Sentenza terremoto L’Aquila: giudici vittime dell’ideologia scientista

 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Se in un momento di offuscamento dell’onestà intellettuale si decidesse d’accogliere la gretta vulgata tanto anticlericale quanto antistorica, così capillarmente diffusa oggigiorno, in merito all’inquisizione romana, si dovrebbe senza remore ritenere, riguardo alla recente condanna degli scienziati a sei anni di detenzione che non avrebbero saputo prevedere il gigantesco terremoto in Abruzzo, ch’essa non avrebbe potuto far meglio, o forse, peggio!

Tuttavia, se la sentenza appare prima facie a tutti grottesca e in molti ci si mobilita prendendo le difese degli scienziati, in questa sede si preferirebbe andar, come sempre, controcorrente, prendendo le difese dei giudicini (meglio definirli così, mossi a tenerezza dal loro essere così sprovveduti ed indifesi, come dei pargoli di campagna, soprattutto ora che subiscono le scomuniche e gli anatemi della “chiesa” scientifica internazionale), poiché solo così può emergere davvero la natura di una simile pronuncia di ciò che può essere definito a tutti gli effetti come un vero e proprio atto di rabdomanzia giudiziaria. Insomma, anticipando ed esplicitando le conclusioni per motivi di chiarezza, non sono gli scienziati vittime dei giudicini, ma sono i giudicini vittime degli scienziati.

Non si vuol certo fare a gara d’assurdità, considerando la sentenza in commento, ma ci si vuol proprio riferire a ciò che la realtà è in se stessa in questo strano caso, cioè paradossalmente surreale. Ebbene sì, la pronuncia dei giudicini, al netto delle vicende processuali e delle questioni giuridiche, è il risultato più lampante del pensiero contemporaneo in cui tutti, nostro malgrado, siamo immersi. I giudicini hanno condannato degli scienziati perché secondo loro, in buona sostanza, non hanno saputo far scienza, o meglio non hanno saputo far funzionare la scienza, o meglio ancora, hanno reso fallibile qualcosa che per “il comune senso del ritenere” è di per sé infallibile. I giudicini in sostanza sono le vittime, come tutti coloro che ordinariamente ritengono che la scienza sia infallibile e su questo presupposto danno per vere delle teorie e delle prassi che vere per l’appunto non sono. I poveri giudicini che hanno emesso questa sentenza, sono, in buona sostanza, vittime della cultura odierna. Sgorgano, dunque, come fonte d’acqua alcuni quesiti che possono chiarir meglio ciò che qui s’intende.

Chi oggi non sarebbe d’accordo nel ritenere che per tutte le domande della vita può rispondere la scienza? Chi oggi non pensa che scienza e religione o ragione e fede siano incompatibili per vari motivi, primo tra i quali la discrepanza incolmabile tra la certezza della prima e la opinabilità della seconda? Chi non reputa che le altre dimensioni della vita (quella umanistica, e non quella tecnica; quella giuridica, e non quella politica; quella filosofica, e non quella ideologica; quella etica, e non quella morale – nel senso della mutevolezza dei mores; quella spirituale, e non quella psicologica; quella mistica, e non quella misticistica ) siano divenute del tutto superflue, anacronistiche, spettri della diasporante soggettività degli individui contrapposta alla solida oggettività della indiscutibile scienza? Chi oggi non ritiene che la scienza se da un lato non debba fornire risposte di senso per la vita (del resto non potrebbe mai farlo, poiché l’arduo compito per natura non le compete neanche se volesse e perché del resto a ciò sono deputate, sebbene per lunghezze d’onda tra loro differenti, la filosofia e la teologia ) sia al contempo diventata per molti – non in grado tuttavia di percepirne l’autoreferenzialità – essa stessa una risposta di senso della vita? In altri termini, la scienza è stata sequestrata dallo scientismo, cioè dall’ideologia per la quale tutto provenga e addivenga dalla e alla scienza, il pensiero per cui la realtà non è più comprensibile se non attraverso la scienza, e ciò che la scienza non comprende o non esiste o è privo di importanza.

Se una volta Max Horkheimer ebbe a sostenere che «quando scomparirà la teologia, scomparirà anche ciò che si chiama senso del mondo», oggi molti vivono ricalcando questa idea ed applicandola, distorcendo all’un tempo la natura sia del referente che del riferito, alla scienza, per cui senza di essa e dove essa non c’è mancherebbe il senso. A tutto ciò si è giunti poiché si è creduto per troppo tempo che la scienza non dovesse aver limiti, pensiero tuttavia ancor oggi largamente diffuso. L’esempio lampante proviene proprio dalle questioni bioetiche e dalla avversione che i più provano verso la bioetica, cioè nei confronti della «scienza della sopravvivenza» (per usare la nota definizione che il padre del termine “bioetica”, Van Potter, utilizzò negli anni ’70). La bioetica è la scienza della sopravvivenza, poiché talvolta, sempre più di  frequente a dir la verità, la scienza rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell’uomo. Sarebbe troppo facile pensare alla sopravvivenza fisica e materiale messa in pericolo dall’esistenza degli ordigni atomici (la mortalità dei quali fu salutata da un celebre scienziato, Oppenheimer, con la icastica confessione per cui con le armi nucleari «la scienza aveva conosciuto il peccato», cioè perduto la propria innocenza ), ma si dovrebbe anche pensare alla sopravvivenza etica e giuridica messa in pericolo, per esempio, dalle ricombinazioni genetiche che si sperimentano nei laboratori di mezzo mondo; dalla incertezza dei rapporti familiari a causa della molteplice riformulazione degli stessi attraverso le tecniche di procreazione medicalmente assistita; dal tentativo di creare l’utero artificiale (oramai a buon punto) dando vita all’ectogenesi, cioè paradossalmente alla fine del dar la vita; dal tentativo oramai consolidato di trasformare l’interruzione di gravidanza da intervento medico e chirurgico a mera terapia attraverso i più sofisticati mezzi farmaceutici (per il tramite dei sempre più nuovi ed efficaci, sebbene non sempre efficienti, farmaci abortivi).

L’ideologia scientista ogni giorno lascia credere che tutta la vita dipenda dalla scienza (si pensi a titolo esemplificativo, forse banale, ma efficace, che le serie televisive e letterarie sui gialli e sui casi criminali e giudiziari una volta erano incentrate sulla figura dell’investigatore – Sherlock Holmes, Colombo, Poirot, Maigret – mentre oggi ruotano attorno alla frenetica, e francamente noiosa, attività di modernissimi laboratori con strumenti scientifici “all’ultimo grido” in cui la trama non si svolge tra le deduzioni logiche, umane e fallaci di chi investiga, ma si attorciglia sinuosa e seducente attorno a provette, microscopi, lucette blu, agenti e reagenti chimici ), per cui non possono biasimarsi i giudicini i quali, portando alle logiche conseguenze l’ambito culturale in cui sono e siamo immersi, abbiano ritenuto che non solo tutta la vita dipenda dalla infallibilità della scienza, ma che perfino la morte sia ad essa riconducibile. Del resto, nelle aule giudiziarie, sembra che oggi conti più l’opinione tecnico-scientifica del perito di turno piuttosto che quella giuris-prudente del giudice o degli avocati.
Tutta la responsabilità allora ricade integra ed intera sulla testa della comunità scientifica internazionale che deve cominciare a ripensare con umiltà il proprio ruolo, i propri limiti. Si deve cioè abbandonare l’idea dell’infallibilità tipica dell’ideologia scientista per recuperare una genuina dimensione epistemologica, di carattere popperiano, cioè la convinzione che la scienza non sia l’assoluto ( l’assoluto non sono nemmeno la teologia o la filosofia, che mai si sono rappresentate così pur essendo tecnicamente e rispettivamente la scienza che studia il divino e la scienza che studia la verità – per utilizzare la felice formula aristotelica – ), ma che anzi proceda secondo congetture e confutazioni.

Per recuperare il proprio senso, cioè i propri limiti, la scienza e gli scienziati devono cominciare a riconoscere anche il senso di ciò che scientifico non è, o meglio, che anche ciò che non è strettamente scientifico è latore del senso, solo così del resto si potrà riconoscere quando qualcosa è sensata o meno non solo scientificamente, come per l’appunto la sentenza in questione che prima d’essere scientificamente insensata, è giuridicamente e filosoficamente aberrante. Come si evince, la scienza non è sola e sola non può essere, poiché corre il rischio di essere annullata nella sua stessa autoreferenzialità. La sentenza che condanna gli scienziati che non hanno previsto il terremoto abruzzese è proprio il sintomo di quanto la scienza abbia pertinacemente voluto essere abbandonata alla propria solitudine, respingendo tutte le altre dimensioni dell’esistenza, non escluso il diritto, che si sono scientificizzate fino ad ottenere un simile disastroso risultato. La comunità scientifica necessita di un bagno d’umiltà filosofica ed epistemologica, riconoscendo che non tutto può avere una risposta scientifica, senza per questo significare che le risposte non scientifiche non siano risposte. La scienza, infatti, risponde al come o al quando della vita, non al cosa o al perché, ( risposte demandate rispettivamente alla filosofia ed alla teologia ). In fondo, l’ingiustizia palese e lamentata da quasi tutti in ordine alla sentenza di cui trattasi, non è per nulla una questione scientifica, ma una questione di giustizia, cioè non materializzabile e ripetibile nel chiuso d’un laboratorio, ma esperibile attraverso altre dimensioni dell’umano, come per l’appunto la ratio juris.

Peter Medawar, del resto, è stato fin troppo chiaro allorquando ha riconosciuto che «non dunque alla scienza, ma alla metafisica, alla letteratura o alla religione dobbiamo rivolgerci per cercare una risposta agli interrogativi che ci poniamo sul principio o sul fine delle cose. Si tratta di risposte che non nascono da una conferma sperimentale, e neppure la richiedono […]. Che la scienza non possa rispondere a queste domande di fondo non significa però che si debbano mettere in discussione le sue risposte a domande d’altro tipo». Se gli scienziati vogliono evitare il carcere devono cominciare a non rinchiudere più la ragione nelle lussuose, ma anguste celle della scienza stessa. La ragione non è di esclusiva pertinenza della scienza. Gli scienziati odierni commettono l’errore denunciato da Albert Camus, cioè quello per cui l’uomo, lo scienziato si potrebbe dire in questo caso, «sfuggito alla prigione di Dio ha costruito il carcere della storia e della ragione».
La scienza dovrebbe in conclusione ripensare se stessa, per esempio, cominciando dal suo rapporto con ciò che normalmente le viene indebitamente contrapposto, cioè la religione. Ma quanti, soprattutto scienziati, sono oggi disposti ad una coscienziosa attività di auto-critica? Quasi nessuno, nonostante uno dei più grandi scienziati del XX secolo, Albert Einstein, abbia scritto chiaro e tondo che «la scienza senza la religione è zoppa; la religione senza la scienza è cieca».

Alla luce di tutto ciò, i giudicini della sentenza abruzzese non sono meno colpevoli dei loro imputati, e questi, del resto, non sono più innocenti dei loro accusatori!

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Marco Cappato dice le bugie, Yamanaka è contro la ricerca sulle embrionali

L’on. Marco Cappato, attivista del Partito Radicale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, si è occupato nella sua carriera di «denunciare i metodi da caccia alle streghe sui casi di pedofilia, così come il proibizionismo su internet e la sottovalutazione dell’impatto della pedofilia “domestica”. Al centro delle nostre varie operazioni antipedofilia c’è stata la demonizzazione di Internet, con procedimenti penali anche a carico di chi ha semplicemente visitato siti pedofili» (risposta di conforto al pedofilo orgoglioso William Andraghetti, anch’esso militante dei radicali).

Il pluricarcerato (seppur per brevi periodi) Cappato, oltre a demonizzare le pene verso gli utenti dei siti pedofili, ama anche occuparsi di bioetica, sfruttando la non si sa quale autorità fornitagli dalla sua laurea in economia in Bocconi (università privata, un paradosso per lo statalista radicale). Ha preso infatti parola sul recente conferimento del Premio Nobel per la medicina a Shinya Yamanaka grazie alla scoperta della riprogrammazione delle cellule staminali adulte per la cura di malattie.

Ovviamente questa assegnazione è stata un durissimo colpo per i radicali, da anni delegittimatori delle staminali adulte in favore delle embrionali. Infatti l’accademia dei Nobel lo ha premiato proprio perché grazie a lui si possono oggi «bypassare tutti i problemi etici legati agli esperimenti sugli embrioni». Ovvero le cellule embrionali non sono più necessarie, confutando così le previsioni di Umberto Veronesi secondo cui  «le cellule staminali embrionali rappresentano davvero una grande promessa della biomedicina» (La Repubblica, 15/6/2005, p. 8). Non a caso la Chiesa cattolica, che si fa consigliare da ben altri scienziati rispetto a Veronesi, ha da tempo scommesso –investendo anche del denaro- nella ricerca tramite le staminali adulte.

Cappato ha commentato la notizia dicendo che «il Nobel per la medicina a Gurdon e Yamanaka consacra l’importanza della ricerca sulle cellule staminali come frontiera più promettente nella cura di malattie che colpiscono porzioni considerevoli di popolazione». Capiamo il suo imbarazzo per dover commentare tale notizia, ma truccare così le carte è roba da radicali, per l’appunto. L’evento ovviamente consacra l’importanza delle sole cellule staminali adulte, dato che i due ricercatori hanno dedicato la loro carriera scientifica solo a queste.

Ospitato da Il Fatto Quotidiano, ovviamente, ha tuttavia tentato di difendere la ricerca sugli embrioni, spiegando che «la tecnica di riprogrammazione non è ancora pronta per la fase applicativa sui malati». In realtà in Italia un caso di osteogenesi imperfetta è già stato trattato con successo tramite le staminali del midollo osseo.  Lo ha spiegato in questo documento il dott. Paolo Bini, dirigente Medico della USL n.2 di Perugia: «le staminali di adulto sono già oggi una realtà consolidata in alcune aree terapeutiche: il trapianto di midollo osseo, il trapianto di cute, il trapianto di cornea ecc. Invece, per quanto riguarda le staminali embrionali, non vi sono notizie di protocolli terapeutici ad eccezione di quelli negli animali da esperimento; peraltro, oltre al problema del rigetto immunologico (nel caso di cellule non derivate da clonazione terapeutica, cioè dal paziente stesso) e alla difficoltà di guidare in maniera efficace e precisa la differenziazione delle staminali embrionali, va menzionato il potenziale cancerogeno di queste cellule, causato dalla loro elevata attività proliferativa; questo pericolo non è stato evidenziato, invece, per le cellule staminali adulte».

Il genetista del Dipartimento di Scienze zootecniche dell’Università degli Studi di Napoli e filosofo della bioetica, Donato Matassinoha a sua volta dichiarato«L’individuo inizia dal concepimento quindi sopprimere l’embrione, fosse anche per un farmaco, non si può […]. Le staminali embrionali si sono rivelate a rischio, geneticamente poco gestibili, possono anche produrre tumori invece che il tessuto atteso. Molto più gestibili sono quelle adulte già indirizzate per produrre il tessuto e l ’organo che si vuole rimpiazzare». Gli scienziati dunque smentiscono Cappato, l’uso scientifico delle embrionali è ormai poco utile e anche pericoloso.

Il leader radicale ha anche parlato di Yamanaka, il quale -secondo lui- avrebbe «sempre rifiutato di farsi arruolare da chi pretenderebbe di utilizzare un filone di ricerca contro un altro, come se esistesse una contrapposizione e non una sinergia e osmosi continua». Anche in questo caso Cappato avrebbe fatto meglio a proseguire la sua ideologica battaglia per le stanze del buco a Milano, perché proprio qualche anno fa il novello Nobel per la medicina è stato intervistato dal New York Times e ha descritto il momento in cui è cambiata la sua carriera scientifica. Era assistente professore di farmacologia e faceva ricerca sulle cellule staminali embrionali, su invito di un amico ha guardato attraverso un microscopio uno degli embrioni umani conservati nella clinica. Ha commentato: «Quando vidi l’embrione, mi accorsi improvvisamente che c’era piccolissima differenza tra lui e le mie figlie. Pensai, non possiamo continuare a distruggere embrioni per la nostra ricerca. Ci dev’essere un altro modo». E il modo lo ha trovato, proprio volendo evitare la ricerca sugli embrioni (grazie a questo blog per aver trovato l’articolo del New York Times).

Marco Cappato insomma, tentando di salvare il salvabile, ha mentito o ha preso un enorme granchio. Da sottolineare invece il commento di Medicina e Persona dopo l’assegnazione del Nobel a Yamanak: «se lo scienziato che fa ricerca rispetta ciò che è, il dato, la dignità che l’uomo ha, allora la strada è indicata e proseguendo su questa strada con curiosità e fiducia i frutti arrivano. Il procedimento di ricerca adeguato quando si studia l’uomo è quello che accetta i limiti imposti dalla sua dignità. Se il metodo è adeguato all’uomo, lo rispetta, i risultati arrivano, sono positivi».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Lourdes: l’incredibile guarigione di Elisa Aloi (con osso ricresciuto)

Tra le tante guarigioni miracolose ottenute a Lourdes per intercessione della Vergine Maria, vogliamo oggi segnalarne una delle ultime a favore di un’italiana, Elisa Aloi, inspiegabilmente guarita da una tubercolosi ossea multipla fistolosa il 5 giugno 1958, miracolo che ha poi ottenuto il riconoscimento formale da parte della Chiesa e del Bureau Médical di Lourdes il 26 maggio 1965.

La malattia cominciò a manifestarsi nel 1948, quando Elisa aveva 17 anni, con una tumefazione dolorosa al ginocchio destro: «Non potevo muovermi dal letto per la febbre continua e per i dolori. In poco tempo il male si estese dal ginocchio al fianco destro e sinistro. Oltre alle operazioni, ero ingessata dal collo alla coscia, per cui dovevo stare completamente distesa a letto» ha affermato la sig.ra Aloi. Nei successivi 11 anni, a causa delle sempre più numerose localizzazioni tubercolari osteo-articolari, ha subito ben 33 interventi chirurgici, ma la sua situazione si è aggravata via via sempre di più, fino al 1958 quando, nonostante lo scetticismo dei medici che le avevano chiaramente detto di non avere più alcuna speranza di guarigione per lei, decise di affidarsi alla “Bella Signora” ed intraprendere il suo terzo viaggio a Lourdes.

«Sono partita per Lourdes che stavo molto male, avevo febbre alta – racconta– ; il penultimo giorno di pellegrinaggio il prete che mi trasportava in barella mi chiese: “Elisa, vuoi uscire?”. “Si – gli rispondo – portami alle piscine”. Dopo che siamo usciti dalle piscine improvvisamente sentii delle vibrazioni, sentivo le mie gambe che  si muovevano dentro al gesso e io dissi: “Signore, che suggestione…toglimi questo pensiero di poter muovere le gambe” ». Quando ebbe capito di non essere vittima di una illusione, chiamò il dottore: «Mi misero sull’Esplanade tra le barelle di altri stranieri e gridai: “Dottor Zappia, muovo le gambe dentro al gesso” – continua Elisa – “ed egli per non farmi gridare si avvicinò alla mia barella e sollevò la coperta. Era immobilizzato. Vide che le ferite erano chiuse, le garze e i tubi di drenaggio erano puliti e posti accanto alle gambe [ndr, Elisa portava un apparecchio gessato al bacino e all’arto inferiore destro fenestrato per permettere la medicazione di 4 fistole]. Subito dopo la processione mi portarono al Bureau Médical e io suppongo che i dottori che mi osservarono gridarono da subito al miracolo al che chiesi loro: “Toglietemi il gesso, voglio camminare” ».

I medici del Bureau consigliarono che a togliere l’ingessatura fosse il personale medico che aveva in cura la signora, così tornata nella sua Messina, Elisa fu immediatamente sottoposta a nuovi esami radiologici che confermarono l’incredibile evento. Il professore che aveva in cura da anni Elisa e che, come ultima speranza di arrestare la progressione dell’infezione tubercolare, aveva asportato dalla sua gamba destra ben dieci centimetri di osso per evitare la necrosi, affermò: «Io non metto in dubbio i miracoli di Dio e della Madonna, né vorrei mettere in dubbio le parole del nostro radiologo che dice che tu non hai assolutamente nulla, neanche tracce di decalcificazione, ma l’osso che ho operato io, che con le mie mani ho tolto dalla tua gamba, è ricresciuto!».

Questo è solo una dei tantissimi episodi che ribadiscono la straordinarietà di un luogo così pieno di Grazia qual è Lourdes, come anche Vittorio Messori ha voluto recentemente sottolineare col suo nuovo libro Bernadette non ci ha ingannati. Un’indagine storica sulla verità di Lourdes (A. Mondadori Editore 2012), uscito lo scorso 9 ottobre, in cui ricorda: «Se Lourdes, dunque, è “vera”, ebbene, tutto il Credo, e proprio quello della prospettiva cattolica, è “vero”. Pertanto, Dio esiste; Gesù è il Cristo da Lui inviato; la Chiesa che ha per guida il papa è la custode e la garante di queste verità. Non è l’Immacolata stessa a raccomandare alla veggente: “Andate a dire ai preti di costruire qui una cappella”?» [pag. 18].

 

Qui sotto il video-testimonianza, con interviste ad alcuni medici

Raffaele Marmo

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

America: i “non religiosi” sono ex protestanti (ma rimangono credenti)

Recentemente facevamo notare come, in seguito ad un’indagine sociologica del “Censur”, sia emerso che pochissimi italiani ritengono che la scienza renda superata la religione. 

Uno smacco tremendo per il folkloristico movimento dei “new atheist”, presente in Italia grazie a Piergiorgio Odifreddi, Corrado Augias, Margherita Hack e Umberto Veronesi (osservando l’età media, “new” si fa per dire ovviamente), il quale ha proprio come obiettivo quello di strumentalizzare la scienza usandola come arma contro la fede religiosa. Il fallimento di tale movimento, sorto durante le varie dittature comuniste del 1900, esploso istericamente dopo l’evidente fallimento della filosofia marxista e aggravatosi a causa del terrorismo religioso di matrice islamica (11/11/01 per intenderci), lo si può notare anche dai dati sulla religiosità in America rilevati dall’ultimo studio di “Pew Research Center”.

Il dato saliente che emerge da questa indagine è che negli ultimi anni sono aumentati coloro (oggi il 20%, un 2-3% in più negli ultimi 5 anni) che si definiscono “senza appartenenza religiosa” (sociologicamente detti “nones”), persone che non necessariamente sono prive «di convinzioni religiose o pratiche. Al contrario, la relazione mette in chiaro come la maggior parte dei “nones” dice di credere in Dio, e la maggior parte si descrive come religioso, spirituale o entrambi». I non credenti restano comunque il 2,4% della popolazione, contro un 92% di credenti in Dio.

In questo 20% di “non più affiliati religiosamente” (compresi atei e agnostici) due terzi crede in Dio (68%), più della metà vive una sorta di paganesimo-panteista (58%), più di un terzo si classifica come “spirituale”, ma non “religioso” (37%), tre su dieci dicono di credere nell’energia spirituale degli oggetti fisici e nello yoga come pratica spirituale. Circa un quarto crede nell’astrologia e nella reincarnazione, tre su dieci dicono di essersi sentiti in contatto con qualcuno che è morto e il 15% ha consultato un sensitivo. Il dato conferma dunque uno studio del 2008 apparso sul sito della Baylor University secondo cui aderire consapevolmente alla religione cristiana diminuisce notevolmente la credulità, misurata in termini di convinzioni in cose come sogni, Bigfoot, UFO, case infestate, comunicazione con i morti e l’astrologia.

Occorre anche dire anche che uno su cinque (21%) di queste persone allontanatesi dalla religione afferma di pregare ogni giorno, mentre la maggior parte ritiene che le chiese e le altre istituzioni religiose siano una forza per il bene della società, rafforzano i legami comunitari (78%) e sostengono in modo importante i poveri (77%), anche se troppo occupate di denaro (70%) e politica (67%).

Un’altra cosa interessante è che questi “non più religiosamente affiliati” si sono staccati in maggioranza dalla religione protestante (evangelici,  battisti, metodisti ecc.). Nel 2007, il 53% degli americani si definiva protestante mentre nel 2012 sono calati al 48% (la prima volta che si scende sotto il 50%). Al contrario, la quota di popolazione cattolica è rimasta approssimativamente costante negli ultimi sei anni: il 22-23% degli americani. Riassumendo queste tendenze da un’altra angolazione, spiegano i ricercatori, la popolazione di religiosamente non affiliati è sempre più composta da persone che raramente o mai partecipa alle funzioni religiose. Anche questo è un dato importante perché evidenzia come il distaccarsi dalla propria comunità, il ritenere superflui i sacramenti e le direttive della Chiesa assumendo una posizione di “fede adulta”, è frequentemente il primo passo verso il distacco completo dalla religione e dalla religiosità, o comunque un abbandono dei valori cristiani come dimostra la situazione oggi della comunità cattolica ultra-progressista olandese, dilaniata dalla pedofilia.

Secondo gli studiosi, infine, questi dati sono causati da diverse teorie: ovviamente l’aumento della secolarizzazione (cioè la crescita del benessere sociale e della ricchezza porta ad abbandonare la fede religiosa, illudendosi che Dio non sia più necessario come se poi “servisse” davvero a questo scopo), il continuo rimandare il matrimonio e la genitorialità (i non più affiliati sono aumentati solo tra i non sposati) e l’aumento del disimpegno sociale, cioè «una tendenza tra gli americani a vivere più vite separate, avviare un minor numero di attività comuni, meno probabilità di coinvolgersi in gruppi di volontariato e di comunità, dalle leghe sportive ai gruppi artistici». Insomma l’incremento dell’individualismo/solitudine, come ha mostrato un’altra recente indagine, correlato in modo parallelo all’aumento della secolarizzazione.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il Miur risponde agli statalisti: «scuole pubbliche sono anche le paritarie»

Non sappiamo cosa stesse facendo nel 2000 Antonio Padellaro, l’attuale direttore de Il Fatto Quotidiano, certamente non era distratto a smistare la pila di denunce per diffamazione come si è trovato a fare da quando è divenuto direttore di uno dei più violenti quotidiani italiani (per ultima quella arrivata dal settimanale Tempi). Tuttavia qualcuno dovrebbe aggiornarlo ricordandogli che la legge 62/2000 ha riconosciuto la parità a tutte le scuole private purché in linea con determinati requisiti fissati dalla legge stessa, rendendole parte della scuola pubblica. E’ ora che se ne prenda atto anche sul quotidiano statalista.

Da Il Fatto (seguito dal fazioso Il Giornale, che soffre in modo evidente di senso d’inferiorità) è nata infatti la polemica di questi giorni circa lo spot del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) sulla scuola pubblica, narrato dalla voce fuori campo di Roberto Vecchioni. Gli statalisti hanno gridato alla scandalo quando si è scoperto che il video è stato girato in una scuola privata, la Deutsche Schule Mailand di Milano, uno degli istituti più prestigiosi della città. Anche Il Corriere della Sera è caduto nella trappola dicendo: «La location dello spot è una scuola privata. Il che non è il massimo, se l’intento era pubblicizzare l’istruzione pubblica». Certamente la sterile polemica non è nata solo perché si tratta di una scuola tedesca (il che l’avrebbe anche giustificata, ma solo in parte perché nulla nel video porta ad identificare la location), ma perché tutti fanno finta di dimenticare che le scuole private fanno parte del sistema pubblico.

Non a caso il ministero ha risposto parlando di «polemiche prive di fondamento», spiegando che il video racconta la scuola italiana nel suo complesso. Scuola che, per legge, è composta da scuola pubblica e dalla privata parificata, tanto che è cambiato il nome stesso del ministero che non si chiama più “pubblica istruzione” ma “dell’istruzione”. Il video vuole promuovere la scuola pubblica, paritaria e statale, andando oltre le ideologie stataliste.

Al contrario del resto d’Europa, dove le private sono completamente (o quasi) finanziate dallo Stato, la legge 62/2000 ha anche assegnato alle scuole paritarie un contributo finanziario di circa 530 milioni di euro (in realtà molti di meno, nel 2012 per ora sono 233 milioni), mentre alla scuola statale le risorse destinate (nel 2009) ammontano (qui se il pdf non si apre) a più di 54 miliardi di euro. Come abbiamo già notato, se si desse alle scuole paritarie la cifra che a esse spetterebbe in base alla percentuale dei suoi iscritti (il 10% degli studenti italiani), il contributo dovrebbe ammontare a oltre 5,4 miliardi di euro, dieci volte in più di quanto viene riconosciuto attualmente. Sul bilancio totale dell’istruzione la scuola paritaria rappresenta, infatti, meno dell’1%, oltreutto servendo ben più alunni di quanto i contributi a essa concessi coprano.

Nel 2010 la rivista specializzata di settore Tuttoscuola ha calcolato che lo Stato risparmierebbe oltre 500 milioni di euro l’anno se aumentasse di 100 milioni i contributi alla scuola paritaria, consentendo a più famiglie di sceglierla (ogni euro investito nella paritaria renderebbe allo Stato 5 euro di risparmio). Come ha di recente spiegato Ugo Lessio, presidente regionale della Federazione italiana scuole materne (FISM), ad esempio, «il costo di un bambino nella scuola per l’infanzia paritaria è di 2.960 euro per dieci mesi. Il costo nella scuola statale è di circa 7.500 euro».

Oltretutto, come riporta su Ilsussidiario.net Tommaso Agasisti, ricercatore nel dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, basandosi sui dati rilevati dall’”Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione” (INVALSI), su incarico del ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, per ogni materia e per ogni area del Paese italiano, i punteggi medi delle scuole paritarie sono superiori a quelli delle scuole statali. Abbiamo già confutato la leggenda che nelle paritarie vi siano servizi più scadenti rispetto alle statali e sempre Ilsussidiario.net ha chiarito la situazione circa i presunti insegnanti pagati in nero.

Ma per gli ideologhi questi dati non serviranno a nulla, per loro lo schema vince sempre sulla realtà. Lo sa bene il laicista furioso Furio Colombo, pluristipendiato senatore del PD,  che è arrivato addirittura a sostenere che la scuola privata esisterebbe «per combattere la scuola pubblica»,  ed è «fondata sui valori del privato, tende a portare tutto dentro ambiti privati» e non solo «prepara un futuro tutto privato», ma anche «tanti piccoli Formigoni». I suoi modelli ideali – scrive ancora – sono «i candidati presidenziali Romney e Ryan, che vogliono moltiplicare le forniture per le spese militari e tagliare le cure mediche gratuite». Non ci stupiamo, siamo già informati sul fatto che nulla di serio può mai uscire dai ragionamenti del Furio nazionale.

Molto più interessante il commento di Elena Ugolini, attuale sottosegretario all’Istruzione (Il Fatto Quotidiano ha cercato più volte di screditare il suo pensiero ricordando che, ha sì un curriculum di tutto rispetto, ma è stata anche preside del liceo privato Malpighi di Rimini): «siamo consapevoli del valore pubblico che le paritarie svolgono all’interno del sistema, per il bene di tutta la collettività […], intendiamo dare certezza e stabilità a chi gestisce le scuole paritarie e soprattutto vorremmo aiutare le famiglie a poter esercitare il loro diritto di scelta in campo educativo». Fa anche cenno al voler «far maturare un concetto di pubblico nel campo scolastico, in linea con i Paesi più avanzati, superarando l’idea che pubblico equivalga a statale».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Francia: per non discriminare i gay aboliti “mamma” e “papà”

Mentre negli USA la ricchissima lobby LGBT -che ha già comprato la legalizzazione del matrimonio gay a New York-, può ora contare anche sui soldi del sindaco miliardario Mike Bloomberg che ha promesso di finanziare i candidati di ogni partito che promuovano l’agenda omosessuale, in Francia sta per essere confermata la tesi del piano inclinato: le unioni civili (legalizzate nel 1999) servono soltanto come primo passo per portare al matrimonio e all’adozione per le persone dello stesso sesso.

E’ stata la promessa elettorale di Francois Hollande, uno che di relazioni sentimentali se ne intende (sic!) dato che pare abbia “condiviso” l’attuale première dame francese con un ministro del governo di Sarkozy. E’ stato comunque costretto a spostare dal 31 ottobre al 7 novembre l’approvazione del progetto matrimonio con annessa adozione per gli omosessuali dopo che anche  il grande rabbino di Francia, Gilles Bernheim, ha preso posizione contraria assieme a cattolici, evangelici, musulmani, protestanti e cristiani ortodossi di Francia. Secondo un recente sondaggio, tuttavia, due francesi su tre preferiscono che la decisione sulla legge venga presa dopo un referendum, così come ha chiesto la Chiesa cattolica francese, che oltretutto ha rilasciato una interessante nota sulla legge in discussione.

Recentemente  la psicologa Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, ha affermato che pare esserci un «più ampio disegno di delegittimazione della famiglia molto chiaro, in atto in modo sotterraneo, ovvero togliendo valore a quello che c’è». Non si può spiegare in altro modo la decisione del governo socialista di Hollande di abolire dal diritto di famiglia i ruoli di madre e padre, che verranno sostituiti dai termini più neutri di “genitore 1” e “genitore 2”. Già qualche anno fa, si ricorda su “Linkiesta”, il ministero della Pubblica istruzione inglese ha suggerito agli insegnanti di redarguire i bambini che si riferiscano ai propri genitori chiamandoli “mamma” o “papà” perché ciò farebbe sentire discriminati i bambini cresciuti da coppie omosessuali. Questa legge, ha spiegato il ministro della Giustizia Christiane Taubira, «è necessaria per secolarizzare il legame del matrimonio».

Il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e primate di Francia, è stato letteralmente coperto di insulti per aver criticato questa legge e per aver chiesto semplicemente ai fedeli di pregare «per i bambini e giovani perché possano essere aiutati a scoprire il proprio percorso, progredire verso la felicità, cessare di essere oggetto di desideri e conflitti da parte degli adulti e beneficiare pienamente dell’amore di un padre e la madre». Una preghiera ritenuta diffamatoria verso gli omosessuali e che ha giustificato una violentissima campagna di diffamazione, arrivata anche in Italia su Il Fatto Quotidiano che ha parlato addirittura di “guerra omofobica“! Forti perplessità per questa intolleranza omosessualista sono state pubblicate anche sull’Osservatore Romano.

Anche il Corriere della Sera, tuttavia, ha sorprendentemente avanzato qualche riserva verso le nuove disposizioni del governo francese chiedendosi «se sono proprio indispensabili certe corse in avanti, certe forzature volute in nome del sempre più esigente e tirannico politically correct». Ha anche riportato l’opinione critica della filosofa Sylviane Agacinski, docente presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, la quale ha ricordato che «esiste una identità di struttura tra la coppia genitoriale uomo-donna, sessuata, e la bilateralità della filiazione (cioè il fatto che i figli abbiano due genitori). L’alterità sessuale dà il suo modello formale alla bilateralità genitoriale: è per questo, e solo per questo, che i genitori sono due, e non tre o quattro».

Si tratta in realtà di un interessante articolo della Agacinski pubblicato nel 2007, nel quale ricordava che «l’istituzione di una coppia genitoriale omosessuale elimina la distinzione uomo/donna a favore della distinzione tra omosessuali ed eterosessuali […], non accorgendosi che la pretesa di “matrimonio gay” o “genitorialità gay” è una finzione perché crea soggetti giuridici che non sono mai esistiti: gli “eterosessuali”». La filosofa ha continuato:  «non è la sessualità degli individui ad essere la base del matrimonio o parentela, ma il sesso in primo luogo, vale a dire, la distinzione antropologica tra uomini e donne. Il matrimonio è sempre stata l’unione legale di un uomo e una donna, che è la madre dei suoi figli: la parola francese tiene traccia del significato latino, “matrimonium”, che mira a rendere una donna madre (mater)».

Ha poi proseguito ricordando che «è molto difficile separare la questione del matrimonio “omosessuale” da quella di “genitorialità gay”» ed ha concentrato l’attenzione sul fatto che «la filiazione tra un bambino e i suoi genitori avviene universalmente in modo bilaterale, può solo accadere se «la coppia è costituita dal modello asimmetrico e complementare maschio-femmina, che dà distinzione ai lati paterno e materno di parentela. Non vi è alcuna confusione tra la natura e il sociale , ma c’è un’analogia, vale a dire, una identità strutturale, tra la coppia genitoriale, sessuale, e la filiazione bilaterale».

In sintesi, se la filiazione umana, sociale e simbolica chiede agli individui di essere maschio e femmina, non è a causa dei sentimenti che possono esserci tra di loro, ma «è a causa della condizione sessuale dell’esistenza umana e l’eterogeneità di ogni generazione». Invece, come ha ripreso pochi mesi fa, «la differenza sessuale è diventata per alcuni un vero e proprio tabù, un argomento proibito. Invece di un caso filosofico e antropologico è una lotta politica, come se fosse reazionario dire che esistono uomini e donne» .

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Premio Nobel a Yamanaka e continui successi con le staminali adulte

Le cellule staminali pluripotenti indotte (iPSCs) sono state prodotte per la prima volta nel 2006 dal gruppo del professor Shinya Yamanaka dell’Università di Kyoto, vincendo i premi Wolf e Nobel  per la medicina. Sono cellule staminali pluripotenti artificialmente derivaste da una cellula non-pluripotente – in genere una cellula somatica adulta, ad esempio della base dell’epidermide – forzando l’espressione nel fenotipo di specifici geni.

Queste metodiche hanno l’indubbio vantaggio etico di ottenere cellule staminali senza sacrificio di embrioni umani; inoltre, poiché sono tratte dal paziente stesso, non danno problemi di immunizzazione e rigetto ed appaiono quindi assai promettenti.

 Le applicazioni terapeutiche che già sono state proposte e testate con successo in animali di laboratorio sono parecchie: la sclerosi laterale amiotroficala degenerazione maculare ed altre malattie della retina che causano cecità, gravi malattie degenerative del sistema nervoso centrale come l’Alzheimer e il Parkinson, danni al tessuto miocardico in seguito ad infarto,  diabete insulino-dipendentefratture osseeartriti post-traumaticheper citare solo le più recenti apparse.

Altre cellule simili e molto promettenti sono quelle tratte dalla vena del cordone ombelicale al momento della nascita: secondo la scelta della partoriente, esse possono essere donate oppure conservate allo stato congelato in vista di eventuali futuri problemi di salute del bambino (qui e qui alcune notizie recenti sul loro potenziale terapeutico).

Il “babbo” delle cellule iPSCs professor Yamanaka, neo premio Nobel per la Medicina, è molto ottimista circa l’applicabilità concreta di queste terapie: «Unn grande problema che riguarda le staminali embrionali è che vengono prodotte distruggendo gli embrioni. Credo che le cellule iPSCs che ricaviamo dalle cellule somatiche sostituiranno le embrionali appena sarà accertata la loro sicurezza». E concludendo: «Ho avuto l’onore di incontrare il Papa nel 2008 e ho avuto alcune possibilità di discutere delle mio lavoro anche con ricercatori della Pontificia Accademia delle Scienze. Indubbiamente la tecnologia basata sulle Ips può aggirare la controversia sulle staminali embrionali».

Linda Gridelli

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

I Patti Lateranensi, al di là degli sfoghi anticlericali

La conquista di Roma da parte delle truppe sabaude nel 1870 scatenò un conflitto tra Chiesa e Stato destinato a durare per più di mezzo secolo. Da un lato, la gerarchia vaticana con a capo Pio IX, seppur non ostile all’indipendenza dell’Italia, non era intenzionata a cedere il suo territorio che gli era stato trasmesso dai suoi predecessori per oltre un millennio, mentre dall’altro nonostante la formale politica di separazione tra Chiesa e Stato, il governo italiano aveva introdotto una serie di normative fortemente anticlericali.

Tuttavia entrambe le parti erano coscienti che la storia del papato era strettamente legata a quella dell’Italia e se vi furono episodi di gravi scontri come durante il trasporto della salma di Pio IX o la costruzione della statua dedicata a Giordano Bruno, non mancarono tentativi di mediazione per giungere ad un accordo. Questi accordi erano tuttavia destinati a fallire, ma verso l’inizio del ‘900 si assistette alla nascita di un progressivo avvicinamento dei cattolici nella vita politica del paese (patto Gentiloni, nascita del partito popolare, ecc.). La Conciliazione sembrava farsi vicina nel 1919: durante i trattati di pace a Parigi, Vittorio Emanuele Orlando incontrò un prelato della Santa Sede, Monsignor Bonaventura Cerretti che propose che l’Italia concedesse l’indipendenza e la sovranità alla Città del Vaticano. Proposta che ebbe l’assenso di Orlando, ma che venne bocciata dal re Vittorio Emanuele III notoriamente anticlericale. Errore che Benito Mussolini ebbe l’accortezza di non fare.

Per capire come abbia fatto il fascismo a salire al potere è necessario analizzare gli sconvolgimenti dovuti alla prima guerra mondiale. Seppur uscita vincitrice dalla Grande guerra, l’Italia si trovava in una situazione di forte crisi: le sue ambizioni territoriali erano andate deluse, il conflitto aveva causato dei forti sconvolgimenti economici, la nazione si trovava oppressa da un enorme conflitto di classe ed era amministrata da una classe dirigente che anteponeva i suoi interessi personali a quelli del bene pubblico. Inoltre il paese era attraversato da una crescente ondata di violenza politica, fortemente alimentata dai partiti fascisti, che venne debolmente repressa dalle forze dell’ordine che anzi, finivano spesso per non vedere i soprusi e le aggressioni commessi contro la popolazione. Il governo parlamentare era incapace di mantenere l’ordine e di pronunciare una strategia politica coerente per risolvere i problemi del paese. Dato che gli stessi liberali erano paralizzati dalla paura di perdere la loro influenza politica e dal timore di vendette personali, i conservatori antifascisti della corte reale, dei circoli cattolici, dell’esercito e dell’amministrazione iniziarono a vedere in Mussolini l’unico uomo capace di mantenere l’ordine.

Nel 1921 Giovanni Giolitti, leader del partito liberale, organizzò un’alleanza elettorale che permise ai fascisti di ottenere 35 seggi in parlamento e l’anno seguente le camicie nere organizzarono la marcia su Roma. Seppur, “l’esercito” di Mussolini sarebbe potuto essere facilmente sconfitto, il re temendo un bagno di sangue e la prospettiva di perdere il trono, si rifiutò di firmare il decreto che prevedeva l’imposizione della legge marziale e assecondò la richiesta di Mussolini di essere nominato primo ministro concedendogli di formare un nuovo governo. Sebbene il nuovo governo fosse composto da tutti i rappresentati degli schieramenti politici (eccetto i socialisti), Mussolini dichiarò pubblicamente che il potere era in mano ai fascisti e che non avrebbe tollerato alcuna opposizione. I pochi parlamentari che protestarono vennero presto intimiditi (o come nel caso di Matteotti, uccisi), mentre i partiti e le istituzioni politiche del paese sollevarono ben poche o nessuna obbiezione e lasciarono che Mussolini attuasse una serie di interventi repressivi che miravano a portare l’Italia verso l’autoritarismo fino a che nel 1926 il duce ottenne l’effettivo potere assoluto (D. Alvarez, Spie in Vaticano, Roma 2003 pp. 175-178).

L’atteggiamento verso la Chiesa da parte del dittatore italiano non fu univoco. All’inizio della sua carriera Benito Mussolini mostrò un atteggiamento fortemente anticlericale. Scrisse numerosi articoli contro la religione e contro il Vaticano e il programma iniziale del partito fascista prevedeva l’espropriazione dei beni appartenenti alla Chiesa e lo sradicamento del potere religioso nella società. Una volta salito al governo però il futuro duce cominciò a cercare l’appoggio dei cattolici per rafforzare la sua posizione politica all’estero e all’interno del paese. Iniziò così la tattica del “bastone e della carota” ossia mentre da un lato per compiacere il Vaticano emanò una serie di provvedimenti in favore della Chiesa (introduzione dell’ora di religione nelle scuole, affissione dei crocifissi, interventi dello stato tesi a risanare il Banco di Roma, ecc.), dall’altro si ebbero aggressioni e minacce contro associazioni cattoliche e preti accusati di essere in combutta con i popolari come Giovanni Minzoni. Durante la votazione della legge Acerbo i fascisti fecero deliberatamente circolare la voce che Mussolini avrebbe occupato tutte le parrocchie di Roma se i popolari avessero votato a sfavore della legge e sfruttarono l’ambigua posizione di Luigi Sturzo (sacerdote e leader del partito popolare allo stesso tempo) per spingere la Chiesa a dare le sue dimissioni “sotto pretesto di politica in violenze, particolarmente verso sacerdoti ed opere cattoliche” come consigliò il cardinale Pietro Gasparri (G. Zagheni, La Croce e il fascio, Milano 2006 pp. 41-47).

Il Vaticano, pur deplorando le violenze, guardava con timore al disordine sociale e politico del dopoguerra e supponendo (non in maniera del tutto infondata) che l’Italia dovesse scegliere tra il caos sociale e l’autoritarismo fascista, scelse quest’ultimo reputandolo il male minore. Mussolini inoltre si proponeva di risolvere definitivamente la Questione Romana, problema ritenuto di primaria importanza dalla Santa Sede e che il partito popolare aveva invece trascurato. Le trattative iniziarono nel 1926 e si protrassero per tre anni perché avvennero delle interruzioni causate dalla repressione fascista contro alcuni circoli cattolici. L’11 febbraio del 1929 vennero alla fine firmati i Patti Lateranensi nella quale i postulati fondamentali erano un «Trattato» che stabiliva la nascita dello Stato Pontificio e riconosceva la religione cattolica come religione di stato, un «Concordato» che definiva i mutui rapporti tra Stato e Chiesa in materia religiosa e una «Convenzione Finanziaria» cioè la somma che la Santa Sede doveva ricevere come risarcimento per l’espropriazione dei territori e dei beni della Chiesa.

Due giorni dopo, Pio XI parlando ad un gruppo di professori e studenti dell’Università Cattolica di Milano, spiegò il senso dell’accordo compiuto e pronunciò la famosa frase sul Duce: “E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse la preoccupazione della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte le leggi, diciamo tutti quei regolamenti erano altrettanto feticci.” La frase, più che essere una lode al Duce, era una critica all’anticlericalismo mostrato dalle istituzioni liberali, ma la stampa e la propaganda del regime ripresero con grande pompa questo passaggio ignorando il nucleo centrale del discorso.

Il Concordato all’epoca divise l’opinione dei cattolici tra chi non giudicava conveniente per la Chiesa stringere un accordo con un regime illiberale che tra le altre cose aveva distrutto il cattolicesimo politico e aveva riportato in sagrestia le associazioni e chi invece vedeva positivamente la soluzione della Questione Romana e il ristabilimento della piena e invisibile indipendenza al capo della Chiesa. Bisogna aggiungere che con il Concordato, Pio XI non intendeva avvallare il partito politico in quel momento al potere, ma era concepito con un trattato tra due autorità sovrane quali erano la Chiesa e lo Stato. (G. Sale, La Chiesa di Mussolini, Bergamo 2011 pp. 236-239).

Effettivamente, gli accordi presi con la Santa Sede erano dettati solo dal calcolo politico e non mancarono negli anni seguenti accesi scontri che portarono la Chiesa a distaccarsi dal regime. Tuttavia, il Concordato ebbe il merito di porre fine ad un conflitto aperto da più di cinquanta anni e diede alla Chiesa la necessaria indipendenza di cui aveva bisogno (che sarà tra l’altro molto utile durante la guerra dato che all’interno delle proprietà vaticane trovarono rifugio molti partigiani). Inoltre, i Patti Lateranensi verranno riconosciuti costituzionalmente nell’articolo 7 dall’assemblea costituente sorta nel 1948 ricevendo persino i voti favorevoli del partito comunista di Palmiro Togliatti (anche in questo caso per calcolo politico, ma questa è un’altra storia).

Mattia Ferrari

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Sorprendente aumento delle vocazioni in Scandinavia

Uno dei tratti più evidenti della secolarizzazione è costituito dal progressivo assottigliamento del clero, per non tacere della flessione del numero complessivo dei religiosi. La diminuzione delle vocazioni poi si accompagna ad un innalzamento dell’età media di sacerdoti e religiosi e la tendenza, fatta eccezione per le nuove chiese dei territori di missione in Africa o in Asia, comincia a divenire oltremodo preoccupante specie in Europa.

Così la promozione delle vocazioni al sacerdozio da parecchio tempo è divenuta una costante preoccupazione per la Chiesa Cattolica, laddove si moltiplicano le unità pastorali ed altre similari soluzioni che tamponano ma non risolvono il problema alla radice. In questa ottica la Pontificia Opera per le vocazioni sacerdotali  ha predisposto nel 2012 un documento dal titolo Inchiesta sulla pastorale al ministero sacerdotale che restituisce un quadro aggiornato della pastorale vocazionale nelle diverse parti del mondo, indicando anche alcune proposte concrete.

Eppure navigando nel grande mare digitale di internet ci siamo imbattuti ultimamente in questa notizia di segno opposto rispetto a quanto abbiamo riferito finora. Lo spunto ci è stato offerto dalla dichiarazione congiunta a conclusione dei lavori della Conferenza Episcopale della Scandinavia in cui si riferisce di un notevole aumento del numero dei seminaristi, ben 60, su una popolazione complessiva di 250.000 cattolici che risiedono in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia e Islanda.

Paesi nei quali, come ci insegna la storia più recente, la prospettiva laica è decisamente maggioritaria mentre le confessioni cristiane riformate si trovano in una situazione di disagio per analoghi processi di secolarizzazione e di distanza dalla pratica della fede. E’ pur vero che 250.000 cattolici sparsi in 5 nazioni non costituiscono un grande numero, ma l’aumento del numero dei candidati al sacerdozio – 60, quasi uno ogni 4.000 cattolici, restituisce l’immagine di una chiesa che non è affatto in disarmo e che, anzi, guarda all’immediato futuro con una buona dose di ottimismo tanto da voler pianificare una vasta opera di evangelizzazione unitamente ad un forte impegno ecumenico.

Dinanzi a questi dati è lecito mostrare stupore e magari provare a dare una spiegazione. Nel fare ciò, tuttavia, è opportuno non abbandonarsi ai facili trionfalismi, così come è meglio non enfatizzare troppo l’intervento della Provvidenza che, in ogni caso, non cessa mai di far mancare i suoi doni alla Chiesa.

Per questi motivi, lasciando magari ad un sociologo delle religioni la responsabilità di una spiegazione improntata a criteri di scientificità, riteniamo in prima battuta che quanto avvenuto in questi paesi sia l’anticamera di quello che sicuramente accadrà nei prossimi anni: di fronte all’assottigliarsi del numero complessivo dei cattolici praticanti, le chiese divenute numericamente minoritarie in contesti culturali indifferenti o addirittura ostili alla fede religiosa, dovranno per forza di cose impegnarsi nel restituire una immagine complessiva forte e decisa di fedeltà al Vangelo e di perseveranza nel rispetto dei valori essenziali (non negoziabili).

Convinzione la nostra che si fa più forte anche con riferimento al documento che abbiamo citato all’inizio, laddove nella parte conclusiva afferma che “L’ambiente più favorevole alla vocazione al sacerdozio è ogni comunità cristiana che ascolta la parola di Dio, che prega con la liturgia e testimonia con la carità”.

Nulla di nuovo, verrebbe da dire, ma ciò non è affatto scontato e la storia della Chiesa in 2000 anni ha dimostrato, e continuerà a farlo anche nel futuro, che ogni nuova partenza, in fondo, ha inizio sempre con l’essenzialità di ciò che Cristo le ha detto di fare: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. (Matteo 28, 19)

Salvatore Di Majo

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Attori e cantanti celebri oggi, tentati aborti di ieri

Quante fan americane oggi gridano d’esultanza nel vedere il loro beniamino, Justin Bieber, in televisione? Un ragazzo bello, un attore promettente, un idolo per tante adolescenti. Un fallito aborto. Justin è nato solo perché il tentativo di aborto richiesto dalla madre non è riuscito.

A confessarlo è stata proprio lei, Pattie Mallette, durante un talk-show; l’ha dichiarato alla presentatrice Kathie Lee Gifford durante la sua trasmissione in onda su una delle più famose televisioni americane, la “NBC”. Abusata sessualmente sin da bambina, la madre del noto attore, è cresciuta nella depressione, diventando poi una vittima, dell’alcolismo e della droga. Rimasta incinta,a 17 anni, tentò l’aborto, invano. E di fronte a quella vita che non voleva spegnersi,  trovò il coraggio di andare avanti. Lavorando sodo per mantenerlo.

Justin Bieber dunque non manca occasione di esprimersi contro la legalizzazione dell’aborto;  asserendo la sua contrarietà alla legge americana che insegna ai giovani che “l’aborto è un diritto”.Va avanti per la sua strada il giovane artista, miracolato consapevole; forte della sua storia. Singolare ma non unica.

Anche la madre di un grandissimo tenore italiano, nato cieco, era stata invitata ad abortire. Se l’avesse fatto, oggi, non potremmo ascoltare la splendida voce di Andrea Bocelli. I medici suggerirono alla mamma della star della canzone lirica di ucciderlo perchè avrebbe subito delle menomazioni a causa di un attacco di appendicite da lei subito. Sarebbe nata una persona senza dignità! Ebbene la coraggiosa donna ha portato avanti la sua gravidanza dando alla luce un cantante speciale, ammirato nel mondo.

Ancora, Bridget Boyle, immigrata irlandese a Blackburn, già mamma di 8 figli, si trovò a vivere una gravidanza a rischio. Ma essendo una cattolica devota, non volle neppure considerare il classico consiglio laicista teso all’interruzione della gravidanza. E così diede alla luce Susan Boyle la quale, al momento del parto, soffrì di asfissia perinatale, malanno che causò alla bambina un leggero danno celebrale. Dopo la nascita, i dottori dissero a sua madre:“Doveva darci ascolto. Adesso dovrà accettare il fatto che Susan non diventerà mai niente di buono“. Questa bambina oggi è una realizzata cantante, entrata nel Guinnes dei primati per la sua rapidissima celebrità (9 milioni di dischi venduti in sole 6 settimane). Subo, come è stata ribattezzata dai fan,  ha rivelato la sua commovente storia in un’autobiografia The Woman I Was Born To Be, appena pubblicata in Inghilterra, pochi giorni dopo la performance dell’artista davanti a Benedetto XVI a Londra.

Livia Carandente

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace