Aborto: necessità di un vero consenso informato nei consultori

Ai giorni nostri è più che mai assodato che si consideri vita solo ciò che conviene. Basta pensare ad una goccia d’acqua trovata su Marte per far sì che tutti pensino che in quel pianeta ci sia presenza di vita; peccato che quando si parla di fecondazione il tutto venga considerato solo un grumo di cellule senza importanza.

In realtà, sappiamo che la vita comincia già dal concepimento. Ne sono testimonianza gli studi portati avanti da una branca della psicologia, definita “psicologia dello sviluppo”, la quale studia le varie età della vita, affermando proprio che “si vive prima di nascere”.

Ne ha voluto parlare Barbara Kay, co-autrice di Unworthy Creature: A Punjabi Daughter’s Memoir of Honour, pubblicato nel maggio 2011. La Kay si è soffermata attentamente sulla problematica della mancata informazione ai consultori in un editoriale pubblicato sul National Post.

La Kay approfitta di ciò per sottolineare anche che non esistono soltanto i pro-life e coloro che invece si dimostrano totalmente favorevoli all’aborto: esistono le vie di mezzo, i “tiepidi”. Eppure è tutta una questione di mentalità errata, poiché bisogna necessariamente affermare che un embrione è un bambino in attesa di formarsi. E poi, continua dicendo che “le chiacchiere stanno a zero: bisogna a questo punto, convincersi che è giusto uccidere questo omuncolo prima di arrivare ad una fase in cui la sua somiglianza con noi comincia a rodere troppo dolorosamente alla nostra coscienza per procedere con l’uccisione.”

C’è bisogno di un altro approccio, senza andare a cercare delle norme sul corpo della donna, “perché è alla sua mente che dobbiamo puntare”, continua ancora Barbara Kay. Con ciò ovviamente, si intende dire che dovremmo considerare l’applicazione di una serie di norme per garantire che, quando purtroppo avvengono aborti, essi si stiano almeno verificando alla luce di un consenso davvero informato. Ovviamente oggi non è così, ma si concorderà nel dire che c’è la necessità di informare coloro che decidono di abortire, in modo che siano pienamente consapevoli di ciò che stanno andando a fare.

L’ottimo editoriale del National Post, tra l’altro, evidenzia anche uno studio danese con il quale si è rilevato che il rischio di morte aumenta anche con l’aborto. Priscilla Coleman, della Bowling Green University, ha osservato che “i rischi di morte aumentano del 45%, del 114% e del 191% rispettivamente per il primo, il secondo e il terzo aborto, dopo aver controllato gli altri esiti riproduttivi e dopo la gravidanza in età … “. I soggetti di questo studio erano donne danesi, e già dal 1973 la Danimarca ha un registro nazionale degli aborti. Anche la Finlandia ha un registro nazionale dell’aborto, dove i medici sono tenuti per legge a registrare tutte le valutazioni d’impatto.

Come scrive ancora la Kay, “vi sono stati casi particolari in cui delle donne aventi difficoltà a decidere o meno di abortire hanno chiesto consiglio in varie cliniche”. Lei stessa ha inviato delle donne in consultori diversi, come fossero in avanscoperta. Ebbene, in tutti i casi è stato chiesto soltanto di compilare vari moduli, tergiversando sulla vera richiesta delle donne. Solo dopo aver insistito si riusciva a parlare con un medico circa gli eventuali effetti collaterali che un aborto può provocare, e in alcuni casi i medici hanno anche mentito. In fondo, non vi è nessuna regola scritta sul consenso informato.

Occorre permettere alla donna di rifletterci davvero presentando tutte le informazioni attinenti, in modo che capisca la gravità del gesto che sta compiendo, e non soltanto sotto l’aspetto prettamente morale. Può essere considerato questo un grave affronto per le donne? La giornalista Barbara Kay non lo crede. E noi ci accodiamo.

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La Chiesa, la ricchezza e la fame nel mondo…, ecco un’ottima risposta

Quante volte si legge la frase: “Perché la chiesa ostenta tanta ricchezza e oro quando con quella ricchezza che possiede potrebbe sfamare milioni di persone?”. Ecco, per rispondere alle solite banalità anticlericali, di cui sono rimasti vittime anche tanti cattolici, ci serviamo questa volta di un’ottima replica di padre Angelo Bellon apparsa sull’interessante sito web “Amici Domenicani”.  Per chi volesse  approfondire ulteriormente l’argomento, rimandiamo anche a quest’altra risposta.

Ecco la “classica” domanda di una lettrice, Francesca:
«Buon giorno padre, di recente sono stata in vacanza e ad una cattedrale famosa dovevi pagare €4,50 per sederti e sentire la messa, dovevi, se volevi fare l’offerta per accendere una candela, mettere almeno € 70 centesimi (ma Gesù quando predicava chiedeva soldi alle persone che volevano ascoltarlo? non credo). Perché la chiesa ostenta tanta ricchezza e oro quando con quella ricchezza che possiede potrebbe aiutare, sfamare tante persone? (Gesù vestiva di stracci e non indossava oro né viveva in una casa lussuosa). Perché quando ci si sposa bisogna pagare chi suona l’organo, pagare il coro, si devono lasciare i fiori in chiesa e non si possono portare via in quanto il prete ti obbliga a fare così. Se ti vuoi sposare in un’ altra chiesa devi pagare (se Gesù in persona fosse lì presente non penso ci imporrebbe queste cose, ci inviterebbe semmai a fare beneficenza con quei soldi ne si imporrebbe per dei fiori… credo..). Se vuoi che il prete durante la messa dica il nome di un tuo parente defunto devi pagare. Buh. Sottolineo che ci sono delle eccezioni, ad esempio il parroco delle chiesa vicino casa mia ha fatto tante migliorie e lavori alla chiesa con i soldi delle offerte che io sappia mai imposte, non mi sembra conduca una vita lussuoso, o che abbia una grande macchina, e durante l’omelia è un piacere ascoltarlo, sa sempre cosa dire e dice le cose giuste in modo che anche se si dilungasse non ti stancheresti di ascoltarlo. Però anche per lui vale il discorso dei matrimonio o della preghiera in suffragio delle persone defunte»

Padre Angelo ha risposto pazientemente in nove punti chiave:
«Cara Francesca, ho voluto pubblicare questa email anche se è zeppa dei soliti luoghi comuni, in considerazione della tua giovane età e anche perché sei mossa da vero amore per il Signore e per la Chiesa.

1. Ti faccio alcune domande: ma se ad un matrimonio vuoi l’organo, chi lo paga l’organista? E se accendi una candela in Chiesa, chi la compera quella candela? Per un matrimonio viene chiesta o si lascia un’offerta per la chiesa: ti pare una cosa strana? Tu non hai mai chiesto un servizio a diverse persone? E poi: quanto costa un matrimonio per pagare il pranzo agli invitati, per le bomboniere, per mille altre cose superflue solo per allietare la festa? Alla Chiesa, che celebra il matrimonio, talvolta a conti fatti si dà l’un per cento di tutte le spese fatte, e si ha da ridire? Non dico che si debba pagare la benedizione e la grazia santificante che viene data perché sarebbe simonia, ma quanto viene dato attraverso il sacramento è impagabile.
Il popolo che ha fede sa che questo è il momento più grande, più prezioso, più benefico che con quelle nozze si inaugura.
Come vedi, certi discorsi manifestano che di fede non ce n’è!

2. E poi i fiori per chi si portano? Per onorare il Signore, l’immagine di Maria o per portarseli dietro? Ma sono convinto che se uno se li vuole portare via, il sacerdote non ha nessuna difficoltà, anzi… Puoi chiedere alle donne che si dedicano volentieri alle pulizie delle chiese parrocchiali se non ne farebbero volentieri a meno. Sono loro che poi ogni giorno  cambiano l’acqua perché non marciscano in fretta, non mandino cattivo odore, che ad un certo punto li fanno su e li portano via. E stai sicura: fanno tutto gratis.

3. Ci sono cattedrali enormi con opere d’arte, hanno bisogno di luce, di custodi, di gente che pulisca, che a suo tempo hanno bisogno del rifacimento dei tetti o di altre prestazioni. Tanti visitatori pagano andando in museo. Così non trovo eccessivamente strano che si paghi per entrare in una determinata Chiesa, dove pure ci sono delle persone che puliscono, che tengono in ordine…Tuttavia stai pur certa che dappertutto, quando c’è la Messa, non si paga, a meno che uno non entri per fare il turista. In ogni caso, ai parrocchiani, non si fa mai pagare per entrare in Chiesa a pregare o per andare a Messa.

4. Inoltre se la Chiesa vendesse tutte le opere d’arte, che sono segno della fede e della pietà dei nostri padri, una volta sfamata la gente per qualche giorno avresti risolto il problema? Credi proprio che per risolvere i problemi della povertà del mondo sia necessario spogliare le Chiese? Tra l’altro, sarebbe giusto vendere le opere d’arte? E la sovrintendenza permetterebbe che venissero asportate dalle chiese? Ma poi: queste opere d’arte non sono state fatte per edificare la pietà dei fedeli?

5. Infine, non si chiede affatto l’elemosina per dire il nome del defunto, piuttosto si tratta di celebrare la Messa in suo suffragio e in segno di questo si dice il nome. Ma il nome si potrebbe anche non dire perché ciò che conta è il suffragio, il sacrificio di Cristo che viene applicato per la sua anima per liberarlo dal purgatorio.

6. Il problema non è la ricchezza della Chiesa, ma la fede che manca. Quando si pensa che si debba pagare per dire il nome del defunto durante la Messa, vuol dire che non si sa neanche che cosa sia la Messa? Se uno va in Chiesa solo per sentire il nome del defunto stiamo freschi! Non penso che un giovane rinunci a tutto e si faccia sacerdote semplicemente per dire il nome del defunto!

7. Infine hai la testimonianza del tuo parroco. Credi che sia un’eccezione? Vedi, bisognerebbe lasciar perdere tanti luoghi comuni ed essere più realisti. E poi per risolvere la fame nel mondo: non dico di spogliare le case, ma quante spese superflue si fanno settimanalmente da parte dei più e su queste si sta zitti! San Francesco non ha chiesto agli altri di diventare poveri, ma ha voluto lui farsi povero. Questa è la predica più credibile. Gesù non chiedeva soldi, ma accettava quello che gente gli donava, per questo aveva incaricato Giuda di tenere la cassa. Inoltre in nessuna pagina evangelica è scritto che Gesù vestiva di stracci. Anzi si dice che la sua tunica era senza cuciture, tutta d’un pezzo. Sua madre non l’ha vestito di stracci, ma ha fatto senza dubbio del suo meglio. Guardo nel mio convento e mi domando: dov’è la ricchezza e il lusso ostentato? Nelle famiglie più comuni hanno quello che nel nostro convento non c’è.

8. Inoltre, proprio san Francesco per il culto di Dio, per la celebrazione di sacrificio di Cristo sui nostri altari, per contenere il Corpo e il Sangue del Signore voleva che ci fosse il materiale più prezioso. Che cosa c’è di più prezioso per noi del Corpo del Signore che si offre a Dio come vittima di propiziazione per noi sull’altare?

9. Voglio dire un’ultima cosa: penso alla gente che viene in Chiesa anche tutti i giorni. Nessuno dice: vendiamo questo, vendiamo quell’altro. Anzi vedono le necessità della Chiesa: ci sono gli oratori, le scuole materne, le attività caritative, i campi scuola, i poveri e i mendicanti cui ogni giorno si provvede… Questa gente generosamente dà, non chiede di vendere!
E si attira la benedizione di Dio, il quale non si lascia mai vincere in generosità. Solo quelli che non danno mai niente e che hanno paura di mettere nelle mani di Dio qualcosa dei loro beni sollevano obiezioni e si fanno paladini della povertà evangelica. Ripeto: San Francesco non ha fatto così.

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo»

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Lo storico Barzun e il successo popolare del darwinismo

Nel febbraio scorso il prof. Enzo Pennetta ha scovato degli imprudenti legami tra Telmo Pievani, l’iper-neodarwinista mediatico e l’UAAR, l’associazione italiana di atei fondamentalisti. Il filosofo laicista, vistosi scoperto, ha subito cercato di cancellare ogni traccia imbarazzante per la sua già precaria attendibilità.

Ma questi legami sono casuali? Evidentemente no, tutti hanno chiaro quanta strumentalizzazione ideologica della teoria di Darwin vi sia stata negli ultimi due secoli, con il chiaro scopo di una propaganda anti-teista. Non è un caso che l’ateissimo dittatore Stalin imponesse in università lezioni di darwinismo (ovviamente concentrandosi solo su speculazioni filosofiche, come fa oggi Pievani) durante le ore obbligatorie di “ateismo scientifico”, nemmeno si tratta di coincidenza il fatto che Alfred Wallace, co-scopritore della selezione naturale assieme a Darwin, sia stato letteralmente e volutamente dimenticato a causa della sua posizione esplicitamente “finalista”, come non è casualità che oggi non siano promossi a livello popolare degli “Einstein day” per celebrare la relatività o dei “Lemaître day” per ricordare la scoperta della teoria del Big Bang, ma soltanto dei Darwin day” (organizzati appunto dalle associazioni di atei fondamentalisti).

Tutto questo è noto anche grazie al lavoro di diversi storici e intellettuali, che hanno contribuito a evidenziare questi indebiti tentativi. Si tratta, ad esempio, di Jacques Barzun, morto pochi giorni fa all’età di 105 anni. Barzun è stato uno degli storici più autorevoli del ventesimo secolo, vincitore nel 2011 della National Humanities Medal e onorato della creazione del Jacques Barzun Prize in Cultural History da parte della American Philosophical Society. E’ nato nel 1907 e ha potuto assistere all’esplosione in occidente del darwinismo come spiegazione di tutto l’agire umano, quando ancora erano in vita i collaboratori di Darwin e il co-scopritore della selezione naturale, Alfred Russel Wallace.

Scrivendo “Darwin – Marx – Wagner – Critique Of A Heritage” (Barzun press) ha voluto studiare «la combinazione di tre influssi nell’origine delle nostre superstizioni».  Lo storico ha scritto: «sostituendo la selezione naturale per la Provvidenza, la nuova scienza avrebbe potuto risolvere una serie di enigmi che derivano nella vita pratica, anche se per a causa di questo stesso scambio, la nuova scienza ha dovuto diventare una religioneQuesta necessità è ciò che ha reso l’evento darwiniano di tale importanza duratura nella storia culturale». (p. 64). Si è quindi soffermato su Thomas Huxley, il cosiddetto “mastino di Darwin”, sottolineando quanto fu profondamente turbato dal fatto che in nessun punto della storia si è mai verificata per selezione naturale la creazione di una nuova specie: «Dobbiamo concludere che una solida base scientifica può essere insicura nella sua base logica? Per gli scettici, Huxley ha affermato che l’evoluzione “non è una speculazione, ma una generalizzazione di alcuni fatti che possono essere osservati da chiunque si prenda il disturbo necessario”. Eppure era proprio questa osservazione che lo stesso Huxley stava cercando e aspettando. Fino a quando non si verificherà, l’evoluzione avrebbe dovuto restare, almeno per coloro che amano le sottili distinzioni, una speculazione e non una teoria» (p. 64). Ovviamente ci si riferisce all’osservazione in atto della macroevoluzione e non della microevoluzione, la quale essendo tranquillamente osservabile non può essere minimamente messa in dubbio (grave errore commesso dai creazionisti).

Ma che cosa ha reso il darwinismo tanto famoso e citato, diventato sinonimo perfino di “evoluzione”? Non certo la capacità di spiegare in modo adeguato gli avvenimenti biologici -esistono ancora enormi lacune, infatti-, il motivo è che «Darwin ha formulato una teoria che spiega l’evoluzione per selezione naturale attraverso variazioni accidentali. La negazione dello scopo nell’universo viene effettuata nella seconda metà della frase, “variazione accidentale”. Questa negazione di scopo è il tratto distintivo di Darwin» (2a ed., Pp 10-11). In questo modo, ha proseguito Barzus, «i militanti che hanno rivendicato per sé la libertà di ateismo o di agnosticismo erano in realtà altrettanto profondamente impegnati a diffondere il dogma – l’infallibilità della nuova chiesa darwinista – come ogni vincitore sul vecchio» (p. 66). Per questo motivo il celebre storico ha criticato fortemente tale strumentalizzazione, ritenendola fortemente fomentatrice del “materialismo meccanico.” Allineandosi a parecchi altri storici -per la disperazione di Pievani- ha anche insistito sul fatto che il darwinismo ha prodotto alcuni figli piuttosto sgradevoli, come il razzismo e l’anti-egualitarismo: «Dopo esserci sbarazzati del Design, con Huxley e altri abbiamo negato il principio di uguaglianza umana, affermando la supremazia innata di certe razze» (p. 360).

Ma è giustificata la pretesa neodarwinista di negare il finalismo in natura? Assolutamente no, come dimostrato tanti celebri evoluzionisti (e anche neodarwinisti) credenti, cristiani e cattolici. Evandro Agazzi, prestigioso filosofo della scienza italiano, ha infatti spiegato che «nel caso dell’evoluzionismo non ci fu mai una contrapposizione intrinseca con la religione, poiché sin dagli inizi ci furono fautori e oppositori delle teorie dell’evoluzione tanto religiosi quanto atei. Invece parecchi intellettuali antireligiosi, diedero un’interpretazione in senso ateomaterialista che pretesero di far passare per una conseguenza logica delle conoscenze scientifiche, anche se in realtà non lo è». Molti dei primi fautori del darwinismo, pensiamo a Lyell, Herschel, Henslow, Mivart, De Filippi, Chambers, Rosa, De Nouy, Sinnott, Marcozzi…, erano tutti credenti. Addirittura secondo Richard Dawkins fu un sacerdote anglicano «il più grande darwinista mai esistito».

Si può essere evoluzionisti casualisti o evoluzionisti finalisti, assieme tra questi ultimi a prestigiosi biologi, paleontologi e premi Nobel (come Alfred Kastler, Manfred Eigen, O. H. Schindewolf, Karl von Frisch, G. Colosi, E. Guyénot, P. P. Grasse, J. Piveteau, P. Leonardi, J. Hurzeler, Zoller, A. Remane ecc.), ovvero non aderire ad un piano predefinito in vista di un finale già scritto, ma ad un disegno che si realizza strada facendo. Perché, come ha scritto il premio Nobel Christian De Duve, «il caso non esclude l’inevitabilità. Tutto dipende dai vincoli entro i quali opera il caso […]. L’emergere di esseri umani, o perlomeno di esseri senzienti e pensanti, è un esito obbligato di questo percorso inarrestabile e non un “incidente cosmico”» (C. de Duve, Alle origini della vita, Longanesi 2008).

Anzi, se proprio dobbiamo dirla tutta, sono naturalismo e neo‑darwinismo ad essere in conflitto tra loro, poiché –come abbiamo già visto non è ragionevolmente possibile accettare entrambi.

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Misoginia dilagante nella comunità atea, parla Rebecca Watson

Ateismo, sessismo e misoginia. La denuncia di alcune femministe atee, tra cui Rebecca Watson, ha aperto un vaso di pandora sulla «tossicità della comunità atea» per le donne. Fino alla scoperta che i molestatori «erano le persone più attive nella comunità scettica e atea. Frequentavo i loro blog e gli stessi eventi. Si trattava della “mia gente”, ed erano i peggiori».

 

La cosiddetta comunità atea sta vivendo momenti di grandissimo buio nel rispetto del gentil sesso. Lo scandalo è emerso nel 2011 a causa degli insulti ricevuti da Rebecca Watson da parte di numerosi esponenti di primo piano, come Richard Dawkins, a causa della sua denuncia circa le frequenti molestie sessuali ricevute durante la “World Atheist Convention” di Dublino.

La cosa sembrava circoscritta, fino a quando l’associazione American Atheists, attraverso il suo presidente David Silverman, ha deciso di creare una politica di autoregolamentazione per i loro convegni e conferenze, in modo da assicurare che essi «siano sicuri e divertenti». La decisione, come riportavamo, è stata resa necessaria dal moltiplicarsi di denunce da parte di donne per continui e pesanti approcci sessuali durante le conferenze dell’associazione. Si è parlato addirittura di donne «toccate sotto i tavoli, minacciate di stupro, furtivamente fotografate per voyeurismo pornografico, e molte altre trasgressioni». 

Nel settembre scorso ha preso coraggio anche Jen McCreightdivulgatrice scientifica, atea e femminista, la quale ha chiaramente affermato: «non mi sento al sicuro come donna in questa comunità»,  denunciando a sua volta molestie sessuali e un «diluvio di sessismo» all’interno del movimento ateista. Parole che hanno aumentato ancora di più gli insulti verso le donne, accusate di voler distruggere la reputazione dell’associazionismo ateo. Tanto che la femminista è stata costretta a chiudere il suo blog a causa di «un’ondata ancora più grande di odio ingiustificato». Ha dovuto ritirarsi per «concentrarmi su come mantenere me stessa sana e felice, e questo non accadrà all’interno della tossica comunità atea», ha detto nell’ultimo suo articolo. Nel frattempo, un’altra attivista, Greta Christina, ha raccontato a sua volta che quando parla ai suoi confratelli di fede nel nulla, «devo aspettarmi un fuoco di fila di odio, abusi, umiliazioni, minacce di morte, minacce di stupro e altro ancora», per non parlare della campagna di odioverso Amy Davis Roth, un’altra delle pochissime donne che frequentano il movimento ateista.

Pochi giorni fa è tornata a scrivere Rebecca Watson su Slate.com, approfondendo la terribile esperienza vissuta nella comunità di scettici: «Quando ho iniziato a trovare un vasto pubblico sul mio sito web scettico», ha scritto, «non ero preoccupata dalla minaccia di stupro occasionale, di insulto sessista o sul mio aspetto […], almeno fino a quando ho iniziato a parlare di femminismo agli scettici, allora ho realizzato che non avevo uno spazio sicuro. Pensavo di aver trovato “il mio popolo” , una comunità che voleva educare il pubblico alla scienza e al pensiero critico. Il senso di appartenenza che provavo era simile, immagino, a quello che gli altri sentono in chiesa. Ai raduni di scettici il pubblico era per lo più di sesso maschile, ma ho pensato che era una cosa che si poteva bilanciare con un po ‘di duro lavoro».

Queste le giuste aspettative, però ad un certo punto, ha proseguito la femminista, «le donne hanno cominciato a raccontarmi storie sul sessismo in occasione di eventi scettici, esperienze che le hanno messe tanto in disagio da non tornare mai più. Dopo alcuni anni di blogging e podcasting, parlando in occasione di conferenze tra atei, ho anch’io cominciato a ricevere email da sconosciuti che descrivevano le loro fantasie sessuali su di me». Convinta che fossero casi isolati, ha risposto a tali fastidiosi approcci, ricevendo risposte come queste: “Onestamente tu meriti di essere violentata e torturata e uccisa“. La Watson ha indagato su queste persone tramite i profili personali dei social network, facendo una scoperta curiosa: «erano le persone più attive nella comunità scettica e atea. Frequentavo i loro blog e gli stessi eventi. Si trattava della “mia gente”, ed erano i peggiori» .

La Watson ha quindi optato per una grande opera di educazione della comunità ateista al rispetto della donna, arrivando a partecipare alla già citata conferenza di Dublino, nel 2011. In quell’occasione ha lamentato il disagio provato nel constatare che le uniche risposte ricevute al suo impegno di «comunicare online l’ateismo», erano «minacce di stupro e altri commenti sessuali», da parte dei membri più attivi della sua comunità. Il pubblico sembrava ricettivo, ha detto, peccato che tornando in camera verso le 4 del mattino è stata avvicinata da un partecipante che l’ha molestata in ascensore.  Tornata a casa ha usato questo episodio come esempio di brutto comportamento in occasione di conferenze, «se si vuole che le donne si sentano al sicuro».  Ma per aver rivelato pubblicamente questo spiacevole episodio subito, la femminista è stata coperta di insulti ai quali si è aggiunto -come dicevamo inizialmente- anche Richard Dawkins, che le ha scritto: «smettila di piagnucolare e pensa alla sofferenza delle donne musulmane. Per carità cresci, o almeno fatti crescere una pelle più spessa». Questo commento del leader dell’ateismo fondamentalista è stato preso come un «sigillo di approvazione», tanto che «la mia pagina di YouTube è stata inondata con “scherzi” di stupro, minacce e insulti. Alcuni individui mi hanno inviato centinaia di messaggi, promettendo di non lasciarmi mai più in pace. La mia pagina di Wikipedia è stato vandalizzata, foto grafiche di cadaveri sono state inviate alla mia pagina di Facebook, interi blog sono stati creati su di me, catalogando ossessivamente tutto quello che ho detto e tentando di scavare nel mio passato “sporco”».

Molto fredde le rassicurazioni ricevute da parte delle varie associazioni atee, alle cui conferenze ha smesso di partecipare (o per lo meno ha smesso di frequentarle da sola). Molte «hanno adottato politiche anti-molestie per i loro convegni, ma ancora ci sono i leader della comunità di scettici che si rifiutano di accettare che esiste un problema. Nel frattempo, altre donne sono state vittima di bullismo da parte degli atei lontano dai riflettori e anche al di fuori delle loro case». Ha scritto questo articolo, ha quindi concluso, con la speranza di un cambiamento che non avverrà «se continuiamo a marcire come una sottocultura mediocre che non solo ignora i problemi sociali, ma è attivamente antagonista al pensiero progressista».

La redazione

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Neuroteologia: il trascendente non è “fabbricato” dal cervello

 

di Maria Beatrice Toro
*psicologa e psicoterapeuta, docente presso l’Università La Sapienza di Roma

 

Nella storia del pensiero occidentale fede e ragione sono state variamente definite come due modalità di conoscenza distinte, dotate di differenti proprietà, oggetti e caratteristiche. A seconda dei presupposti filosofici di partenza dei vari pensatori, esse sono state viste come istanze più o meno distanti; a volte sono state contrapposte e, altre volte, interpretate come qualcosa di conciliabile o complementare. In ogni caso, fede e ragione sono sempre state dipinte come facoltà umane caratterizzate da procedimenti e meccanismi mentali chiaramente differenziabili.

La razionalità pura si avvicina all’oggetto del conoscere attraverso le categorie spazio temporali e segue un metodo basato sull’osservazione empirica e sulla sperimentazione per prove ed errori, attraverso regole e procedure oggi condivise da una vasta comunità scientifica internazionale. Queste peculiarità ne rappresentano il punto di forza, poiché consentono una descrizione spassionata e scientifica delle cose naturali. Le medesime caratteristiche comportano, tuttavia, un importante limite, in quanto fanno sì che la “ragione pura”[1]possa intercettare in modo adeguato il solo mondo dei fenomeni naturali, risultando inadatta a cogliere la realtà ultima delle cose. Il filosofo Kant chiamò tale realtà noumeno, o cosa in sé. Affermò, poi, che esso non può essere toccato dai cinque sensi né dall’intelletto  poiché sensi ed intelletto, inevitabilmente, riportano l’esperienza entro schemi spazio-temporali adatti alla sola dimensione del visibile. La conoscenza per fede rientra, invece, in un ambito diverso, che il filosofo non considerò mai in contrapposizione alla ragione. Nella fede l’oggetto è avvicinato con modalità che vanno oltre il ragionamento puramente logico, coinvolgendo sentimento e intuizione.

Oggi, la neuroteologia sostanzia queste intuizioni ribadendo che il rapporto con il trascendente avviene secondo modalità cerebrali che coinvolgono aree diverse, laddove emozione e cognizione si integrano, mettendo da parte gli aspetti del conoscere più direttamente legati alla spazialità. Nella ricerca neurologica, dunque, la spiritualità appare inestricabilmente connessa a un modo di funzionamento cerebrale specifico e distinguibile dai meccanismi attraverso i quali il cervello conosce usualmente il mondo. Tale modalità consente l’emersione dell’esperienza del contatto con il trascendente.

La neuroscienza ci mostra, attraverso i metodi della visualizzazione del cervello in funzionamento, che durante la meditazione, la preghiera e, probabilmente, anche durante le esperienze di pre-morte[2], si attivano configurazioni neurali e meccanismi altamente specifici.

Secondo il neurologo Kevin Nelson[3], in particolare, la scoperta delle basi neurali dell’esperienza spirituale non dimostra, come in campo scettico si è sostenuto, la illusorietà di tale esperienza riducendola a “malfunzionamento”, ma ci offre una prospettiva interessante di integrazione, dalla quale guardare alla religiosità. Al pari della conoscenza logica, infatti, anche la fede passa attraverso il cervello dando alla persona sensazioni che sostanziano l’esperienza del credere. Nonostante i cervelli funzionino tutti secondo le medesime regole, la libertà umana fa sì che possiamo assumere punti di vista diversi riguardo a tali esperienze, delle quali, tuttavia, oggi riconosciamo il substrato biologico. Sia in campo di scienza che di fede, diverse persone hanno opinioni diverse sul senso delle cose, giuste o erronee che siano. Così, scrive Nelson, secondo i Cristiani gli evangelisti sono stati ispirati da Dio quando scrissero i Vangeli: oggi sappiamo che, per farlo, non utilizzarono niente di misterioso, ma parti del loro cervello. Al di là di questo dato, la scienza non può informarci sul senso delle loro intuizioni, poiché dobbiamo ammettere, prosegue il neurologo, che il cervello non riesce mai a dare pienamente conto di se stesso. Anche se noi sapessimo come si attiva ogni singola molecola durante un’esperienza di spiritualità, dunque, il senso del suo mistero sopravvivrebbe, lasciandoci liberi di esprimere una nostra risposta alla domanda di senso fondamentale.

Seguendo gli studi neuro teologici, si può affermare che, in qualche modo, “Dio è nel cervello[4], ma ciò non significa che Egli sia “tutto nel cervello”. Mi pare una distinzione fondamentale[5] e credo che, per onestà intellettuale, dobbiamo considerare erronea una sovrapposizione delle due affermazioni. A volte, tuttavia, taluni scettici utilizzano la neurologia come un verdetto scientifico negativo sulla fede[6], affermando che l’esperienza del trascendente è frutto di una illusione del cervello. Come abbiamo visto in precedenti articoli comparsi su questo sito, la questione non può essere risolta attraverso la scienza, poiché questa non riesce a occuparsi del senso ultimo dei fenomeni che descrive (o uscirebbe fuori dal suo ambito, che consiste, propriamente, nell’indicare come i fenomeni avvengano e non il loro perché). La neuroscienza ci dice che l’esperienza di Dio avviene attraverso un’attivazione cerebrale peculiare: ciò non significa che il trascendente sia “fabbricato” dal cervello, né sarebbe, d’altra parte, corretto affermare che nei neuroni si è trovata la prova dell’esistenza di Dio. Dobbiamo limitarci a interpretare tali dati per quello che sono, ovvero una conferma dell’intuizione filosofica che il senso di connessione con il trascendente rappresenti una facoltà distinguibile dal pensiero logico. Oggi, allora, attraverso la neuroteologia sappiamo che fede e ragione sono qualcosa di diverso, ma non di opposto; dopotutto utilizzano ambedue il cervello per manifestarsi.

La spiritualità rappresenta per milioni di persone qualcosa di imprescindibile per dar senso alla vita. Ciò è accaduto in tutte le epoche della storia: il realismo dell’esperienza dell’oggetto di fede si appoggia su talune capacità di funzionamento cerebrale, di cui tutti in nuce disponiamo, che ci incoraggiano alla fede religiosa. Come scrive Begley, i  rituali religiosi riescono a facilitare l’attivazione di queste capacità, poiché tendono a focalizzare l’attenzione sullo spirito, bloccando le percezioni sensoriali, incluse quelle che la zona deputata all’orientamento utilizza per stabilire i confini dell’io. Ecco perché persino i non credenti si commuovono durante i riti religiosi. “Finché il nostro cervello avrà questa struttura”, dice Newberg, “Dio non andrà via”[7]. Per alcuni questa universale possibilità di fare esperienza del trascendente può esser vista come un “effetto collaterale” dell’evoluzione di altre abilità fondamentali per la sopravvivenza (quali la solidarietà e una disposizione speranzosa verso la vita), ma una tale interpretazione, come insegnano gli studiosi stessi, rappresenta una questione da affrontare fuori dal campo del dibattito esclusivamente scientifico. Possiamo liberamente ritenere che le attivazioni neurologiche coinvolte nell’esperienza spirituale siano una strana casualità, oppure scegliere di guardare ad esse come a un meccanismo straordinario, fatto apposta per allargare i nostri orizzonti e le nostre vedute della vita. Sono in molti, peraltro, a ritenere che determinati pattern di attivazione neurale vadano considerati come il “canale corporeo” attraverso il quale il divino comunica con l’umano.

Di certo c’è che l’esperienza del trascendente viene ricavata attraverso un procedimento raffinato e complesso, che va oltre la pura logica, coinvolgendo il piano mentale, l’emotivo e il corporeo: ciò ci consente, allora, di dire qualcosa che la filosofia aveva sempre intuito, ovvero che la fede è una facoltà a sé stante, che comporta una partecipazione globale dell’essere umano allorché tenti di dare una risposta al mistero dell’esistere.

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Note

[1]. Come la definì Kant nella Critica della ragion pura
[2]. Esperienze da soggetti che, a causa di malattie o traumi, hanno sperimentato fisicamente una condizione vicina alla morte (con comaarresto cardiaco  o encefalogramma piatto), senza tuttavia morire, avendo la sensazione di essere tornati indietro dalla morte alla vita. Tipicamente vengono riferite la sensazione di essere fuori dal corpo e di guardarlo dall’alto; possono essere presenti visioni, tra le quali la più frequente è quella di essere al limite di un tunnel da cui si è attratti.
[3]. Nelson, K. Can faith reside within brain?, Fox News 22.04.12
[4]. Newberg, D’Aquili, Dio nel cervello – la prova biologica della fede, Mondadori, Milano, 2002
[5]. Portata all’attenzione del mondo scientifico dal ricercatore Craig Aen Stockdale
[6]. Toro, M.B. Neuroteologia: un verdetto sulla fede?
[7]. Sharon Begley, La Repubblica, 31.01.01

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Legalizzato l’aborto in Uruguay, vincono le balle abortiste

Sempre la solita storia: dibattito sugli aborti clandestini, allarme sulla salute delle donne, depenalizzazione dell’aborto procurato.  E’ un percorso verificatosi pressoché ovunque nel mondo occidentale e che oggi ha portato l’Uruguay ad essere il primo Paese del Sudamerica a legalizzare l’aborto.

Ora, delle tante considerazioni che si potrebbero svolgere, credo sia importante, per farsi un’idea, focalizzarsi su alcuni dati di fatto. Tre su tutti. Anzitutto la mortalità materna: in Uruguay non solo non c’era alcun allarme, anzi si registravano – senz’alcuna legalizzazione dell’aborto – costanti miglioramenti: questa, infatti, che nel 1990 era di 39 decessi ogni 100.000 nati vivi, nel 2010 è risultata calata a 29 decessi materni.

Punto secondo: depenalizzare l’aborto non aiuta la salute delle donne. A supporto di questo fatto si potrebbero citare numerosi e differenti casi – da Cuba agli Stati Uniti – nei quali negli ultimi anni, con l’aborto legale, la mortalità materna è cresciuta, ma il massimo riscontro arriva da un recente studio che ha definitivamente dimostrato come il divieto di aborto non sia associato alla mortalità materna, men che meno ad un suo peggioramento. Viceversa, e siamo al terzo punto, si sa da altre ricerche, tra le quali una condotta studiando le cartelle cliniche di quasi mezzo milione di donne in Danimarca, che a fronte di un aborto indotto si registrano tassi di mortalità materna più elevati.

Morale: credendo che la legalizzazione dell’aborto procurato possa migliorare le cose, anche in Uruguay si sono fatti fregare dalle balle abortiste. Sempre le solite, oltretutto.

Giuliano Guzzo

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Ancora attacchi laicisti, ma il Papa dice: «sentiamoci fratelli di chi non crede»

Quasi ogni mese avvengono ormai anche in Occidente violenti attacchi, anche fisici, ai cattolici e ai credenti in generale da parte di esponenti laicisti.

A metà ottobre in Spagna un centinaio di giovani ha attaccato la Scuola salesiana “Maria Ausiliatrice” di Mérida, e con bandiere della guerra civile e al grido “Dove sono i sacerdoti? Stiamo andando a bruciarli sul rogo“, hanno ferito un insegnante e aggredito il personale dell’edificio.  L’intenzione del gruppo, secondo quanto ha riportato la stampa spagnola, era quello di togliere i crocifissi dalle pareti.

Pochi giorni fa in Francia, invece, il settimanale satirico Charlie Hebdo ha pubblicato in prima pagina una ennesima vignetta blasfema con la quale vengono offesi milioni di credenti, è una risposta -dicono- all’arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois che ha osato esporre pubblicamente un’opinione contraria al progetto di legge sulle nozze e le adozioni per persone dello stesso sesso (con tanto eliminazione dei termini “mamma” e “papà” per non offendere gli omosessuali). Ancora una volta, dietro alla libertà di satira si maschera la libertà di insulto e di offesa.

Questi gli episodi più recenti, condannati da esponenti cattolici e non condannati dai media di ispirazione laica. E’ il solito teatrino già denunciato in una precedente occasione: finché si attacca la Chiesa cattolica e il cristianesimo fanno tutti la gara ad invocare il rispetto verso la libertà artistica, di satira e d’espressione. Se a finire sotto la satira e la derisione sono altre categorie di persone: islamici, ebrei, agnostici o omosessuali, allora tutti pronti a combattere la «libertà che si trasforma in insulto», riprendendo il pistolotto dell’anticattolica Dacia Maraini, o contro la «libertà che diventa provocazione» secondo la predica dell’anticattolico Corrado Augias.

Ma, come già detto, è il solito giochino che si ripete puntualmente nei secoli e davanti al quale è bene assistere con un sorriso ironico. Chi si smarca da questo squallido teatro è sempre Benedetto XVI, l’unico che merita vera ammirazione. Nonostante questa costante e socialmente accettata aggressione anti-cattolica, il Papa ha ancora una volta mostrato qual’è la strada da perseguire in una società civile e rispettosa: all’interno di un bellissimo discorso sul senso religioso naturale presente nell’uomo, ha concluso invitando a compiere il pellegrinaggio della vita sentendoci «fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene. Preghiamo, in questo Anno della fede, perché Dio mostri il suo volto a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero».

In diverse altre occasioni il Pontefice ha mostrato questo profondo rispetto verso chi non ha avuto il dono della fede e tuttavia non si mostra intollerante e dissacrante. Nel 2011 ha evidenziato anche il grande contributo che queste persone offrono a noi credenti, perché «pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri». Persone che, ha detto in un’altra occasione, «sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli ‘di routine’, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato dalla fede».

Ancora una volta il Pontefice ha mostrato la giusta strada da percorrere a tutti gli uomini di una civiltà rispettosa, ma siamo sicuri che i laicisti intolleranti non lo ascolteranno nemmeno questa volta. La cosa importante, comunque, è che l’esempio continui ad essere vissuto almeno da noi cattolici e da tutti gli uomini di buona volontà.

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I video degli incontri più importanti del Meeting di Rimini 2012

Seppur con un po’ di ritardo anche quest’anno, come abbiamo già fatto per l’edizione 2010 e l’edizione 2011, raccogliamo in una pagina i video degli incontri più interessanti del “Meeting per l’amicizia fra i popoli” (www.meetingrimini.org) dell’edizione 2012, svoltasi quest’estate. Si tratta di uno dei più importanti appuntamenti culturali dell’anno e viene organizzato dal movimento ecclesiale di “Comunione e Liberazione”.

Questa XXXIII° edizione è stata intitolata: “La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”, ed è possibile visionare tutti gli altri incontri sull’apposito canale Youtube. Qui sotto un elenco dei video da noi selezionati.

 
 
 
 

LA NATURA DELL’UOMO E’ RAPPORTO CON L’INFINITO

Ha partecipato: Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid. Ha introdotto Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’Amicizia fra i popoli.

Durante l’incontro centrale del Meeting, il teologo spagnolo ha parlato della costante tensione presente nell’uomo del desiderio di infinito, la nostalgia dell’Assoluto che rimanda oltre la stessa realtà. C’è stato un momento nella storia in cui questo infinito è diventato conoscibile attraverso l’esperienza, ovvero la persona di Cristo, il cristianesimo è nato grazie all’iniziativa di Dio nei confronti dell’uomo, per rispondere al suo bisogno di infinito.

 
 
 
 

NEUROSCIENZE: IL MISTERO DELL’UNITA’ DELL’IO

Hanno partecipato: Michele Di Francesco, ordinario di Logica e Filosofia della scienza e Preside della Facoltà di Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele; e Giancarlo Cesana, Docente di Igiene all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha introdotto Andrea Moro, Docente di Linguistica Generale presso la Scuola Superiore Universitaria ad Ordinamento Speciale IUSS di Pavia.

I relatori hanno affrontato il concetto di “io” e di coscienza alla luce delle scoperte neuroscientifiche e delle tesi di vari riduzionisti come Daniel Dennett. Di Francesco ha concluso affermando: «al momento attuale non c’è necessità di concludere l’inesistenza dell’io dalla scoperta del ridimensionato ruolo della coscienza. C’è bisogno di molta buona scienza e buona filosofia per interpretare questi risultati e per non impoverire il concetto di io». Il prof. Cesana ha spiegato invece come l'”io” non sia fine a se stesso, «ma si costituisce anche grazie al legame con gli altri individui, all’interazione con l’ambiente, all’evoluzione, al cambiamento».

 
 
 
 

E’ VERAMENTE POSITIVA LA REALTA’? DAI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA AL POPOLO DELLA BIBBIA

Hanno partecipato: Giorgio Buccellati, autorità internazionale sulle civiltà antiche, professore emerito presso il Department of Near Eastern Languages and Cultures e al Department of History di UCLA, fondatore di “The International Institute for Mesopotamian Area Studies” (IIMAS), di cui è attuale direttore, e Ignacio Carbajosa Pérez, Docente di Antico Testamento presso la Facoltà di Teologia dell’Università San Dámaso di Madrid. Ha introdotto Davide Perillo, direttore della rivista “Tracce”.

I due studiosi, come descritto in questo articolo, hanno mostrato l’originalità e le enormi differenze dell’Antico Testamento rispetto alle religioni mesopotamiche, confutando alcune leggende ottocentesche.

 
 
 
 

RAGIONANDO SULLA NATURA DELL’UOMO. SEMINARIO DI FILOSOFIA

Hanno partecipato: Costantino Esposito, Docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Bari; Eugenio Mazzarella, Docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi Federico II di Napoli. Ha introdotto Carmine Di Martino, Docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano.

Il filosofo Mazzarella ha spiegato il limite dell’approccio riduzionista all’uomo, il quale «non spiega la specificità sostanziale della specie umana, o della sostanza uomo: cioè l’evidenza fenomenologica della dualità (fisicità e interiorità), della dimensione dell’intenzionalità, delle evidenze morali (dovere, libertà, coscienza)». Esposito, invece, si è maggiormente soffermato sul delineare gli argomenti del naturalismo neuro-biologico, ovvero «la tendenza “nichilistica” e “relativistica” di buona parte del pensiero contemporaneo, che mette in discussione la visione classica e soprattutto ebraico-cristiana dell’uomo come l’apice della creazione, in virtù della sua ragione e della sua libertà». Ma se è un’illusione, tuttavia «la nostra auto-coscienza, per quanto ci impegniamo a spiegarlo come l’esito di un determinismo fisicalista o culturalista, resiste nell’esperienza che abbiamo di noi stessi». Oggi, «proprio con il guadagno di sempre nuovi dati empirici circa il funzionamento cerebrale e il condizionamento culturale che sottendono la nostra mente, e quindi la nostra coscienza, questa “illusione” lungi dall’essere stata eliminata mostra forse il suo vero volto: non quello di un antico auto-inganno, ma quello di un rapporto strutturale con l’infinito».

 
 
 
 

EVOLUZIONE BIOLOGICA E NATURA DELL’ESSERE UMANO

Hanno partecipato: William E. Carroll, Aquinas Fellow in Theology and Science presso l’University of Oxford; Ian Tattersall, Paleantropologo e curatore emerito della “Division of Anthropology” dell’American Museum of Natural History di New York. Ha introdotto Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.

Tattesall ha delineato alcune caratteristiche che rendono unico l’uomo tra le altre specie, come la capacità simbolica o la rielaborazione delle informazione come la concezione dell’infinito. «Esiste un abisso cognitivo tra noi e le scimmie», ha spiegato l’antropologo, una eccezionalità emersa in modo improvviso. Carroll si è invece soffermato sugli errori del creazionismo e dell’evoluzionismo (diverso da evoluzione) di creare un apparato filosofico a sostegno della propria tesi, imponendo la scelta tra Darwin o Dio. Ha inoltre spiegato come la fede in Dio possa tranquillamente co-esistere con l’adesione alla teoria darwinista.

 
 
 
 

“CHE COS’È L’UOMO PERCHÉ TE NE RICORDI?”. GENETICA E NATURA UMANA NELLO SGUARDO DI JÉRÔME LEJEUNE

Hanno partecipato: Birthe Bringsted Lejeune, Vicepresidente della Fondazione Jérôme Lejeune e moglie di Jérôme; Jean-Marie Le Méné, Presidente della Fondazione Jérôme Lejeune; Carlo Soave, Docente di Fisiologia Vegetale all’Università degli Studi di Milano. Ha introdotto Marco Bregni, Presidente dell’Associazione Medicina e Persona.

I relatori si sono concentrati sulla vita del grande genetista, osteggiato dalla società per aver difeso il diritto alla vita dei bambini con la sindrome di Down, malattia da lui stesso scoperta.

 
 
 
 

VERSO IL XVII CENTENARIO DELL’EDITTO DI MILANO

Hanno partecipato: Francesco Braschi, Dottore incaricato della Biblioteca Ambrosiana; Giorgio Feliciani, Docente di Diritto Canonico all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Alfredo Valvo, Docente di Storia Romana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Giovanni Maria Vian, Direttore de L’Osservatore Romano. Introduce Stefano Alberto, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I relatori si sono concentrati su questo evento, che sancisce la separazione tra la Chiesa e lo Stato e hanno contribuito a sfatare i diversi miti che circondano la figura dell’imperatore Costantino.

 
 
 
 

IL MISTERO DELLA MATERIA: IL BOSONE DI HIGGS

Hanno partecipato: Sergio Bertolucci, Direttore scientifico del CERN di Ginevra e Lucio Rossi, Capo del “Magnets, Cryostats and Superconductors Group” al CERN di Ginevra. Ha introdotto: Marco Bersanelli, Responsabile scientifico della missione PLANCK dell’Agenzia Spaziale Europea.

Lucio Rossi si è concentrato sul percorso scientifico che ha portato alla scoperta del “Bosone di Higgs”, mentre Sergio Bertolucci ha descritto l’area di ricerca del “CERN” e la collaborazione tra scienziati di ogni parte del mondo.

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Francia: psicologi, filosofi, giuristi e sindaci contro le nozze gay

Come sappiamo in Francia sta per riproporsi puntualmente quello che già avvenuto in altri Paesi: dopo aver realizzato le unioni civili (qui legalizzate nel 1999) il passo successivo è quello del matrimonio e l’adozione per le persone dello stesso sesso. Lo aveva annunciato in campagna elettorale Francois Hollande, che ha inteso mantenere fede alla parola (compresa l’abolizione dei termini “mamma” e “papà” per non offendere gli omosessuali). Tuttavia il presidente del gruppo dell’Ump all’Assemblea nazionale, Christian Jacob, ha affermato: «Se la legge sarà adottata, la abrogheremo una volta tornati al potere» (e da come si sta mettendo per Hollande si presume molto presto).

Sicuramente si aspettava una strada più in discesa, qualche ostacolo di troppo sta facendo rallentare i piani, come abbiamo già visto in un precedente articolo. Si tratta di una schiera di psicologi, psichiatri, intellettuali, filosofi e uomini delle istituzioni (e anche omosessuali) che stanno prendendo forti posizioni contrarie a questo mutamento antropologico del significato del matrimonio e alla violazione del diritto di un bambino di crescere con un padre e una madre. Ma anche il 52% di semplici cittadini francesi, secondo un recente sondaggio Ifop, sono ora contrari all’adozione per gli omosessuali (prima dell’elezione di Hollande il 58% era favorevole), invece i sostenitori del matrimonio gay calano dal 63% al 58%.

Il quotidiano La Stampa infatti spiega che «anche in questa materia, Hollande sta scoprendo che mantenere le promesse è più difficile che farle. I tempi si allungano: il testo doveva passare in Consiglio dei ministri il 31 ottobre ma lo farà solo il 7 novembre, e il dibattito parlamentare è slittato da dicembre a fine gennaio». L’articolo riporta la forte protesta di 12 mila sindaci (di diversi schieramenti), coloro a cui toccherà unire davanti alla République due lui o due lei. La rivolta è guidata dal Collettivo dei sindaci per l’infanzia, capeggiato da Philippe Gosselin, sindaco di Remilly-sur-Lozon. Molti, come il sindaco di Orange, Jacques Bompard, hanno richiesto che la legge contempli l’obiezione di coscienza, «come per un medico che non vuole praticare l’ aborto».

Posizioni contrarie sono arrivate anche da tutte le rappresentanze religiose. La Chiesa cattolica, i protestanti, i musulmani, gli ortodossi, gli evangelici e anche gli ebrei. Gilles Bernheim, gran rabbino di Francia, ha inviato un documento in cui ha chiesto che «il matrimonio non [sia] unicamente il riconoscimento di un amore» ma rispetti il suo vero significato: «l’istituzione che congiunge l’alleanza dell’uomo e della donna con la successione delle generazioni». Per questo, ha proseguito, «non si può concedere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano», citando l’esempio di una donna che ama due uomini o di un uomo che ama una donna sposata (o, aggiungiamo, di padre e figlio che si amano ecc.), e proponendo di trovare «delle soluzioni tecniche». La riflessione del rabbino è stata valorizzata da Avvenire e dall’Osservatore Romano.

Sul lato scientifico è stato ripreso un lungo articolo di qualche anno fa di Claude Halmos, psicanalista e una dei massimi esperti riconosciuti in età infantile, la quale ha spiegato che è sbagliato affermare che le coppie omosessuali sono uguali a quelle etero, e «rivendicando il “diritto alla non differenza” richiedono che le coppie gay abbiano il diritto “come le coppie eterosessuali” di adottare bambini . Questo mi sembra un grave errore […]. I bambini che hanno bisogno di genitori di sesso diverso per crescere». La questione, ha scritto, non è se «gli omosessuali maschili o femminili sono “capaci” di allevare un bambino», ma essi non «possono essere equivalenti ai “genitori naturali” (necessariamente eterosessuali)». In questo dibattito, inoltre, «il bambino come persona, come un “soggetto” è assente». Ed ecco il vero punto della questione: «ignorando un secolo di ricerche, i sostenitori dell’adozione si basano su un discorso basato sull”amore”, concepito come l’alfa e l’omega di ciò che un bambino avrebbe bisogno», non importa se esso arrivi da un uomo e una donna, o da due donne. Ma queste affermazioni, ha continuato la psicanalista, «colpiscono per la loro mancanza di rigore» perché «un bambino è in fase di costruzione e, come per qualsiasi architettura, ci sono delle regole da seguire se si tratta di “stare in piedi”. Quindi, la differenza tra i sessi è un elemento essenziale della sua costruzione». Invece si vuole mettere il bambino «in un mondo dove “tutto” è possibile: dove gli uomini sono i “padri” e anche “mamme”, le donne “mamme” e anche “papà”. Un mondo magico, onnipotente, dove ciascuno armato con la sua bacchetta, può abolire i limiti», ma questo risulta essere «debilitante per i bambini».  Essi si “costruiscono” attraverso «un “legame” tra il corpo e la psiche, e i sostenitori dell’adozione si dimenticano sempre il corpo. Il mondo che descrivono è astratto e disincarnato». Nella differenza sessuale, invece, «tutti possono trovare il loro posto […], consente al padre di prendere il suo posto come “portatore della legge […], permette al bambino di costruire la sua identità sessuale».

Decisamente contrario anche il filosofo Thiuband Collin, come anche Xavier Lacroix, teologo e filosofo, membro del Comité consultatif national d’éthique (Comitato consultivo nazionale di etica), il quale ha affermato in una bellissima intervista su Le Monde: «Oggi, nove persone su dieci pensano che il matrimonio sia la celebrazione sociale dell’amore. Ma, antropologicamente, tradizionalmente, giuridicamente, universalmente, il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna in vista della procreazione; se si tolgono la differenza di sesso e la procreazione, non resta niente, eccetto l’amore, che può finire. Il matrimonio è anche un’istituzione e non solo un contratto. L’istituto del matrimonio è definito da un corpus di diritti e di doveri degli sposi tra loro e verso i figli. La società vi interviene come terza parte, tenuto conto del fatto che ne ha bisogno per l’interesse generale». E ancora: «i cambiamenti sociologici attuali mi sembrano superficiali rispetto ad una realtà antropologica che perdura. Se il matrimonio si limitasse ad una celebrazione dell’amore, non ci sarebbe più fondamento della filiazione, della genitorialità. Ma chi dice matrimonio, dice filiazione […]. I sostenitori dell’omogenitorialità dicono che la differenza sessuale non ha importanza, che non è importante che un bambino sia nato da questa o quella persona; occultano la nascita. Affermare questo, equivale a dire urbanamente che il corpo non conta. È grave, perché equivale a pensare che tutto deriva dalla volontà e dalla cultura». Rispetto alle adozioni eterosessuali, il filosofo francese ha proseguito: «è sempre una sofferenza. Ma nel caso di coppie eterosessuali, questa sofferenza è recuperata dal fatto che la coppia adottante è analoga ai genitori biologici. Il progetto attuale invece nega questa analogia». Guardando al tentativo omosessualista, Lacroix ha concluso: «è un po’ cinico voler riformare la legge per giustificare il proprio comportamento. Non si può cambiare la definizione di filiazione e di famiglia per tutti, per rispondere alla richiesta di alcune migliaia di coppie omosessuali minoritarie, che hanno dei comportamenti certo rispettabili, ma che pongono problemi. In questo modo, gli omosessuali vogliono entrare nella norma sovvertendola» e «la discriminazione consiste nel non concedere gli stessi diritti in condizioni simili. Ma, di fronte alla procreazione, le coppie omosessuali non sono nella stessa situazione delle coppie etero. Strutturalmente, non possono procreare. Al contrario, penso che ci sarà discriminazione verso i bambini, se la legge definisce, a priori, che migliaia di bambini saranno privati dei beni elementari che sono un padre e una madre».

Sophie Marinopoulos, psicologa clinica, psicoanalista, responsabile della Prevenzione e promozione della salute mentale a Nantes, ha spiegato: «Il bambino ha bisogno di una storia credibile della sua nascita. Egli deve essere in grado di dire che la sua storia di vita è esprimibile». Ai suoi occhi la “homofiliation” non esiste, perché «la nascita è originaria della differenza tra i sessi. Nessun bambino è nato da due donne o due uomini». Pierre Lévy-Soussan, psichiatra specialista in adozione, ha proposto la stessa analisi: «Anche se sa che i suoi genitori adottivi non sono il suo genitori biologici, il bambino deve essere in grado di immaginare che “potrebbero” essere, deve fantasticare una scena di nascita possibile […] e credibile. Tuttavia, una coppia dello stesso sesso, non offrirà mai una genitorialità credibile». Si è dunque opposto a questa «mutazione antropologica importante: ci è stato detto che i bambini cresciuti da coppie omosessuali non sono peggiori di altri. Ma sulla base di quali studi, quali numeri? L’uomo non è come la madre, le interazioni con la madre sono radicalmente diversi da quelli con il padre».  Maurice Berger, responsabile del Servizio di Psichiatria del Bambino presso il CHU di Saint Etienne, ha rivelato: «il bambino finirà di fronte ad un enigma sessuale. Ecco perché quelli che ho ricevuto erano generalmente inquieti. Erano impossibilitati a connettersi alla concezione della sessualità e tenerezza dei genitori, non riuscivano a trovare una soluzione nel loro funzionamento mentale» (Le Figaro, 3/10/12). Christian Flavigny, direttore del dipartimento di Psicoanalisi infantile presso il Pitié Hospital-Salpêtrière di Parigi ha parlato di “genitorialità gay” come «grave rischio» e «contraddizione in termini, ossimoro». Anche lui ha fatto presente che il matrimonio deve essere per il bambino una fonte credibile.

L’autorevolissima docente di diritto pubblico presso l’Università di Rennes, Anne-Marie Le Pourhietha a sua volta ricordato che «il matrimonio è definito come l’unione di un uomo e di una donna, e lo scopo della istituzione legale è quello di garantire la stabilità della coppia e la tutela della loro proleQuesto è sancito dall’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La pretesa della lobby gay tende a distorcere la definizione del matrimonio per fargli perdere il suo significato e la sua funzione. E’ come se dicessimo che camminare è discriminatorio perché significa muoversi mettendo un piede davanti all’altro, e questo è offensivo verso chi è privo di gambe, o nei lattanti» Rispondendo a coloro che giustificano le nozze gay tramite la presenza di un amore corrisposto, la giurista ha spiegato: «l’amore non ha nulla a che fare con il codice civile. Questo argomento è sciocco, ma anche pericoloso, perché può essere usato contro tutte le norme che regolano il matrimonio. Se un uomo ama tre donne, si sosterrà che il divieto di poligamia è discriminatorio, lo stesso se un fratello e una sorella si amano, si toglierà il divieto di matrimonio tra adolescenti ecc».

Tra le voci contrarie anche parecchi omosessuali, come Xavier Bongibaultateo, che presiede l’associazione Plus gay sans mariage, il quale ha affermato: «Il piano del governo è tutt’altro che unanime nella comunità gay. Contrariamente a quanto dicono i mezzi di comunicazione, la richiesta non viene dalla maggioranza degli omosessuali. La maggior parte non è interessata, ma l’influenza del movimento LGBT è tale che molti non osano dirlo». Una conferma, dunque, della violenza dell’intollerante lobby gay: «Ogni volta che affermo di essere contro il matrimonio, contro l’adozione, gli attivisti LGBT mi indicano come reazionario, fascista e omofobo, che nel mio caso è paradossale! Al contrario, quelli che mi conoscono dicono: “E ‘fantastico quello che dici”, ma non osano fare il grande passo. Molti temono di perdere gli amici. Hanno paura a parlare». Ha poi proseguito l’omosessuale: «Un bambino ha bisogno di un padre e una madre». Bongibault non è nemmeno credente: «sono ateo. Io non sto cercando di preservare le tradizioni, solo un po ‘di buon senso. Di cosa parliamo? Matrimonio civile! Questo è il matrimonio civile che voglio conservare. Questo non fa di me un cattolico».

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Meglio inneggiare al preservativo o educare ai valori dell’amore?

Si chiama “Safe Book” ed è un progetto sostenuto da Durex col patrocinio Anlaids Onlus, la maggiore associazione italiana contro la diffusione dell’infezione da Hiv, che per il secondo anno consecutivo promuoverà la contraccezione nelle scuole per un totale di «7 mila istituti italiani: 4 mila scuole medie superiori e, per il primo anno, 3 mila scuole medie inferiori (con la partecipazione degli studenti del terzo anno)» per un totale di «600 mila i ragazzi coinvolti». Era ora, penseranno in molti: finalmente tanti giovani potranno ricevere un’educazione sessuale come si deve ed efficace. E ne seguiranno meno gravidanze indesiderate, meno malattie, più tranquillità. Benefici per tutti, insomma.

Ecco, il punto è proprio questo: quella della contraccezione e nello specifico del preservativo facile – sorvolando sulle implicazioni morali di cui diremo fra poco – non è una politica convincente. E spesso neppure efficace se consideriamo alcune risultanze empiriche. Gli esempi, qui, sarebbero molti ma prendiamo il caso di San Francisco. Un caso a prima vista esemplare dal momento che i preservativi gratuiti, da quelle parti, sono disponibili nelle scuole pubbliche dal 1997; il che farebbe pensare che oggi, anni dopo, tutto vada per il meglio. Purtroppo non è così. Infatti, secondo quanto emerso da un rapporto del San Francisco Department of Public Health, i dati «sulle malattie a trasmissione sessuale segnalati mostrano gli aumenti per la clamidia, la gonorrea e la sifilide precoce». Una situazione, converrete, assai preoccupante proprio laddove determinati problemi avrebbero dovuto essere risolti.

Come mai? Quale la causa di questo scenario? Per quale ragione la diffusione dei preservativi ha deluso, a San Francisco e non solo, le aspettative per le quali è stata promossa? Le spiegazioni sono molteplici ma la principale rimane una, e cioè la fallibilità del profilattico, che non protegge sempre, anzi. Qualche esempio: la protezione tramite condom dall’infezione da herpes virus non supera il 30% e così anche da quella da gonococco o da clamidia, mentre nei confronti dell’Hiv – come confermano alcuni studi – la protezione conferita è pari all’80%, ma a condizioni particolari. E cioè a patto che si consideri, come ha osservato il dott. Renzo Puccetti, un perfetto «utilizzo del condom ogni volta, cioè ad ogni rapporto sessuale, senza mai derogare».

Conoscete molti in grado di utilizzare perfettamente il profilattico «ogni volta, cioè ad ogni rapporto sessuale, senza mai derogare», magari dopo il consumo alcol o in preda all’eccitazione?  Non scherziamo. Anche su questo versante non mancano dati. Che, a dire il vero, sono impressionanti: uno studio condotto su 509 adolescenti, per esempio, ha messo in luce come appena l’uso corretto e costante del preservativo riguardasse solo 80 soggetti, il 16%. Facile qui l’obiezione: ma gli adolescenti sono per definizione impulsivi e scarsamente capaci di autocontrollo. Vero, ma pensare di estendere una condotta osservata solo da una parte largamente minoritaria di giovani alla totalità di essi è francamente utopico.

Anche perché l’utilizzo del preservativo, secondo quanto sottolineato da alcune ricerche, si presta a numerosi e frequenti errori che vanno dal fatto che non sempre viene indossato per tutta la durata del rapporto sessuale, al fatto che spesso viene inserito al contrario perché srotolato dal lato sbagliato, dal mancato spazio lasciato sulla punta alla rimozione sbagliata. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che i tassi di “insuccesso” del profilattico possano superare del 3% quelli dell’uso perfetto ( Cfr. Hatcher R.A. – Trussel J. – Steward F. –Steward G.K. – Kowal D. – Guest F. – Cates W. jr. – Policar M.S. (1994) Contraceptive technology, 16 edn. Irvington, New York). Ne consegue che se l’idea è che nelle scuole si spieghi a dovere come si usa il condom ai nostri ragazzi, converrebbe iscriverli direttamente ad un istituto dove non s’insegna altro che il cosiddetto “sesso sicuro”. Faremmo prima, se non altro.

Il bello, si fa per dire, è che neppure così la riduzione di gravidanze indesiderate e malattie sarebbe garantita, anzi. Infatti ci si dimentica una cosa fondamentale: all’apologia del preservativo spesso corrisponde, da parte dei giovani, l’errata convinzione – simile a quella che deriva dall’uso delle cinture di sicurezza – che col condom ogni rischio sia scongiurato e dunque ogni condotta lecita e priva di conseguenze. Non per nulla sul British Medical Journal si è denunciato come le campagne di promozione del preservativo, anziché frenare la diffusione dell’HIV, possano «aver contribuito ad un loro uso incostante, cosa che comporta uno scarso effetto protettivo, nonché a trascurare il rischio derivante da rapporti sessuali con più partner» [11].

Di qui un dubbio: ha davvero senso investire sul “sesso sicuro”? Conviene veramente che i nostri giovani sappiano tutto del condom oppure è il caso d’insegnare loro altro? Sono domande che vale la pena porsi. Anche perché tessere l’elogio del condom di fatto significa inneggiare all’amore precario e quindi alla paura. Alla paura di legarsi troppo ad una persona, che è bene che rimanga solo partner sessuale e non diventi mai marito o moglie e men che meno padre o madre di tuo figlio; alla paura di vivere un rapporto in vista del matrimonio, come se l’attesa – anziché aggiungere – togliesse gusto alla vita. Paura insomma di dare davvero un significato, un volto all’amore, senza circoscriverlo alle lenzuola di un letto ma vivendolo fino in fondo, a trecentosessanta gradi, senza timori né compromessi al ribasso.

Parole sacrosante ma la realtà – si obietterà – è che con la situazione educativa di oggi il preservativo è già qualcosa. Sbagliato: la realtà non si esaurisce in quella che abbiamo sotto i nostri occhi. Esiste sempre cioè in ogni momento la possibilità di impegnarsi per incidere, per educare davvero, per ridare spazio e centralità ai valori autentici. Per far capire ai ragazzi che non debbono accontentarsi del “sesso sicuro” perché c’è concretamente la possibilità di vivere e condividere la purezza. Certo, all’inizio si verrà criticati e presi in giro. All’inizio sarà dura. Ma meglio essere presi in giro oggi per i valori che si segue che ritrovarsi, magari dopo anni, presi dallo sconforto per quelli che si sono persi.

Giuliano Guzzo

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