L’uomo, la discontinuità biologica e il libero arbitrio

 
 
 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Recentemente UCCR ha pubblicato un articolo dello scienziato Tito Arecchi sul rapporto mente-corpo a seguito dell’ultimo sofisma di Edoardo Boncinelli apparso sul Corriere della Sera.

Uso i termini in senso tecnico e non a scopi adulatori o denigratori, come potrebbe sembrare a un lettore malizioso. Arecchi è uno scienziato a tutto tondo, noto per gli studi in fisica, neuroscienze ed epistemologia. Boncinelli invece, dopo una carriera dedicata alla biologia, si è ritirato nella sofistica, che è una scuola di filosofia con il privilegio di asserire A un dì e non-A l’altro dì; e perfino A e non-A nella stessa proposizione B, che pertanto è priva di senso. Arecchi fa scienza, Boncinelli si è acconciato a raccontarla secondo l’estro del giorno. Per giunta, un sofista non avverte mai il dubbio che ci sia qualcosa d’errato nel suo approccio epistemico, poiché per lui come per i suoi antichi maestri greci il ragionamento non ha lo scopo di avvicinare alla verità (che non esiste), ma solo di aver successo in piazza. Boncinelli può così proclamare in un libro che “l’anima è una ciliegina sulla torta” del cervello – cioè una leccornia reale, talché ai matrimoni io mangio solo le ciliegine disinteressandomi delle torte –, e in un altro che “l’anima è un’illusione” e non esiste, senza neanche accorgersi dell’incoerenza: un’illusione di “chi”? In-ludo vuol dire “gioco contro” la realtà, ma quando le anime dei dubbiosi giocano contro la propria esistenza, non la dimostrano con l’atto di giocarci? L’intervistatrice del Corriere poi, anziché interloquire col maestro almeno da studentessa (essendo forse troppo attendersi da lei la parte di Socrate con Gorgia), ne ha subìto l’aura e gli si è inginocchiata a raccogliere la sequela di antinomie, giudicate l’ultima scoperta di come “la scienza supera il dualismo tra la mente e il corpo”. Ma quel dualismo platonico non l’aveva già falsificato Tommaso d’Aquino otto secoli fa?

Lasciamo la cultura della grande stampa (dove al nichilismo aporetico di oggi succederà domani l’astrologia dei meteoriti panspermici o dei pianeti gemelli e dopodomani l’alchimia del gene della felicità o della pillola della bontà) e passiamo al campo della scienza moderna, quella tosta che cerca di adeguare il discorso alla realtà, incrociando galileianamente le teorie con le misure in laboratorio. Un’opera fresca di stampa fa il punto della ricerca scientifica sulle facoltà superiori dell’anima umana che chiamiamo coscienza, mente, ecc. Si tratta di “… e la coscienza? Fenomenologia, psicopatologia, neuroscienze”, a cura di A. Ales Bello e P. Manganaro (Laterza, Bari 2012, € 50). Vi è raccolto, tra gli altri, un contributo di Arecchi intitolato “Fenomenologia della coscienza: dall’apprensione al giudizio”, che vado a riassumere per i lettori.

Per prima cosa, per i non esperti in teoria delle probabilità, devo accennare al teorema di Bayes (dal rev. Thomas Bayes, 1702-1761, che l’ha scoperto). Il teorema permette di calcolare la probabilità che sia accaduto un evento, quando si conosce qualcosa di attinente. Prima di tirare un dado, ho 1:6 probabilità di fare un 6. Qui Bayes non serve. Ma se il dado è già stato tratto e sappiamo che è uscito un numero pari, la probabilità “bayesiana” che sia uscito il 6 è ora 1:3, il doppio di prima. Beh, direte, tutto qua? ci possiamo arrivare da soli, anche senza Bayes! È vero, però i problemi potrebbero essere più complicati. Prendiamo quest’altro. Si sa che in una popolazione i fumatori sono il 35% e che il 20% dei fumatori e il 6% dei non fumatori hanno l’asma: qual è la probabilità che un affetto d’asma sia fumatore? La risposta di Bayes è 64%, ma non vi accecherò con lo splendore barocco della sua formula! Insomma, l’algoritmo di Bayes permette di dedurre da un insieme di dati, relati in un modello a diversi eventi, la probabilità di ognuno di essere accaduto. È la matematizzazione del metodo investigativo di Sherlock Holmes: sulla base delle informazioni disponibili il detective associava una probabilità di colpevolezza ad ogni indiziato d’un delitto, stringendo gradualmente il cerchio man mano che nuovi dati erano raccolti.

Entriamo ora nel vivo e parliamo della fondamentale distinzione tra apprensione e giudizio, che Arecchi supporta per via sperimentale e teoretica. Che cos’è l’apprensione? È la percezione d’un oggetto, realizzata dal lavoro combinato di milioni di neuroni nel cervello (di uomo o animale), in seguito ad uno stimolo colto dai sensi e giunto, attraverso un iter trasformistico inimmaginabile, a quei neuroni. Io ho un’apprensione proprio ora: mentre scrivo queste note, percepisco il rumore d’un aereo di passaggio. Le onde sonore colpiscono i miei timpani e di qui, con una serie di reazioni chimiche nel mio corpo, il segnale cambia cento volte forma fisica e dall’anatomia degli orecchi giunge in ½ secondo ad un esercito di cellule nel cervello, le quali infine in sincronismo perfetto, in un altro ½ secondo, usano un algoritmo di Bayes tra i tanti ivi iscritti e mi procurano la percezione del rumore associandola ad un aereo. Un’apprensione è anche quella di un gatto quando raccoglie nel naso o sugli occhi i segnali inviati da un topo e, attraverso gli organi del fiuto o della vista prima di tutto e col cervello infine, prende consapevolezza della presenza della preda. Anche i neuroni di cervello felino usano la formula del rev. Bayes per fornire al gatto un’immagine del topo. Quando i suoi neuroni selezionano l’algoritmo sbagliato, il gatto prende lanterne per lucciole.

Un’apprensione dura da pochi decimi a 3 secondi, in media 1 secondo: è il tempo che passa dall’arrivo del segnale ai sensi fino alla sua elaborazione sincronizzata nei neuroni della corteccia cerebrale, che produce nel soggetto la percezione coerente dell’oggetto esterno. Per la visione, Arecchi dettaglia come le miriadi di raggi di luce (diversi per colore, intensità, direzione, distanza, ecc.) riflessi dall’oggetto attraversino nel primo ¼ di secondo le cellule degli organi dell’occhio (cornea, cristallino, retina, ecc.: la retina ha opportunamente circa 100 milioni di cellule, tra bastoncelli e coni, per fare la scannerizzazione); e poi come, in un altro ¼, ogni organo nell’esercizio della sua funzione e in coordinamento con gli altri codifichi chimicamente l’elemento di segnale nel suo linguaggio (per es., per ogni fotone sono milioni al secondo gli ioni di sodio che si mobilitano in correnti elettriche nei bastoncelli), per trasferirlo all’organo successivo via via fino al nervo ottico, alla corteccia visiva e alla corteccia prefrontale. Ancora Arecchi mostra come in questa, in ½ secondo, la folla neuronica – reciprocamente eccitata da somi, assoni, dendriti e sinapsi e obbediente alle leggi del caos quantistico – collabori a ricostruire, attraverso algoritmi di Bayes innati o pre-adattati con l’esperienza, un’immagine dell’oggetto. A questo punto, il soggetto ha una percezione coerente, dopo cui può reagire con impulsi trasmessi alle aree motorie. Arecchi illustra anche gli strumenti (sonde, elettroencefalogrammi, risonanze magnetiche nucleari, ecc.) usati dalle neuroscienze per scoprire come nell’uomo e negli animali accada il processo elementare dell’apprensione che, ci crediate o no, io ho sintetizzato soltanto per sommi capi.

Le fasi dell’apprensione, compresa l’ultima di sincronizzazione neuronale, non sono differenti tra uomini e animali superiori, come scimmie e gatti. Tutti gli agenti cognitivi, animali e umani, condividono anche la capacità di richiamare dalla memoria i ricordi delle apprensioni, da usare per le decisioni motorie. Mentre però negli animali le apprensioni passate sono separatamente conservate nelle aree di memoria, ciascuna nel suo specifico codice e solo ai fini delle decisioni motorie future, negli esseri umani – e qui veniamo alla prima importante distinzione – le informazioni memorizzate nei loro pacchetti linguistici possono essere tradotte in un super-codice comune, così da essere confrontate ai fini del giudizio e delle altre attività specificatamente umane, come le arti e le scienze. Il giudizio non ha gli automatismi dell’apprensione. Esso consiste nel raffronto tra due o più apprensioni memorizzate, si prolunga su tempi oltre i 3 secondi ed è esclusivo dell’intelletto umano. L’eseguibilità del giudizio postula un soggetto cognitivo conscio della propria unità persistente nell’esplorazione diacronica dei pacchetti linguistici disponibili: così, mentre il susseguirsi di apprensioni, proprio anche della vita animale, si risolve in una successione di mere consapevolezze percettive, il giudizio meditato tra apprensioni passate postula quella facoltà propriamente umana che è l’auto-coscienza.

L’esecuzione di un giudizio avviene nell’auto-coscienza con la creazione di un nuovo modello su cui applicare formule di Bayes (inverse) create ex novo. Per es., quando ad un concerto ci soffermiamo su due brani distinti, la mente crea nuovi modelli ed algoritmi appropriati (due operazioni non algoritmiche) per confrontare ed armonizzare in un uno stesso giudizio le apprensioni provocate dall’ascolto dei brani. Anche gli animali (e i sistemi esperti in informatica) possono autonomamente applicare variazioni ad un algoritmo di Bayes pre-esistente, secondo una procedura adattativa. Ciò avviene però con un repertorio linguistico limitato e sempre apportando piccole variazioni così da evitare catastrofi, preservare la stabilità della struttura ed anche permettere ritirate tattiche con la variazione opposta. Invece la super-codifica simbolica nel giudizio di diverse apprensioni in memoria, codificate nei diversi linguaggi (letterario, musicale, plastico, ecc.), ripropone al soggetto umano ogni evento da vari punti di osservazione, causati da “salti” non algoritmici e potenzialmente infiniti. Arecchi chiama “creatività questa caratteristica umana.

Se intendiamo il termine “coscienza” come consapevolezza di un’apprensione specifica, magari seguita da una reazione motoria, la consapevolezza può manifestarsi – come ha mostrato Benjamin Libet nei suoi famosi esperimenti – in ritardo rispetto alla registrazione dei potenziali che stimolano i muscoli. Ma ciò non nega la libera volontà, perché negli uomini come negli animali la reazione motoria è in questi casi l’esito automatico d’un algoritmo bayesiano inscritto. Se invece “coscienza”, o meglio “auto-coscienza”, sta per la consapevolezza perdurante di un soggetto di essere l’agente di un giudizio tra più apprensioni passate dal cui confronto predire scenari futuri, allora il libero arbitrio dell’uomo è salvo perché il giudizio è prodotto da un salto tra un vecchio algoritmo ed uno creato ex novo. In particolare, una decisione etica richiede un tempo ben più lungo dell’apprensione e pertanto sfugge all’inversione dei tempi di Libet.

In conclusione, dopo “l’abisso cognitivo tra noi e le scimmie […], accaduto in un unico evento e non gradualmente”, ammesso dall’antropologo Ian Tattersall in un recente recente intervento; dopo le dichiarazioni del computer scientist Federico Faggin (creatore del primo microchip, 4004 Intel) per cui “il cervello umano è un grosso mistero […], qualcosa di magico. Tutta la nostra information technology è una stupidaggine in confronto” e l’auto-coscienza umana è “l’«elefante nella stanza», come si dice in inglese, cioè qualcosa che è impossibile non notare, ma che nessuno vuole riconoscere”, ora anche le neuroscienze confermano lo specifico antropico. È rimarchevole che antropologia, computer science e neuroscienze all’unisono identifichino nel linguaggio simbolico umano il punto di discontinuità biologica.

La scoperta scientifica della specificità antropica del simbolo conferma una lezione di Pavel Florenskij, in cui l’eroico sacerdote e scienziato (fucilato 75 anni fa in un gulag sovietico) negava il dualismo cartesiano e allo stesso tempo invitava a dare il giusto peso allo spirito e alla carne: “La dissoluzione del simbolo si verifica nell’idealismo come nel naturalismo: se dal simbolo si elimina l’involucro sensibile, si dissolve anche il suo contenuto spirituale ed il simbolo perde visibilità; al contrario, se si condensa l’involucro in un ordine sensibile al punto che quello spirituale diventi invisibile, l’involucro è impenetrabile allo spirito” (da “La concezione cristiana del mondo”. Lezioni all’Accademia Teologica di Mosca, 1921).

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Meno aborti grazie alla legge 194? No, ovviamente

Aborti in calo? Non è detto. Grazie alla 194? No di certo. Questo, in sintesi, è quanto emerge dalle 42 pagine della “Relazione del Ministro della Salute sulla attuazione della Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78)” . Pagine che, da un lato, affermando che nel «2011 sono state effettuate 109.538 IVG (dato provvisorio), con un decremento del 5,6% rispetto al dato definitivo del 2010 (115.981 casi)» (p. 2) e, d’altro lato,  chiariscono che il «rapporto di abortività (numero delle IVG per 1.000 nati vivi) è risultato pari a 202,5 per 1.000 con un decremento del 2,8% rispetto al 2010 (208,3 per 1.000)» (p. 3).

Tutto bene allora? Non proprio. Anzitutto perché non si fa alcun accenno, nel conteggio degli aborti, a quelli possibili in conseguenza all’utilizzo della cosiddetta “pillola del giorno dopo”. Che può essere abortiva, come dimostra il fatto che la prima autorizzazione ministeriale per sua la commercializzazione venne annullata dal TAR Lazio (sent. n. 8465 del 12/10/2001) per omessa indicazione, sul foglietto illustrativo, di tale effetto (interessante il punto della sentenza dove si parla della «non veridicità della qualificazione del prodotto come “contraccettivo di emergenza” » e dell’«omissione di ogni adeguata informazione della donna sull’idoneità del farmaco ad impedire l’impianto dell’ovulo fecondato»).

A tal proposito ricordiamo (dati 2008) che in Italia si vendono 380.000 confezioni di Norlevo e – dato che anche se non ha senso assumere la “pillola del giorno dopo” nei periodi di infecondità, è difficile immaginare che chi la usa faccia il calcolo dei giorni fertili –  possiamo considerare, detraendo i giorni delle mestruazioni, che nell’arco di un ciclo ve ne ne siano 24 nei quali il consumo di dette confezioni avvenga. Ne consegue, dato che i giorni fertili nei quali è possibile il concepimento sono 5, che in questi 5 giorni – che sono circa un quinto di quelli in cui si ricorre al Norlevo –  lungo l’anno vengano assunte circa 76.000 “pillole del giorno dopo”. Assai probabile, dunque, che ogni anno, previa assunzione della “pillola del giorno dopo”, diverse centinaia anzi migliaia di aborti “invisibili” si verifichino. Ma di tutto questo nella “Relazione del Ministro della Salute”, curiosamente, non si parla.

Esattamente come non si parla, con buona pace di quanti credono nei presunti effetti miracolosi della Legge 194, di come la normativa italiana possa aver ridotto gli aborti. E non se ne parla – posto che il fenomeno della riduzione degli aborti è molto meno scontato, come abbiamo visto, di come lo si vende – per una semplice ragione: perché è impossibile che la Legge sia all’origine di questa riduzione. Infatti, come la stessa “Relazione” afferma «il ricorso al Consultorio familiare per la documentazione/certificazione rimane ancora basso (40,4%)» (p. 6).

Come spiegare allora la pur discutibile diminuzione degli aborti? Anche perché si tratta di un caso pressoché unico nei Paesi industrializzati. Che la 194/’78 sia la Legge migliore del mondo? E perché? In base a quali sue misure o provvedimenti? Nessuno – chissà come mai – si è mai misurato a fondo con questi interrogativi. Possiamo concludere – sulla scorta della lezione di David Hume (1711-1776), che ha rammentato come post hoc non implichi propter hoc– che è quindi quanto meno azzardato supporre che l’entrata in vigore della Legge 194/’78 abbia determinato la festeggiata riduzione degli aborti.  Molto più verosimile è il ritenere che la riduzione del numero di aborti sia determinata da una serie di concause, prima fra tutte il calo della fertilità tra le donne italiane, che dice come, mentre nel 1985 le donne italiane avevano in media 2,7 figli a testa, oggi ne abbiano 1,2 ciascuna. Meno figli perché meno gravidanze e meno gravidanze, ovviamente, vuol dire meno aborti.

Oltre a ciò, si consideri l’encomiabile lavoro del volontariato pro-life, che ogni anno strappa all’aborto un gran numero di bambini, e il quadro è completo. Un quadro che non registra i presunti benefici effetti dalla Legge 194 e che, invece, fa emergere due dati: il calo degli aborti, se c’è, non è così stellare come lo si dipinge, e poi rimangono comunque (almeno) 115.981 aborti procurati all’anno. 115.981 ottimi motivi per capire che non c’è nulla, ma proprio nulla da festeggiare.

Giuliano Guzzo

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Il premio Nobel William Philips: «sono uno scienziato serio e credo seriamente in Dio»

Premi Nobel credenti. William Daniel Phillips è un celebre fisico ma anche un noto e devoto cristiano, ecco cosa ha detto nel suo discorso alla Templeton Foundation.

 

Oggi è il 64° compleanno di William Daniel Phillips, fisico statunitense e vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1997, per «lo sviluppo di metodi per raffreddare e catturare gli atomi tramite laser». E’ stato a lungo membro del MIT, del National Institute of Standards and Technology, docente persso l’University of Maryland e uno dei fondatori dell’International Society for Science & Religion. Sul sito della Templeton Foundation, intorno al 2004, ha lasciato una testimonianza sulla sua visione sull’esistenza di Dio e sul connubio tra scienza e fede.

Ha introdotto il suo intervento così:

«Molti credono che la scienza, offrendo spiegazioni, si opponga alla comprensione che l’universo è una creazione amorevole di Dio», ritengono che «la scienza e la religione siano nemici inconciliabili. Ma non è così». Ne spiega il motivo attraverso la sua esperienza: «Io sono un fisico. Faccio ricerca tradizionale, pubblico in riviste peer-reviewed, presento le mie ricerche in riunioni professionali, formo studenti e ricercatori post-dottorato, cerco di imparare come funziona la natura. In altre parole, io sono uno scienziato ordinario. Sono anche una persona di fede religiosa. Frequento la chiesa, canto nel coro gospel, di domenica vado al catechismo, prego regolarmente, cerco di “fare giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il mio Dio”. In altre parole, io sono una persona comune di fede». Dopo questa rarissima espressione di umiltà, prosegue: «Per molte persone, questo mi rende in contraddizione: uno scienziato serio che crede seriamente in Dio. Ma per molte più persone, io sono una persona come loro. Mentre la maggior parte dell’attenzione dei media va agli atei stridenti, che affermano che la religione è una sciocca superstizione, e ai creazionisti altrettanto integralisti che negano l’evidenza chiara dell’evoluzione cosmica e biologica, la maggioranza delle persone che conosco non ha alcuna difficoltà ad accettare la conoscenza scientifica e mantenere la fede religiosa».

Il discorso del Premio nobel è così proseguito:

«Come fisico sperimentale, ho bisogno di prove concrete, esperimenti riproducibili, e la logica rigorosa per supportare qualsiasi ipotesi scientifica. Come può una tale persona basarsi così sulla fede?». Ed ecco che si pone due domande: “Come posso credere in Dio?” e “Perché io credo in Dio?”. Risponde alla prima: «uno scienziato può credere in Dio perché tale convinzione non è una questione scientifica. Una dichiarazioni scientifica deve essere “falsificabile”, cioè ci deve essere qualche risultato che almeno in linea di principio potrebbe dimostrare che l’affermazione è falsa [….]. Al contrario, le affermazioni religiose non sono necessariamente falsificabili […]. Non è necessario che ogni dichiarazione sia un’affermazione scientifica, né sono non-scientifiche, inutili o irrazionali dichiarazioni che semplicemente non sono scientifiche. “Canta magnificamente”, “E’ un uomo buono”, “Ti amo”: queste sono tutte affermazioni non-scientifiche che possono essere di grande valore. La scienza non è l’unico modo utile per guardare alla vita». Alla seconda domanda, cioè “Perché io credo in Dio?”, risponde: «Come fisico, guardo la natura da una prospettiva particolare. Vedo un universo ordinato, bellissimo, in cui quasi tutti i fenomeni fisici possono essere compresi da poche semplici equazioni matematiche. Vedo un universo che, se fosse stato costruito in modo leggermente diverso, non avrebbe mai dato vita a stelle e pianeti. E non vi è alcuna buona ragione scientifica per cui l’universo non avrebbe dovuto essere diverso. Molti buoni scienziati hanno concluso da queste osservazioni che un Dio intelligente deve avere scelto di creare l’universo con questa bella, semplice e vivificante proprietà. Molti altri buoni scienziati sono tuttavia atei. Entrambe le conclusioni sono posizioni di fede. Recentemente, il filosofo e per lungo tempo ateo Anthony Flew ha cambiato idea e ha deciso che, sulla base di tali elementi di prova, bisogna credere in Dio. Trovo questi argomenti suggestivi e di sostegno alla fede in Dio, ma non sono conclusivi. Io credo in Dio perché sento la presenza di Dio nella mia vita, perché riesco a vedere le prove della bontà di Dio nel mondo, perché credo nell’Amore e perché credo che Dio è Amore».

Ed ecco la conclusione:

«Mi rende una persona migliore o un fisico migliore di altri? Difficilmente. Conosco un sacco di atei che sono sia persone che scienziati migliori di me. Sono libero di dubbi su Dio? Difficilmente. Domande sulla presenza del male nel mondo, la sofferenza di bambini innocenti, la varietà del pensiero religioso, e altre imponderabili lasciano spesso la domanda se ho ragione, e mi lasciano sempre cosciente della mia ignoranza. Ciò nonostante, credo più a causa della scienza che a dispetto di essa, ma alla fine soltanto perché io credo. Come ha scritto l’autore della lettera agli Ebrei: “la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono”»

La redazione

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Nuovo studio: anomalie congenite dopo fertilizzazione in vitro

In America, lo  Stato con una maggiore diffusione della fertilizzazione in vitro (IVF) è la California, dove circa il 10% dei bambini nasce dopo l’uso di queste tecniche. Lo scorso ottobre un gruppo di ricercatori di Los Angeles ha pubblicato uno studio sui 4795 bambini nati nel 2006 e 2007 dopo manipolazione sia delle cellule uovo che dello sperma, confrontati coi 46025 bambini concepiti tradizionalmente, rilevando che i primi hanno una probabilità di malformazioni congenite pari a 1.25 volte i nati naturalmente; una differenza statisticamente significativa.

Nel complesso, i bimbi nati con malformazioni importanti che richiedono un intervento chirurgico sono 3463, cioè il 6,8%; il 9% di quelli nati dopo trattamenti IVF e il 6,6 % di quelli concepiti normalmente. In particolare si è visto che i bambini nati in seguito a IVF hanno più probabilità di avere malformazioni agli occhi (0,3% contro 0,2%), al cuore (5% contro 3%) e al sistema genito-urinario (1,5% contro 1%). Non avevano più malformazioni del normale i bimbi nati dopo trattamenti della fertilità meno completi, come l’inseminazione artificiale o l’induzione della ovulazione.

Dai dati di questo studio non è possibile desumere quanto di questo aumento di malformazioni sia iatrogeno, cioè dovuto alle manipolazioni cellulari e quanto sia dovuto ad una preesistente situazione anomala, la stessa che ostacolava una naturale gravidanza.

Ciò che è necessario affermare è l’opposizione a questa tecnica per i motivi qui espressi e comunque, lo sostengono i ricercatori di questo studio, che i potenziali genitori devono essere messi al corrente di questa maggiore probabilità di malformazioni e che anche su questa informazione si deve basare il consenso informato di chi richiede un trattamento di IVF.

Linda Gridelli

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Sindrome di Down: sono davvero vite inutili, sprecate, dannose?


 
 
di Stefano Bruni*
*pediatra
 
 

Come molti di voi sanno, dall’Agosto scorso è in commercio in alcuni Paesi Europei ed extraeuropei un test per la diagnosi prenatale non invasiva della Trisomia 21, malattia genetica meglio nota come Sindrome di Down . Il test, che permetterebbe la diagnosi alla 12a settimana di gestazione ed eviterebbe alla donna, che ne facesse richiesta o che vi fosse candidata secondo gli attuali protocolli diagnostici, di ricorrere all’amniocentesi o ad altri test diagnostici invasivi, ha evidentemente come fine ultimo quello di dare alla donna la possibilità di interrompere la gravidanza nel caso scopra di aver concepito un figlio affetto da questa malattia cromosomica.

È chiaro che tutto parte dal presupposto che un bambino affetto da una malattia genetica non è degno di venire al mondo perché esso stesso sarebbe infelice di nascere e soffrire per tutta la vita e perché determinerebbe sofferenza ai suoi genitori, ai suoi fratelli ed a tutte le persone che lo circondano e si dovranno occupare di lui. In questa direzione sembra andare anche la giurisprudenza italiana dal momento che è di non molti giorni fa un suo pronunciamento secondo cui se un bambino nasce con la Sindrome di Down devono essere risarciti sia lui che i suoi genitori per i danni che questa nascita causa a tutto il nucleo famigliare.

Qualcuno, anche in questo sito, nel corso di una discussione di qualche tempo fa, ha accusato pesantemente di essere responsabile di un crimine che dovrebbe essere giudicato dalla Corte di Strasburgo chi pretendesse anche solo di tentare di opporsi (ovviamente intendo con la forza della ragione e dei sentimenti e non certo con atti coercitivi e violenti) al diritto di una donna di abortire un figlio malato o indesiderato.  Ma qualcuno ha mai chiesto alle persone affette da Sindrome di Down (quelle che sono scampate all’aborto, ovviamente) se siano davvero così infelici di essere venute al mondo e ai loro parenti se vivere con queste persone sia davvero così impossibile e straziante?

Ebbene, qualche tempo fa, l’American Journal of Medical Genetics, una prestigiosissima rivista scientifica internazionale peer reviewed, aconfessionale e a ottimo impact factor, ha pubblicato due successivi studi di un gruppo di ricercatori della divisione di Genetica del Dipartimento di Medicina di uno degli ospedali pediatrici più importanti del mondo, il Children’s Hospital di Boston, e del Dipartimento di Oncologia psicosociale dello stesso ospedale.

Il primo lavoro, pubblicato nel Luglio del 2011, riferisce di una ricerca condotta per indagare la percezione di se stessi che hanno le persone affette da Sindrome di Down. Il secondo, degli stessi autori, pubblicato nell’Ottobre 2011, è relativo ad un’indagine condotta su fratelli e sorelle di persone affette da Sindrome di Down per indagare come questi parenti percepiscono i propri congiunti affetti. I risultati delle due indagini sono straordinari e credo valga la pena riportarveli perché non possono non fare riflettere.

Specifici questionari preparati dai ricercatori sono stati inviati a tutte le persone affette dalla sindrome di Down di età superiore ai 12 anni ed a tutti i fratelli e sorelle delle persone Down iscritte negli elenchi delle 6 organizzazioni no profit statunitensi per il supporto alle famiglie e alle persone con Trisomia 21 (negli Stati Uniti non esiste un’unica organizzazione che raccoglie tutte le famiglie di persone Down né un registro nazionale che le elenchi tutte). Hanno risposto al questionario il 17% delle persone Down intervistate ed il 19% dei famigliari (percentuali in linea con gli standard di questo tipo di ricerche). Di seguito vi riassumo i principali risultati:

  • circa il 99% delle persone Down che hanno risposto indicano di avere una vita felice; il 97% ama ciò che è ed il 96% si piace così com’è; solo il 4% riferisce di essere triste per la propria vita;
  • il 99% delle persone Down ama la propria famiglia ed il 97% i propri fratelli e sorelle; l’86% ritiene sia stato facile farsi degli amici e l’85% ritiene di poter essere utile agli altri;
  • la stragrande maggioranza delle persone Down intervistate, nelle risposte aperte ha incoraggiato i genitori ad amare i propri figli con Sindrome di Down riferendo di essere felici di vivere;
  • per quanto riguarda i fratelli e le sorelle delle persone Down intervistati nel secondo studio, il 96% è molto affezionata ai propri parenti affetti ed il 94% ha espresso sentimenti di orgoglio nei loro confronti;
  • meno del 10% riferisce di sentirsi imbarazzato a causa della patologia del fratello/sorella e meno del 5% sostiene che cambierebbe il proprio fratello/sorella con uno senza la malattia;
  • tra gli intervistati meno giovani l’88% ritiene di essere una persona migliore grazie alla presenza nella sua famiglia di un individuo con Trisomia 21 e oltre il 90% del campione dichiara che intende continuare a prendersi cura dei propri fratelli/sorelle Down; la stragrande maggioranza degli intervistati, nelle risposte aperte, definisce la relazione con i propri parenti affetti come positive e arricchenti.

 

Gli autori individuano onestamente alcuni punti di debolezza dello studio indicando ad esempio che il loro campione, seppur statisticamente significativo, è comunque solo un campione e che il fatto di fare riferimento ad associazioni no-profit potrebbe indicare la selezione di un gruppo di famiglie positivamente predisposte nei confronti di questa patologia. Se volete aggiungo anche io un elemento di debolezza: l’indagine infatti è stata necessariamente fatta su persone viventi e dunque sopravvissute alla tentazione di un aborto il che significa, in altri termini, che i loro genitori sono persone aperte alla vita e che questo sentimento avranno continuato a ravvivare (ed avranno trasmesso agli altri famigliari) anche dopo la nascita dei loro bambini malati. Purtroppo non potremo mai ascoltare la voce dei bambini Down che non sono mai nati e che non potranno dirci se sarebbero stati felici di nascere e se a loro è andato bene essere soppressi nell’utero delle loro mamme.

C’è chi dirà che questi genitori sono dei “mostri” perché hanno messo al mondo persone con più di una problematica anche seria (che tra parentesi oggigiorno può essere approcciata con ottimi risultati dalla moderna medicina e dalla moderna psicologia). Io non sono d’accordo con costoro e mi sento perfettamente in linea invece con le conclusioni degli autori dei due studi proposti, quando sostengono che sia auspicabile che i risultati di queste indagini siano condivisi con le coppie cui viene fatta diagnosi prenatale di Sindrome di Down, insieme a tutte le altre informazioni utili a permettere una loro scelta sul destino dei propri figli.

Certamente nessuna persona assennata desidera un figlio malato e nessuno potrà mai negare le sofferenze psicologiche e le difficoltà pratiche quotidiane cui vanno incontro i famigliari delle persone che nascono con una malattia genetica. Ma i dati indicati dalle ricerche sopra citate sono lì a dirci che c’è molto di più rispetto a sofferenze e difficoltà: ci sono la voglia di vivere e di amare e, sopra tutto, c’è la dignità della persona, anche quella malata. E questa voglia di vivere e di amare la persona umana possono fare miracoli.

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La gravidanza giova alla salute della donna

 

di Valentina Sciubba*
*psicologa e psicoterapeuta

 

Uno studio australiano pubblicato sulla Rivista ”Age and ageing” ha trovato interessanti conferme ad un dato che fa parte della saggezza popolare: le gravidanze giovano alla salute della donna.

Lo studio ha seguito più di 1500 donne e più di 1200 uomini di età uguale o superiore ai 60 anni, per un periodo di 16 anni. In tale periodo il rischio di decesso per le donne con due o più figli è risultato inferiore a quello per le donne senza figli. In particolare per le donne con due figli il rischio di decesso è risultato inferiore del 17%, per quelle con tre del 20%, per quelle con sei o più figli di circa il 40%. Questo studio sembra porsi in linea con altri che evidenziano come un rispetto degli istinti e delle leggi naturali che hanno guidato l’evoluzione sia in generale benefico per la salute. E’ noto ad es. che l’allattamento al seno ha un’azione protettiva nei confronti del tumore alla mammella ed esiste un altro studio che ha trovato come in soggetti con figli i valori della pressione arteriosa (min e max) siano minori rispetto a quelli di non genitori.

Si è parlato di mortalità e di dati attinenti la condizione fisica, ma che dire sullo stato psicologico dei soggetti con figli confrontato a quello dei senza prole?  Vari studi hanno segnalato vari svantaggi per i genitori, comprese una maggiore depressione e insoddisfazione coniugale nelle donne, ma Sonja Lyubomirsky, professoressa di psicologia all’Università della California, Riverside, ritiene che le basi scientifiche di questi risultati siano inconsistenti.

S. Lyubomirsky ha di recente portato avanti tre studi in cui sono stati valutati  in gruppi di genitori e di non genitori i livelli di felicità, di soddisfazione nella vita e di percezione che la vita ha un significato. Nel primo studio il gruppo di genitori preso complessivamente ha fatto riscontrare maggiori livelli di felicità, soddisfazione e “senso nella vita” rispetto ai non genitori. Analizzando poi in base ad altre variabili si è trovato che mentre un maggior senso nella vita è stato dichiarato da tutti i genitori rispetto ai non genitori,  maggiori felicità e soddisfazione sono riferite solo dai padri tra i 26 e i 62 anni,  per le madri non c’è significativa differenza  mentre i giovani fino a 25 anni riferiscono minore felicità rispetto ai coetanei. Ciò rimanda probabilmente a diverse incombenze delle madri e dei padri  nella cura dei figli o, per la fascia di età fino ai 25 anni, a difficoltà economiche o bisogni evolutivi e culturali propri dei giovani. Il secondo studio ha confermato sentimenti di maggior benessere e “senso nella vita” nei genitori di ambo i sessi rispetto ai non genitori, soprattutto nei padri; il terzo studio ha evidenziato come  nei genitori tali sentimenti siano specificamente legati al prendersi cura della prole.

Bonnie Rochman, l’articolista che riferisce di questi studi in Time Health and Family, si domanda quali bisogni psicologici soddisfi un sentimento così forte come quello dei genitori verso i propri figli. Al di là di una soddisfazione istintuale, egli trova che i bambini sono divertenti, fiduciosi e innocenti, non toccati ancora dalle delusioni della vita, non cinici e ci ricordano la nostra stessa fanciullezza. Aggiungerei che i bambini per loro stessa natura hanno bisogno di molte cure, attenzioni, cibo, vestiti ecc.. Sono soggetti che richiedono da parte dei genitori un’enorme quantità di tempo, energie psico-fisiche e denaro per essere bene allevati. “Amor che nulla hai dato al mondo” canta Gianna Nannini proprio per sottolineare la disparità di impegno psico-fisico nel rapporto tra genitori e figli e nel contempo l’amore che li lega.

L’amore tra individui presuppone almeno due persone, quindi una relazione. L’amore è volto al bene, viene percepito come sentimento positivo e che cerca perciò il bene dell’altro, ma anche il proprio. Diversamente avremmo a che fare con sentimenti egoistici o masochistici che non rimandano a un’idea di “bene”. L’amore è probabilmente uno “scambio di beni”, di cose positive non regolato da rigidi e puntuali corrispettivi ma sostenuto appunto dal desiderio di ricerca della migliore condizione (benessere, felicità salute, salvezza ecc.) per sé e per gli altri. Il brano del Vangelo con gli  operai nella vigna (Mt 20,1-16)  ne è probabilmente una metafora.

E’ evidente come nel rapporto genitori-figli, durante tutto il periodo dell’allevamento, questo “scambio”, almeno dal punto di vista materiale, sia molto squilibrato: i genitori danno molto in termini di tempo, risorse economiche e psico-fisiche. E’ ragionevole perciò che, in linea col concetto di amore come scambio equilibrato di bene, il genitore si aspetti un grande ritorno affettivo dai propri figli e che proprio per questo il sentimento di amore tra genitori e figli sia particolarmente intenso. Tanto più si dà, tanto più ci si aspetta di ricevere. I bambini poi, quanto più sono piccoli, sono completamente dipendenti dai genitori e di regola restituiscono loro grande attaccamento e affetto.

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Russia: rinascita religiosa, l’88% di credenti

Vatican Insider la chiama la “primavera ortodossa”, al di fuori di ogni metafora non è altro che il ritorno (di cui abbiamo già parlato altre volte) della religiosità e della fede (soprattutto di confessione Ortodossa) in quelle terre che furono succubi del comunismo sovietico e del conseguente ateismo di stato.

Stando all’articolo dell’Insider (che riporta anche la ricostruzione storica delle controversie della religiosità russa, che consiglieremmo di leggere), la percentuale di credenti in Russia è ora superiore a quella nel periodo precedente la rivoluzione bolscevica: si professa credente l’88% della popolazione ed il 79% fa parte della Chiesa Ortodossa (il restante 9% è composto da musulmani, ebraici, cattolici e protestanti). Comparando questi dati con quelli appena successivi alla caduta del regime risulta che più di un russo su due, negli ultimi vent’anni, avrebbe riscoperto la fede.

Si tratta dell’ennesima, chiara dimostrazione del fallimento dei progetti sovietici: si era tentato infatti di sostituire la fede con il culto dello stato; di cancellare la cultura cristiana (come qualsiasi cultura anti-sovietica) mettendo al bando testi sacri e non o esponendo manifesti secondo cui “la splendente luce della scienza ha provato che non c’è alcun Dio”; di stabilire le ideologie del regime e l’”ateismo scientifico” come religione di stato.

Come ebbe modo di dichiarare Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, l’orribile repressione staliniana, che non è riuscita a cancellare Dio dal cuore dell’uomo come avrebbe voluto, ebbe come conseguenza collaterale la presa di coscienza, di chi perseverò, del fatto che “nelle epoche di prosperità della Chiesa non si vive tanto intensamente questa gioia della fede, questa forza vivificante della fede”. Come è evidente, l’opera di ricostruzione e di recupero è iniziata: se è vero che le idee del regime si lasciano dietro “fiumi di sangue, degradazione e ignoranza in tutti i campi”, è anche vero che c’è la volontà di riparare a tali delitti, i numeri lo confermano.

Michele Silvi

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8×1000: ecco perché la Chiesa usa bene questi soldi

Quattro vite, quattro vocazioni diverse; quattro storie d’amore. Sono descritte, con grande maestria, dal regista Stefano Palombi in “Questo non è un film” (www.questononeunfilm.it); un capolavoro filmico che mette sotto i riflettori vicende vere, tratteggi di biografie autentiche, missioni sacerdotali, incorniciate nella città partenopea.

Nel medio-metraggio di 30 minuti, prodotto da Lux Vide per il Servizio Cei (per la promozione del sostegno economico alla Chiesa) è narrata la vita di don Antonio Vitiello del Centro La Tenda, che solo nell’ultimo anno ha offerto a persone senza dimora, italiane e straniere, più di 40mila pernottamenti, di altrettanti pasti e possibilità di  assistenza igienico-sanitaria al di là dei colloqui spirituali. Sono raccontati i ritmi d’amore che battono nelle quattro parrocchie di Scampia, che nella quasi totale assenza di servizi, cercano di rispondere quotidianamente ai bisogni della gente.

C’è poi la  testimonianza di vita di don Tonino Palmese, che sostenuto dalla Fondazione Polis e dall’Associazione Libera, sostiene le vittime innocenti della criminalità, uccise in Campania dal 2001 ad oggi. Ed è rivelato il lavoro della Caritas diocesana di Napoli, con i suoi sacerdoti, i volontari e le suore, che si occupa ogni giorno di poveri, immigrati, malati di Aids, donne, giovani a rischio, detenuti, anziani soli, Rom . Questo non è un film  immagina che quattro registi di fantasia stiano girando altrettanti lavori cinematografici.

Così, nel primo episodio, «La scomparsa», riprende don Antonio aggirarsi per l’antico palazzo sede della Tenda, completamente disabitato; nella finzione del regista, ad essere spariti sono i poveri e la stessa povertà. Il secondo episodio, «Vita sul pianeta Scampia», ipotizzato dal secondo finto regista invece è ambientato tra le spettrali architetture di Scampia. Gli extraterrestri sono identificati con tutti gli abitanti del degradato quartiere napoletano, dimenticati da tutti. E che stanchi di attendere un aiuto che arriva, si attivano in una  “rivoluzione d’amore”, incoraggiata dai quattro parroci della zona. «Storia d’ammore» è il titolo del terzo episodio; descrive un amore sbocciato  tra il classico bulletto da bar e una ragazza rom di Ponticelli. Due mondi diversi che imparano a rispettarsi nelle diversità. E «La guerra di ogni giorno», quarto episodio, denuncia, attraverso le testimonianze sofferte dei parenti , la morte di quelle persone morte per errore, uccise dalla malavita. Dolori raccolti e coccolati da don Tonino.

Il docufilm è un progetto a cura della Conferenza Episcopale Italiana finalizzato a sensibilizzare il popolo cattolico ai temi concernenti il sostegno, la solidarietà, l’aiuto fraterno, in modo diretto dunque prendendo parte ai movimenti,alle associazioni, ai gruppi di volontariato nati in seno alla Chiesa, ed indiretto ovvero devolvendo l’8 per mille alla Chiesa Cattolica affinchè possano essere trasformati in risorse, strutture, luoghi di prima accoglienza, edifici di aiuto e sostegno al prossimo.

 

Qui sotto il medio-metraggio “Questo non è un film”

Livia Carandente

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Michael Ruse critica l’intolleranza del moderno laicismo

L’ultima volta che abbiamo parlato del filosofo Michael Ruse, docente di filosofia presso la Florida State University, abbiamo sottolineato la sua tremenda confusione circa l’esistenza di valori morali oggettivi.

Una confusione, tuttavia, conseguita da un sano tentativo di riflettere in modo coerente sulla morale, senza abbandonarsi all’illogico e pericoloso relativismo etico per il quale non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato, nemmeno la pedofilia o la tortura di un bambino. Dire il contrario -e Ruse questo lo ha capito benissimo, entrando in polemica con altri intellettuali non credenti- significa affermare che esiste qualcosa di precedente all’uomo, un Bene e un Male assoluti e indipendenti dall’opinione della società in quel dato momento storico. Ma di questo abbiamo già parlato.

E’ interessante tornare a citare Ruse grazie ad un articolo pubblicato sul “Guardian”, questa volta davvero lucido. Il filosofo si è infatti occupato di Richard Dawkins, il leader internazionale dell’ateismo fondamentalista, e del folklorisitico movimento dei “new atheist” (Sam Harris, Jerry Coyne, Peter Singer, Christopher Hitchens, Daniel Dennett e il “nostro” Pierpippo Odifreddi).

Ha affermato: «L’umanesimo, nella sua forma più virulenta, sta cercando di fare della scienza una religione. E’ inondato da un intollerante entusiasmo, vi è quasi un isterico ripudio della religione». Ruse, ha citato come esempio alcune affermazioni contro la fede di Dawkins, in cui i credenti vengono paragonati ai terroristi islamici, a coloro che compiono guerre religiose e ai creazionisti che «voltano le spalle completamente alla scienza per seguire la loro religione». Una sorta di “caricatura”, ha spiegato il filosofo. Ruse ha anche individuato alcune somiglianze tra i laicisti moderni e i gruppi religiosi, in particolare una sorta di «adulazione da parte dei sostenitori e appassionati verso i leader del movimento: non è solo una questione di accordo o di rispetto, ma anche una sorta di culto». Il “culto di Dawkins”, probabilmente una similitudine più moderata del noto culto della personalità emerso nelle varie dittature ateo-comuniste del ‘900. «Quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli», diceva d’altra parte Karl Barth.

Il filosofo americano ne ha anche approfittato per rendere pubblico l’odio nei suoi confronti da parte dei leader di tale movimento. Ha premesso di non essere per nulla credente, di essere un “fanatico darwiniano” e di ritenere che «la religione ha fatto e continua a fare molto male alla società», citando il rallentamento della ricerca scientifica a causa del noioso dibattito tra evoluzionisti e creazionisti (Ruse in questo caso non si è accorto di aver compiuto anche lui una caricatura delle persone religiose, come se esserlo significasse automaticamente rifiutare l’evoluzione biologica).

Ha poi continuato: «Eppure io, e altri come me, sono insultato in termini molto più duri di quelli utilizzati contro avversari reali come i creazionisti. Veniamo etichettati come “accommodationists” per la nostra volontà di dare alla religione uno spazio non occupato dalla scienza, usando termini che denotano una forte emozione, ben oltre la ragione. In “L’illusione di Dio” [il noto libro di Richard Dawkins, Nda], sono paragonato a Neville Chamberlain, il pacificatore pusillanime di Hitler. Jerry Coyne, autore sia del libro e del blog “Perché l’evoluzione è vera”, un ardente groupie di Dawkins e Christopher Hitchens, ha scritto di me su uno dei suoi libri: “Ci sono alcune idee così assurde che solo un intellettuale potrebbe credergli”. Il biologo PZ Myers ha fatto riferimento a me come un “gobshite confuso”. E se avessi un dollaro per tutti coloro che hanno giocato con il mio cognome, sarei un uomo molto ricco». E tutto questo, ha concluso, «perché io non sono assolutamente allineato, non sono prostrato in lode verso Dawkins e compagnia, perché rido delle loro pretese e posizioni».

Certamente è comprensibile e condivisibile questa accusa di intolleranza verso il moderno ateismo da parte di Michael Ruse, assolutamente in linea con la recente riflessione di Frank Furedi, sociologo presso l’University of Kent. In Italia non esistono serie e razionali espressioni di miscredenza, tuttavia sono perfettamente riconoscibili queste forme estreme di odio e avversione nei sostenitori dell’ideologia anticlericale (e anticattolica!). Non a caso il docente di diritto dell’UCLA, Stephen Bainbridge, ha scritto che «l’anticattolicesimo è l’ultima forma rispettabile di bigottismo nell’élite», riprendendo l’affermazione del poeta americano Pieter Viereck secondo cui «l’anticattolicesimo è l’antisemitismo degli intellettuali». Il tutto molto simile al titolo scelto per il libro del sociologo Philip Jenkins: “Il nuovo Anti-Cattolicesimo: l’ultimo pregiudizio accettabile“, come ha anche riflettuto di recente questo blog.

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La Chiesa e il Mpv aiutano le donne vittime dei traumi post aborto

Il 22 maggio 1978 è stata introdotta in Italia la legge 194 con la quale è stato legalizzato l’aborto. Una grave sconfitta per la vita, per i pro-life e per tutti coloro che –in linea con l’evidenza scientifica– ritengono immorale e sbagliato sopprimere un essere umano, indesiderato, nella prima fase della sua esistenza.

La Chiesa cattolica e molti cattolici, tuttavia, hanno preso atto di questa sentenza continuando comunque ad esprimere la loro posizione contraria. Senza interessarsi troppo delle accuse (infondate) di discriminazione delle donne, la Chiesa non solo ha proseguito il suo lavoro a livello culturale ma ha anche avviato progetti per aiutare ed accogliere le donne che hanno abortito, molte delle quali diventate vittime della sindrome post-aborto.

Proprio in questi giorni sono stati aperti a Roma due spazi di consulenza totalmente gratuiti. Si chiamano “Da donna a donna” e sono stati attivati dal Movimento per la Vita. Nelle due sedi, che si trovano presso il Cav Palatino (piazza Sant’Anastasia) e nel centro Caritas di via delle Zoccolette, psicoterapeute, sessuologhe, sociologhe e operatrici del Cav aiuteranno le donne a superare i propri disagi. L’iniziativa, che è stata presentata recentemente a Roma nel corso del convegno “Le conseguenze psichiche dell’interruzione volontaria di gravidanza“, rientra nell’ambito del progetto “Futuro alla vita” realizzato con il contributo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Come riportato da Avvenire, il presidente del Mpv Carlo Casini ha spiegato: «Dobbiamo recuperare queste madri alla fiducia e alla speranza della vita, occorre studiare il problema, ancora poco conosciuto, e formare i nostri operatori». Sopratutto bisogna superare le forze abortiste che si oppongono all’informazione scientifica circa la gravità di questa sindrome: «Molte ricerche in tutto il mondo, tranne che in Italia», – ha spiegato lo psichiatra Tonino Cantelmi, «hanno dimostrato che l’interruzione volontaria di gravidanza nelle sue varie forme, chirurgica e anche chimica, costituisce un fattore di rischio per la salute mentale. Questa è un’informazione che dovrebbe essere data a qualunque donna si avvicini a un percorso abortivo». Un elenco di questi studi si può trovare nella nostra pagina creata apposta sull’argomento.

Il movimento “pro-choice” (in America chiamato anche “pro-death”) purtroppo contrasta violentemente la presenza di queste informazioni all’interno dei consultori, preferendo che le donne abortiscano nell’ignoranza di quello che stanno facendo e delle sue conseguenze. Secondo vari studi, ha poi spiegato la psicoterapeuta Cristina Cacace, «il 44 per cento delle donne dopo l’aborto ha disturbi mentali, il 36 per cento disturbi del sonno e l’11 per cento deve assumere psicofarmaci». Il cosiddetto «disturbo post traumatico da stress – ha aggiunto Cacace – può condizionare la regolazione dei sentimenti. Il 20 per cento delle donne che abortisce prova grande stress abortivo, i sensi di colpa complicano la situazione e impediscono l’elaborazione del lutto».

 

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