Nuovo libro di Rodney Stark: “Il trionfo del cristianesimo”

Più volte ci siamo occupati di uno dei massimi sociologi della religione a livello internazionale (una trentina i suoi libri, tradotti in 15 lingue), l’americano Rodney Stark, sopratutto in occasione dell’uscita di un suo nuovo libro.

Da poco Stark, docente presso la Baylor University (Texas), ha ultimato l’ultimo suo lavoro: Il trionfo del cristianesimo (Lindau 2012), nel quale riporta una conclusione del genere: «Più del 40 per cento delle persone di tutto il mondo è costituito da cristiani e il loro numero cresce più rapidamente di quello di ogni altra religione». Il volume parte da una domanda precisa: come ha fatto un’oscura setta ebraica composta da poche decine di persone a diventare la più diffusa religione del mondo? E’ stata la «convenienza umana» della proposta del Vangelo a risultare «vincente» (questo è il “trionfo” citato nel titolo), ieri e oggi, nei contesti più diversi. Inoltre ha spiegato, in una intervista apparsa su Avvenire, che «l’impegno del primo cristianesimo alla misericordia è stato tanto capace di mitigare la sofferenza al punto che i cristiani vivevano pure più a lungo dei loro fratelli pagani […] si facevano carico di chi era ammalato, di quanti erano vecchi, di chi era in condizioni di povertà. Con il risultato che essi erano capaci di sopravvivere più lungo nei momenti difficili»,

Attenzione verso i malati e i bambini, ma sopratutto il cristianesimo difese e diede dignità alla donna: «le donne cristiane vivevano meglio delle loro pari grado pagane: ad esempio, si sposavano ad un’età più matura, i loro mariti erano più fedeli rispetto a quelli non cristiani, gli uomini non divorziavano e le mogli non dovevano far fronte ai pericoli di aborti, una pratica molto diffusa tra i pagani del tempo. Per questo, al di là di aspetti più prettamente spirituali, i cristiani conducevano una vita decisamente più attraente rispetto ai non cristiani».  Le donne cristiane godevano di uno status più alto rispetto alle donne del mondo greco-romano, i cristiani promossero il matrimonio, combatterono la poligamia, la schiavizzazione e lo sfruttamento sessuale e proibirono la pratica dell’infanticidio, dell’aborto (che spesso veniva esercitato proprio nei confronti della nascita delle bambine). Questi elementi insieme al culto di Maria, fecero sì che nelle comunità cristiane, fin dall’inizio ci fu una prevalenza numerica delle donne e questo fu decisivo per la loro crescita demografica.

Il sociologo nel nuovo libro affronta anche varie accuse al cristianesimo, come quella di aver soppresso il paganesimo. In realtà, ha spiegato, «sono esistiti templi e cerimonie apertamente pagani all’interno della cristianità almeno fino all’ottavo e nono secolo: questo fatto dimostra come il paganesimo non fu cancellato da un cristianesimo militante, ma gli fu permesso di sopravvivere ancora per diverso tempo». Quanto al Medioevo, i cosiddetti “Secoli bui” non ebbero niente di oscuro, ma furono una delle epoche più inventive e rivoluzionarie della storia occidentale (non a caso in questo periodo nell’alveo della cattolicità nacquero il metodo scientifico, le università e gli ospedali moderni). L’Inquisizione spagnola, poi, fu responsabile di pochissime morti e, al contrario di ciò che ancora oggi tanti credono, salvò molte vite opponendosi alla caccia alle streghe che imperversava nel resto d’Europa, sopratutto nelle aree protestanti.

Il prestigioso studioso si è soffermato anche sulla demografia attuale del cristianesimo, aderendo alla tesi del ritorno religioso avanzata anche dal suo collega Philip Jenkins, basata sull’evidenza che coloro che non vanno in chiesa (o lo fanno raramente) tendono ad avere meno bambini, mentre le persone attive nelle chiese continuano ad avere molti bambini: «Se ciò continuerà ad accadere negli anni futuri, avremo in Europa un revival cristiano basato interamente sulla differente fertilità di questi due gruppi» (ad esempio già oggi in Cina ci sarebbero 70 milioni i cristiani!).

Ovviamente, come sa chi è già lettore di Stark, le sue ricerche sono sempre molto ben documentate, basate su studi recenti e accreditati e sul «lavoro di altri studiosi, le cui opere, pur essendo pietre miliari, hanno ricevuto troppa poca attenzione», come afferma lui stesso nell’introduzione del libro. In un’altra intervista ha spiegato di essere stato agnostico e culturalmente cristiano fino a quando non ha iniziato a studiare la storia del cristianesimo, oggi è vicino alla chiesa episcopale.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

«La laicità non è irreligiosità», intellettuali respingono il fondamentalismo

Da due anni a questa parte numerose sono state le prese di posizioni di intellettuali laici contro i cosiddetti “new atheist”, ovvero gli autori, e i loro devoti, dei numerosi libelli apologetici dell’ateismo che hanno riempito le librerie dal 2004. Parliamo di Sam Harris, Richard Dawkins, Daniel Dennett, PZ Myers, Christopher Hitchens, e in Italia il “bollito” (boiled) Piergiorgio Odifreddi.

Per colpa di questi autori il dialogo tra credenti e non credenti si è fortemente incrinato, l’ateismo si è incattivito. Oggi, secondo le parole del sociologo laico Frank Furedi, esponente di primo piano della British Humanist Association, «il nuovo ateismo si è trasformato non solo in una religione laica, ma in una religione secolare fortemente intollerante e dogmatica». Secondo il filosofo Michael Ruse, non credente e docente presso la Florida State University, «l’umanesimo, nella sua forma più virulenta, sta cercando di fare della scienza una religione. E’ inondato da un intollerante entusiasmo, vi è quasi un isterico ripudio della religione». Lo scrittore inglese Alain De Botton è molto impegnato nel voler celebrare un “nuovo ateismo”, come un antidoto«all’aggressivo e distruttivo approccio di Dawkins alla miscredenza». Purtroppo, ha continuato, «a causa di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, l’ateismo è diventato noto solo come una forza distruttiva».

Grazie all’attività di quest’ultimo si inizia finalmente a parlare di un “laicismo soft”, cioè «un atteggiamento tollerante e anche interessato alla varietà delle pratiche religiose, e mantiene un tono di voce impegnato ed equo» secondo la definizione dell’ateo moderato Charles Taylor.

Recentemente sono apparsi tre articoli molto interessanti proprio su questo, in cui i tre autori hanno a loro volta preso le distanze da quel che definiscono “l’ateismo anti-teista”. Il primo è a firma del docente della Georgetown University, Jacques Berlinerblau, il quale ha ottimamente spiegato che «la laicità è la separazione tra Stato e Chiesa, non l’incredulità o l’ateismo. La laicità americana ha perso il controllo della sua identità e immagine, perché l’equazione laicità = ateismo sta rapidamente guadagnando quote di mercato». Purtroppo questo è accaduto perché «i “new atheist” hanno prodotto un misto di arti marziali per assalire la religione in generale. hanno allegramente (e catastroficamente) messo tutti i non credenti contro tutti i credenti». Questo non è un discorso retorico, sappiamo infatti che il filosofo Sam Harris ha scritto: «i religiosi moderati sono in gran parte responsabili dei conflitti religiosi nel nostro mondo, perché le loro convinzioni forniscono il contesto in cui la violenza religiosa può essere distruttiva» (The End of Faith, Norton & Co.  2004). Lo stesso ha affermto Richard Dawkins, in “The God Delusion”: «la fede religiosa, anche lieve e moderata, contribuisce a fornire il clima di fede estremista che fiorisce in modo naturale». Per Berlinerblau questo è significativo: «una scuola di pensiero non riesce a distinguere tra un membro dei talebani che decapita una giornalista e un metodista che serve alla mensa per i poveri di Cincinnati non è pronta a prendere decisioni politiche che derivano dal bene del secolarismo». Ha quindi concluso con un excursus sull’origine della laicità, attribuita a George Jacob Holyoake , il quale «ha omesso qualsiasi riferimento all’ateismo nella sua definizione di laicità».

Pochi giorni dopo è apparso un altro articolo, a firma di Faiza Rahman, nel quale si è ribadito lo stesso concetto: «è ‘importante capire che il secolarismo e l’ateismo hanno poco in comune». La laicità, secondo l’autrice, «garantisce la tolleranza e la convivenza di tutte le morali religiose. Per esempio, l’uso di un cristiano dell’alcol deve essere tollerato e rispettato dai musulmani, i cui editti religiosi dichiarare l’alcol illegale nella maggior parte dei casi. Così, la laicità può essere intesa come un concetto che dà respiro a tutte le credenze». Perciò la laicità dev’essere considerata «lontana dall’essere qualsiasi tipo di movimento ‘evangelista’ gestito dagli atei».

Per ultimo segnaliamo l’interessante riflessione di Chris Stedman, responsabile del Journal of Inter-Religious Dialogue il quale -non credente- ha raccontato la sua scioccante esperienza da persona impegnata nel dialogo interreligioso con il “movimento ateo”, partecipando ai loro eventi, nei quali purtroppo «la religione e le persone religiose sono state sonoramente derise, screditate, e negate.  Ero arrivato sperando di trovare una comunità legata da ideali etici e umanitari. Invece, mi sono sentito isolatodolorosamente scoraggiato», ha scritto. Agli eventi privati, con l’intento di dialogare personalmente con i membri dell’ateismo militante, è andata ancora peggio: appena ha esposto le sue opinioni moderate sul dialogo tra fede e non fede, ha descritto Stedman, è stato subito etichettato come «un non vero ateo. Abbiamo un nome per persone come te: sei un ‘faitheist’ » (in Italia -per tentare un’equiparazione- sarebbe stato disprezzato come “ateo devoto”). Una donna, di età molto avanzata come tutti i partecipanti, lo ha presto zittito e allontanato affermando: «Noi abbiamo una prospettiva superiore, tutti gli altri sono perdenti», mimando di schiacciare con la mano una zanzara invisibile.

Il giorno dopo Stedman è stato invitato al Loyola University’s Institute a tenere una lezione ad un programma di formazioni di sacerdoti e religiosi cattolici. Subito si è accorto della differenza, secondo quanto ha raccontato: «erano veramente (e comprensibilmente) curiosi del mio ateismo. Seduto in classe il giorno dopo del mio maldestro tentativo di ricerca della comunità laica, mi sono reso conto che mi sentivo più a casa con i miei colleghi religiosi che con gli atei del giorno prima». E ancora: «queste persone credevano in Dio, ritenevano le loro ragioni fondate ma non solo era tolleranti verso le mie convinzioni, ma mi hanno abbracciato con entusiasmo, spronandomi». Anche lui ha indicato come responsabili di questa aggressività ateista i vari autori citati all’inizio dell’articolo, «non c’è da meravigliarsi che molti nella comunità organizzata atea ne seguano l’esempio, senza distinzione tra tutti i credenti e condannandoli come un blocco uniforme». Essi «sono impegnati in un monologo, invece del dialogo. Anche io mi sono reso conto ad un certo punto di essere così impegnato a parlare che non stavo ascoltando. Trattavo la religione come un concetto, invece di parlare con persone che realmente hanno vissuto vite religiose. Quando ho iniziato ad ascoltare ho visto che il mio approccio alla religione era distorto e stereotipato». E concludendo: «l’ateismo reazionario che si fissa sul fare proclami antireligiosi, che individua le vite religiose degli altri come il suo nemico numero 1, è tossico, mal diretto, e dispendioso».

 

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

I versetti “imbarazzanti” della Bibbia: una buona risposta

Una delle numerose accuse al cristianesimo cattolico è senz’altro quella di prendere alla lettera alcune parti accettabili della Bibbia, chiedendo di contestualizzare in relazione all’epoca in cui furono scritte e alla mentalità allora diffusa, le parti oggi inaccettabili. Un esempio è il versetto 21, 9 del Levitico (“Se la figlia di un sacerdote si disonora prostituendosi, disonora suo padre; sarà arsa con il fuoco.”) o i versetti 39 e 40 del capitolo 10 del libro di Giosuè (“La prese con il suo re e tutti i suoi villaggi; li passarono a fil di spada e votarono allo sterminio ogni essere vivente che era in essa; non lasciò alcun superstite. Trattò Debir e il suo re come aveva trattato Ebron e come aveva trattato Libna e il suo re. Così Giosuè battè tutto il paese: le montagne, il Negheb, il bassopiano, le pendici e tutti i loro re. Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele.”).

L’accusa è ovviamente quella di ignorare, o fingendo di ignorare, che in tali versetti – a quel che i cristiani stessi sostengono – parla pur sempre il Dio in cui dicono di credere. Si tratta di un’accusa che giustamente Marco Beccaria, nel suo blog su Panorama, ha definito la cherry picking fallacy (letteralmente, la “fallacia del raccogliere ciliegie”, altresì detta “fallacia di evidenza incompleta”), sostenendo e tentando di dimostrare, però, che «questo argomento sia a sua volta fallace, almeno nei confronti del cattolicesimo».

Infatti il cattolicesimo, spiega Beccaria, «non è una “religione del Libro”», lo dice il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 108: «La fede cristiana tuttavia non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”. Perché le parole dei Libri Sacri non restino lettera morta, è necessario che Cristo, Parola eterna del Dio vivente, per mezzo dello Spirito Santo ci “apra la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45)». Il cristianesimo è un avvenimento, un’esperienza di vita nella comunità ecclesiale, e la Bibbia è -ha proseguito Beccaria- «il racconto, composito e articolato in una gran varietà di forme, di come questa esperienza si è svolta e sviluppata in una storia lunga più di tre millenni». Un cattolico non si approccia ad essa come un manuale da seguire pedissequamente, un libretto di istruzioni, un elenco di istanze etiche alle quali obbedire. Come invece sono tenuti a fare ebrei, sopratutto, e islamici.

Sempre proseguendo con le indicazioni della Chiesa, leggiamo che «nella Sacra Scrittura, Dio parla all’uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura, bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole […]. Si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, dei “generi letterari” allora in uso, dei modi di intendere, di esprimersi, di raccontare, consueti nella loro epoca. “La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in varia maniera storici o profetici, o poetici, o con altri generi di espressione». La Parola di Dio, dunque, va interpretata alla luce della Tradizione e della vita della Chiesa.

In molti ritengono che la Chiesa abbia iniziato ad “interpretare” la Sacra Scrittura soltanto in seguito allo scontro con la modernità (dopo Darwin, Copernico o Galileo), ma in realtà «chi conosca anche superficialmente un po’ di storia culturale della civiltà occidentale sa che le cose non stanno così e che l’idea che la Sacra Scrittura vada interpretata su più livelli, con strumenti culturalmente raffinati e anche al di là della mera ricezione letterale è antica come il cristianesimo stesso», ha commentato Beccaria. Origene di Alessandria, ad esempio, all’inizio del III secolo dopo Cristo spiega come la Sacra Scrittura possa e debba essere interpretata allegoricamente, in relazione al fatto che i suoi autori umani non sono meri strumenti inconsci, bensì contribuiscono alla nascita del testo biblico con le loro conoscenze e con il loro stile. Nei primi Concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia), ancora, i dogmi fondamentali del cristianesimo – trinitario e cristologico – sono affermati mediando la rivelazione biblica in termini e concetti presi di peso dal contesto culturale greco (ousiaphysishypostasis). Anche Agostino, ha proseguito con gli esempi Beccaria, dopo la conversione ha superato  le sua difficoltà nei confronti del testo biblico ascoltando le prediche di Ambrogio, vescovo di Milano, il quale faceva largo uso dell’interpretazione allegorica e filosofica dell’Antico Testamento.

Fin dalle sue origini il pensiero cristiano «ha letto e interpretato la Bibbia come un racconto e una riflessione teologica stratificata, complessa, articolata, e perciò bisognosa del dispiegamento di tutti i mezzi culturali disponibili per decodificarne appieno il senso». La Chiesa ha sempre insistito nella necessità di abbinare sempre, come fonti della fede cristiana, Sacra Scrittura e Tradizione, cioè il testo sacro e la storia delle sue interpretazioni alla luce della fede e del Magistero della Chiesa.

Ovviamente alcune volte non è andata così, come mostra il noto “caso Galileo”, il cui errore –come ha affermato Giovanni Paolo II- «nel sostenere la centralità della terra fu quello di pensare che la nostra conoscenza della struttura del mondo fisico fosse, in certo qual modo, imposta dal senso letterale della S. Scrittura». Occorre dire che la posizione del cardinale Bellarmino, allora capo del Sant’Uffizio, era, in realtà, molto aperta. Innanzitutto fu disponibile ad accettare il copernicanesimo qualora fosse inteso non come una descrizione veridica della struttura fisica del cosmo ma come modello interpretativo della realtà, come di fatto sono le scoperte scientifiche. Inoltre, in una lettera nel 1615 a Paolo Antonio Foscarini, sostenitore del copernicanesimo, scrisse:  «quando ci fusse vera demonstratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, alhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicar le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra.  Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata […].». Moltissimi studiosi “laici”, infatti, contestavano il copernicanesimo e tanti sacerdoti invece lo sostenevano (Copernico stesso), nessuna lotta dunque tra geocentrismo ed eliocentrismo come una lotta tra scienza e religione.

Le richieste della Chiesa, nelle veci di Bellarmino, «di non rinunciare troppo frettolosamente a un modello perfettamente conciliabile con la lettera del testo biblico traduce certamente una profonda preoccupazione pastorale, ma correttamente collocato in prospettiva storica non è affatto irragionevole», il capo del Sant’Uffizio invocava «invoca prove e maggiore chiarezza in un momento in cui la comunità scientifica era spaccata», lasciando comunque intendere che di fronte a una dimostrazione chiara occorrerà considerare meglio le Scritture «che paiono contrarie, e più tosto dire che l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Le cose precipitarono a causa di un conflitto personale tra Urbano VIII e Galileo, una rottura nel loro patto di fiducia, oltretutto il Papa era in quel periodo fortemente messo in discussione dalla Riforma protestante. In questo caso l’errore fu proprio quello di pendere maggiormente per la prudenza per evitare di contraddire un passo biblico sulla base di affermazioni ancora poco dimostrate, ma tuttavia «se Galileo fosse vissuto e avesse fatto le sue scoperte un paio di secoli prima forse avrebbe avuto un’altra accoglienza», ha commentato giustamente Beccaria.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’anticlericale Corrado Augias contrario alle nozze gay

I sostenitori della lobby omosessualista (cioè quel fortissimo movimento di pressione politica e mediatica formata da eterosessuali e omosessuali militanti) insiste nel confondere i piani etici e religiosi, si sostiene  infatti che coloro che si oppongono alle nozze gay siano animati da motivazioni religiose.

Questo è parzialmente vero nel senso che, certamente nelle motivazioni contrarie di molti, un ruolo importante gioca l’insegnamento morale derivato dalle Scritture (fortemente contrarie al comportamento omosessuale) e dalla Tradizione, ma questi argomenti -come quello dell’aborto dell’eutanasia– sono affrontabili anche attraverso motivazioni che esulano dalle proprie eventuali convinzioni religiose, basandosi solamente da quelle che vengono definite “ragioni laiche“.

Per questo tantissimi non credenti o non cristiani condividono con i credenti e i cattolici il giudizio contrario all’aborto o al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Spesso su questo sito abbiamo dato spazio addirittura alle riflessioni di diversi omosessuali, qui un esempio, contrari alle nozze gay, nonché a quelle di agnostici e non cattolici.

A ennesima dimostrazione di quanto detto finora, citiamo le recenti esternazioni di uno che certamente cattolico non è, ovvero l’ossessivo anticlericale Corrado Augias, definito addiritturacolonna della furia anticattolica” dal filosofo Costanzo Preve. Augias conduce un programma quotidiano su Raitre intitolato “Le Storie”, una vera e propria passerella anticlericale. Già in passato, ad esempio, abbiamo citato le parole di Antonio Socci -invitato in trasmissione da Augias- a descrizione delle ideologiche scorrettezze perpretate dal collaboratore di Repubblica. 

Durante la puntata del 7/11/12 Augias ha invitato l’immancabile don Virginio Colmegna, uno dei noti preti mediatici anticlericali e antipapisti. Uno dei tanti, assieme a Vito Mancuso, immeritati figli del compianto card. Carlo Maria Martini, persone che si sentono maestri e genitori della Chiesa, di cui invece dovrebbero essere figli e testimoni, che vanno davanti alle telecamere a mostrare quanto sono meglio del Pontefice e dei Vescovi, elencando in modo poco evangelico tutta la carità che fanno.

Lasciando perdere don Colmegna, di cui ci occuperemo in un articolo più avanti, torniamo a Corrado Augias e al tema dell’articolo. Lo scrittore anticlericale ha invitato il sacerdote per commentare assieme a lui la vittoria di Obama e sopratutto i vari referendum con i quali alcuni stati americani hanno approvato i matrimoni omosessuali. Augias ovviamente conosceva già l’opinione favorevole di Colmegna e desiderava mostrare come anche esponenti della Chiesa sono contrari alla posizione cattolica. E’ il solito giochino: i laicisti amano illudersi di mettere in difficoltà la Chiesa creando il cosiddetto “fuoco amico”. Chi ha visto la puntata saprà comunque che don Colmegna ha colto i tentativi di Augias, e ha cercato di evitare i tranelli.

Toccato il tema specifico delle nozze gay è stato Augias a fare una dichiarazione sorprendente. Interrompendo il religioso ha detto: «guardi le dico la verità, io credo di essere liberale e tollerante però le nozze, il matrimonio tra gay….io non…», scuotendo la testa in segno negativo. Il sacerdote ha poi ripreso la parola coprendo ed interrompendo il finale della frase, che comunque era facilmente intuibile. Dunque un Augias titubante, dubbioso e sembrerebbe contrario al matrimonio omosessuale, questa non ce l’aspettavamo e sicuramente non se l’aspettavano i suoi devoti fans di Repubblica.

 

Qui sotto il video con la dichiarazione di Corrado Augias

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’economista Pasinetti: «difficoltà per la crisi? Ascoltiamo la Chiesa»

Luigi Pasinetti è certamente uno dei maggiori economisti contemporanei, molto più conosciuto all’estero che in Italia, dove addirittura viene definito l’erede dei “keynesiani di Cambridge”, avendo insegnato per parecchi anni nell’ateneo inglese. I suoi contributi all’economia sono le basi analitiche della scuola neoricardiana, già Presidente della Società Italiana degli Economisti (1986-89), Presidente della European Society for the History of Economic Thought (1995-1997) attualmente Pasinetti è Presidente onorario della International Economic Association e professore emerito presso l’Università Cattolica di Milano.

Il suo ultimo libro pubblicato si intitola Dottrina sociale della chiesa e teoria economica (Vita & Pensiero 2012), nel quale evidenzia chiaramente -secondo la recensione apparsa su Ilsussidiario.net– come la Dottrina sociale della Chiesa costituisce la risposta più completa e attuale alla difficoltà delle teorie economiche di fronte alla crisi contemporanea. Il volumetto è formato da due interventi di Pasinetti, il primo del 1992 e il secondo del 2010. In entrambi si sottolinea come le teoria economica dominante sia profondamente inadeguata a comprendere i problemi di una società profondamente dinamica come quella attuale: «Gli economisti tradizionali – scrive Pasinetti – si muovono all’interno delle forti restrizioni di argomentazioni fondate sul “modello di puro scambio”, un modello teorico che è inadeguato ad affrontare i problemi delle società industriali». Ed è per questo che essi sono “poco saggi” e “del tutto privi di giustificazioni” se non tengono conto dei consigli della Chiesa sui principi morali da porre alla base dei criteri per la costruzione responsabile delle nostre istituzioni.

Ancora più esplicito è l’intervento più recente, quello del 2010. Partendo dall’osservazione che «la teoria economica sta attraversando un periodo molto critico, che davvero richiede una severa e radicale riconsiderazione dei suoi fondamentali» Pasinetti sottolinea l’importanza della Dottrina sociale della Chiesa con la sua «insistenza su principi essenziali, come quello dei diritti e della dignità della persona umana, nella consapevolezza che nella nuova epoca storica in cui viviamo le responsabilità hanno varcato i confini nazionali».

E’ particolarmente rilevante l’ammissione da parte di Pasinetti di essere stato “colpito e sorpreso” dall’affermazione della dinamica della carità espressa con decisione dall’enciclica Caritas in veritate, tanto da fargli concludere l’intervento con un esplicito e un po’ irrituale “Grazie, Benedetto”. Nella sua testimonianza il grande economista ha espresso il suo ammirato stupore per il richiamo costante della Chiesa, dalla Rerum novarum in poi, a valori che le teorie economiche non prevedono, non considerano e in fondo non comprendono, come i principi di solidarietà, di sussidiarietà e di bene comune.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Gli anni bui della Rivoluzione francese: crimini e genocidi

Nella mentalità europea la rivoluzione francese è considerata generalmente un avvenimento positivo perché, nonostante i crimini compiuti in questo periodo siano ormai noti, viene associata alla fine dell’Ancien Règime e alla proclamazione dei diritti dell’uomo. Anche molti cattolici sono oggi di questo avviso. Eppure paradossalmente in quell’epoca avvenne una delle peggiori persecuzioni anticristiane della storia.

In realtà, lo scontro tra Chiesa e Rivoluzione inizialmente era tutt’altro che scontato. La maggior parte del clero aveva infatti accolto favorevolmente i moti dell’89 tanto che alla costituzione dell’Assemblea nazionale quattro vescovi e 149 preti si unirono al terzo stato. Il clero votò a favore dell’abolizione della decima e non vi furono particolari problemi quando si decise di nazionalizzare i beni della Chiesa, ma i rapporti si ruppero quando i legislatori pretesero di avere poteri decisionali in materie attinenti al campo spirituale.

Infatti i rivoluzionari, oltre a decretare lo scioglimento degli ordini religiosi che non si dedicassero all’insegnamento e all’assistenza, emanarono nel luglio del 1790 la costituzione civile del clero che prevedeva la riduzione delle diocesi da 130 a 83, l’elezione dei vescovi e dei curati e l’abolizione di ogni giurisdizione del papa sulla Francia venendo a creare di fatto una chiesa nazionale scismatica. Questo provvedimento fu assai controproducente perché diede un aiuto fondamentale alla controrivoluzione e spinse il papa Pio VI (che pur critico verso la rivoluzione si era astenuto da pronunciamenti ufficiali) ad una condanna pubblica. Il clero si divise tra i “refrattari” che si rifiutarono di giurare fedeltà alla costituzione e i “costituzionali” che invece accettarono di farlo (questi ultimi composti da 7 vescovi e circa metà del basso clero anche se vi furono numerose defezioni in seguito alla condanna papale). Il clero refrattario inizierà perciò ad essere accusato di tendenze aristocratiche e controrivoluzionarie.

La situazione religiosa peggiorò con l’avvento della repubblica. Dopo la destituzione del re nell’agosto del 1792, l’Assemblea Costituente emanò una serie di normative antireligiose: la deportazione dei preti refrattari che non avessero lasciato il paese entro 15 giorni (salvo poi negare i passaporti per tenere i preti come ostaggi), la confisca delle campane, lo scioglimento degli ordini religiosi caritativi e il divieto di fare processioni o di indossare l’abito talare al di fuori degli edifici di culto. Anche il clero costituzionale incomincerà a essere perseguitato perché sospetto di tendenze monarchiche e moderatismo e, del resto, molti rivoluzionari non vedevano alcuna differenza tra le due Chiese. Durante il Terrore, si ebbe la cosiddetta “Scristianizzazione” nella quale i “rappresentanti in missione” influenzati del materialismo tardo-illuminista distrussero oggetti sacri, profanarono chiese e costrinsero all’abiura parecchi preti costituzionali. Venne inoltre adottato il calendario rivoluzionario in sostituzione a quello ecclesiastico e le decadi al posto delle settimane. Non tutti i politici francesi però condividevano la politica di scristianizzazione perché vi era il timore di perdere l’appoggio della maggioranza del popolo rimasta religiosa e d’inimicarsi le nazioni neutrali.

Nel 1795, perciò, si acconsentì alla riapertura delle chiese e lo stato rinunciò al finanziamento del culto. Non vi fu però una vera libertà perché le manifestazioni pubbliche di religiosità rimasero vietate e la repubblica proseguì con la laicità d’attacco, imponendo il calendario repubblicano in tutti gli atti della vita pubblica e il festeggiamento delle decadi al posto delle festività cristiane. Solo sotto Napoleone Bonaparte ebbe fine la fase più anticattolica della rivoluzione, grazie al Concordato stipulato nel 1801. Il futuro imperatore considerava però la Chiesa un mero strumento di governo e con gli “Articolo Organici” subordinò strettamente il clero allo stato (per una brevi sintesi sulle misure antireligiose dei rivoluzionari, seppur benevola verso quest’ultimi, si veda A. Soboul, La rivoluzione francese, Roma 1998 pp. 466-468).

La politica antireligiosa suscitò scontento tra la popolazione sfociando in alcuni casi in aperte rivolte. La più importante tra queste fu quella che scoppiò in Vandea. Vi erano già stati segnali di malumore in questa regione quando venne approvata la costituzione civile del clero e i vandeani accolsero con sfavore la notizia dell’esecuzione del sovrano. La goccia che fece traboccare il vaso fu la notizia della coscrizione obbligatoria di 300000 uomini: “Hanno ucciso il nostro Re; hanno cacciato via i nostri preti; hanno venduto i beni della nostra chiesa; hanno mangiato tutto quello che avevamo e adesso vogliono prendersi i nostri corpi… No, non gli avranno”, dichiararono gli insorti vandeani del villaggio di Doulon. Essi si proclamarono perciò realisti e cattolici, ritorcendo contro la Repubblica il diritto all’insurrezione per ottenere la libertà.  La pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie permise agli insorti di prendere il controllo di una vasta area del paese, che le truppe rivoluzionarie avrebbero dovuto riconquistare palmo a palmo. I ribelli riuscirono ad infliggere pesanti perdite ai repubblicani applicando la tattica della guerriglia e per domare la rivolta, i parigini ricorsero a metodi brutali. In entrambi i fronti si ebbero atrocità, ma quello che fecero i rivoluzionari fu così terribile che alcuni studiosi hanno persino parlato di “genocidio”. I massacri più sanguinosi avvennero tra l’altro nel 1794 quando la rivolta era stata in gran parte domata: migliaia di prigionieri vennero brutalmente assassinati. Le azioni più sanguinose si ebbero a Nantes dove Jean-Baptiste Carrier, oltre alla ghigliottina, integrò quelle che lui definiva «deportazioni verticali» ossia gli annegamenti nelle acque della Loira: vennero praticati dei fori sulle fiancate dei barconi a chiglia piatta sui quali s’inchiodavano delle tavole di legno che poi venivano schiodate quando le barche erano al centro del fiume, portando così alla morte per annegamento alle vittime legate. In un primo tempo questi annegamenti furono limitati ai sacerdoti, ma presto si estesero ad un numero sempre maggiore di persone (si calcola che le vittime nella sola Nantes siano state tra le duemila e le quattromilaottocento).

Nei mesi di febbraio e marzo del 1794, le forze repubblicane intrapresero attraverso la regione ribelle una marcia «pacificatrice». Le dodici “colonne infernali” del maresciallo Turreau massacrarono ogni persona che trovarono sul loro cammino, uccidendo anche vandeani di provata fede repubblicana. Le violenze e le uccisioni su donne e bambini erano all’ordine del giorno. Si calcola che su una popolazione di poco superiore alle 800.000 persone, i vandeani uccisi siano stati più di 117.000 (ma alcuni si spingono fino a 250000, cfr. S. Schama, Cittadini. Cronaca della rivoluzione francese, Milano 1989 pp. 813-817).

Questi massacri non furono dovuti alla semplice brutalità della guerra, ma vennero incitati (se non espressamente ordinati) dai deputati della Convenzione, come apprendiamo dai documenti rinvenuti. Il generale Westermann così scriveva ad esempio al Comitato di Salute Pubblica nel dicembre del 1793: “Non esiste più Vandea, cittadini repubblicani, essa è morta sotto l’albero della libertà con le sue donne e i suoi bambini (…) Eseguendo gli ordini che mi avete dato, ho fatto calpestare i bambini dai cavalli, ho fatto massacrare le donne che almeno non partoriranno più briganti. Non ho prigionieri per i quali possa rimproverarmi”. Anche il deputato Carrier ammetterà candidamente di aver ricevuto “l’ordine di sterminare la popolazione in modo da poter ripopolare il paese in più in fretta possibile con cittadini repubblicani”. Secondo lo storico Reinald Secher, il genocidio vandeano fu quindi concepito, organizzato e messo in atto dal Comitato di Salute Pubblica ovvero, tra gli altri, da Robespierre in persona. (Lorenzo Fazzini, E Robespierre disse: cancellate i vandeani, Avvenire, 21 ottobre 2012). La fine dei massacri si ebbe con l’avvento dei termidoriani che stipularono diversi accordi con i ribelli nella quale promettevano di rispettare la loro fede e i loro beni, ma la pace durò pochi mesi e si ebbero in seguito altri focolai di guerriglia.

Simili insurrezioni si ritroveranno anche nei territori occupati dai francesi. In Belgio i contadini cominciarono ad abbattere gli alberi della libertà sostituendoli con delle croci, in Lussemburgo i francesi dovettero impiegare una battaglia in piena regola per vincere la ribellione e provvidero a deportare molti preti sull’isola di Ré, mentre nello stato Pontificio le truppe francesi venivano spesso assalite da gruppi di contadini guidati dai rispettivi parroci. Tutto questo accade dopo che l’occupazione di Roma e l’esilio del pontefice, aveva fatto credere ai rivoluzionari d’aver schiacciato il “fanatismo” e portato la pace universale (F. Furet – D. Richet, La rivoluzione francese, Bari 1974 pp. 534-535).

La rivoluzione francese ebbe indubbiamente grandi meriti, ma ebbe anche la colpa di aver creato un nuovo fanatismo di tipo ideologico che guardava ai suoi avversari come esseri privi di tratti umani e che scatenò atrocità che nulla avevano da invidiare a quelle provocate in nome del fondamentalismo religioso.

Mattia Ferrari

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’Osservatore Romano diretto da una donna, il Fatto Quotidiano no

Dal primo novembre, Marta Lago, giornalista quarantaduenne di Madrid che dal 2007 collabora con il giornale del Vaticano, è la direttrice dell’edizione in lingua spagnola dell’Osservatore Romano, succedendo a padre Arturo Gutiérrez, che ha guidato l’edizione spagnola per più di 20 anni. Molto bella l’intervista rilasciata per l’occasione a La Razon.

Una scelta normale, in linea con le sempre più numerose indicazioni della Chiesa di riservare posti fondamentali anche alle donne alla guida della comunità cattolica internazionale, come ha anche spiegato di recente Maria Voce, presidente del movimento Focolarini.

Si dice che Marco Politi e i vari ideologhi de Il Fatto Quotidiano abbiano preso con un po’ di imbarazzo questa notizia, proprio loro che hanno avuto successo nello sproloquiare sulla misogina della Chiesa e del cattolicesimo, facendo ossessivamente leva sull’assenza del sacerdozio femminile.

Politi, già da quando era stipendiato dal miliardario anticlericale, massone (come informa Ferruccio Pinotti) e pagatore di tangenti (come ha ammesso lui stesso) De Benedetti, riferiva un dispiacere per il “no” di Giovanni Paolo II alle donne prete, perché ci sarebbe chi vorrebbe «mantenere alla Chiesa la capacità di adeguarsi lentamente ai tempi», come se la Chiesa ne avesse l’esigenza e l’interesse. Oltretutto, a queste accuse di presunta discriminazione della donna, è stato risposto in via ufficiale in modo decisamente adeguato. Da notare comunque, anche allora, il desiderio del vaticanista Politi di insultare papa Wojtyla, scrivendo: «il movimento femminile all’interno della Chiesa dà ormai per scontato che non ha nessun senso discutere finché c’ è un pontefice come Karol Wojtyla». Diceva di parlare a nome del presunto “movimento femminile” cattolico. Nel 2005 ha invece incolpato Giovanni Paolo II di aver fatto scappare «decine di milioni di uomini e donne cattolici», anche per non aver accolto il sacerdozio femminile, mostrandosi dubbioso sul fatto se «la donna partecipa o no a pieno titolo alla conduzione della comunità cristiana».

La stessa ossessione si è riversata identica su Benedetto XVI, fino ai giorni d’oggi. Oltretutto, se qualcuno ha voglia di farsi qualche risata, segnaliamo la recente filippica di Politi sulle «regole deontologiche» che dovrebbe seguire un giornalista, perché «fare il giornalista non è scrivere ciò che mi pare». Proprio lui che, assieme al suo amico Marco Ansaldo, ogni giorno si diletta nell’inventare una bufala anticlericale più grande della precedente, come più volte abbiamo segnalato. Politi, non si sa di chi si senta il maestro, insegna anche che «c’è un patto che i giornalista di qualsiasi tendenza stringono con i lettori. Informare correttamente». Informare correttamente? Come mai allora, dopo aver profetizzato per mesi un responso negativo del rapporto di Moneyval sulle norme norme anti-riciclaggio dello Ior, ha taciuto completamente quando questo è stato pubblicato con un esito positivo, come hanno riportato tutti gli altri vaticanisti sugli altri organi di stampa? Questa è informazione corretta o ideologica? 

Politi e gli altri de Il Fatto Quotidiano hanno preferito il silenzio anche su questa nuova nomina dell’Osservatore Romano (ma queste notizie sono il pane quotidiano del vaticanista), preferendo continuare a fingersi disperati per il presunto ruolo marginale e umiliante riservato alla donna dalla Chiesa cattolica. Curioso dunque notare che la redazione responsabile de Il Fatto sia composta interamente da uomini:  Antonio Padellaro (direttore), Marco Travaglio (vicedirettore), Peter Gomez (direttore responsabile del sito web), Nuccio Ciconte (redattore-capo) e Vitantonio Lopez (redattore-capo). Molto controverso anche che su 50 collaboratori ufficiali, soltanto 11 siano di sesso femminile. Bisogna forse concludere che per loro le donne non sono soltanto indegne di coprire posti rilevanti, ma perfino la loro collaborazione viene accolta con il contagocce?

E se Padellaro e Politi cominciassero a valutare il ruolo riservato alle donne in “casa” loro?

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La Cina vuole più figli per avere più ricchezza, e l’Europa?

Pochi figli poca ricchezza. L’hanno capito, udite udite, perfino in Cina dove – è notizia di pochi giorni fa – la Fondazione per la ricerca sullo sviluppo ha messo in chiaro come l’ormai trentennale politica del figlio unico (pianificazione familiare, aborti forzati e ideone di questo genere)  debba essere rivista. Subito. Si, perché «pochi figli, Cina vecchia, crescita addio». Pazzesco: l’hanno capito laggiù ma in Europa si fa finta di nulla. Strano perché qui, a differenza che nel gigante asiatico, c’è una crisi economica che fa paura. E già nascono, da noi, in particolare in Italia, meno bambini di quanti percentualmente ne nascano nella Cina del figlio unico: qui 9 nascite ogni 1000 abitanti, là 12.

Con una differenza: all’aborto di massa in Cina ci sono arrivati a causa di un regime comunista, qui ”grazie” alla Democrazia Cristiana, il che è probabilmente ancora più inquietante; chiusa parentesi. Dicevamo che quello della denatalità un problema serio. Lo è al punto che il professor Tyler Cowen, per fare un nome, ha affermato che quando pensa alla crisi ciò lo «rende più pessimista» non «è l’euro» bensì «il tasso di natalità, che in Italia è dell’1,3%». Un dato che sarebbe da tenere in massima evidenza, ha aggiunto Cowen, perché «se l’Italia facesse più figli, le sue prospettive economiche sarebbero migliori. Invece un Paese con una popolazione in declino alla fine non potrà ripagare i suoi debiti». La stessa cosa l’ha ripetuta in questi giorni il demografo Gian Carlo Blangiardo.

Nulla di nuovo se si pensa che due Nobel come Gary Becker e Amartya Sen – ribadendo cose già dette da Alfred Sauvy (1898 – 1990) – da tempo hanno sottolineato come la crescita demografica sia fondamentale per lo sviluppo economico (Cfr. AA. VV. Emergenza Demografia, Rubbettino 2004, p. 69). Dunque non sorprende che in Cina stiano pensando a nuove politiche demografiche: sorprende che da noi, che ne abbiamo cento volte più bisogno, si pensi ad altro. A meno che per paura di lasciare alle generazioni future un debito pubblico troppo alto non si sia stabilito direttamente di rinunciarci, alla generazioni future.

Giuliano Guzzo

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Lo strano caso della Bbc: copriva i pedofili e attaccava il Vaticano

Prosegue senza sosta lo scandalo della pedofilia britannica sollevato dal caso «Savile», la nota star televisiva della Bbc, Jimmy Savile, che negli anni 80 avrebbe abusato di ben 300 minori tra ragazzi e ragazze.

In questi giorni si è dimesso il direttore generale della Bbc, George Entwistle, perché ci sarebbero ormai le prove che il network inglese ha insabbiato tutto e anche perché forti sono le accuse ricevute di portare avanti il tema degli scandali delle violenze sui minori in un modo poco trasparente, per deviare l’attenzione dallo scandalo su Jimmy Savile dirottandola su altri casi.

A guardare le accuse pare infatti davvero strano che -come riporta giustamente Il Foglio– alla Bbc non si siano mai accorti di nulla, in tanti anni di orrori indicibili. Strano, vista la spasmodica attenzione alla pedofilia applicata a sedi che non fossero i propri camerini e i propri studi, e a persone che non fossero i propri intrattenitori di punta. Come dimenticare il famoso filmato della Bbc intitolato “Sex Crimes and the Vatican”, 38 minuti e 57 secondi di accuse al Vaticano di aver coperto i preti pedofili, trasmesso nel 2006 e ritrasmesso in Italia da Michele Santoro ad “Anno Zero”? Chissà se adesso realizzeranno un’inchiesta simile tra i propri dipendenti.

La Bbc aderisce alla stessa ideologia anti-cattolica e “anti-life” sostenuta apertamente in Italia da Repubblica e dal Fatto Quotidiano, ricordiamo ad esempio il grande sostegno alla tesi della presunta “tomba di Gesù” o la trasmissione in diretta di un aborto (per dimostrare che non è una tecnica pericolosa e per promuovere una clinica abortista) e di un’eutanasia per promuovere la clinica svizzera Dignitas.

La forte ideologia anti-cristiana è stata denunciata in una consultazione condotta dalla stessa British Broadcasting Corporation su 4500 persone, tra cui membri del suo stesso staff. Non a caso nel febbraio di quest’anno, l’allora direttore generale della Bbc, Mark Thompson, ha amesso in un’intervista che il cristianesimo è stato trattato con una minore sensibilità rispetto alle altre religioni. Lo stesso Thompson, oggi amministratore delegato del quotidiano americano New York Times, è rimasto coinvolto dallo scandalo: sarebbe stato proprio lui ad aver insabbiato le indagini inizialmente condotte dal programma, per proteggere lo storico presentatore pedofilo.

Assolutamente opportuna dunque la scelta dei responsabili del quotidiano di Giuliano Ferrara di titolare così: «Lo strano caso della Bbc, che doveva curare se stessa attaccava il Vaticano».

 

AGGIORNAMENTO 13/11/12
Come riportato dalle agenzie di stampa di ieri, l’ex direttore generale della BBC, Mark Thompson, si è insediato al New York Times malgrado le polemiche per il suo eventuale ruolo nella copertura dei casi di pedofilia legati a Jamie Saville e le critiche sollevate da giornalisti di spicco del quotidiano americano, come Joe Nocera. L’editore Arthur Sulzberger ha accolto Thompson con un messaggio di benvenuto inviato a tutto lo staff in cui non si fa cenno allo scandalo. Ricordiamo che anche il New York Times, oltre alla BBC, ha avuto un grande ruolo nella campagna denigratoria anticattolica nel 2010 sul tema della pedofilia.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Per i Radicali rimangono gli indebiti finanziamenti pubblici

Ultimamente abbiamo visto come anche i fustigatori degli altrui costumi, ci riferiamo ai recenti imbarazzi di Antonio Di Pietro, prima o poi vengano chiamati a rispondere personalmente per le somme di denaro pubblico che si trovano a dover gestire. Chissà se anche un giorno gli acerrimi nemici della partitocrazia – parliamo ovviamente dei Radicali – non avranno qualcosa di cui rendere conto almeno sotto il profilo morale.

Ciò in quanto ogni anno l’emittente del partito di Marco Pannella riceve soldi in quantità dallo Stato e dalle parti dei compagni “liberali, libertari e libertini”  la spending review è pratica del tutto sconosciuta. Piccoli privilegi di una lobby che, evidentemente, ha i suoi personalissimi santi in terra che la tengono al riparo da qualsiasi sforbiciata, fosse anche quella voluta dal governo dei tecnici. Così la nuova Legge di stabilità ha destinato a Radio Radicale una cospicua dotazione in milioni di euro per mandare in onda i lavori delle due Camere.

In realtà la Rai con Gr Parlamento provvede a dare già ampia informazione sui lavori parlamentari, ma l’emittente radicale ormai è riuscita ad accreditarsi come il solo modello di servizio pubblico da sostenere. Questo significa che nel 2012 l’emittente riceverà 8 milioni di euro dalla convenzione con lo Stato che gli affida la trasmissione delle sedute parlamentari, cui si aggiungono 4 milioni di euro che arrivano dal fondo per l’editoria in quanto organo della lista Pannella. Quest’ultimo altro non è che il fondo che ha ricevuto corpose decurtazioni negli ultimi anni e da cui lo Stato attinge per erogare i contributi diretti che sostengono sia le testate politiche e di idee, sia quelle edite da cooperative, fondazioni o enti morali, sia quelle delle minoranze linguistiche e delle comunità italiane all’estero, sia i periodici delle associazioni di consumatori.

Le cifre, riportate anche da Avvenire, rendono bene quale sia stato l’andamento dei tagli in oggetto: i rimborsi diretti sono passati da 160 milioni per il 2010 ai 114 milioni per il 2011, come evidenziato dal provvedimento del Dipartimento per l’informazione della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una somma – quella di 114 milioni – che include 50 milioni «in corso di trasferimento» in base al decreto del ministro dell’economia dello scorso 24 maggio che assegna la cifra in oggetto al capitolo per gli interventi dell’editoria. Tagli che stanno già minando una galassia di circa mille testate e che vede occupati almeno quattromila persone. Che altro aggiungere?

Sulla distanza che sussiste tra le roboanti affermazioni dei compagni radicali circa il finanziamento pubblico ai partiti e l’effettiva prassi da loro praticata ci siamo occupati anche nel recente passato, come è possibile verificare in questa e in altre pagine del nostro portale. Volendo fare le veci dell’avvocato del diavolo, potremmo per un attimo riconoscere a Radio Radicale l’importanza del lavoro svolto nel passato, fosse solo per le “250.000 registrazioni audio video” e l’imponente documentazione conservata negli archivi che le è valsa la dichiarazione di “notevole interesse storico” e l’interesse del Ministero dei Beni Culturali – per queste citazioni e le altre che seguono ci rifacciamo alla voce “Radio Radicale” consultabile su Wikipedia.

Tuttavia, considerata la gravità dei tagli in ordine al Fondo citato, ci chiediamo per quali ragioni Radio Radicale continui a ricevere sovvenzioni statali per svolgere un servizio “pubblico” in concorrenza con quello svolto dalla Rai. Perché l’emittente dei compagni “liberali, libertari e libertini” non accetta le regole del mercato proponendosi di offrire un servizio capace di sostenersi da solo coprendo i propri costi di produzione?

Considerata la professionalità che si presume maturata in tutti questi anni di trasmissioni, il possesso di capacità imprenditoriali che vengono esibite con orgoglio e, non ultimo, le economie di scala generate dalle più moderne tecnologie – «Radio Radicale copre una nicchia di mercato all’interno della quale ad oggi non esiste una vera e propria concorrenza con altri soggetti e negli ultimi anni, lo sviluppo tecnologico ha consentito di ampliare ulteriormente l’offerta attraverso sistemi digitali ed a banda larga», si legge sempre su Wikipedia – cosa impedisce ai radicali di compiere un gesto che avrebbe l’effetto di salvaguardare la sopravvivenza di piccole testate oggi seriamente a rischio di chiusura? Un simile gesto significherebbe in concreto passare dalla democrazia invocata a parole a quella praticata nei fatti, una occasione imperdibile per chi è abituato a dirsi “liberale, libertario e libertino”.

Cifre alla mano, sempre provenienti da Wikipedia, Radio Radicale è “l’unico soggetto tra quelli che ottengono i finanziamenti pubblici ad avere una rete nazionale e spende oltre 3,7 milioni di euro l’anno solo per la gestione tecnica della rete», mentre “nel 2007 Radio Radicale ha sostenuto costi per 2,986 milioni di euro per la produzione di programmi audio-video relativi a eventi politici di tutti i partiti, delle associazioni, delle diverse istituzioni. Queste produzioni sono state per quanto possibile trasmesse per radio, e comunque tutte archiviate e pubblicate in internet in forma integrale”. Una simile realtà necessita per forza dei finanziamenti pubblici per poter operare?

Quando una legge ti riconosce un diritto, in questo caso quello di ricevere un finanziamento per lo svolgimento di attività definite “di interesse generale”, non si danneggia nessuno – qui iure suo utitur neminem ledit, dicevano i giuristi romani. Ma considerati questi tempi di spending review e la perdita di realtà editoriali importanti non certo di nicchia, rinunciare a queste sovvenzioni statali, proporsi sul mercato e con le somme risparmiate assicurare la sopravvivenza di testate meno note ma ugualmente importanti per l’opera che svolgono, sarebbe opera meritoria per i radicali.

Più meritoria di tante mistificate battaglie di civiltà condotte nel passato.

Salvatore Di Majo

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace