Successo del Papa anche su Twitter: 7mila follower al secondo

Pochi giorni fa abbiamo informato del nuovo successo di Benedetto XVI e del suo ultimo libro sull’infanzia di Gesù, il quale dopo pochi giorni dalla pubblicazione, è risultato essere già in testa alle classifiche dei libri più venduti.

«Il volume è in una posizione di evidenza sul nostro store ma c’è in generale un grande interesse per quello che il Papa e la Chiesa hanno da dire in un momento storico come questo. Lo dimostra anche il sesto posto dell’ebook di Luigi Giussani, “All’origine della pretesa cristiana”», ha commentato Vittorio Ravaioli, e-commerce manager di LibreriaRizzoli.it.

Vatican Insider ha confermato le sue parole rivelando che tutta l’editoria religiosa è in crescita (al contrario della crisi che invece ha colpito i libri di altre tematiche), lo dimostrano i dati Istat: dal 2000 al 2007 la crescita del numero dei lettori di libri religiosi (almeno un testo l’anno) in Italia è stata del 2% annuo, ma dal 2007 al 2010 la percentuale è cresciuta fino al 6%. Il dato finale è che nel decennio 2000/2010 i lettori di un libro religioso sono cresciuti di 900.000 persone. È la fascia di età fra i 18 e 54 anni che registra una maggiore crescita, cioè persone che esercitano nel proprio ambito di azione anche un ruolo di decision maker. Tutto questo lo si nota anche dalla forte attenzione al libro religioso da parte degli editori laici.

Ma il Papa ha raccolto anche un altro successo: in questi giorni è anche “sbarcato” su Twitter con l’account @pontifex, ed è stato subito un record: si parla di circa 7mila follower (cioè persone che hanno deciso di seguire il suo account) al secondo. Una piccola curiosità divertente: a beneficiare dell’arrivo di Benedetto XVI sul noto social network è stata anche l’azienda americana Pontiflex, specializzata nella realizzazione di ponti flessibili. Il suo profilo (@pontiflex), infatti, è stato scambiato da molti per quello del Pontefice, e in poche ore i suoi followes sono cresciuti a 1.500, 75/100 seguaci all’ora.

Il direttore della sala stampa vaticana, padre Lombardi, ha commentato così l’incredibile boom verificatosi: «Non mi stupisce che ci sia stata questa risposta, vuol dire che l’iniziativa ha colto nel segno e ha dato un segnale della capacità, da parte del Papa e dei suoi collaboratori, di rispondere ad attese che sono nell’aria».


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L’omosessuale Delaume-Myard contro nozze gay

Pare davvero aver ragione l’omosessuale e non credente francese Xavier Bongibault, il quale ha affermato rispetto all’intenzione del governo Hollande di aprire il matrimonio e l’adozione alle persone dello stesso sesso: «Il piano del governo è tutt’altro che unanime nella comunità gay. Contrariamente a quanto dicono i mezzi di comunicazione, la richiesta non viene dalla maggioranza degli omosessuali. La maggior parte non è interessata, ma l’influenza del movimento LGBT è tale che molti non osano dirlo».

Sono davvero tanti gli omosessuali fortemente contrari alle nozze e all’adozione gay, i quali riconoscono pacificamente che si tratta di questioni antropologiche precedenti alla legge, e da essa immodificabili. Ne abbiamo parlato spesso su questo sito, citando le dichiarazioni di  Richard WaghorneAndrew PierceDavid BlankenhornRupert Everett e Doug Mainwaring.

Recentemente ha preso posizione anche Jean-Pierre Delaume-Myard, omosessuale dichiarato e noto documentarista francese. Su Le Plus ha scritto un articolo affermando: «Sono omosessuale. Io non sono gay. Non ho scelto il mio orientamento sessuale e non sono più orgoglioso di essere un omosessuale di quanto dovrebbe essere un eterosessuale. Non ho nessun motivo particolare per affermare la mia sessualità». Un punto di vista davvero encomiabile, rispetto a tanti omosessuali che identificano ormai la loro personalità attraverso il loro comportamento sessuale (cadendo così nell’idolatria, ha spiegato recentemente l’omosessuale Ariño). 

«Il gay richiede una cultura, un modo di vivere. Ha bisogno che il  macellaio, fornaio e giornalaio siano gay. Vuole vivere con altri gay… Come uomo gay, vale a dire, come un individuo, interamente di proprietà di una nazione, sia a Parigi o in provincia, ho sempre fatto la scelta di non preoccuparmi dell’orientamento sessuale dei miei vicini», ha proseguito. 

Delaume-Myar ha a sua volta criticato la scelta del governo francese del “matrimonio per tutti”: «L’ordine del giorno è quello del matrimonio per tutti. Ma molti omosessuali non hanno alcuna voglia di sposarsi. Gli autori e intellettuali omosessuali del XIX secolo si rivolterebbero nella tomba pur di respingere questa idea borghese», confermando così le parole citate all’inizio di Bongibault. «Quanti fanno questa scelta?», si è chiesto il documentarista omosessuale. «Se prendiamo l’esempio del Belgio», ha continuato, «solo il 2,5% dei matrimoni sono unioni omosessualiE’ più urgente lottare i diritti alla salute, pensioni, lavoro ecc … ». 

Si è poi spostato a considerare i problemi relativi all’adozione dei bambini, sapendo che «già le coppie eterosessuali hanno difficoltà ad adottare un bambino», inoltre le convenzioni con i Paesi africani e dell’America Latina, dai quali maggiormente provengono i bambini da adottare, «rifiutano qualsiasi adozione da parte di genitori dello stesso sesso». Inoltre, pensando agli interessi del bambino sorgono dei dubbi, si pensi ai «parametri di riferimento per il bambino, la sua parentela, la sua non-relazione con la madre o il padre, ci sono anche i nonni che svolgono un ruolo significativo nella formazione, e ci dimentichiamo troppo spesso che gli omosessuali sono spesso respinti dalla propria famiglia». Infine i bambini vogliono conoscere le loro vere radici, ma «quale sarà l’albero genealogico dei bambini cresciuti con genitori dello stesso sesso?».

 Delaume-Myard ha quindi concluso sottolineando la distinzione tra gay e omosessuali, affermando in modo paradossale: «”Il matrimonio per tutti è una legge per gay e non per omosessuali».

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Don Confalonieri, il missionario amato dagli aborigeni australiani


 
 

di Rolando Pizzini
*insegnante e scrittore

 

E’ da poco uscito il romanzo Nel Tempo del Sogno (ed. La Fontana di Siloe 2012), che narra la storia del primo bianco che, da solo, decise di vivere con e per gli aborigeni australiani. Si tratta del missionario don Angelo Confalonieri il quale, a metà Ottocento, segnò una pagina di storia importante per quanto riguarda i contatti fra europei e aborigeni australiani e, più in generale, fra missionari cattolici e popoli Indigeni.

La ricerca, della quale sono stato ideatore e responsabile, si è rivelata difficile sia per la disseminazione delle fonti in Italia, Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda, sia per raggiungere e visitare i luoghi ove Confalonieri operò, ossia la penisola di Cobourg, un territorio praticamente disabitato nell’estremo nord dell’Australia.

A queste difficoltà ho in buona parte ovviato creando un team di altissimo livello formato dai professori universitari australiani Bruce Birch e Stefano Girola, e da due studiosi italiani Elena Franchi e Maurizio Dalla Serra. Ma per portare in piena luce tutta la storia ho dovuto pure chiedere aiuto a persone impegnate in istituti, università, ma anche a volenterosi emigrati italiani in Australia che con entusiasmo hanno dato il loro supporto laddove la situazione lo richiedeva.

Tutta questa fatica ha alla fine fatto emergere la vicenda di un uomo eccezionale che seppe inserirsi nel popolo aborigeno come nessuno mai fece prima di lui. Basti pensare che il suo arrivo fu preceduto da decenni di intolleranza nei confronti dei nativi, che hanno subito episodi di inaudita ferocia da parte dei bianchi, in quanto erano considerati, più volte, esseri biologicamente inferiori. Don Angelo Confalonieri, invece, visse con loro, li aiutò, ne conciliò le differenze tribali e ne adottò il loro stile di vita nomade.

In breve tempo giunse persino a scrivere due frasari inglese-aborigeno. E tutto questo lo seppe fare attraverso il rispetto, l’ascolto ed il dialogo. Su Confalonieri ho pura curato il saggio “Nagoyo” edito dalla Fondazione Museo storico del Trentino, ora in uscita anche in lingua inglese.

Nel 1939, William Cooper, uno dei primi attivisti politici aborigeni dichiarò ad un giornale di Melbourne: «Questa Lega [The Australian Aborigines’ League] e la stragrande maggioranza dei nativi si rendono conto che i missionari sono stati i nostri migliori amici, e se non fosse stato per le missioni e il lavoro e l’interessamento dei missionari, pochissimi Aborigeni sarebbero sopravvissuti. Noi ci leviamo il cappello davanti ai missionari che hanno lasciato le comodità della civiltà per esporsi al caldo, alle mosche, alla polvere, alle cattive condizioni climatiche e agli altri disagi della vita missionaria. Considerando i sacrifici fatti dai missionari, è del tutto inappropriata l’ingratitudine espressa da chi dovrebbe ringraziare i missionari per tutto ciò che di valore ha ricevuto nella vita. I Nativi conoscono i loro veri amici e apprezzano profondamente il loro splendido lavoro».

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L’UAAR è senza credibilità, ora si affida ai consulenti d’immagine

“Moribonda” è l’aggettivo che molti usano per descrivere l’attuale condizione dell’Uaar, Unione Atei Agnostici Razionalisti, detti anche popolarmente “gli atei fondamentalisti italiani”. La gestione Carcano, l’attuale presidente dell’autodefinitasi “confessione religiosa”, ha dato il colpo del ko ad un’associazione nata con nobili intenti, cioè difendere i diritti dei non credenti, ma ben presto trasformatasi nell’ennesima vetrina sul web di odio e denigrazione verso i credenti.

Dilaniata dagli scandali interni, detti anche Uaarleacks, che abbiamo puntualmente segnalato -ricordiamo in ordine i più recenti: ipocrisia nel combattere il meccanismo dell’8×1000 e contemporaneamente voler inserirsi tra i possibili destinatari; epurazione dei responsabili eretici; presenza di neopagani tra i dirigenti; intrallazzi con i neofascisti di Casapound e gli sfasciavetrine di Acrobax; presa di distanze dal Forum ufficiale per vergogna verso i propri utenti e per allontanarsi da un luogo di critici della propria dirigenza- l’associazione ha perso tantissimo in termini di credibilità, sopratutto al suo interno (all’esterno non ne ha mai avuta molta): sono stati infatti gli stessi membri a rendere pubblico tutto il marcio creatosi in questi anni.

Certamente la dirigenza dell’Uaar è consapevole di tutto questo, peccato che per tentare di tappare le falle abbia intrapreso una strada a dir poco imbarazzante, sopratutto perché tale maldestro tentativo è stato “portato alla luce” ancora una volta dai suoi esasperati membri e tesserati. Sul Forum dell’associazione, infatti, un utente ha rivelato che l’Uaar per tentare di risollevare la reputazione si è affidata ad esperti per la  consulenza dell’immagine, come fa chi ha un prodotto da vendere sul mercato. Il responso di questa sorta di Casaleggio & Associati dell’immagine non è stato certo positivo: «Il Brand Uaar a nostro avviso non esiste ancora in senso Full, ma solo come Pre Brand, cioè con i valori e le attribuzioni che si sono stratificate “spontaneamente” nel tempo», scrivono. «L’Uaar si connota, nel complesso, per tratti doveristici […]. Non c’è divertimento, leggerezza, allegria, ma ferrea finalizzazione agli obiettivi. Un carattere un po’ noioso, anche se irreprensibile. Emerge anche un tratto di “durezza” e di poca flessibilità. Prevale l’atteggiamento di contrapposizione frontale anche aggressiva anziché una strategia di “seduzione” (“Esisto perché sono “contro” qualcosa e non perché sono “a favore di qualcos’altro””)». L’analisi è corretta, purtroppo il caratterizzarsi dal proprio “essere contro” è il problema di ogni associazione ed espressione ateista, non avendo argomentazioni positive da proporre.

Ma andiamo avanti a leggere: «L’immagine Uaar può essere al momento associata a parole come serietà, razionalità, impegno, consapevolezza, chiusura, schieramento, aridità, burocrazia, impersonalità, dovere, noiosità […]. I modi in cui comunica sono incoerenti sia dal punto di vista della forma, sia da quello dei contenuti […]. Manca una strategia strutturata e ingegnerizzata». Innanzitutto, scrivono gli esperti, per migliorare il “Brand approach” dell’Uaar,  «bisogna smontare l’idea che l’Uaar esprima disvalori (convincimento personale); bisogna smontare l’idea che aderendo alla proposta Uaar si corrano dei rischi (esternabilità sociale); bisogna far salire la causa Uaar nel ranking delle priorità (soglia di attivazione personale e mediatica)». C’è assolutamente bisogno che l’Uaar competa per «attrarre nuovi iscritti», perché «è in una fase di stallo. Non ha abbastanza iscritti per sostenere una crescita per linee interne, e non ha potere attrattivo verso nuovi potenziali a causa di fattori intrinseci (quello che esprime l’immagine in sé: bassa rilevanza argomentativa, doverismo, aggressività, old fashion) ed estrinseci (scarsa capacità di rimuovere il freno al coming out da pressione ambientale e scarsa capacità di controbilanciare la bad publicity stratificata nel tempo sul concetto di ateismo)».

Come fare allora per “sedurre” nuovi “clienti” e vendere di più il “prodotto”? Ecco la risposta: «la sua mission dovrebbero essere i diritti umani […], la sua personalità deve caratterizzarsi per l’apertura mentale, con uno spiccato orientamento all’innovazione; per il carattere solare e trasparente, ricco di energia propositiva; per l’attenzione al lato umano, la facilità di socializzare e di creare consenso; per l’estroversione (ma senza istrionismo); per il piacere di dirigere con coraggio e rispetto, ma senza smania di comandare; per l’attitudine ad apprezzare il lato piacevole della vita; per l’onestà intellettuale, ma senza derive di “noiosa” political correctness – al contrario, con tratti di impertinenza gustosa; per un registro ironico, anziché per l’aggressività o il sarcasmo. L’immagine Uaar dovrebbe essere associata a parole come credibilità, apertura mentale, coerenza, colore, dinamismo, carisma, chiarezza, solarità. Con l’essere brillanti e sulla cresta dell’onda […]. Si dovrebbe mettere in scena un mondo bello e normale: talmente normale da essere sorprendente». Mai sentita tanta retorica tutt’assieme, un linguaggio assurdo che di fatto significa nulla o poco più.

Certo, in molti hanno parlato male dell’Uaar, ma mai come i propri consulenti d’immagine, i quali -ripetiamo- hanno detto che l’associazione in questi 24 anni di militanza sfrenata è apparsa: “noiosa”, “non flessibile”, “non strutturata”, “con pochi iscritti”, “con poco potere attrattivo”, “con bassa rilevanza argomentativa”, “aggressiva”, “old fashion” (ovvero anacronistica), “incoerente” ecc. Sostanzialmente possiamo dire che l’esistenza dell’Uaar è stata un autogol del movimento ateo, tanto che -sempre secondo quanto rivelato sul forum dell’associazione- nel Consiglio direttivo del 19/05/12 si è deciso di cambiare radicalmente tutto: «l’Uaar fa propri gli obbiettivi di comunicazione individuati» dagli esperti dell’immagine. «D’ora in poi», viene deciso dalla dirigenza, «la comunicazione esterna sarà improntata a professionalità e caratterizzata da adesione a tali obbiettivi e alle linee guida successive», e dunque «il principale obbiettivo dei prossimi anni, quello su cui focalizzare l’impegno associativo, sia quello di togliere dai cittadini atei e agnostici lo stigma sociale che li caratterizza negativamente». Di questo presunto stigma sociale parleremo più sotto. Infine, per tentare di arginare il loro più grande problema, hanno stabilito che «dovrà essere chiaro che ogni spazio Uaar sarà precluso a messaggi off topic, o contenenti insulti, diffamazioni, volgarità gratuite». Gli atei integralisti si impegnano dunque a diventare moderati, peccato che abbiano già tradito le loro promesse, rincominciando con il loro delirio anti-teista, così come li abbiamo conosciuti.

I forumisti uaarini non l’hanno comunque presa bene: «mi fa un po’ specie ridurre tutto a una pura questione di immagine, come se le idee fossero esclusivamente merce, alla “sono ateo, perché io valgo”, “enjoy atheism” “think different, think atheist” “forza Uaar, per un nuovo miracolo laico”, come se metodi e contenuti fossero diventati irrilevanti», scrive ironico un utente. La delusione per essere trattati come “pesci che hanno già abboccato” è palese in molti commenti: «lo studio dice semplicemente: vecchio così come stai messo non puoi permetterti nuovi barchini per incrementare il pescato; spetta un po’ che ti dico io dove spostarli che lì si trova più pesce, nel frattempo eccoti delle regolette per rendere la tua flotta più efficiente». Un altro si domanda: «forse anche gli atei, come l’Uaar, sono considerati un brand?», ricevendo questa risposta: «Sinceramente, mi viene da vomitare all’idea che si sia considerati un “oggetto da vendere” e quindi da “rendere accattivante”. Se devo dirla tutta nemmeno la Chiesa ha degli atei una così scarsa considerazione».

C’è anche chi ha criticato l’unico obiettivo che vuole ora darsi l’associazione, ovvero l’eliminazione dello stigma verso gli atei: «Ma che minchia di stronzata è? Del fatto che io sia ateo o meno, non glien’è mai fottuto una cippa a nessuno. Qualcuno di voi è stato “socialmente stigmatizzato” per il fatto di essere ateo? In Italia, dopo la fine del ‘800?», si è chiesto allibito un utente. E ancora: «Un’associazione con obbiettivi culturali e politico/sociali va dietro a strategie di marketing adatte a vendere mutande. Mi sa che siamo parecchio fuori strada». Un altro, infine, nota con ragionevolezza: «Inutile sottolineare quanto risulti surreale e sorprendente che coloro che vengono ora a parlare dell’importanza dell’immagine dell’Uaar siano gli stessi che poco tempo fa non si accorsero minimamente che organizzare lo sbattezzo a Casapound (cosa che non andò in porto, per merito di Casapound) avrebbe causato un enorme danno d’immagine all’associazione».

Condividiamo lo stupore di molti forumisti: chi ha davvero un messaggio importante da comunicare, non si affida certo ad un consulente d’immagine per migliorare artificialmente la propria credibilità. Il messaggio cristiano, ad esempio, non si è certo diffuso nel mondo grazie a strategie di marketing, anzi ha iniziato il suo percorso dalle persone ritenute meno credibili del tempo: poveri pescatori e donne. E’ inoltre è abbastanza squallido che l’ateismo venga trattato dall’Uaar come un “prodotto da vendere”, che l’associazione sia definita “brand”, ovvero un “marchio”, che dunque il loro sito web sia il “negozio” e che si cerchino strategie giovanili per accalappiare e “sedurre” possibili clienti-allocchi. D’improvviso si è deciso di mettere le lucine colorate fuori da un negozio di pessima reputazione per far passare l’idea che all’interno ci sia una nuova associazione di atei, questa volta accattivante e rivolta ai tanto agognati cccciovani, non seriosa, non rigida, ma allegra, simpatica, che faccia battute spiritosissime e che i soci siano gente che si batte sempre il “cinque” facendosi l’occhiolino.

Secondo loro non è il messaggio che ha fallito, che non è adeguato all’uomo, ma è il comunicatore che non sarebbe vestito abbastanza alla moda, tanto che attira soltanto capelli bianchi e amanti dello sfogo online (e non solo). Attendiamo fiduciosi i risultati di questa nuova strategia di proselitismo.

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La complessità fondamentale della vita: le proteine


 
 
di Michele Forastiere*
*professore di matematica e fisica

 

Le proteine sono le molecole tuttofare della vita, veri e propri nanostrumenti capaci di svolgere le funzioni più svariate. La maggior parte delle attività delle cellule di ogni organismo vivente viene eseguita da proteine che interagiscono tra loro e con altre molecole organiche. Di solito si tratta di interazioni complesse, che prevedono una successione di passi esattamente scandita e regolata, sia nel tempo sia nello spazio. Si pensi, ad esempio, all’interazione fondamentale: la sintesi proteica. Si tratta di un meccanismo complicato che prevede, a grandi linee, prima la trascrizione del gene codificante una data proteina in RNA messaggero (mRNA) all’interno del nucleo, poi la traduzione del codice mediante il montaggio sequenziale – all’interno dei ribosomi – delle molecole di amminoacidi trasportate dall’RNA transfer (tRNA), infine il ripiegamento della lunga catena molecolare nella forma finale della proteina (la cosiddetta conformazione nativa).

Tutte le operazioni che coinvolgono molecole organiche dipendono, ovviamente, dalle specifiche interazioni chimiche che avvengono tra di loro. Dal punto di vista della fisica queste ultime sono semplicemente la manifestazione di interazioni elettromagnetiche tra le nuvole elettroniche degli atomi coinvolti. In pratica, le molecole organiche si combinano tra di loro, si “smontano” e si “rimontano” in configurazioni diverse grazie al fatto che la loro superficie costituisce un “paesaggio” composito di zone, diverse per forma e dimensione, con densità di carica elettrica differente. In tal modo una proteina può agganciarne un’altra in una specifica direzione e (per esempio) formare un aggregato di forma allungata, come nelle fibre di cheratina; oppure può trattenere una molecola di ossigeno, per poi rilasciarla al momento opportuno; e via dicendo.

Ora, pur sapendo che la conformazione nativa della proteina è determinata univocamente dalla sequenza degli amminoacidi costituenti, esiste il cosiddetto problema del ripiegamento: in che modo, cioè,  una proteina raggiunge la sua forma funzionale? Il fatto è che se il ripiegamento dovesse avvenire mediante un processo di “ricerca casuale”, questo richiederebbe un tempo assolutamente irrealistico, molto maggiore di quello trascorso dalla nascita dell’Universo. Il numero delle possibili geometrie – tutte non funzionali – che una data catena di amminoacidi può assumere è infatti astronomicamente alto. D’altra parte, un batterio come l’Escherichia Coli si riproduce ogni 20 minuti, duplicando l’intero insieme delle sue proteine entro quell’intervallo di tempo. Tale contraddizione venne riconosciuta per la prima volta da Cyrus Levinthal nel 1969: si tratta di quello che è ormai universalmente noto come “paradosso di Levinthal”.

Secondo Levinthal, il paradosso si risolve supponendo che il ripiegamento avvenga seguendo percorsi preferenziali. Il funzionamento di una cellula dipende però dall’insieme delle interazioni tra le proteine e tutte le altre molecole, organiche e inorganiche, presenti al suo interno. In particolare, l’attività cellulare è determinata dalla rete completa del suo interattoma, vale a dire dall’insieme di tutte le interazioni fisiche proteina-proteina che possono aver luogo nella cellula. Non è difficile comprendere che il problema dell’assemblaggio dell’interattoma sia analogo a quello del ripiegamento delle proteine, nel senso che in entrambi i casi lo stato funzionale viene selezionato entro un numero enormemente elevato di alternative non funzionali.

I biologi Peter Tompa della Vrije Universiteit di Brussels e George Rose della Johns Hopkins University hanno affrontato la questione della sintesi dell’interattoma in un articolo apparso su Protein Science nel 2011, The Levinthal paradox of the interactome. Tompa e Rose forniscono una stima approssimata del numero di possibili schemi di interazione in un interattoma-modello, quello esistente in una particolare fase di crescita del lievito Saccharomyces cerevisiae. Ebbene, il numero a cui si giunge è assolutamente strabiliante: 10 alla 79 000 000 000 distinte configurazioni. Tale straordinaria complessità esclude la possibilità che un interattoma funzionale si formi per tentativi ed errori in un qualsiasi accettabile arco di tempo. Secondo gli autori, dunque, è evidente che la formazione di un interattoma funzionale necessiterebbe di una rete preesistente di proteine interagenti – vale a dire, dell’interattoma stesso. Inoltre, tutte le nanomacchine coinvolte richiedono un flusso continuo di energia per funzionare: non è quindi pensabile che il risultato finale del loro lavoro (un interattoma funzionale) possa mantenersi in equilibrio senza alcun dispendio energetico.

La conclusione che se ne trae è che, senza una rete preesistente di interazioni, una cellula finirebbe per impantanarsi in uno stato caotico non funzionale, incompatibile con la vita. Insomma, secondo Tompa e Rose esiste, tra un interattoma vitale e i suoi componenti isolati – tra vita e non vita – una barriera che risulta essere insormontabile, in modo spontaneo, al di fuori dell’ambiente cellulare. In altre parole, tra caos e ordine esiste una discontinuità essenziale, almeno nelle condizioni attualmente esistenti sulla Terra; è evidente, del resto, che la vita deve averla attraversata almeno una volta – all’inizio.

Può questo essere avvenuto per puro caso? È certamente possibile, sebbene molto improbabile. Una stima di tale probabilità – che risulta effettivamente bassissima – è stata effettuata da Eugene Koonin: ne abbiamo parlato estesamente a suo tempo qui (UCCR – L’enigma dell’abiogenesi II° parte).

D’altro canto, non possiamo che rimanere stupiti, direi quasi abbacinati, quando ci soffermiamo a osservare le forme e le intricate interazioni delle proteine nell’ambiente cellulare. Esaminiamo per esempio la conformazione di questa macromolecola, adibita al compito di “correggere” i difetti strutturali di certe proteine. Certamente la perfezione di tale forma rimanda a qualcosa di più che alle semplicistiche alchimie in cui i biologi molecolari della precedente generazione si contentavano di ravvisare il funzionamento della cellula. In effetti, vi è chi suggerisce che alla base dei meccanismi biochimici della vita non vi possa essere la contingenza caotica di innumerevoli miscugli chimici che – quasi filtri magici sempre più raffinati – vengono via via selezionati in base al loro effetto macroscopico, ma bensì una logica molto più profonda, che estende le sue radici nelle leggi fisiche, nel Logos dell’Universo.

Quel che è certo è che ancora non sappiamo come stiano realmente le cose. Pensiamo, tuttavia, che valga davvero la pena di continuare a riflettere su come funzioni esattamente la chimica complessa della vita: una questione che, nella sua basilarità, promette di essere la più importante per la biologia del XXI secolo.

 (Una versione più tecnica e approfondita di questo articolo sarà pubblicata prossimamente nella sezione “Tavola Alta” del sito web “Critica Scientifica)

 

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Ecco perché il Concilio Vaticano II non condannò il comunismo

Tra gli eventi più significativi della storia della Chiesa, il Concilio Vaticano II rappresenta forse quello più importante fra quelli accaduti nello scorso secolo. Esso infatti si pose l’obbiettivo di conciliare la Chiesa con il mondo moderno e ricevette per questo molte lodi, ma anche alcune voci critiche. Uno di questi rimproveri riguarda la mancata condanna del comunismo.

Negli anni ’60 il comunismo rappresentava una realtà che era impossibile ignorare: milioni di cattolici vivevano in stati guidati dal modello socialista subendo per questo dure repressioni, e avvenimenti come l’innalzamento del muro di Berlino (1961) o l’installazione dei missili sovietici a Cuba (1962) avevano profondamente scosso l’opinione pubblica mondiale. Si aspettava perciò un pronunciamento riguardante questo tema. Già nel lavoro di preparazione vennero sottoposti al giudizio della commissione centrale preparatoria due testi relativi al problema del comunismo e si era deciso di trattare il dilemma ponendolo sotto la questione generale dell’ateismo.

In realtà, in quel periodo si erano condotte delle trattative tra il Vaticano e l’Unione Sovietica che dovevano permettere la presenza a Roma di osservatori della Chiesa Ortodossa: nell’agosto del ’62 nella città francese di Metz era stato stipulato un accordo segreto tra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo arcivescovo di Yaroslav, monsignor Nikodim, che si scoprirà in seguito essere nientemeno che un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare di comunismo nel Concilio in cambio della presenza degli osservatori del Patriarcato di Mosca. Un appunto di papa Paolo VI del 1965, conservato nell’archivio segreto del Vaticano, conferma l’esistenza di questo accordo dato che cita tra gli impegni del concilio quello di «non parlare di comunismo». Anche il bollettino del Partito comunista francese, «France Nouvelle», scriverà nel gennaio del 1963 che la Chiesa Cattolica «ha preso l’impegno, in occasione del dialogo con la Chiesa ortodossa russa, che nel concilio non ci sarebbe stato alcun attacco diretto contro il regime comunista».

Non solo, ma grazie agli studi dello storico George Weigel si scoprirà che parecchi infiltrati sovietici riuscirono ad intrufolarsi in Vaticano: il Collegio Ungherese divenne all’epoca una filiale dei servizi di Budapest, mentre l’SB polacco cercò persino di falsificare la discussione del concilio sui punti peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza, per contrastare la posizione “massimalista” del prelato polacco anticomunista Stefan Wyszynski (Roberto de Mattei, Ecco perché il Vaticano II non contrastò il comunismo, Il Giornale, 09/10/2012).

Una petizione di condanna del comunismo presentata il 9 ottobre del ’65 da 454 padri conciliari di 86 paesi non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema. Azione questa che desterà grande scandalo. Il cardinale Giacomo Biffi scriverà a tal proposito: «Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luogo di indicibili sofferenze e umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (…) e il Concilio non ne parla. Altro che i supposti silenzi nei confronti delle aberrazioni del nazismo, che persino taluni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII».

Papa Roncalli aveva deciso inoltre di modificare la politica del suo predecessore. Mentre infatti sotto Pacelli v’era stata una condanna totale dei regimi comunisti, sotto Giovanni XXIII si tentò invece la strada del dialogo aprendo contatti attraverso la mediazione di monsignor Agostino Casaroli. Politica che anche il suo successore, Paolo VI, deciderà di continuare: in quegli anni si ebbe la cosiddetta  Ostpolitik vaticana” dove allo scontro aperto si preferì la normalizzazione dei rapporti. Paolo VI ricevete perciò negli anni ’70 alcuni dittatori comunisti come Josip Broz Tito e Nicolae Cesauescu, rimosse dalla responsabilità della sua diocesi il cardinale Jozsef Mindszenty (stabilitosi a Vienna grazie alla mediazione del presidente americano Nixon e del cardinale König) e accettò la nomina di alcuni vescovi approvati dai regimi marxisti. Indubbiamente Montini agiva in buona fede per cercare di fermare la persecuzione dei cattolici oltre la cortina di ferro: «La Chiesa non cerca un modus vivendi, ma un modus non moriendi» disse all’epoca giustamente un cardinale. Tuttavia, i risultati ottenuti grazie a questa politica furono assai scarsi e si ebbero molte critiche provenienti anche dai cristiani orientali: Stefan Wyszynski dirà intervenendo ad un sinodo “vir casaroliensis non sum”” (“non sono un uomo di Casaroli”) per segnare il suo dissenso nei confronti dell’Ostpolitik, mentre il cardinale ucraino Josif Slipyi affermerà nel 1974: «Abbiamo sentito nei discorsi precedenti solo riferimenti a quei paesi in cui c’è libertà religiosa e in cui si può predicare il Vangelo; niente è stato detto su quei paesi in cui non c’è libertà di religione e in cui la Chiesa è perseguitata» (A. Tornielli, Paolo VI, Milano 2009 p. 582-584).

Solo con la salita al soglio pontificio di Giovanni Paolo II (che ben conosceva la repressione comunista) si assistette alla modifica di questo approccio che considerava i regimi comunisti come espressioni immutabili destinate a durare a lungo, e il papa polacco darà un contributo fondamentale alla caduta dell’Unione Sovietica.

Mattia Ferrari

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Critica al femminismo, elogio della maternità

 

di Anna Paola Borrelli*
*teologa moralista perfezionata in bioetica

 

Il Femminismo nasce nell’800 negli Stati Uniti e in Europa per rivendicare uguale parità giuridica, politica e sociale tra uomo e donna. In Italia, sebbene a quell’epoca non lo si definisse ancora femminismo vero e proprio, si scioperava per i diritti delle lavoratrici riguardo agli stipendi, alle troppe ore di lavoro, ecc. Fu, poi, il 1968 l’anno in cui il femminismo italiano proruppe con tutta la sua forza. Note a tutti negli anni ’70 le battaglie a favore del divorzio, aborto e controllo delle nascite, diverse le iniziative sostenute per l’emanazione di una legge contro la violenza sessuale, non più ritenuta come “offesa al pudore”, bensì come reato contro la persona, per il sorgere dei consultori familiari e degli asili-nido… Pareri favorevoli e critiche hanno scandito da sempre l’operare di questo movimento politico, culturale e sociale.

Oggi, il femminismo, seppure con toni meno accesi, è ancora presente e lo si evince dalle affermazioni della trentatreenne Jessica Valenti, scrittrice e celebre femminista, sul sito da lei fondato che porta il titolo di “Feministing.com”. La Valenti, madre di una bimba di due anni, è autrice del saggio: “Why Have Kids?”. Ella sottolinea che «lungi dall’essere il mestiere più difficile e soddisfacente del mondo, la maternità è un ruolo maledettamente deprimente», «tanto che le donne intelligenti farebbero meglio a non fare figli». Attacca, poi, quelle che definisce  le «menzogne sull’essere genitori propinate quotidianamente dai media e dalla politica». «Statistiche e studi scientifici parlano chiaro. Altro che stagione idilliaca nella vita di ogni uomo e donna, avere figli rende gli individui “meno felici e più depressi”».

La visione prospettata dall’autrice J. Valenti va a collimare con l’esperienza di tanti coniugi che ogni giorno si sacrificano per i propri figli, disposti a dare tutto, anche la propria vita, se si rivelasse necessario per il loro bene. È innegabile che l’esistenza cambi totalmente dopo la nascita di un bimbo, l’equilibrio consolidato costruito con fatica dalla coppia si spezza bruscamente ad ogni nuova gravidanza, quando dall’unità duale si verifica il sorgere di una nuova vita. Essere genitori è al tempo stesso il mestiere più affascinante e difficile del mondo. Non esistono ricette, manuali o istruzioni pronte all’uso. Davanti a sé c’è un figlio o una figlia, con la sua unicità e irripetibilità, col suo carattere, la sua personalità, con dei sogni e delle aspirazioni che non possono essere i nostri.

C’è la responsabilità di una vita da accogliere e custodire. Non basta dargli la vita una volta e per tutte. Procreare un figlio significa anche dargli la vita continuamente, generarlo ogni giorno, attraverso la cura e l’educazione. È un esodo continuo che parte dal nostro “io” e arriva sino alla terra sconosciuta del figlio, perché ciascuno di noi è un mistero, perfino per se stessi. Nella psiche dei genitori pian piano il “bambino immaginario”, alimentato dalle nostre aspettative e speranze deve far posto al “bambino reale”, concreto. Un figlio non lo si sceglie, lo si ama incondizionatamente. Bisogna fare spazio: nei pensieri, nel cuore, nei tempi del quotidiano; è svuotarsi per accogliere, è uscire da se stessi per donarsi. E’ per es. impensabile che un neonato dorma, mangia, pianga o debba essere cambiato quando decide la madre; è lei semmai a dover sottostare ai ritmi e agli orari del bambino e non viceversa. Con la nascita di un figlio la vita cambia radicalmente, niente è più uguale a prima: gli impegni triplicano, la stanchezza aumenta… ma per una donna non c’è carriera, né affermazione sociale che valga quanto la vita di un figlio!

E’ una sorta di rivoluzione copernicana, dove i genitori ruotano intorno alla persona del figlio, dalla quale ricevono fasci d’amore, ma ne inviano pure. Nell’universo della famiglia tutto ha ragione di esistere ed è retto dall’unica legge dell’amore. “Amare un bambino non significa amarsi attraverso di lui: significa amare la sua individualità, la sua globale e totale diversità, la sua persona” (Jean-Pierre Relier). Il figlio impegna tantissimo, risucchia tutte le energie dei genitori, ma quei sorrisi e quegli abbracci regalati ripagano più di tutto l’oro del mondo! Perchè ogni bambino che nasce è sempre un dono preziosissimo, un meraviglioso inno alla vita. E’ gioia, prima di essere preoccupazione; è speranza, prima di essere stanchezza. Non è affatto semplice, essere genitori è un allenarsi di continuo alla virtù della pazienza, è un tenere a freno la propria irruenza in certi momenti, è dosare dolcezza e fermezza insieme, è mettersi spesso in discussione per trovare metodi educativi sempre più consoni, perché un figlio crescendo cambia e con lui le situazioni, ma pure perché modalità educative che possono andar bene per un figlio, devono essere sostituite per un altro (ognuno è un universo a parte), è imparare ad ascoltare e a sintonizzare i passi del cuore, sulla lunghezza d’onda dei suoi bisogni e delle sue richieste, è essere veicolatori di valori, ma soprattutto autentici testimoni e maestri di vita.

Il motivo preponderante per cui la scrittrice e femminista J.Valenti porta avanti la sua teoria risiede in un’espressione che racchiude bene il suo pensiero: «Il vero problema è una società dove, se è il papà a cambiare i pannolini e a portare il figlio dal pediatra è un eroe, se a farlo è la mamma, sta solo compiendo il suo dovere». Oggi sono mutate le condizioni storico-sociali e sempre più mamme lavorano, per cui è naturale ed è giusto che uomo e donna si sentano ugualmente interpellati nella gestione del piccolo, il carico di lavoro non deve pesare esclusivamente sulla madre, pertanto il papà potrebbe contribuire ad es. cambiando il pannolino, dando il biberon o la pastina, portandolo a passeggio o alle giostre, giocando col piccolo, facendogli vedere i compiti, durante l’età scolare….. Dividersi i compiti, a seconda dei propri impegni lavorativi e casalinghi, aiuterebbe entrambi ad organizzarsi meglio e a rendere l’ambiente familiare quanto più sereno possibile per se stessi e per il proprio bambino.

«L’unico scoglio siamo noi donne. Siamo state allevate a credere di essere il più capace e competente dei due genitori e abbiamo difficoltà a cedere questo potere» afferma, inoltre, l’autrice del saggio: “Why Have Kids?” Contrariamente alla sua posizione attualmente in America si elogia sempre più spesso la maternità, anche pubblicamente, a tal punto che qualcuno la definisce “un’ossessione”. Durante il 2012 una sessantenne in attesa di un figlio è stata ritratta sulla copertina del “New York Magazine” e la foto di una giovane ventenne californiana  mentre allatta il figlio di quattro anni sul “Time” non è passata di certo inosservata. In entrambi i casi la figura del padre era assente. Nel 1915 la femminista Charlotte Perkins Gilman, nel suo romanzo Herland, prospettava un mondo senza uomini e in America quest’idea è presente in molte coscienze. In base ad uno studio del Pew Research Center è emerso che nel 1970 le mogli collaboravano all’economia familiare con una percentuale molto bassa, tra il 2 e il 6%, nel 2007 la percentuale si attestava al 36% e in tempi ancor più recenti sta per sfiorare il 50%. Dal 2008 ad oggi, invece, i licenziamenti di uomini avutisi nel Paese costituiscono il 75%. Questi dati mostrano come i ruoli appaiono ormai invertiti. Ma ovviamente un mondo senza uomini, come annunciato dalla femminista Gilman, è un mondo a metà, perché uomo e donna costituiscono due polarità, due modelli diversi che si completano a vicenda. Sono immagine perfetta del Dio invisibile che nell’amore si incontrano e si relazionano, completandosi a vicenda. Sono corde della stessa chitarra, ma che solo insieme possono produrre all’unisono l’armonia dei suoni.

Uguaglianza e parità di diritti, oltre che di doveri, fra uomo e donna, in determinati contesti è ancora un’utopia.  E’ di un mese fa la notizia che in Arabia Saudita le donne non appaiono neppure nella copertina del catalogo IKEA. Normalmente distribuito in tutto il mondo, rispetto all’originale svedese, dove compare la foto di un padre col figlio, e più in là di una donna e un bambino, nell’azione congiunta di specchiarsi, nel catalogo arabo è stata rimossa l’immagine della donna. E’ l’ennesima sconfitta, lì dove il ruolo e la condizione femminile sono costantemente offuscati e i diritti delle donne perennemente calpestati. In Arabia una donna non può guidare l’auto, se è iscritta a Facebook deve cancellare tutti i contatti maschili dal profilo, è obbligata a indossare, ogni qualvolta esce di casa, la tunica nera che copre l’intero corpo, tranne la testa, i piedi e le mani (abaya) e il velo sul capo (niqāb), con la finalità di “proteggere il loro pudore”, insieme a molte altre discriminazioni.

L’IKEA, in merito al catalogo, ha successivamente inviato le sue scuse. Ma l’onorevole Souad Sbai commenta duramente: «Le scuse, oltre ad essere tardive, sono totalmente inutili. Non si può cancellare la donna dalla realtà e poi chiedere scusa, rendendo tutto ancor più grottesco di quanto già non sia. Ma la cosa ancor più grave è che le paladine “piazzaiole” dei diritti delle donne non abbiano battuto un colpo sulla vicenda Ikea in Arabia Saudita. L’ennesima vergogna del silenzio assenso dei diritti venduti al dio denaro». Episodi come questi invitano ognuno di noi alla riflessione, perché in tutto il mondo tanto è stato fatto per il riconoscimento dei pari diritti tra uomo e donna, ma molto ancora resta da fare.

In tempi antichi in cui il ruolo della donna era subalterno, rispetto all’uomo  diversamente dai maestri e dai dottori della legge dell’epoca, Gesù manifesta una propensione positiva. Parla in pubblico con le donne, anche a coloro che non godono di buona nomea, come l’adultera (Gv 8,1-11), la prostituta nella casa di Simone (Lc 7,37-47) o la samaritana (Gv 4,7 ss); sono presenti donne tra i suoi seguaci, cosa abbastanza insolita per un rabbì; ha tra le sue discepole donne come le due sorelle di Lazzaro: Marta e Maria; ai piedi della croce, solo Giovanni è rimasto dei  12 ed è in compagnia della Madre di Gesù, della «sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala» (Gv 19, 25), ma anche «molte donne che stavano ad osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27, 55). Il giorno della Risurrezione sono ancora una volta le donne a udire: «Non è qui. E risorto, come aveva detto» (Mt 28, 6) e sempre una donna, Maria di Magdala, colei alla quale Gesù appare per primo e invita a portare agli altri il Suo annuncio di gioia e di speranza. Nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem nei nn.12-16 è interessante notare il rapporto che Gesù aveva instaurato con le donne.

Ben consapevole della strada tracciata da Cristo e per il grande amore verso Maria, la “Donna per eccellenza”, la Chiesa continua a farsi sostenitrice del riconoscimento del ruolo femminile. Bellissime le parole di Giovanni Paolo II, in cui esprime l’importanza e la ricchezza di ciascuna donna: «Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell’essere umano nella gioia e nel travaglio di un’esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita. Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita. Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza. Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l’indispensabile contributo che dai all’elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del “mistero”, alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità. Grazie a te, donna-consacrata, che sull’esempio della più grande delle donne, la Madre di Cristo, Verbo incarnato, ti apri con docilità e fedeltà all’amore di Dio, aiutando la Chiesa e l’intera umanità a vivere nei confronti di Dio una risposta “sponsale”, che esprime meravigliosamente la comunione che Egli vuole stabilire con la sua creatura. Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani» (Lettera alle famiglie, 2).

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La Riforma protestante causa della secolarizzazione

Riforma protestante e secolarizzazione. Lo storico Brad Gregory ha sostenuto in modo convincente che la “relativizzazione della dottrina” ha dato avvio a ripercussioni notevoli su tutta la società, portando l’Occidente ad essere indifferente al problema della verità, perché ognuno poteva averne una sua.

 

E’ uscito da poco un libro di Brad Gregory, docente di storia all’Università di Notre Dame negli Stati Uniti, dal titolo The Unintended Reformation: How a Religious Revolution Secularized Society (Harvard University Press 2012, 592 p.) che si potrebbe tradurre all’incirca come: “La Riforma non compresa: come una rivoluzione religiosa ha secolarizzato la società”. 

Si tratta di un libro imponente (ne ha parlato ampiamente Massimo Faggioli su Europa), sia come numero di pagine, ma anche come apparato bibliografico che sostiene la tesi che la Riforma Protestante sia stata la causa della secolarizzazione del mondo occidentale. Infatti, afferma Gregory, quando i riformatori del Cinquecento decisero di abbandonare la visione e la cultura filosofica aristotelica e tomistica diedero il via a un pluralismo religioso e confessionale che ebbe ripercussioni notevoli su tutta la società, in particolare su quella Europea. La prima conseguenza è stata che l’occidente è diventato, pian piano, quasi indifferente al problema della verità, perché ognuno poteva averne una sua. Quindi lo Stato, lo Stato moderno, ha dovuto farsi carico del problema di garantire la libertà religiosa.

Gregory sostiene che quando la cultura europea, all’inizio del Novecento, ha tolto Dio come ragione capace di dare un senso alla vita umana ha aperto la porta a quello che l’autore stesso chiama “relativizzazione delle dottrine” e quindi al rifiuto completo dell’autorità della Chiesa, finché non è iniziata la Riforma protestante. Se la verità diventa relativa, ognuno ha diritto alla sua verità, quindi alla sua libertà religiosa, libertà che deve essere garantita dallo Stato che, di conseguenza, passa al “controllo delle chiese”. La moralità viene soggettivata e parole quali “virtù”, “significato”, “amore del prossimo”, “cura del povero” non sono più “vere” in teoria, hanno cioè perso il loro fondamento. Il mondo si concentra così sul capitalismo, sul consumismo, cioè sulle forze del mercato e anche la conoscenza viene secolarizzata, perciò la teologia e tutte le scienze che riguardano il divino perdono rispettabilità intellettuale. In sostanza l’autore elenca una serie di fallimenti storici che partono dalla Riforma protestante e proseguono con l’Europa degli Stati confessionali, per finire con la libertà religiosa e i diritti umani sostenendo che è difficile realizzare una tale utopia senza una verità che abbia radici al di là del mondo fisico, sia cioè metafisica.

Il libro non è stato ancora tradotto in italiano, ma sarebbe indubbiamente interessante se lo fosse perché è forse il primo testo che va oltre quella che è l’idea comune che si ha della Riforma protestante, ovvero di una Riforma progressista a cui si è opposta una Chiesa Cattolica oscurantista (qualcosa di similmente interessate è stato fatto con  il volume  “I nuovi Unni. Il ruolo della Gran Bretagna nell’imbarbarimento della civiltà occidentale”,  di cui abbiamo già parlato),  d’altra parte è vero che forse è troppo sbilanciato ad analizzare una parte delle conseguenze della Riforma senza valutare correttamente e a pieno i suoi aspetti anche positivi. Potrebbe però essere uno punto di partenza ideale per un dibattito molto più ampio.

Non è un testo facile e va a toccare temi sicuramente politicamente scorretti, ma estremamente interessanti, al di là dell’essere poi d’accordo o meno, analizza inoltre le fatiche e quindi le problematiche sociali attuali andandone a ricercare le origini teologiche. Un libro che, proprio perché è critico, anche verso una parte del cattolicesimo moderno, ma senza essere allo stesso tempo né conservatore né reazionario, può stimolare riflessioni inaspettate.

Davide Galati

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EllaOne: ecco come spacciare l’aborto per contraccezione

Già in precedenza ci siamo occupati, qui e qui, di come il contraccettivo di emergenza EllaOne, la cosiddetta “pillola dei 5 giorni dopo”, possa essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio abortivo, come anche il dott. Renzo Puccetti ha voluto sottolineare. Oggi ci vogliamo soffermare invece su alcuni aspetti che in pochi sanno ma che sono indispensabili per comprendere il raggiro perpetrato ai danni della donna.

 

OMS e spostamento dell’inizio della gravidanza
In passato la fecondazione (che è l’incontro tra spermatozoo e ovocita con conseguente concepimento di un nuovo organismo) era considerata come il momento di inizio della gravidanza. Non è difficile infatti pensare intuitivamente alla gravidanza come il periodo in cui il nuovo organismo concepito cresce all’interno del corpo materno dal quale è nutrito e sostenuto o, per dirla in breve, come il periodo che va dal concepimento al parto. Anche per l’OMS era così fino al 1985, anno in cui ha invece cambiato la definizione di gravidanza spostandone l’inizio: essa infatti non inizia più con la fecondazione, ma con l’impianto dell’embrione nella parete uterina, che avviene circa una settimana dopo! Venne così molto furbescamente aggirato l’ostacolo bioetico insito nei nuovi contraccettivi ad azione anti-impianto che iniziarono ad essere sperimentati proprio in quegli anni: in base a questa nuova definizione, qualsiasi farmaco che uccida l’embrione prima di impiantarsi in utero non è più considerato abortivo (per abortivo si intende ciò che interrompe la gravidanza), ma contraccettivo (cioè in grado di prevenire la gravidanza), mentre diventano tecnicamente abortivi solo i farmaci che uccidono l’embrione dopo l’impianto! E, per differenziare la vera contraccezione, quella che cioè impedisce la fecondazione da questo vero e proprio aborto mascherato, è stato coniato il termine di “contraccezione di emergenza” (o “contraccezione postcoitale”), che è quella “contraccezione” che avviene anche dopo la fecondazione.

Il dibattito sulla data di inizio della gravidanza è in certo senso fuorviante, perché distrae dal problema vero creato dall’uso di questa nuova pillola, che è il destino del concepito: infatti che differenza c’è tra uccidere un concepito prima o dopo l’impianto? Bisogna invece considerare la realtà dei fatti e cioè che, grazie al termine di “contraccettivo d’emergenza”, le potenziali consumatrici crederanno di scongiurare tranquillamente il concepimento, così come avviene con la contraccezione classica, sebbene sia l’esatto contrario: con EllaOne la possibilità di concepire un figlio è assolutamente concreta. La nuova definizione di gravidanza data dall’OMS infatti nulla toglie a quel che si persegue attraverso l’utilizzo degli antinidatori come EllaOne: la morte del nascituro, che già esiste anche se non si è ancora impiantato in utero. Inoltre questo spostamento è stato motivato col fatto che il corpo materno inizia la sua relazione con l’embrione solo con l’impianto, ma è evidente che non è l’annidamento che fa dell’embrione il suo essere embrione, e non è una relazione (quella madre-figlio che si stabilisce con l’impianto) a determinare l’esistenza di un soggetto. In aggiunta va ricordato che non è l’impianto a stabilire la relazione biologica fra la madre e il figlio, in quanto quest’ultimo stabilisce fin dal concepimento un intenso dialogo biologico con lei: la madre infatti, mediante secrezione di progesterone, contribuisce allo sviluppo del concepito prima ancora che si impianti, esaltando specificatamente le secrezioni tubariche ed uterine necessarie al suo nutrimento e sviluppo.

Perciò la definizione di gravidanza dell’OMS è solo strumentale a rendere l’aborto precoce una pratica priva di rilevanza etica, è cioè solo un ingannevole gioco di parole. Da notare infine come la stessa OMS si contraddica nel momento in cui dice che in generale la durata della gravidanza viene considerata di 266 giorni dalla fecondazione: ma se si dice che la gravidanza è il periodo di vita in utero del concepito, perché la si calcola a partire dalla fecondazione e si parla di 266 giorni di durata, piuttosto che 259 (i reali giorni di vita intrauterina del concepito)?

 

Test di gravidanza: un’ingannevole rassicurazione per la donna
In Italia l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha stabilito che il medico, prima di prescrivere EllaOne, ha l’obbligo di verificare l’assenza di una gravidanza preesistente attraverso l’esito negativo di un test a base di β-hcg che la donna può effettuare anche con un semplice stick sulle urine, reperibile nelle farmacie. Si penserà che, visto il potenziale effetto abortivo di Ellaone, l’AIFA voglia assicurarsi che le consumatrici non siano incinte, in modo tale da essere sicuri che la pillola agisca secondo il meccanismo antiovulatorio piuttosto che col meccanismo antinidatorio. In realtà non è così, in quanto il test di gravidanza sarà sensibile almeno 7 giorni dopo il concepimento:  questo perché, le β-hcg  vengono prodotte solo a partire dal 7° giorno dal concepimento, cioè solo a partire dall’annidamento in utero dell’embrione. È quindi scontato che, se la pillola viene assunta entro i 5 giorni successivi al rapporto a rischio di gravidanza, il test obbligatorio prescritto risulterà sempre negativo, cosa che non esclude affatto la presenza di un embrione, ma solo il suo impianto in utero; e questo è un enorme inganno per la donna che verrà raggirata da una rilevazione fasulla che le farà pensare di non aver concepito e di non eliminare alcun embrione attraverso la pillola. Ma allora perché l’AIFA richiede il test se in questi 5 giorni è inutile eseguirlo?

 

EllaOne ed RU486 sono sorelle
La risposta ce la dà il dott. Bruno Mozzanega, il quale fa notare come in realtà EllaOne (ulipristal acetato, UPA) abbia una struttura chimica quasi sovrapponibile a quella della famigerata RU486 (mifepristone), la pillola abortiva in vendita in Italia già dal 2009, e per questo ribattezza da Jerome Lejeune come “pesticida umano”. Come fa notare Mozzanega infatti, sebbene UPA non sia stato ancora sperimentato nella interruzione di gravidanza, «non si può negare che a livello di utero e di procreazione i suoi effetti siano sovrapponibili a quelli della RU486». «Se per l’interruzione chimica della gravidanza – continua Mozzanega – si utilizzano 200 mg di RU486, è verosimile che lo stesso quantitativo di UPA sia in grado di sopprimere, in  eguale modo, l’embrione». Mozzanega poi fa notare che «è certamente legittimo – in termini di marketing – il tentativo, da parte dell’Azienda produttrice, di tenere distinte le due molecole gemelle: una, la RU486, ormai poco “presentabile” dato il suo utilizzo nell’aborto chimico, e l’altra, Ulipristal, da mantenere “esente da richiami all’aborto”. Ma è un problema di pura e semplice immagine, dal momento che è ben chiaro che le due molecole sono egualmente efficaci nell’impedire la sopravvivenza dell’embrione in utero».

È facile comprendere allora che se l’AIFA richiede il test è perché vogliono evitare che donne consapevoli di essere incinte durante i primi 2 mesi di gravidanza tentino di abortire illegalmente a casa proprio con UPA, fingendo di avere avuto un rapporto nei 5 giorni prima per ottenere EllaOne al posto dell’RU486, quest’ultima pillola molto più scomoda per abortire dato che può essere somministrata solo in ambito ospedaliero e con obbligo di ricovero. A tal riguardo si consiglia di visitare il sito web www.pilloladei5giornidopo.it e la visione di questo video esplicativo del Comitato Verità e Vita.

Raffaele Marmo

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Due nuovi studi: aborto indotto causa cancro al seno

Abbiamo già segnalato una lunga lista di studi (UCCR – Aborto indotto e cancro al seno) ) che indicano nell’aborto provocato un fattore di rischio per il cancro della mammella. Il motivo è che l’aborto lascia i tessuti mammari in una condizione di vulnerabilità rispetto agli effetti dannosi degli estrogeni e delle sostanze cancerogene.

Questi dati sono ora confermati da due nuove ricerche cinesi pubblicate su Asian Pacific Journal of Cancer.

Nell’ospedale di Kunming sono stati paragonati i casi (storia clinica e diagnostica, etnica e stato riproduttivo) di 263 donne affette da cancro della mammella con un gruppo di controllo formato da 457 donne non affette da questo male. Oltre all’aborto provocato, sono risultate correlate al rischi di cancro al seno l’età avanzata alla nascita del primo figlio e la mancanza di allattamento, il ciclo mestruale breve, l’uso di pillole contraccettive, il non aver mai partorito e soprattutto l’età postmenopausale  che purtroppo quintuplica il rischio della temuta malattia.

Risultati simili sono stati trovati dall’ospedale di Nanjing su un gruppo di 669 malate e 682 controlli: le probabilità di sviluppare un cancro al seno aumentano con il numero di aborti provocati, mentre quelli spontanei non sembrano correlare con questa malattia.

Linda Gridelli

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