Milano: l’8×1000 aiuterà i disoccupati della città

Il noto laicista Corrado Augias ha fatto orecchi da mercante quando don Virginio Colmegna -ospite della sua trasmissione televisiva in quanto punto di riferimento dell’intellighenzia secolare per la sua spiccata avversione al Papa e alla Chiesa- ha spiegato che l’8×1000 serve ed è servito a sostenere la “Casa della carità”, la sua opera verso i poveri che tanto ama sbandierare sui media.

Chissà se sapendo che  l’8×1000 contribuirà ora ad aiutare i disoccupati di Milano, Augias farà ancora una volta finta di niente o riprenderà a definirlo “meccanismo clericale fraudolento”. Questa accusa è stata in ogni caso già smontata in un nostro specifico dossier: “La verità sull’8×1000 – UCCR”.

L’ottima guida dell’Arcidiocesi di Milano da parte del card. Angelo Scola ha infatti portato ancora frutti: il cardinale ha deciso di destinare 2 milioni di euro al Fondo Famiglia Lavoro voluto nel Natale del 2008 dal card. Tettamanzi a favore dei disoccupati residenti nella diocesi milanese  e con almeno un figlio a carico.

Un milione è frutto delle offerte raccolte tra i cittadini nell’arco del 2012, un altro milione arriverà dai fondi dell’8 per mille destinati alla Diocesi e a questi si aggiungerà il ricavato della vendita di 135 oggetti: da presepi in legno scolpiti a mano a crocifissi e coppe realizzati in vetro di Murano.

In tre anni di vita, il Fondo Famiglia Lavoro ha raccolto quasi 14 milioni di euro, poi erogati sotto forma di contributi a 6.969 famiglie, sulle 9.720 che avevano fatto domanda. I disoccupati sono aiutati tramite percorsi di formazione, orientamento e riqualificazione; interventi di microcredito (fino a 10 mila euro rimborsabili in sei anni) per l’avvio di piccole attività economiche; consulenza alle imprese, singoli e famiglie che vogliono sviluppare progetti di microimpresa; contributi a fondo perduto. Il tanto vituperato 8×1000, come confermato ieri da Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all’Jonio, sarà usato anche per sostenere i terremotati di Pollino.

Tornando a Milano: «Sono gratissimo al cardinale Tettamanzi – ha detto il card. Scola – per questa geniale intuizione». Chissà se anche il laicista Augias -nonostante non abbia problemi di lavoro, né fama di grande benefattore- riuscirà ad essere per una volta grato alla Chiesa.

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Nessuna scomunica per Neri Parenti, nuova bufala anticlericale

Si propaga velocissima la nuova bufala anticlericale inventata da uno dei registi italiani più imbarazzanti, Neri Parenti, ideatore e autore delle pellicole demenziali che molti considerano aver letteralmente ucciso il cinema italiano e la sua reputazione, i cosiddetti “cinepanettoni”. 

Il suo ultimo film -lo ha promesso- è per la prima volta senza volgarità, come invogliare dunque il “popolo bue” a recarsi al cinema? Ovviamente tirando in ballo il Vaticano oscurantista, argomento prelibato per i vari Corrado Augias internazionali che, a corto di talento, vogliono avere comunque la sicurezza del successo.

Ed ecco che Parenti ha affermato in conferenza stampa di aver ricevuto dal Vaticano due scomuniche per due film, “Comiche 1” e “Comiche 2”, arrivate a casa sua «con la ceralacca, come si usava un tempo». Addirittura, ha continuato, sono stati perseguitati anche i suoi figli, ai quali sarebbe stata negata la Comunione.

La bufala è stata ben confezionata da La Stampa , (due articoli, addirittura) la quale ha riportato anche le parole di Paolo Villaggio che ha prevedibilmente pescato nel prontuario laicista il caso Giordano Bruno: «Questa è la stessa Chiesa che ha mandato al rogo Giordano Bruno, che ha fatto uccidere Savonarola, che ha obbligato Galileo a firmare l’abiura…», le crociate, l’Inquisizione, i preti pedofili e il Papa nazista. Ecco il tutto servito caldo e ripubblicato su decine e decine di quotidiani online, siti web, blog e social network.

Già, peccato che ancora una volta non ci sia nulla di vero. Vatican Insider -sempre paradossalmente organo de La Stampa–  ha fatto il suo lavoro e tramite Giacomo Galeazzi ha contattato padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, il quale ha replicato con la solita eleganza: «Non esiste alcuna scomunica nei confronti di Neri Parenti o di altri autori. Trattandosi di un regista comico, direi che la sua  dichiarazione è una battuta di spirito».

Ma chi avrà mai letto questa risposta? E sopratutto, a chi importa dove stia la verità? Si vuole che sia vero e dunque è vero quello che dice Parenti, tanto che nella sua pagina su Wikipedia è già apparsa la nota sulla scomunica ricevuta. Come dice Dagospia«per pompare il suo nuovo cinepanettone spara la bomba sul Vaticano. Una scomunica se la meriterebbe Neri Parenti, ma non per il Papa, ma per la regia dei suoi film».

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L’infermiera ugandese Busingye: «l’HIV non si vince con il preservativo»

Ancora una volta il quotidiano Avvenire pubblica una bella intervista, in questo caso a Rose Busingye, infermiera ugandese  specializzata in malattie infettive, fondatrice e presidente del Meeting Point Kampala Association che si occupa della cura di pazienti affetti da HIV/AIDS, dei loro figli e dell’assistenza ai giovani.

Ricordiamo che la Chiesa è fortemente impegnata nella lotta contro l’HIV, oltre il 25% delle strutture che nel mondo assistono i malati di Aids sono cattoliche, tra i più attivi la Comunità di Sant’Egidio, l’associazione AVSI e il Catholic Medical Mission Board (Cmmb), quest’ultimo impegnato nelle aree più povere del mondo attraverso l’invio di personale medico volontario e di strumentazioni mediche, nonché la raccolta e la distribuzione di farmaci alle popolazioni bisognose. Numerosi anche gli interventi del Santo Padre su questa tematica, l’ultima proprio nel novembre scorso quando ha lanciato un appello di sensibilizzazione su questa tragica realtà in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS. Il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone ha anche richiesto l’accesso gratuito alle cure. Non a caso sia l’ONU che l’OMS, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, hanno ufficialmente ringraziato la Chiesa per il suo impegno (l’OMS tuttavia ha contribuito alla diffusione dell’HIV in Africa a causa di un contraccettivo ormonale distribuito)

Il Meeting Point di Kampala (Uganda) è una di queste realtà cattoliche dove hanno perfettamente capito –come ha spiegato il virologo Carlo Federico Perno-, che per combattere l’AIDS occorre un cambiamento culturale sulla sessualità, a nulla serve rovesciare in testa agli africani casse di preservativi colorati. La Busingye, da anni al fianco dei malati di HIV, ha infatti spiegato: «La nostra salvezza non sta dentro un pezzo di plastica. Dobbiamo tornare a essere uomini veramente. Uomini che hanno dignità e hanno valore. Il preservativo non serve a nulla se non si cambia prima il metodo, la vita. Applicare uno strumento e non cambiare la vita non porta a niente. Sarebbe come dire: tu sei un animale, che agisce soltanto seguendo il suo istinto, non sei un uomo che può controllarsi».

«Per questo da noi, in Africa», ha proseguito, «oggi l’uso del preservativo è visto soltanto come ultima spiaggia. Dobbiamo chiederci che senso ha il sesso. Oggi è come se fosse la cosa più importante del mondo. È l’esaltazione di un idolo. Se voglio bene all’altro e so che il metodo che sto usando porta in sé un minimo di pericolo, allora non rischio. Il vero problema è educare la persona a comprendere che ha un valore più grande, di cui è responsabile. La questione vera è il riconoscere il valore di sé stessi». Ha quindi proseguito: «rispondere soltanto a un bisogno (come può essere il sesso) dimenticando la totalità della propria persona lascia insoddisfatti. Perché il cuore è desiderio di infinito».

I risultati di questo metodo sono ostinatamente sotto gli occhi di tutti, alla faccia degli accusatori che nel 2009 si sono scagliati contro Benedetto XVI il quale ha semplicemente ribadito tutto questo. L’Uganda infatti, -al contrario degli altri paesi africani- negli ultimi dieci anni, ha conosciuto una drastica diminuzione del numero di persone infette da Aids (dal 21% al 7%). Il motivo è che -ha spiegato l’infermiera ugandese- «questo nuovo modo di guardarsi in Uganda ha cambiato tutti. In Uganda abbiamo la fortuna di avere un presidente, Yoweri Museveni, che lo ha capito sin da subito. E ne sono molto orgogliosa. Non è un cattolico, eppure è tra coloro che tre anni fa, nella bufera nata dopo le dichiarazioni del Papa in occasione della sua visita in Africa, si è subito schierato dalla sua parte. Museveni ha da subito affermato che bisogna ritornare alle origini. Perché la nostra “salvezza” non è dentro un pezzo di plastica. Non ci salveremo grazie a un preservativo. Dobbiamo tornare a essere uomini veramente. Uomini che hanno dignità e che hanno valore. Attenzione: questo non è un discorso cattolico, perché questo valore non ce lo dà la religione, e nemmeno il Papa. Il Papa ce lo fa conoscere, ci educa a capire che siamo uomini che hanno un valore infinito. Rispondere al nostro istinto, ai nostri bisogni immediati, è troppo poco per la grandezza del nostro cuore».

Benedetto XVI aveva dunque ragione nel suggerire che è la «riduzione nei partner sessuali» a condurre «a una decrescita delle nuove infezioni da Aids», e non una massiccia diffusione del condom che, al contrario, porta ad un incremento. Questo, lo ha spiegato Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention Research Project al centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo,  è «dovuto in parte a un fenomeno conosciuto come “compensazione di rischio” ». Così, ha proseguito, «il Papa è corretto, o per metterlo in un modo migliore, la migliore evidenza che abbiamo è di supporto alle dichiarazioni del Papa. C’è un’associazione costante, dimostrata dai nostri migliori studi, inclusi i “Demographic Health Surveys”, finanziati dagli Stati Uniti, fra una maggior disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni HIV più alti, non più bassi». Il ricercatore di Harvard nel 2009 ha anche affermato: «Diffondevo contraccettivi in Africa. Oggi dico che solo la fedeltà coniugale batterà l’Aids», mentre la sua università nel 2006 ha premiato suor Miriam Duggan per la sua dedizione ai malati di Aids/Hiv in Uganda, dove il numero dei contagi in Uganda è diminuito, come d’altra parte è stato verificato che nei Paesi africani a maggioranza cattolica è più basso il tasso di diffusione dell’HIV.

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Le vie che portano alla conoscenza di Dio, parla il Papa

Proseguiamo nel pubblicare le riflessioni di Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’Anno della Fede: settimana scorsa il contenuto era la tensione originale verso Dio presente in ogni uomo, mentre qui il Pontefice dialoga con l’ateismo “pratico” moderno, evidenziando tre vie che aiutano ad andare oltre lo scetticismo e arrivare a conoscere Dio.

 

di Benedetto XVI
Udienza Generale, Piazza San Pietro 14 novembre 2012

 

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso abbiamo riflettuto sul desiderio di Dio che l’essere umano porta nel profondo di se stesso. Oggi vorrei continuare ad approfondire questo aspetto meditando brevemente con voi su alcune vie per arrivare alla conoscenza di Dio. Vorrei ricordare, però, che l’iniziativa di Dio precede sempre ogni iniziativa dell’uomo e, anche nel cammino verso di Lui, è Lui per primo che ci illumina, ci orienta e ci guida, rispettando sempre la nostra libertà. Ed è sempre Lui che ci fa entrare nella sua intimità, rivelandosi e donandoci la grazia per poter accogliere questa rivelazione nella fede. Non dimentichiamo mai l’esperienza di sant’Agostino: non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede.

Tuttavia ci sono delle vie che possono aprire il cuore dell’uomo alla conoscenza di Dio, ci sono dei segni che conducono verso Dio. Certo, spesso rischiamo di essere abbagliati dai luccichii della mondanità, che ci rendono meno capaci di percorrere tali vie o di leggere tali segni. Dio, però, non si stanca di cercarci, è fedele all’uomo che ha creato e redento, rimane vicino alla nostra vita, perché ci ama. E’ questa una certezza che ci deve accompagnare ogni giorno, anche se certe mentalità diffuse rendono più difficile alla Chiesa e al cristiano comunicare la gioia del Vangelo ad ogni creatura e condurre tutti all’incontro con Gesù, unico Salvatore del mondo. Questa, però, è la nostra missione, è la missione della Chiesa e ogni credente deve viverla gioiosamente, sentendola come propria, attraverso un’esistenza animata veramente dalla fede, segnata dalla carità, dal servizio a Dio e agli altri, e capace di irradiare speranza. Questa missione splende soprattutto nella santità a cui tutti siamo chiamati.

Oggi – lo sappiamo – non mancano le difficoltà e le prove per la fede, spesso poco compresa, contestata, rifiutata. San Pietro diceva ai suoi cristiani: «Siate sempre pronti a rispondere, ma con dolcezza e rispetto, a chiunque vi chiede conto della speranza che è nei vostri cuori» (1 Pt 3,15). Nel passato, in Occidente, in una società ritenuta cristiana, la fede era l’ambiente in cui si muoveva; il riferimento e l’adesione a Dio erano, per la maggioranza della gente, parte della vita quotidiana. Piuttosto era colui che non credeva a dover giustificare la propria incredulità. Nel nostro mondo, la situazione è cambiata e sempre di più il credente deve essere capace di dare ragione della sua fede. Il beato Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Fides et ratio, sottolineava come la fede sia messa alla prova anche nell’epoca contemporanea, attraversata da forme sottili e capziose di ateismo teorico e pratico (cfr nn. 46-47). Dall’Illuminismo in poi, la critica alla religione si è intensificata; la storia è stata segnata anche dalla presenza di sistemi atei, nei quali Dio era considerato una mera proiezione dell’animo umano, un’illusione e il prodotto di una società già falsata da tante alienazioni. Il secolo scorso poi ha conosciuto un forte processo di secolarismo, all’insegna dell’autonomia assoluta dell’uomo, considerato come misura e artefice della realtà, ma impoverito del suo essere creatura «a immagine e somiglianza di Dio». Nei nostri tempi si è verificato un fenomeno particolarmente pericoloso per la fede: c’è infatti una forma di ateismo che definiamo, appunto, «pratico», nel quale non si negano le verità della fede o i riti religiosi, ma semplicemente si ritengono irrilevanti per l’esistenza quotidiana, staccati dalla vita, inutili. Spesso, allora, si crede in Dio in modo superficiale, e si vive «come se Dio non esistesse» (etsi Deus non daretur). Alla fine, però, questo modo di vivere risulta ancora più distruttivo, perché porta all’indifferenza verso la fede e verso la questione di Dio.

In realtà, l’uomo, separato da Dio, è ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale. Oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli. Le tentazioni che Gesù ha affrontato nel deserto prima della sua missione pubblica, rappresentano bene quegli «idoli» che affascinano l’uomo, quando non va oltre se stesso. Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri. Non è tramontato ciò che la saggezza antica evoca con il mito di Prometeo: l’uomo pensa di poter diventare egli stesso «dio», padrone della vita e della morte.

Di fronte a questo quadro, la Chiesa, fedele al mandato di Cristo, non cessa mai di affermare la verità sull’uomo e sul suo destino. Il Concilio Vaticano II afferma sinteticamente così: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore» (Cost.Gaudium et spes, 19).

Quali risposte, allora è chiamata a dare la fede, con «dolcezza e rispetto», all’ateismo, allo scetticismo, all’indifferenza verso la dimensione verticale, affinché l’uomo del nostro tempo possa continuare ad interrogarsi sull’esistenza di Dio e a percorrere le vie che conducono a Lui? Vorrei accennare ad alcune vie, che derivano sia dalla riflessione naturale, sia dalla stessa forza della fede. Le vorrei molto sinteticamente riassumere in tre parole: il mondo, l’uomo, la fede.

La prima: il mondo. Sant’Agostino, che nella sua vita ha cercato lungamente la Verità ed è stato afferrato dalla Verità, ha una bellissima e celebre pagina, in cui afferma così: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo…, interroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora queste creature così belle, ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è la bellezza in modo immutabile?» (Sermo 241, 2: PL 38, 1134). Penso che dobbiamo recuperare e far recuperare all’uomo d’oggi la capacità di contemplare la creazione, la sua bellezza, la sua struttura. Il mondo non è un magma informe, ma più lo conosciamo e più ne scopriamo i meravigliosi meccanismi, più vediamo un disegno, vediamo che c’è un’intelligenza creatrice. Albert Einstein disse che nelle leggi della natura «si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (Il Mondo come lo vedo io, Roma 2005). Una prima via, quindi, che conduce alla scoperta di Dio è il contemplare con occhi attenti la creazione.

La seconda parola: l’uomo. Sempre sant’Agostino, poi, ha una celebre frase in cui dice che Dio è più intimo a me di quanto lo sia io a me stesso (cfr Confessioni III, 6, 11). Da qui egli formula l’invito: «Non andare fuori di te, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, 39, 72). Questo è un altro aspetto che noi rischiamo di smarrire nel mondo rumoroso e dispersivo in cui viviamo: la capacità di fermarci e di guardare in profondità in noi stessi e leggere quella sete di infinito che portiamo dentro, che ci spinge ad andare oltre e rinvia a Qualcuno che la possa colmare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma così: «Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio» (n. 33).

La terza parola: la fede. Soprattutto nella realtà del nostro tempo, non dobbiamo dimenticare che una via che conduce alla conoscenza e all’incontro con Dio è la vita della fede. Chi crede è unito a Dio, è aperto alla sua grazia, alla forza della carità. Così la sua esistenza diventa testimonianza non di se stesso, ma del Risorto, e la sua fede non ha timore di mostrarsi nella vita quotidiana, è aperta al dialogo che esprime profonda amicizia per il cammino di ogni uomo, e sa aprire luci di speranza al bisogno di riscatto, di felicità, di futuro. La fede, infatti, è incontro con Dio che parla e opera nella storia e che converte la nostra vita quotidiana, trasformando in noi mentalità, giudizi di valore, scelte e azioni concrete. Non è illusione, fuga dalla realtà, comodo rifugio, sentimentalismo, ma è coinvolgimento di tutta la vita ed è annuncio del Vangelo, Buona Notizia capace di liberare tutto l’uomo. Un cristiano, una comunità che siano operosi e fedeli al progetto di Dio che ci ha amati per primo, costituiscono una via privilegiata per quanti sono nell’indifferenza o nel dubbio circa la sua esistenza e la sua azione. Questo, però, chiede a ciascuno di rendere sempre più trasparente la propria testimonianza di fede, purificando la propria vita perché sia conforme a Cristo. Oggi molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu, in un rapporto d’amore con lui. In realtà, a fondamento di ogni dottrina o valore c’è l’evento dell’incontro tra l’uomo e Dio in Cristo Gesù. Il Cristianesimo, prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù. Per questo, il cristiano e le comunità cristiane devono anzitutto guardare e far guardare a Cristo, vera Via che conduce a Dio.

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Il filosofo Scruton e la sessualità priva di ordine naturale

Torniamo a parlare del prestigioso filosofo e docente di filosofia alla St. Andrews University Roger Scruton, intervistato anche da Il Foglio in occasione del suo ultimo libro Our Church (Atlantic Books).

Per l’occasione ha presentato un quadro decisamente chiaro della situazione inglese, e anche europea se vogliamo, circa l’ambito della sessualità: «In Inghilterra le strutture morali sono scomparse e il sesso si è disintegrato», ha detto il filosofo. Analizzando le reazioni al cosiddetto “caso Sevile”,  il presentatore della BBC accusato di molestie sessuali e pedofilia, ha parlato di una «ideologia che vuole ricostruire la sessualità senza legami con l’ordine naturale. Che sia marcusiano o un seguace di Fromm, il liberal vede il sesso come una forza da ‘liberare’ e che ci nuoce quando è ‘repressa’. Freud ha introdotto una sorta di pedofilia vicaria che ci impone di vedere i figli come esseri sessuali impegnati nelle strategie della seduzione».

Il polverone alzato sulla pedofilia nel clero cattolico (negli USA lo 0,2% dei sacerdoti in 50 anni, secondo lo studio P. Jenkins, Pedophiles and Priests. Anatomy of a Contemporary Crisis, Oxford University Press, Oxford – New York 1996rientra, secondo Scruton, in questo piano ideologico: «usano la pedofilia perché non sopportano che i preti possano condurre quel tipo di vita», non sopportano e non capiscono la castità e vogliono dimostrare che non è possibile attuarla.

Citando Foucalt, ha continuato, «si è ‘problematicizzato’ il sesso. Il gesto sessuale è ridotto a funzione corporale emancipata dalla moralità. L’educazione sessuale a scuola cerca di cancellare le differenze fra noi e gli animali, rimuovendo concetti come il proibito, il pericoloso o il sacro. L’iniziazione sessuale significa superare queste emozioni ‘negative’ e godere del ‘buon sesso’. Abbiamo incoraggiato i figli a un interesse depersonalizzato alla sessualità. Il corpo è diventato opaco», lo dimostra -ad esempio- il tentativo dell’asilo svedese Egalia, dove sono state abolite le differenze tra maschi e femmine (detto anche “l’asilo dell’orrore sessuale”).

Sappiamo inoltre che negli Usa, ad esempio, esiste un sempre maggiore interesse mediatico per “normalizzare” agli occhi della società anche i cosiddetti “poliamori”. In questa logica, ha proseguito il filosofo inglese, anche la pedofilia sta smettendo di essere un male in sé: «la pedofilia diventa sbagliata semplicemente perché manca il ‘consenso’, mentre tutto ciò che gli adulti condividono in privato diventa moralmente ineccepibile. E’ lo stesso governo britannico che abbassa l’età consensuale per il sesso omosessuale a sedici anni, una età in cui si va ancora a scuola», sottovalutando «il pericolo di questa entropia sociale».

Passando ad osservare i vari tentativi di equiparare il matrimonio naturale/tradizionale ad altri tipi di unioni umane, essi non sono «una questione terminologica, ma una decisione che modifica l’intera sfera sociale. Dobbiamo prepararci a un nuovo ordine sociale in cui ogni tipo di relazione sessuale può essere trasformata in matrimonio firmando alla giusta riga. E sarà annunciato come un grande passo in avanti per la libertà umana».. Nonostante l’esistenza delle ‘partnership civili’, che conferiscono i benefici legali senza implicare un cambiamento radicale di status del matrimonio, «gli attivisti non sono soddisfatti dei compromessi, non perché non garantiscano sicurezza al loro amore, ma perché implicano che c’è ancora una differenza fra relazioni etero e omosessuali».

Così, ha concluso Scruton, «sono pronti a scagliare l’accusa di ‘omofobia’ contro chiunque, giornalisti, politici, uomini di chiesa. E come altri reati intellettuali, l’omofobia fa sì che l’unico modo per restare al sicuro sia quello di chiudere la bocca».

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Lo stato neutrale e aconfessionale è un’utopia

Pubblichiamo un estratto del discorso del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, in occasione della solennità dell’ordinazione di sant’Ambrogio vescovo e dottore della Chiesa. La tematica è quella sulla libertà religiosa in rapporto all’orientamento dello Stato

 

del card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano
in occasione della solennità dell’ordinazione di sant’Ambrogio, Milano 7 dicembre 2012

 

[…] Sono utili ed appropriati almeno due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il nesso tra libertà religiosa e pace sociale. Non solo la prassi, ma anche diversi studi recenti hanno evidenziato come tra le due realtà esista una correlazione molto stretta. Se astrattamente parlando si potrebbe immaginare che una legislazione in grado di ridurre i margini della diversità religiosa riesca anche a ridurre fino ad eliminare la conflittualità che ne può derivare, di fatto si verifica la situazione esattamente opposta: più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa. Questo risultato è in realtà comprensibile: imporre o proibire per legge pratiche religiose, nell’ovvia improbabilità di modificare pure le corrispondenti credenze personali, non fa che accrescere quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti.

Il secondo problema è ancor più complesso e richiede una riflessione un po’ più articolata. Riguarda la connessione tra libertà religiosa e orientamento dello Stato e, a diversi livelli, di tutte le istituzioni statuali, nei confronti delle comunità religiose presenti nella società civile. L’evoluzione degli Stati democratico-liberali è andata sempre più mutando l’equilibrio su cui tradizionalmente si reggeva il potere politico. Ancora fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte.

Che cosa è accaduto quando questo riferimento, identificato nella sua origine religiosa, è stato messo in questione e ritenuto inutilizzabile? Si sono andate assolutizzando in politica delle procedure decisionali che tendono ad autogiustificarsi in maniera incondizionata. Ne è conferma il fatto che il classico problema del giudizio morale sulle leggi si è andato sempre più trasformando in un problema di libertà religiosa. Di ferita alla libertà religiosa parla in modo esplicito la Conferenza episcopale degli Stati Uniti a proposito dell’HHS Mandate, cioè alla riforma sanitaria di Obama che impone a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione.

Il presupposto teorico dell’evoluzione sopra richiamata si rifà, nei fatti, al modello francese di laicité che è parso ai più una risposta adeguata a garantire una piena libertà religiosa, specie per i gruppi minoritari. Esso si basa sull’idea dell’in-differenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello Stato sono andate sempre più sovrapponendosi, finendo così per confondersi. Nei fatti, per vari motivi ad un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso. Perché? Anzitutto, l’idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto perché essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla.

Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rispettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.

Come ovviare a questo grave stato di cose? Ripensando il tema della aconfessionalità dello Stato nel quadro di un rinnovato pensiero della libertà religiosa. È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune. Conviene tuttavia chiedersi: il modo migliore di affrontare questa delicata situazione è rivendicare una liberty of religion delle diverse comunità, chiedendo il rispetto delle “peculiarità” delle loro sensibilità morali minoritarie? Questa sola richiesta, anche se doverosa, rischia di rafforzare sulla scena pubblica l’idea secondo cui l’identità religiosa è fatta di nient’altro che di contenuti ormai desueti, mitologici e folcloristici. È assolutamente necessario che questa giusta rivendicazione si iscriva in un orizzonte propositivo più largo, dotato di una ben articolata gerarchia di elementi.

Questi troppo rapidi accenni mostrano non solo quanto il tema della libertà religiosa resti complesso, ma soprattutto ci spingono a riconoscere come, oggi più che mai, questo tema rappresenti la più sensibile cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società plurali. Infatti se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla. La libertà religiosa appare oggi come l’indice di una sfida molto più vasta: quella della elaborazione e della pratica, a livello locale ed universale, di nuovi basi antropologiche, sociali e cosmologiche della convivenza propria delle società civili in questo terzo millennio. Ovviamente questo processo non può significare un ritorno al passato, ma deve avvenire nel rispetto della natura plurale della società. Pertanto, come ho avuto modo di dire in altre occasioni, deve prendere l’avvio dal bene pratico comune dell’essere insieme. Facendo poi leva sul principio di comunicazione rettamente inteso, i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti […].

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Nuove crociate laiciste contro il Natale: il caso Caorso-Bruschini

Anche quest’anno, avvicinandoci al 25 dicembre, sono scattate puntuali le crociate laiciste contro il Natale, il presepe, l’albero, i canti natalizi e le immagini tradizionali.

In Francia, a sud di Parigi, si è arrivati addirittura a proibire Babbo Natale, ovviamente secondo la stessa retorica: «per rispettare le diverse credenze e i valori della scuola laica», al suo posto uno spettacolo di marionette. Alcuni si sono affrettati a criticare la scelta sostenendo che Babbo Natale non ha riferimenti religiosi, ma le cose non stanno affatto così. Come ben spiegato da Pietro Barbini su Zenit.it (prima parte e seconda parte), la tradizione di Santa Claus nasce ovviamente dalla venerazione per San Nicola (detto anche San Nicola di Bari, San Nicola Magno o San Nicolò), vescovo di Myra.

Dunque, quei laicisti che eliminano il presepe parlando solo di Babbo Natale, stanno in realtà proponendo ai bambini un personaggio della tradizione cristiana. Abbiano il coraggio e la coerenza di fare un gesto radicale, sradicando davvero ogni riferimento cristiano al Natale e, di conseguenza, recandosi al lavoro il 24, 25, 26 dicembre. Come faranno altrimenti a giustificare a loro stessi e ai figli la loro partecipazione ad una festa cristiana? Quale natalità festeggiano? Di chi si festeggia la nascita?

In Italia la notizia più recente di questa crociata laicista riguarda la cittadina di Caorso, in provincia di Piacenza, dove il dirigente scolastico del’istituto comprensivo, Manuela Bruschini, ha vietato qualsiasi riferimento a temi religiosi nelle iniziative scolastiche per il Natale: «ho dato l’indicazione di evitare immagini e riferimenti religiosi […], qualsiasi cosa indichi un solo culto e non tenga presente tutte le religioni», ha detto la Bruschini. Le proteste dei genitori sono state ovviamente molte, dall’assemblea dell’Associazione dei genitori di Caorso è emerso che «vogliamo che il presepe venga esposto e che durante la recita ci siano anche canti tipici natalizi».

Il caso è diventato di interesse nazionale, una pessima pubblicità per l’istituto scolastico e anche a livello politico si è alzato un coro di proteste bipartisan. Il capogruppo del Pd i nella provincia di Piacenza, Marco Bergonzi, ha affermato: «toccare il Natale ai più piccoli è una vergogna», mentre il consigliere regionale della Lega Nord, Stefano Cavalli, ha detto: «Questo è il multiculturalismo degenere che vorremo vedere morto e sepolto. Siamo indignati». Il sindaco di Caorso, Fabio Callori (Pdl), ha deciso di recarsi nella scuola e donare quattro presepi alle quattro sezioni dell’asilo. «Credo sia un grave errore di valutazione», ha commentato invece mons. Adriano Vincenzi, incaricato Confcooperative per la Cei. «Si pensa che la rinuncia alla propria identità faciliti il dialogo, invece per dialogare è bene conservare la propria identità. Credo non tolga niente a nessuno mettiamo in evidenza la nostra storia e tradizione, la nostra fede».

Ironia della sorte, lo stesso istituto guidato dalla Bruschini è diviso nei comuni di Caorso, Monticelli d’Ongina e San Nazzaro. Il nome di quest’ultimo comune ha un chiaro riferimento alla religione cattolica, è dunque originale che la dirigente scolastica si affanni nel voler cancellare ogni riferimento religioso nella sua scuola, mentre lo stesso Istituto è ospitato all’interno di un Paese dedicato ad un Santo cattolico. Significativo anche il fatto che la cronaca piacentina, in data 18 agosto 2004, abbia riportato la notizia che la Bruschini -iscritta senza imbarazzo al Partito Comunista Italiano e allora assessore alle Politiche Giovanili nella città di Piacenza- ha partecipato, con tanto di corna sulla testa, ad un party goliardico blasfemo e anti-cattolico (parodie delle funzioni domenicali, manifesti con suore in versione pornografica ecc.), «una nottata decisamente alternativa, senza alcun rispetto, se non per la religione cattolica, neppure per la privacy degli avventori, immortalati nelle pose e negli atteggiamenti più stravaganti».

Insomma è evidente che l’iniziativa della Bruschini -come tutte quelle laiciste che puntualmente arrivano in questo periodo- non nasce da un, seppur deleterio, intento di multiculturalismo sfrenato, ma solamente da una ideologica avversione personale alla religione cattolica.

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La ragione cristiana ha demolito astrologia e superstizione


di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 

Il 2009 è stato l’anno dell’astronomia, in cui si ricordano i grandi nomi e le grandi scoperte in questo campo della scienza. L’astronomia è sempre stata uno degli interessi principali dell’uomo, anche se nell’antichità si confondeva spesso con l’astrologia, perché non era tanto una scienza, quanto un’insieme di osservazioni empiriche, anche notevoli ed importanti, ma per lo più unite a considerazioni magiche, superstiziose, fataliste.

Tutti i popoli della terra hanno sollevato gli occhi al cielo, per un innato senso religioso. Hanno tutti chiesto alla luna, come il pastore di Leopardi: “Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna?”, cercando di ottenere da lei una risposta anche sul destino umano. Basti pensare che tutte le cantiche di Dante finiscono con la parola stelle, o che il termine “desiderio”, deriva dal latino, sidera, che significa, appunto, stelle.

Così gli antichi babilonesi e molti altri popoli avevano degli osservatori sopraelevati e cercavano di leggere nel cielo il Destino dell’uomo, redigendo oroscopi. Gli astri e i pianeti erano per gli antichi, e per molti intellettuali e non, del Cinquecento e del Seicento (si pensi a Tommaso Campanella), delle “divinità” capaci di influenzare l’uomo, la sua salute, le sue scelte morali. Platone, un grande filosofo greco del V secolo avanti Cristo, nel suo Timeo definisce le stelle “dei visibili”, e ritiene, come i suoi contemporanei, che sia composto di una quinta essenza, l’etere, che esiste appunto solo nel cielo. Gli astri, per lui, per gli aristotelici e per il cosiddetto sistema aristotelico tolemaico, sono lisci, perfetti, cristallini, si muovono di moto circolare, e cioè perfetto, perché sono, appunto, divini.

Col cristianesimo le cose iniziano a cambiare: il cielo rimane abitato da Dio, metaforicamente, ma le stelle e gli astri vengono ridimensionati. Divengono semplicemente creature di Dio, opere della sua munificenza, che cantano le lodi del Creatore, ma non divinità essi stessi. Uomini, insegna sant’Agostino, siete liberi, le vostre azioni non sono decise dagli astri. Siete voi, come creature spirituali, a scegliere tra il bene e il male, e a decidere della vostra vita. Analogamente l’apologeta cristiano Lattanzio scrive: “Proprio perché gli astri non possono uscire dalle orbite prescritte, appare evidente che non sono dei; se fossero dei li vedremmo trasferirsi qua e là come esseri animati sulla terra che vanno dove vogliono perché le loro volontà sono libere”. Si tratta di un’ acquisizione filosofica fondamentale, che da una parte salva la libertà e l’indipendenza dell’uomo, non più schiavo del Fato, del Destino, del volere delle stelle, come nell’antichità, dall’altra apre allo studio scientifico degli astri.

In quanto agglomerati di materia, infatti, e non dei, possono essere indagati e studiati. San Tommaso, per confutare coloro che ancora credono nell’oroscopo, scrive: “Astri inclinant, non necessitant”, cioè gli astri possono influire sul carattere, sul temperamento di una persona, ma non impongono nulla, necessariamente, alla natura spirituale, libera, dell’uomo, come invece credono i pagani o gli altri popoli della terra, in Asia o in Africa. Nonostante queste importanti riflessioni, scaturite dalla razionalità del cristianesimo, il medioevo mantiene il sistema aristotelico tolemaico e geocentrico degli antichi greci. Solo che inizia sempre più ad interrogarsi: se non sono dei, se non sono entità vive, cioè se non si muovono per forza propria, cosa muove gli astri? Non un’anima divina dentro di loro, dunque, ma qualcosa di altro.

Roberto Grossatesta, un vescovo inglese, nel XIII secolo ipotizza che il moto originario impresso all’atto della creazione, da una sorta di big bang, possa giustificare il moto dei pianeti. Come se dopo l’atto creativo di Dio, tutto l’universo materiale fosse regolato da leggi fisiche, matematiche, poste in essere da un “divino Architetto”. Occorre ora, dunque, cercare in base a quali leggi (nomoi) si muovono le stelle: l’astrologia, o “astro-biologia”, secondo la definizione di A. Koyre (in quanto gli antichi pagani consideravano i pianeti degli “animali viventi”), diventa, piano piano, astro-nomia, studio dei nomoi, delle leggi che muovono le stelle. Per Niccolò Copernico, un sacerdote “polacco” che studia nelle università italiane, autore del De revolutionobus orbium coelestium, il vecchio sistema aristotelico-tolemaico, per quanto ingegnoso, non è credibile, perché troppo complesso, contorto, dispendioso: se un buon orologiaio utilizza il minor numero possibile di meccanismi per ottenere il risultato che cerca, quanto più Dio, che è sommamente intelligente, utilizzerà il metodo più semplice per ottenere i migliori effetti? E il metodo più semplice, afferma Copernico, cioè il più ingegnoso, è immaginare che sia la terra a girare intorno al sole, e non viceversa! A guidare Copernico, dunque, come tutti gli altri grandi padri della scienza, vi sono osservazioni concrete e un’ idea filosofica di fondo: la natura va ammirata, per la sua bellezza, ma non va confusa, come facevano gli antichi pagani, che non avevano il concetto di un Dio trascendente, con il suo Creatore. Al contrario, invece di divinizzarla, e immaginare che sia abitata da dei, demoni, spiriti elementali, gnomi, foletti o quant’altro, tutte forze paurose e misteriose che paralizzano la ricerca e la libertà dell’uomo, occorre scorgere in essa il riflesso della grandezza e dell’intelligenza somma del suo Autore. Esattamente come un osservatore, osservando un bel quadro, vi intravede la bravura e l’abilità del suo pittore, senza per questo confondere artefice ed artefatto.

Anche Keplero, l’autore delle leggi sull’orbita dei pianeti, allontanandosi gradualmente dalle sue convinzioni magico-astrologiche, la pensa nello stesso modo. Mentre discute di numeri, di orbite, di leggi fisiche, scrive, in una sua famosa lettera del 1605 a Herwart von Hohenberg: “Sono molto occupato nello studio delle cause fisiche. Il mio scopo è dimostrare che la macchina celeste può essere paragonata non ad un organismo divino ma piuttosto ad un meccanismo d’orologeria…in quanto quasi tutti i suoi molteplici movimenti si compiono grazie a una sola forza magnetica, molto semplice, come nell’orologio tutti i moti (sono causati) da un semplice peso”. E alla fine del suo “Harmonices mundi”: “grande è il Signore nostro, grande è la sua sapienza, non ha confini; lodatelo voi, o cieli, lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli, lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo finché vivrò…”.

Da Scritti di un pro-life (Fede&Cultura 2009)

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Oxford, due terzi degli inglesi vuole il Cristianesimo a scuola

http://i.telegraph.co.uk/multimedia/archive/01410/oxford_1410375c.jpgDue cittadini britannici su tre sono favorevoli all’insegnamento della religione cristiana a scuola e quasi la metà sostiene che più attenzione dovrebbe essere posta sulla Fede nelle lezioni di Educazione religiosa. Questo, il risultato di un recente sondaggio dell’Università di Oxford, portato avanti dal dipartimento di Scienze della formazione.

Del campione intervistato, due terzi si sono appunto espressi a favore dell’insegnamento della religione di maggioranza nelle classi, inoltre un 38% si è dichiarato favorevole all’introduzione dello studio della Bibbia nel programma scolastico, mentre un 30% si accontenterebbe anche dell’insegnamento del ‘Padre Nostro’ a scuola.

John Keast, presidente del Consiglio d’Educazione religiosa per l’Inghilterra e il Wales, ha dichiarato che l’insegnamento della religione cristiana è troppo debole. Debolezza, che Oxford rintraccia nella paura degli insegnanti”, riluttanti ad affrontare le tematiche cristiane, terrorizzati all’idea d’essere tacciati d’opera di evangelizzazione. Ad ogni modo, quello che emerge dal sondaggio, come evidenzia The Christian Post, è che «mentre il governo rifugge dalle radici cristiane del paese», imponendosi una fantomatica neutralità culturale, «la gente sta venendo privata dell’educazione cristiana che cerca». Sulla questione, è intervenuto il ministro lady Warsi, prima donna musulmana ad entrare nell’esecutivo britannico, dichiarando che la Gran Bretagna dovrebbe diventare un paese dove la gente non si vergogni di dirsi cristiana.

Nicola Z.

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Coscienza e neuro-libertà: il contributo di Tommaso d’Aquino (II° parte)


 
di Alberto Carrara*
*biotecnologo e neuroeticista presso la “Regina Apostolorum” di Roma

 

Dopo aver considerato, nella prima parte, le evidenze neuroscientifiche a disposizione circa il problema della coscienza, dell’identità personale e del libero arbitrio,  in questa seconda parte considererò alcune conclusioni relative a tali esperimenti neuroscientifici.

È fuori discussione e bisogna riconoscere che, almeno a prima vista, i risultati sono sorprendenti. Ciò che ci si aspetterebbe è che l’area mororia della corteccia premotoria non si attivasse prima del prendere coscienza della decisione di eseguire un certo movimento. D’altra parte, però, la sequenza temporale sembra indicare che il cervello prepara il movimento prima che diventiamo coscienti di deciderlo.

In primo luogo, non c’è dubbio che questi risultati costituiscono un gran apporto alla ricerca neuroscientifica. Bisogna però far attenzione all’interpretazione scientifica dei dati concreti e reali che, in non pochi casi, giunge fino ad una vera e propria manipolazione degli stessi. Tutto ciò potrebbe confermare la credenza che sia il nostro cervello una mera macchina causale e che nello spiegare l’agire libero non sia necessaria la coscienza. «Ci troviamo in un settore della scienza moderna nel quale la rigida distinzione tra scienza e filosofia risulta artificiale o, quanto meno, è messa in crisi», come giustamente affermano José Ignacio Murillo e José Manuel Giménez-Amaya[1].

Sono molti i problemi connessi a questi esperimenti. Rimangono ancora problemi tecnici che vengono dibattuti a livello scientifico, specie quelli relativi alla mediazione dell’esperienza soggettiva, la relazione tra coscienza e tempo, la modalità di costruire gli esperimenti, etc. Inoltre, scienziati autorevoli affermano che «la comprensione di come la condotta per propria iniziativa venga codificata dai circuiti neuronali nel cervello umano resta elusiva»[2]. La neurologa e filosofa Adina Roskies è una delle personalità prominenti nel dibattito neuroetico e si occupa da anni di libero arbitrio presso il Dartmouth College ad Hanover, New Hampshire (Stati Uniti). La scienziata, nell’articolo di Kerri Smith, commenta queste evidenze scientifiche affermando che anche se la predizione sia notevole, meglio che il caso, ciò non è sufficiente ad affermare che si possa vedere nel cervello la decisione che la mente prende prima che questa ne divenga cosciente. Tutto quello che questi dati empirici suggeriscono è che vi sono fattori fisici che hanno un certo influsso nella presa di decisione. Ciò però non dovrebbe sorprendere nessuno.

Per filosofi formati in ambito scientifico, questi tipi di studi non costituiscono una buona evidenza dell’assenza di libero arbitrio. Queste sperimentazioni non sono altro che caricature della presa di decisione poichè persino la decisione apparentemente più banale e semplice di prendere un té invece di un caffé, risulta molto più complessa che decidere se premere un pulsante con una mano o con l’altra[3]. Queste critiche della Roskies rispondono al pregiudizio dello stesso Libet che affermava: «è interessante che la maggior parte delle critiche negative alle nostre scoperte e alle loro implicazioni, provengano da filosofi e da altri dotati di una esperienza insignificante nel campo della neuroscienza sperimentale del cervello» [4]. In mezzo a questo dibattito bisogna cercare di chiarire i termini in gioco: libertà umana e coscienza. Come fanno notare José Ignacio Murillo e José Manuel Giménez-Amaya, in tutti questi esperimenti «l’azione libera appare come una causa, vincolata alla coscienza, capace di modificare il mondo fisico. Detto questo, bisogna tenere in considerazione che tale definizione di libertà, anche se può rinvenirsi in qualche autore moderno, non corrisponde al concetto classico di libero arbitrio»[5].

La riflessione sulla coscienza personale e la libertà umana è una sorta di “filo rosso”, una costante che emerge continuamente lungo la storia del pensiero. Per la sua complessità, numerose sono le definizioni e le interpretazioni che si danno della coscienza. Per la neuroscienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, la coscienza è «tra le proprietà più sorprendenti e affascinanti del cervello umano» che consiste proprio nell’essere consapevole (il cervello) della propria consapevolezza; per coscienza «si intende lo stato di consapevolezza della nostra esistenza come entità individuale, che implica il riconoscimento delle proprie azioni e del susseguirsi temporale e sequenziale»[6]. Nella stessa pagina la neuroscienziata sintetizza anche il rapporto tra coscienza, io (Self) e libero arbitrio quando afferma: «la coscienza collega il nostro io con le esperienze degli eventi, in quanto ci consente di comprendere la nostra esistenza come entità pensante, rendendoci responsabili delle nostre azioni»[7]. La coscienza umana sarebbe così una proprietà, una facoltà, una funzione “emergente” (tutti termini mutuati dalle diverse ridefinizioni che la Montalcini propone) del nostro organo cerebrale secondo la teoria di Gerald Edelman di derivazione della coscienza superiore (secondaria o umana) da quella primaria tipica di tutti i vertebrati superiori[8].

Per quanto concerne la coscienza bisogna distinguere alcuni paradigmi tradizionali: secondo l’accezione psicologica, essa significa l’autocoscienza o consapevolezza che l’essere umano ha di se stesso; secondo l’accezione morale, invece, significa la consapevolezza che l’uomo ha della bontà-malizia dei propri atti; infine, secondo l’accezione personalistico-creativa, essa significa una realtà complessa identificata con la parte intima della persona umana, una sorta di “luogo” interno del soggetto dal quale emergono intuizioni e in cui si formano i giudizi morali. Tommaso d’Aquino, che sintetizza una tradizione millenaria, affronta questa problematica in diverse opere, chiarendo in primo luogo che la coscienza non è né un abito, né una facoltà o potenza, ma è un atto. Infatti, la coscienza include un ordine della conoscenza a qualcosa d’appreso, è l’applicazione della synderesis aristotelica alla concretezza di un’azione[9]. Essa allora potrebbe essere definita come «l’intelligenza orientata verso le cose pratiche»[10].

Per quanto concerne, invece, la libertà, in primo luogo, bisogna specificare che l’uomo, giudicando sul proprio agire in virtù della ragione, può giudicare secondo il suo arbitrio, a differenza degli altri animali, poichè conosce la natura del fine (rationem finis) e i mezzi (quod est ad finem) e la loro relazione mutua[11]. Così l’uomo è dotato di libertà, cioè, è causa sui, essendo non soltanto causa del suo movimento, ma essendo anche causa del suo stesso giudizio in virtù del quale può decidere se desidera agire e come realizzare l’atto. La stessa conclusione si trova anche nella Summa di Teologia[12]. La radice della libertà si trova nella ragione che l’uomo possiede. Quest’ultima lo distingue dagli altri animali che agiscono seguendo il proprio giudizio che risulta determinato a un solo oggetto. Pertanto, non sono liberi. Negli animali vi è spontaneità, non libera scelta[13].

Prendendo le mosse dalla proáiresis di Aristotele, la libertà può essere definita come la proprietà specifica della volontà umana (potenza o appetito razionale) in ordine al suo atto caratteristico che è la scelta[14] e che consiste nella capacità di agire in virtù della conoscenza intellettiva di ciò che è buono, del bene, o più precisamente, del bene in quanto bene. Quest’apertura della volontà nella scelta caratterizza uno degli aspetti propri dell’essere umano. Non c’è dubbio che quest’indeterminazione avviene all’interno di un margine di determinazione, anche cerebrale, che è definito dai limiti stessi della natura umana e di ciò che l’uomo può effettivamente compiere. In definitiva, gli esperimenti neuroscientifici, dato che non coinvolgono né un fine precedentemente conosciuto, né la varietà dei mezzi per raggiungerlo (non considerano neppure perciò il loro reciproco rapporto), non sono diretti alla caratterizzazione della libertà umana. Non è in gioco una scelta libera, bensì l’esecuzione di un semplice atto privo di qualsiasi motivazione. Non è contemplata alcuna ragione di bene.

È utile, inoltre, ricordare che nell’agire umano si distingono due cose: la scelta sul da farsi, sempre in potere dell’uomo, e la gestione o esecuzione degli stessi atti, non sempre in suo potere. Per questo non si dice che l’uomo è libero delle sue azioni, ma che è libero della sua scelta, che è il giudizio sul da farsi[15]. A questo punto, se la coscienza è l’atto o «l’intelligenza orientata verso le cose pratiche»[16] e la libertà è quella proprietà specifica della volontà umana in ordine al suo atto caratteristico che è la scelta[17] e che consiste nella capacità di agire in virtù della conoscenza intellettiva di ciò che è buono, del bene, o più precisamente, del bene in quanto bene, allora mi sembra valida la definizione della Montalcini sul rapporto tra coscienza, io (Self) e libero arbitrio: «la coscienza collega il nostro io con le esperienze degli eventi, in quanto ci consente di comprendere la nostra esistenza come entità pensante, rendendoci responsabili delle nostre azioni»[18]. Tale definizione ovviamente va integrata all’interno di un contesto non riduzionistico e materialistico della persona umana. In effetti, la stessa neuroscienziata precisa che «attualmente non sia ancora possibile la comprensione della natura del meccanismo attraverso il quale gli stati interiori si trasformano nel processo della coscienza»[19].

Sembra proprio azzeccata la conclusione che José Ignacio Murillo e José Manuel Giménez-Amaya suggeriscono: «tutto ciò evidenzia, ancora una volta, che per concludere un’approssimazione sperimentale e scientifica a certi problemi, come quello relativo alla libertà, conviene conoscere ciò che le diverse correnti filosofiche hanno già detto»[20]. Le false interpretazioni dei risultati a livello di elettroencefalografia e di immagini di risonanza magnetica funzionale non sono facilmente smascherabili da un pubblico poco esperto. Perciò, al momento di interpretare i dati neuroscientifici c’è bisogno di molta prudenza ed equilibrio. Bisogna ricordare che l’esperienza umana, proprio per essere “umana”, si caratterizza per una ricchezza e una complessità senza paragoni, tant’è che può persino arrivare ad affermare liberamente che la libertà è una mera illusione.

Lo stesso Tolstoi lo riconosceva: «voi dite che io non sono libero… ma chiunque capisce che questa illogica risposta è una inconfutabile prova del mio libero arbitrio»[21].

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Note
[1] J. I. Murillo – J. M. Giménez-Amaya, Tiempo, conciencia y libertad: consideraciones en torno a los experimentos de B. Libet y colaboradores, «Acta Philosophica», 11 (2008), pp. 291-306.
[2] I. Fried (et al.), Internally Generated Preactivation of Single Neurons in Human Medial Frontal Cortex Predicts Volition, «Neuron», 69 (2011), pp. 548-562.
[3] A. Roskies, Neuroscience vs philosophy: Taking aim at free will, «Nature», 477 (2011), pp. 23-25.
[4] B. Libet, The Timing of Mental Events: Libet’s Experimental Findings and Their Implications, «Consciousness and Cognition», 11 (2002), pp. 291-299.
[5] J. I. Murillo – J. M. Giménez-Amaya, o.c., pp. 291-306.
[6] R. Levi-Montalcini, Abbi il coraggio di conoscere, Bur Rizzoli, Milano 2004, p. 25
[7] R. Levi-Montalcini, o.c
[8] G. J. Edelman, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993.
[9] S. Thomas Aquinas, S. Th. I, q.79, a.13, c.
[10] S. Bonaventura, Sent., lib. 2, dist. 39, a. 2, q. 1.
[11] S. Thomas Aquinas, Quaestiones disputatae de Veritate XXIV, a. 1
[12] S. Thomas Aquinas, S. Th. I, q.83, a. 1, c.
[13] S. Thomas Aquinas, Quaestiones disputatae de Veritate XXIV, a. 2.
[14] S. Thomas Aquinas, o.c., a. 6.
[15] S. Thomas Aquinas, Quaestiones disputatae de Veritate XXIV, a. 1, ad. 1.
[16] S. Bonaventura, Sent., lib. 2, dist. 39, a. 2, q. 1.
[17] S. Thomas Aquinas, Quaestiones disputatae de Veritate XXIV, a. 6
[18] S. Thomas Aquinas, o.c..
[19] R. Levi-Montalcini, o.c., pp. 27-28.
[20] J. I. Murillo – J. M. Giménez-Amaya, Tiempo, conciencia y libertad: consideraciones en torno a los experimentos de B. Libet y colaboradores, «Acta Philosophica», 11 (2008), pp. 291-306.
[21] L. Tolstoi, o.c., p. 366.

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