della chiesa. Una manifestazione di solidarietà organizzata dalle associazioni LGBT ha raccolto circa $ 1.800, subito depositati in un conto bancario  per Rogers. Anche la Plymouth Congregational Church ha tenuto un evento in suo onore. La città si è stretta intorno alla richiesta di un provvedimento  per i diritti dei gay.

Peccato che l’episodio di omofobia si sia rivelato ancora una volta del tutto inventato, ideato dalla stessa protagonista per accendere i riflettori  sull’argomento. Nei quattro interrogatori sostenuti dalla finta vittima, infatti, le versioni presentate si sono dimostrate contrastanti, elementi sempre diversi si aggiungevano alle descrizioni e il letto su cui la donna diceva di aver subito violenze non presentava alcun segno di lotta. La polizia ha dunque cominciato ad insospettirsi, ancor più nello scoprire questo post sulla pagina facebook di Rogers, risalente a quattro giorni prima della presunta aggressione: «Forse sono troppo idealista, ma credo che così saremo  in grado di rendere le cose migliori per tutti. Sarò un catalizzatore. Farò quello che ci vuole. Lo farò». Una dichiarazione che ha trovato conferma nei fatti fintamente raccontati dalla donna omosessuale che hanno vanamente impiegato l’FBI in una quantità esorbitante di tempo e di risorse umane. La donna è stata arrestata nei giorni scorsi.

Un caso simile è avvenuto poco tempo fa con Joseph Baken, il quale ha dichiarato di essere stato picchiato per il suo 22esimo compleanno in quanto omosessuale. La polizia ha invece scoperto invece che aveva semplicemente sbattuto la faccia a terra in seguito ad una acrobazia mal riuscita. Ancora, all’inizio di quest’anno, il Central Connecticut State University ha tenuto una “manifestazione di solidarietà” per conto di Alexandra Pennell, una lesbica presumibilmente perseguitata. Poi si è scoperto che era lei stessa ad inviarsi le missive minatorie. Nel maggio scorso, una coppia di lesbiche ha denunciato alla polizia di aver trovato la scritta “Kill the Gay” sul loro garage, con tanto di corda da impiccagione. I funzionari di polizia hanno accertato che anche in questo caso erano state le due donne ad aver inscenato gli incidenti.

In America la violenza contro gli omosessuali, quella vera, sembra essere fortunatamente in leggera diminuzione (almeno nelle scuole). Il Congresso americano, inoltre, ha già approvato una legge contro l’omofobia. Qual è dunque il vero interesse a realizzare queste messe in scena?

Livia Carandente 

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Coscienza e neuro-libertà: il contributo di Tommaso d’Aquino (I° parte)

 

di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neuroeticista presso la “Regina Apostolorum” di Roma

 

Il problema della coscienza, dell’identità personale e del libero arbitrio è in primo piano tra le questioni oggi più dibattute nelle scienze cognitive e nella filosofia. Il pensiero classico affrontava l’argomento da un punto di vista prevalentemente metafisico. La fenomenologia e la filosofia della mente ampliano la tematica ad aspetti quali l’intenzionalità, la soggettività in prima persona, l’inconscio, la coscienza di corpo e il rapporto con altre menti. Le neuroscienze valutano queste tematiche nella prospettiva della base neurale, introducendo in questo modo nuovi orizzonti sulla questione.

Oggi è quanto mai necessaria una riflessione profonda orientata al discernimento e all’integrazione dei diversi sensi della coscienza e della libertà umana. Sin dai tempi più remoti, il tema della coscienza e del suo rapporto con la libertà umana ha coinvolto l’interesse dei migliori pensatori. Oggigiorno, mentre da una parte vengono confermati i risultati neuroscientifici condotti, sin dagli anni settanta, da Benjamin Libet[1], dall’altra si diffonde un clima scettico relativo alla coscienza personale e alla libertà d’azione. Alcuni neuroscienziati arrivano a concludere che queste peculiarità dell’essere umano, altro non sarebbero che mere illusioni funzionali, frutto dell’ingegno evolutivo del nostro cervello. La problematica è notevole: ha la coscienza un ruolo causale diretto nell’agire libero dell’uomo? Siamo davvero esseri dotati di coscienza e libertà, o automi in balia di uno stretto determinismo neurobiologico? Nel fondo la questione si riassume nella domanda seguente: che cos’è la libertà? E qual’è il suo rapporto con la coscienza personale?

Oggigiorno, lo sviluppo delle capacità tecnologiche rende possibile studiare in vivo e visualizzare le aree del nostro cervello osservandone, anche in tempo reale la loro maggiore o minore attivazione nelle circostanze più svariate. Questo ha prodotto un vero e proprio fiume di studi scientifici. Per una corretta valutazione delle interpretazioni neuroscientifiche, la tradizione filosofica che in Tommaso d’Aquino trova uno dei massimi sintetizzatori, potrebbe contribuire a fornire alcuni concetti e chiavi di lettura che aiuterebbero a rasserenare e rendere più realistiche certe conclusioni ed inferenze. Dall’altra, un’antropologia tommasiana unitiva ed integrativa, potrebbe costituire un valido fondamento neuroetico per evitare tanto il dualismo cartesiano, quanto un monismo cerebrale uni-totalizzante.

In questa prima parte riassumerò le evidenze neuroscientifiche a disposizione, mentre nella seconda parte considererò alcune conclusioni relative a tali esperimenti, mentre nella terza e ultima parte chiarirò i concetti filosofici in gioco e concluderò se o meno essi vengano annullati dalle neuroscienze.

Il dibattito contemporaneo in quest’area è stato ben riassunto da Kerri Smith e pubblicato sulla rivista scientifica Nature nel 2011[2]. I primi esperimenti che hanno maggiormente influito alla diffusione di una visione neurodeterminista dell’agire libero dell’uomo furono realizzati da Benjamin Libet nella decade degli anni ’70-’80. I risultati di Libet sono stati successivamente pubblicati sulla rivista Behavioral and Brain Sciences nel 1985[3]. Il titolo dell’articolo mette in luce l’esistenza di una “iniziativa cerebrale incosciente” che in qualche modo vincolerebbe la volontà cosciente durante l’azione volontaria. Si può a ragione affermare che gran parte del dibattito a cui ci stiamo riferendo trova la sua origine nel noto “esperimento di Libet”. Di che cosa si tratta? Libet e i suoi collaboratori presero le mosse dalle scoperte di Hans Helmut Kornhuber e Lüder Deecke avvenute nel 1965 e di ciò che questi ultimi denominarono in tedesco “Bereitschaftspotential”, “readiness potential”, in inglese, o potenziale di preparazione o disposizione (PD), in italiano. Il PD consta di un cambiamento elettrico che si ingenera in determinate aree cerebrali e che ha la caratteristica di precedere l’esecuzione dell’azione futura[4].

Libet utilizzò un apparecchio di elettroencefalografia (EEG) col quale registrò l’attività cerebrale di una serie di volontari coinvolti nel prendere una decisione, nello specifico, la decisione di muovere un dito. Lo studio si realizzò nel modo seguente: i partecipanti avevano in una mano un orologio che potevano bloccare con l’impulso volontario di un dito; quando i soggetti sentivano la necessità di muovere le dita della mano libera e lo volevano fare, dovevano bloccare l’orologio. L’esperimento fu disegnato in modo tale da poter conoscere la relazione temporale che vi era tra il potenziale di preparazione (PD), la coscienza della decisione da attuare e l’esecuzione del movimento. Tutto mirava a conoscere quando “appare” il desiderio cosciente o intenzione di portare a compimento un’azione. I risultati furono sorprendenti: esistono dei potenziali corticali di preparazione localizzati nella corteccia motoria secondaria (corteccia premotoria) che precedono di circa 350 millisecondi l’azione cosciente al realizzare un movimento volontario. I dati di Libet furono replicati e confermati da Haggard e Eimer che li pubblicarono nel 1999[5].

Nel 2008 John-Dylan Haynes, neuroscienziato del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig in Germania, utilizzando tecniche di neuroimaging (fRMN o risonanza magnetica funzionale), realizzò una serie di esperimenti più sofisticati dimostrando che le intenzioni venivano codificate nella corteccia motoria secondaria (frontopolar cortex) fino a sette secondi prima che i partecipanti allo studio prendessero coscienza delle loro stesse decisioni. In pratica, si concludeva lo studio affermando che la cosiddetta libertà umana non era altro che una mera illusione[6]. Recentemente questi risultati furono confermati dallo studio più aggiornato del settore, pubblicato nel giugno 2011. Dodici studenti dell’Università di Leipzig, in parte maschi e in parte femmine, parteciparono allo studio. Nelle conclusioni, oltre a confermare i dati pubblicati nel 2008, si afferma: «questi risultati appoggiano la conclusione che la corteccia premotoria è parte di una rete di regioni cerebrali che danno forma alle decisioni coscienti molto prima che si giunga allo stato di coscienza delle stesse» [7].

Quali conclusioni possono essere desunte da questi dati sperimentali? Lo vedremo nella seconda parte che verrà pubblicata domani.

 

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Note
[1]. B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, «Behavioral and Brain Sciences», 8 (1985), pp. 529-566.
[2]. K. Smith, Neuroscience vs philosophy: Taking aim at free will, «Nature», 477 (2011), pp. 23-25.
[3]. B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, «Behavioral and Brain Sciences», 8 (1985), pp. 529-566.
[4]. H.H. Kornhuber – L. Deecke, Hirnpotentialänderungen bei Willkürbewegungen und passiven Bewegungen des Menschen: Bereitschaftpotential und reafferente Potentiale, «Pflugers Archive für die Gesamte Physiologie des Menschen und der Tiere», 284 (1965), pp. 1-17.
[5]. P. Haggard – M. Eimer, On the relation between brain potencials and the awereness of voluntary movements, «Experimental Brain Reserch», 126 (1999), pp. 128-133.
[6]. C. S. Soon (et al.), Unconscious determinants of free decisions in human brain, «Nature Neuroscience», 11 (2008), pp. 543-545
[7]. S. Bode (et al.), Tracking the Unconscious Generation of Free Decisions Using UItra-High Field fMRI, «PLoS ONE», 6 (2011).

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Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno


 

di Giorgio Masiero*
*fisico

 

È quasi impossibile trovare oggi in un articolo di biologia termini come “mente” o “coscienza”, al cui posto leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G. Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è “epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre, al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di cosa sia la mente.

La paroletta di Huxley non è tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno. Fenomeno (dal greco “fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti, manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna, l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica dell’uomo da far dire ad Euripide: “La mente in ciascuno di noi è un dio”.

La coscienza pure non è un fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro. Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.

La fisica però non si ferma agli atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore. Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza (collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E. Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale, appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?

Che cos’è il mio Io? Qual è il mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore, arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche se non mi riconoscerei identico a prima.

E il cervello? in che rapporto sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software, senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno. Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi. Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere; non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte. Il mio Io, invece, respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.

Nei primi anni di vita la Volontà della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale, ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali, che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima. Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.

L’alterità tra stati psichici e grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli dèi di Omero” (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che “noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla “res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino, “Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi anche i fisici più creativi.

Chi prima delle equazioni di Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità (qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate accidentali?

A sciogliere il problema del sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la biologia molecolare, né le neuroscienze, e neanche la fisica ultima dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto” comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente impotente, rivoluzione scientifica.

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Vito Mancuso offende la memoria del card. Martini per promuovere l’eutanasia

«Il diavolo sa ben citare la Sacra Scrittura per i suoi scopi», diceva William Shakespeare. L’aforisma rende abbastanza l’idea se si pensa che negli ultimi secoli i più grandi nemici della Chiesa e del cristianesimo non sono stati laicisti o anticlericali di professione -essi non hanno la forza e gli argomenti per tentare di abbordare le certezze della fede-, ma teologi, esegeti ed esperti delle Sacre Scritture.

Pensiamo ai danni sulla credibilità della fede cristiana causati dal teologo evangelico Rudolf Bultmann  o dal teologo cattolico Hans Küng, , per non parlare dei preti mediatici Andrea Gallo e Antonio Mazzi. Impossibile da trascurare il teologo cattolico Vito Mancuso, reso famoso dal prete-imprenditore don Luigi Verzé, nominandolo come docente di teologia, dal quale non soltanto non ha preso le distanze dalle sue anticristiane megalomanie, ma ne ha difeso la libertà intellettuale. Questo perché –come è stato fatto notare– Mancuso (e altri docenti dell’Università San Raffaele) sono «profeti di un cristianesimo antidogmatico e antichiesastico, in grado di conquistarsi il credito laico-progessista, ammantato di quell’aura di battagliera indipendenza dalla gerarchia che tanto piaceva a don Verzé, perché in fondo è stata la sua cifra esistenziale».

Mancuso, spretatosi negli anni ’80, ha definito il card. Carlo Maria Martini “il mio padre spirituale” e non ha trovato un modo migliore per onorare la sua vita strumentalizzando la sua morte per tirare acqua al mulino dell’eutanasia, pratica da lui ampiamente sostenuta. Chissà se il card. Martini sarebbe stato contento che il suo “figlio spirituale” sfruttasse la sua morte per motivi ideologici, sostenendo ad esempio che egli «ha dato estrema testimonianza staccando, quando lo ha ritenuto inevitabile, le macchine che lo tenevano artificialmente in vita». Mancuso ha riportato questa amenità sul suo “padre spirituale” -secondo la recensione realizzata da Roberto Esposito– nel suo ultimo libro “Conversazioni con Carlo Maria Martini” (Fazi 2012) realizzato assieme a Eugenio Scalfari. Ovviamente è chiaro a tutti che il card. Martini non era attaccato a nessuna macchina (già altri hanno provato questo tentativo) e che ha soltanto chiesto di interrompere le terapie inutili per evitare l’accanimento terapeutico e -come fanno decine di malati terminali ogni giorno nel mondo- ha chiesto una sedazione palliativa per attendere la morte nel sonno, decisione condivisa anche dal dal cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, che ha affermato: «Anch’io come Carlo Maria direi no a quelle terapie». Apprezzabile anche l’onestà intellettuale di Carlo Flamigni -ci si è ridotti a valorizzare le parole di un presidente onorario dell’UAAR che contraddice quelle di un teologo cattolico!- quando afferma: «Qualora Martini avesse rifiutato l’accanimento terapeutico che differenza farebbe? Non mi sembra che la Chiesa si opponga. Il cardinale ha soltanto rifiutato le cure che riteneva inutili, sicuramente non ha chiesto di essere lasciato morire. L’unico accanimento è piegarlo alla propria ideologia». 

Anche Vito Mancuso -com’era prevedibile- si è dunque accodato agli squallidi tentativi di Paolo Flores D’Arcais (Eugenio Scalfari e tanti altri, confutati dal medico personale del cardinale) di strumentalizzare la vita e la morte del card. Martini. Dopo essersi scagliato contro presunte “operazioni anestesia” compiute dalla Chiesa nei confronti di Martini (tesi confutata anche da “Il Foglio”, da Andrea Tornielli, da Antonio Spadaro, da Antonio Socci, oltre che da tutti gli articoli apparsi sul compianto biblista sull‘”Osservatore Romano” e su “Avvenire”) ha contribuito a «compiere un’incredibile distorsione della realtà, rimasticata e ripubblicata quasi con la meccanica convinzione che “ripubblicando ripubblicando alla fine si avvererà”, almeno nella testa della gente. Ma vera la “eutanasia dell’Arcivescovo” non è mai stata né mai potrà diventarlo, e rappresenta – l’ho già scritto e, qui, lo ripeto – un’autentica bestemmia, un ingiustificabile ed estremo oltraggio a un uomo di Dio che ha servito la verità e coltivato, da cattolico, le virtù della chiarezza, del rispetto e del dialogo», secondo il duro e condivisibile commento del direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio.

 

AGGIORNAMENTO 25/09/12, ore 15:00
Mentre questo articolo veniva realizzato, Vito Mancuso ha scritto al direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, prendendo le distanze dalle affermazioni a lui attribuite da Esposito e affermando: «lei ha perfettamente ragione nel rimarcare l’infondatezza dell’affermazione di Eugenio Scalfari nell’articolo su “Repubblica” del 1 settembre, ripresa da Roberto Esposito sempre su “Repubblica” nell’articolo del 21 settembre, secondo cui il cardinal Martini avrebbe “deciso di essere staccato dalle macchine che ancora lo tenevano in vita”». Mancuso ha continuato: «Si tratta di un’inesattezza che va smentita con chiarezza e che per quanto mi riguarda non ho sostenuto in nessun modo, essendo ben al corrente delle condizioni del cardinale che visitavo con una certa regolarità». Dunque il “teologo” ha confutato apertamente le subdole affermazioni del fondatore del suo quotidiano, Scalfari, ma ha pensato di farlo soltanto in una letterina ad “Avvenire”, lasciando tranquillamente che dalle colonne di “Repubblica”, di cui è editorialista, venissero diffuse “inesattezze” sul suo “padre spirituale”.

Mancuso ha poi tentato comunque di strumentalizzare la morte del card. Martini citando –come ha fatto Paolo Flores D’arcais- un articolo della nipote dell’ex arcivescovo di Milano, avvocato Giulia Facchini, testimone diretta degli ultimi momenti di vita del cardinale, la quale ha scritto che lo zio, quando ha sentito arrivare la morte, ha chiesto «di essere addormentato» e così una dottoressa lo ha sedato. Secondo Mancuso quindi, «il cardinal Martini non è stato staccato da nessuna macchina, ma ha piuttosto scelto, in libera determinazione, di staccare la sua presenza mentale (si potrebbe dire la sua anima spirituale) dal suo corpo». Martini infatti, come migliaia di altri pazienti in stato terminale fanno ogni giorno, ha scelto appunto la semplice sedazione palliativa che addormenta il paziente per evitarli sofferenze, soluzione che -al contrario della tesi di Mancuso- non accorcia affatto la vita, anzi –come ha scritto la “Rivista Italiana di cure palliative”– probabilmente aumenta addirittura la sopravvivenza dei pazienti.

Tarquinio ha giustamente risposto sorpreso del «tentativo di sostituire un mai avvenuto “stacco della spina” con un deliberato “stacco della mente” o, addirittura, uno “stacco dell’anima”. Sembra quasi che l’importante sia riuscire a dire che qualcosa è stato, comunque, “staccato”. Non è andata così […]. “Accompagnare” una persona morente con cure adeguate, che ne leniscono le sofferenze, non è affatto “procurare” la morte. Non si può dirlo e non si può farlo pensare. Perché il “far dormire” – cioè la compassionevole sedazione, che nel caso del cardinale è stata offerta dalla saggezza del medico curante e accettata dal morente – è appunto un modo per “accompagnare” chi sta troppo patendo».

 

AGGIORNAMENTO 26/09/12
Vito Mancuso ha fortunatamente capito che avrebbe fatto meglio ad inviare una lettera anche a “Repubblica”, oltre ad “Avvenire” per difendere il suo “padre spirituale” (come mai solo adesso? Scalfari ha affermato quelle sciocchezze il giorno dopo la morte di Martini!). Mancuso ha però aggiunto che Martini ha «scelto di interrompere le cure finalizzate al mantenimento della vita per passare a cure finalizzate ad affrontare la morte nel modo meno traumatico possibile». Ha quindi chiesto che «a ogni cittadino sia dato il medesimo diritto esercitato da Martini». Purtroppo Mancuso prosegue nella strumentalizzazione del card. Martini, in quanto l’ex arcivescovo di Milano ha chiesto quello che chiedono quasi tutti i malati in fase terminale, ovvero di attendere la morte dormendo. Non ha chiesto di interrompere il mantenimento in vita, dire questo significa continuare ad offendere la sua memoria pur di promuovere l’eutanasia.

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