La ragionevolezza della fede. Silenzio, parla il Papa

fede e ragioneProseguiamo nel pubblicare le bellissime riflessioni di Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’Anno della Fede. Il 7 novembre ha parlato della tensione originale verso Dio presente in ogni uomo, il 21 novembre ha evidenziato tre vie che aiutano a superare lo scetticismo, arrivando a conoscere Dio. In questo terzo discorso parla della razionalità della fede cattolica.

 

di Benedetto XVI
Udienza Generale, 21 novembre 2012

 

Cari fratelli e sorelle,

avanziamo in quest’Anno della fede, portando nel nostro cuore la speranza di riscoprire quanta gioia c’è nel credere e di ritrovare l’entusiasmo di comunicare a tutti le verità della fede. Queste verità non sono un semplice messaggio su Dio, una particolare informazione su di Lui. Esprimono invece l’evento dell’incontro di Dio con gli uomini, incontro salvifico e liberante, che realizza le aspirazioni più profonde dell’uomo, i suoi aneliti di pace, di fraternità, di amore. La fede porta a scoprire che l’incontro con Dio valorizza, perfeziona ed eleva quanto di vero, di buono e di bello c’è nell’uomo. Accade così che, mentre Dio si rivela e si lascia conoscere, l’uomo viene a sapere chi è Dio e, conoscendolo, scopre se stesso, la propria origine, il proprio destino, la grandezza e la dignità della vita umana.

La fede permette un sapere autentico su Dio che coinvolge tutta la persona umana: è un “sàpere”, cioè un conoscere che dona sapore alla vita, un gusto nuovo d’esistere, un modo gioioso di stare al mondo. La fede si esprime nel dono di sé per gli altri, nella fraternità che rende solidali, capaci di amare, vincendo la solitudine che rende tristi. Questa conoscenza di Dio attraverso la fede non è perciò solo intellettuale, ma vitale. E’ la conoscenza di Dio-Amore, grazie al suo stesso amore. L’amore di Dio poi fa vedere, apre gli occhi, permette di conoscere tutta la realtà, oltre le prospettive anguste dell’individualismo e del soggettivismo che disorientano le coscienze. La conoscenza di Dio è perciò esperienza di fede e implica, nel contempo, un cammino intellettuale e morale: toccati nel profondo dalla presenza dello Spirito di Gesù in noi, superiamo gli orizzonti dei nostri egoismi e ci apriamo ai veri valori dell’esistenza.

Oggi in questa catechesi vorrei soffermarmi sulla ragionevolezza della fede in Dio. La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. Credo quia absurdum (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il «sole», Dio, perché è accoglienza della sua rivelazione nella storia e, per così dire, riceve veramente tutta la luminosità del mistero di Dio, riconoscendo il grande miracolo: Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza, accondiscendendo al limite creaturale della sua ragione (cfr Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 13).

Allo stesso tempo, Dio, con la sua grazia, illumina la ragione, le apre orizzonti nuovi, incommensurabili e infiniti. Per questo, la fede costituisce uno stimolo a cercare sempre, a non fermarsi mai e a mai quietarsi nella scoperta inesausta della verità e della realtà. E’ falso il pregiudizio di certi pensatori moderni, secondo i quali la ragione umana verrebbe come bloccata dai dogmi della fede. E’ vero esattamente il contrario, come i grandi maestri della tradizione cattolica hanno dimostrato. Sant’Agostino, prima della sua conversione, cerca con tanta inquietudine la verità, attraverso tutte le filosofie disponibili, trovandole tutte insoddisfacenti. La sua faticosa ricerca razionale è per lui una significativa pedagogia per l’incontro con la Verità di Cristo. Quando dice: «comprendi per credere e credi per comprendere» (Discorso 43, 9: PL 38, 258), è come se raccontasse la propria esperienza di vita. Intelletto e fede, dinanzi alla divina Rivelazione non sono estranei o antagonisti, ma sono ambedue condizioni per comprenderne il senso, per recepirne il messaggio autentico, accostandosi alla soglia del mistero. Sant’Agostino, insieme a tanti altri autori cristiani, è testimone di una fede che si esercita con la ragione, che pensa e invita a pensare. Su questa scia, Sant’Anselmo dirà nel suo Proslogion che la fede cattolica è fides quaerens intellectum, dove il cercare l’intelligenza è atto interiore al credere. Sarà soprattutto San Tommaso d’Aquino – forte di questa tradizione – a confrontarsi con la ragione dei filosofi, mostrando quanta nuova feconda vitalità razionale deriva al pensiero umano dall’innesto dei principi e delle verità della fede cristiana.

La fede cattolica è dunque ragionevole e nutre fiducia anche nella ragione umana. Il Concilio Vaticano I, nella Costituzione dogmatica Dei Filius, ha affermato che la ragione è in grado di conoscere con certezza l’esistenza di Dio attraverso la via della creazione, mentre solo alla fede appartiene la possibilità di conoscere «facilmente, con assoluta certezza e senza errore» (DS 3005) le verità che riguardano Dio, alla luce della grazia. La conoscenza della fede, inoltre, non è contro la retta ragione. Il Beato Papa Giovanni Paolo II, infatti, nell’Enciclica Fides et ratio, sintetizza così: «La ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole» (n. 43). Nell’irresistibile desiderio di verità, solo un armonico rapporto tra fede e ragione è la strada giusta che conduce a Dio e al pieno compimento di sé.

Questa dottrina è facilmente riconoscibile in tutto il Nuovo Testamento. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, sostiene, come abbiamo sentito: «Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,22-23). Dio, infatti, ha salvato il mondo non con un atto di potenza, ma mediante l’umiliazione del suo Figlio unigenito: secondo i parametri umani, l’insolita modalità attuata da Dio stride con le esigenze della sapienza greca. Eppure, la Croce di Cristo ha una sua ragione, che San Paolo chiama: ho lògos tou staurou, “la parola della croce” (1 Cor 1,18). Qui, il termine lògos indica tanto la parola quanto la ragione e, se allude alla parola, è perché esprime verbalmente ciò che la ragione elabora. Dunque, Paolo vede nella Croce non un avvenimento irrazionale, ma un fatto salvifico che possiede una propria ragionevolezza riconoscibile alla luce della fede. Allo stesso tempo, egli ha talmente fiducia nella ragione umana, al punto da meravigliarsi per il fatto che molti, pur vedendo le opere compiute da Dio, si ostinano a non credere in Lui. Dice nella Lettera ai Romani: «Infatti le … perfezioni invisibili [di Dio], ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (1,20). Così, anche S. Pietro esorta i cristiani della diaspora ad adorare «il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). In un clima di persecuzione e di forte esigenza di testimoniare la fede, ai credenti viene chiesto di giustificare con motivazioni fondate la loro adesione alla parola del Vangelo, di dare la ragione della nostra speranza.

Su queste premesse circa il nesso fecondo tra comprendere e credere, si fonda anche il rapporto virtuoso fra scienza e fede. La ricerca scientifica porta alla conoscenza di verità sempre nuove sull’uomo e sul cosmo, lo vediamo. Il vero bene dell’umanità, accessibile nella fede, apre l’orizzonte nel quale si deve muovere il suo cammino di scoperta. Vanno pertanto incoraggiate, ad esempio, le ricerche poste a servizio della vita e miranti a debellare le malattie. Importanti sono anche le indagini volte a scoprire i segreti del nostro pianeta e dell’universo, nella consapevolezza che l’uomo è al vertice della creazione non per sfruttarla insensatamente, ma per custodirla e renderla abitabile. Così la fede, vissuta realmente, non entra in conflitto con la scienza, piuttosto coopera con essa, offrendo criteri basilari perché promuova il bene di tutti, chiedendole di rinunciare solo a quei tentativi che – opponendosi al progetto originario di Dio – possono produrre effetti che si ritorcono contro l’uomo stesso. Anche per questo è ragionevole credere: se la scienza è una preziosa alleata della fede per la comprensione del disegno di Dio nell’universo, la fede permette al progresso scientifico di realizzarsi sempre per il bene e per la verità dell’uomo, restando fedele a questo stesso disegno.

Ecco perché è decisivo per l’uomo aprirsi alla fede e conoscere Dio e il suo progetto di salvezza in Gesù Cristo. Nel Vangelo viene inaugurato un nuovo umanesimo, un’autentica «grammatica» dell’uomo e di tutta la realtà. Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La verità di Dio è la sua sapienza che regge l’ordine della creazione e del governo del mondo. Dio che, da solo, “ha fatto cielo e terra” (Sal 115,15), può donare, egli solo, la vera conoscenza di ogni cosa creata nella relazione con lui» (n. 216). Confidiamo allora che il nostro impegno nell’evangelizzazione aiuti a ridare nuova centralità al Vangelo nella vita di tanti uomini e donne del nostro tempo. E preghiamo perché tutti ritrovino in Cristo il senso dell’esistenza e il fondamento della vera libertà: senza Dio, infatti, l’uomo smarrisce se stesso. Le testimonianze di quanti ci hanno preceduto e hanno dedicato la loro vita al Vangelo lo confermano per sempre. E’ ragionevole credere, è in gioco la nostra esistenza. Vale la pena di spendersi per Cristo, Lui solo appaga i desideri di verità e di bene radicati nell’anima di ogni uomo: ora, nel tempo che passa, e nel giorno senza fine dell’Eternità beata.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Nuovi documenti di Israele scagionano Pio XII: nessuna accusa

Pio XII 3Che le accuse contro i presunti silenzi di Pio XII nascondano spesso una forma di anticattolicesimo è dimostrato dall’immane polemica sorta su questo tema. All’epoca infatti, sia alcune organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, sia capi di Stato di paesi occidentali, non denunciarono ad alta voce il genocidio ebraico, e se sono nate polemiche riguardo a questo, non hanno certamente raggiunto un livore paragonabile a quello effettuato contro Pacelli.

Eppure gli Alleati si macchiarono di politiche alquanto controverse durante la guerra. Superfluo è parlare di Stalin che verso gli ultimi anni di vita manifestò un antisemitismo che aveva poco da invidiare a quello di Hitler (esemplare è il cosiddetto “complotto dei camici bianchi”). Già durante la guerra però, il dittatore sovietico si dimostrò indifferente al loro destino: gli ebrei polacchi, che per sfuggire all’oppressione tedesca si rifugiarono nella parte della Polonia occupata dalla Russia, vennero imprigionati dalle autorità sovietiche e deportati in “insediamenti speciali”.

Anche gli angloamericani non furono però immuni da critiche. Sia l’Inghilterra che l’America chiusero le porte ai rifugiati ebrei in fuga dalla Shoah per il timore che agenti nemici potessero attraversare i confini camuffati da rifugiati ebrei (spesso la semplice nazionalità era un motivo più che sufficiente per essere visti come sospetti). Eppure la conoscenza dell’Olocausto di Churchill e Roosevelt era sicuramente maggiore di quella del Papa, per il fatto che i loro servizi segreti erano riusciti a decifrare le comunicazioni in codice delle SS.

I due leader occidentali però erano intenzionati per prima cosa a vincere la guerra, lasciando in secondo piano l’obbiettivo di fermare il genocidio. Un esempio di questo particolare atteggiamento è dato dal rifiuto di bombardare i convogli ferroviari che portavano ai campi di concentramento: gli Alleati non li distrussero perché non volevano impegnare in queste operazioni, considerate secondarie, risorse essenziali per lo sforzo bellico. Preferirono perciò bombardare le fabbriche di armi tedesche piuttosto che arrestare la macchina di sterminio degli ebrei.

Gli stessi appelli che gli Alleati fecero al pontefice per una chiara denuncia devono essere visti in questo senso: essi servivano principalmente come arma di propaganda. Pio XII dichiarò all’ambasciatore Myron Taylor, che lo sollecitava ad una pubblica denuncia dei crimini hitleriani, che non avrebbe potuto condannare le atrocità naziste senza condannare allo stesso tempo le atrocità di Stalin (cosa che Roosevelt aveva chiesto di non fare) e fece anche notare il paradosso del fatto che gli Alleati chiedevano una chiara denuncia quando loro non avevano fatto nulla di simile (Giovanni Sale, Il novecento tra genocidi, paure e speranze, Milano 2006 p. 241). Dichiarazioni esplicite che non arrivarono da Pio XII poiché, come più volte è stato sottolineato, esse avrebbero avuto la conseguenza di peggiorare, per reazione, la gravità della situazione e le condizioni degli ebrei e dei cattolici tedeschi (un assaggio di questo lo si era visto dopo la lettura nelle chiese tedesche dell’enciclica Mit brennender Sorgefortemente anti-nazista: vennero  infatti inasprite le persecuzioni contro i cattolici e deportati migliaia di sacerdoti)

Si ebbero delle critiche nell’immediato dopoguerra sul fatto che si sarebbe potuto fare di più per fermare lo sterminio, ma queste non riguardarono la Chiesa, ma i paesi Alleati. E’ emerso recentemente un documento, il “Memorandum dell’Irgum Zvai Leumi”, redatto dal gruppo sionista che operò in Palestina dal 1931 al 1948, consegnato nel 1947 all’ONU. In questo memorandum non c’è traccia di accuse alla Chiesa e nemmeno a Pio XII (neppure citato), ma si attacca in particolare modo la politica alleata, in particolare quella inglese rea, tra le altre cose, di aver sbarrato le porte della Palestina agli ebrei in fuga dall’Europa: «due mesi dopo la caduta di Praga – si legge a pagina 11 – quando è stato dato il segnale per lo stermino del nostro popolo, veniva pubblicato il “White paper” (libro bianco) annunciante lo sterminio di otto milioni di ebrei». Accuse altrettanto pesanti vennero rivolte nel documento al Gran muftì di Gerusalemme, Amin el-Husseini, che trovò accoglienza a Berlino, dove i nazisti crearono per lui uno speciale ufficio “Büro des Grossmufti” (Livio Spinelli, Nuovi documenti di Israele scagionano papa Pacelli, Zenit, 14/10/2012).

Nonostante le ambiguità, Churchill e Roosevelt sono generalmente visti in modo positivo e le loro critiche vengono generalmente giustificate da vari fattori quali la drammaticità della guerra, l’inconsapevolezza della reale dimensione dell’Olocausto fino a quasi la fine della guerra e anche perché una pubblica denuncia non sarebbe stata comunque in grado di fermare lo sterminio. Giustificazioni però che non sembrano valere per il papa, la cui mancata denuncia equivale per molti ad una prova di filonazismo.

Approccio che molti storici stanno iniziando a combattere, come per esempio, il giornalista ebreo Paolo Mieli che ha dichiarato: «Prendere per buone le accuse a Pacelli equivale a trascinare sul banco dei presunti rei con gli stessi capi d’imputazione, Roosevelt e Churchill accusandoli di non aver pronunciato parole più chiare nei confronti delle persecuzioni antisemite» (G.M. Vian, In difesa di Pio XII, Marsilio 2009). Lo stesso Mieli ha perso dei familiari nel genocidio, ma riconosce l’opera di soccorso del pontefice in favore dei perseguitati e definisce una mistificazione qualunque sua complicità con Hitler: «Io non ci sto a mettere i miei morti sul conto di una persona che non ha responsabilità» ha tenuto a precisare.

Mattia Ferrari

&nbsp

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’eliocentrismo ha messo in crisi la teologia? No, ha elevato l’uomo

uomo eliocentrismo teologia
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 

L’effetto più evidente, per l’osservatore superficiale, della rivoluzione astronomica, è la fine del sistema aristotelico-tolemaico, e di conseguenza del geocentrismo. Su questa semplificazione sono nate tante affermazioni errate.

Si dice spesso, infatti, che l’eliocentrismo copernicano, che in verità verrà dimostrato solamente all’inizio dell’Ottocento, avrebbe avuto conseguenze filosofiche e teologiche mettendo in crisi l’antropocentrismo biblico. L’uomo si sarebbe cioè ritrovato piccolo, e insignificante, spodestato e detronizzato, sperso in un universo sempre più grande: non più al centro del mondo.

In realtà è vero il contrario. Tutto il pensiero antico, greco, persiano, indiano, arabo, in una parola astrologico, era cosmocentrico, non antropocentrico, e la Terra era al centro fisico dell’Universo, nel sistema aristotelico tolemaico, non per la sua maggiore dignità, ma al contrario, per la sua miseria e insignificanza, rispetto agli altri corpi celesti. L’astrologia, combattuta prima dal pensiero cristiano, poi sconfitta dalla rivoluzione astronomica e scientifica e dalle condanne papali, sino a Sisto V (bolla Coeli et terrae, 1586), si fondava cioè sull’idea del cielo come “causa efficiente universale”, espressa ad esempio dal medico-astrologo Pietro D’Abano, nel XIII secolo: “questo mondo inferiore (la Terra, ndr) è in necessaria continuità con i movimenti sovrastanti: così che tutta la sua potenza è governata dall’alto. Il mutamento delle cose terrestri in relazione a questo o quell’individuo deriva dal mutamento dei corpi celesti. Pertanto colui che intende investigare le cause delle cose dovrebbe innanzitutto contemplare i corpi celesti” ( Il Rinascimento italiano e l’Europa, Vol. V, le scienze, pag. 51, Fondazione Cassamarca, Vicenza 2008).

Tutto ciò che succede sulla Terra, infimo tra i pianeti, dunque, sarebbe determinato dai corpi superiori, dai cui effetti nefasti occorrerebbe sempre difendersi (vedi il De siderali fato vitando di Tommaso Campanella)! Osservando i cieli, scoprendo col cannocchiale che la luna ha avvallamenti e asperità e che il sole ha delle macchie, e va quindi spegnendosi, Galileo Galilei farà tramontare definitivamente l’idea pagana dei pianeti divini, anche se proprio in quegli anni molti ammiratori di Platone e della magia stavano cercando di far rinascere antichi culti pagani del sole, giustificandoli alla luce dell’ eliocentrismo copernicano (se il sole è al centro, sostenevano, è proprio perché è un dio, come volevano gli egizi e gli altri popoli panteisti). Così facendo, come lui stesso ebbe a dire, Galilei non abbassava la dignità della Terra – “nobilissima ed ammirabile”, e non già, come per gli aristotelici, “sentina di terrene sordidezze e brutture” (Dialogo)-, ma al contrario la elevava al livello degli altri corpi celesti, riaffermando, indirettamente, la centralità non più solo geografica, materiale, ma finalmente sostanziale, spirituale, dell’uomo: non sono le stelle che comandano sugli uomini, come già avevano detto Lattanzio, Agostino, ecc., ma gli uomini che studiano e comprendono le leggi che regolano gli astri, definitivamente ridotti a materia creata in movimento.

A coloro che, nonostante tutto, non volevano rassegnarsi all’idea di un mondo che non fosse dio, e che pensavano di trarre, dalle nuove nozioni sulla grandezza del cosmo, motivazioni per sminuire la centralità dell’uomo, mantenendo surrettiziamente la divinità degli astri attraverso la divinizzazione di un Universo “infinito”, cioè divino, avrebbe risposto il filosofo e matematico copernicano Blaise Pascal“L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non è necessario che l’universo si armi per distruggerlo: basta un vapore, una goccia d’acqua per ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo distruggesse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che l’uccide, perché sa di morire… l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità … attraverso lo spazio l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto, attraverso il pensiero io lo comprendo”.

L’uomo, insomma, che scruta ogni cosa, osserva i cieli, interroga la natura, e si chiede il senso della sua esistenza, è il vero ed unico vertice del creato, perché unisce, alla natura corporea, che lo accomuna a tutte le altre cose, una natura spirituale. Questo pensano i padri dell’astronomia, tutti, nessuno escluso. Lui solo, solo l’uomo, dunque, è portatore di una scintilla divina, a immagine e somiglianza di Dio, mentre il cosmo, lungi dall’ essere il luogo di mille paralizzanti divinità e spiriti, come è ancora oggi per molti popoli, gli è stato affidato come un giardino, di cui servirsi, ma anche da custodire, con cura e responsabilità. L’uomo guarda e indaga, liberamente, il cielo, dunque, perché è il cuore, il centro dell’universo.

Da Scritti di un pro-life (Fede&Cultura 2009)

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il Papa e i gay: ecco la doppia bufala inventata dai media

Papa con Rebecca KadagaDopo lo sbarco su Twitter, il Papa rischiava di diventare troppo popolare. Urgeva restituirgli l’immagine stereotipata dell’uomo nero, così familiare ai laici di casa nostra. I nostri organi d’informazione non si sono fatti pregare e hanno sferrato contro Benedetto XVI un tremendo uno-due, roba da mettere al tappeto anche Mike Tyson.

 

1) IL PAPA HA BENEDETTO CHI METTE A MORTE I GAY?
Ha cominciato il “Fatto Quotidiano”, titolando telegraficamente: “Il Papa benedice promotrice legge che prevede pena di morte per gay in Uganda”. Così, secco. Poi uno approfondisce e scopre che la tipa, tale Rebecca Kadaga, è la presidentessa del Parlamento ugandese. Che ieri è stata ricevuta in Vaticano insieme a un’intera delegazione di parlamentari del Paese africano, in visita a Roma per partecipare, senza che nessuno se ne scandalizzi, nientemeno che alla settima Assemblea Consultiva dei parlamentari per la Corte penale internazionale ed alla Conferenza parlamentare mondiale sui diritti umani (tanto per avere un’idea, proprio la Kadaga sarà relatrice sul tema “Rafforzamento dello Stato di Diritto e del Sistema Giudiziario attraverso l’effettiva applicazione del Principio di Complementarità”, come potete leggere qui). Se si va ancora più a fondo, si scopre che la donna politica ugandese non è la presentatrice della proposta di legge ribattezzata “Kill the gays bill”, anche se ha rilasciato dichiarazioni in suo sostegno; che la legge, nella sua ultima versione, non prevede più in alcun caso la pena di morte; che, in ogni modo, sia la Chiesa Cattolica ugandese che la Santa Sede si sono già espresse contro di essa da molto tempo. Insomma, si scopre che quella montata dal “Fatto”, a cui si sono accodati tutti i pennivendoli nostrani, è un’indegna strumentalizzazione, per non dire una vergognosa bufala.

 

2) IL PAPA CONSIDERA GLI OMOSESSUALI PERICOLOSI PER LA PACE?
Altro giro, altra corsa: come ogni anno, il Santo Padre ha diffuso il suo Messaggio (scritto in realtà il giorno dell’Immacolata) per la Giornata Mondiale della Pace, che ricorrerà come di consueto il 1° gennaio. Il documento non fa altro che ricalcare le storiche posizioni del Magistero della Chiesa a proposito della pace. Essa non è, con buona pace dei fricchettoni di ogni latitudine, semplice assenza di conflitto, o “volemose bene”. La vera pace è, come scrisse Agostino, “tranquillità nell’ordine”. Di più: come si legge in Isaia (Is 32, 17) e come ripete san Tommaso nella sua Summa, la pace è frutto della giustizia (“opus iustitiae pax” fu anche il motto papale di Pio XII), cioè – in ultima analisi – della verità. Scrive dunque Benedetto XVI che “la negazione di ciò che costituisce la vera natura dell’essere umano, nelle sue dimensioni essenziali, nella sua intrinseca capacità di conoscere il vero e il bene e, in ultima analisi, Dio stesso, mette a repentaglio la costruzione della pace”, in ciò riprendendo anche la roncalliana Pacem in terris, pure considerata uno dei simboli della rottura vaticansecondista, laddove essa affermava che “le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti [tra gli uomini e tra i popoli] vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana” (Pacem in terris, 4) e che Dio è “la sorgente più profonda da cui soltanto può attingere la sua genuina vitalità una convivenza fra gli esseri umani ordinata, feconda, rispondente alla loro dignità di persone (ibidem, 20). Però uno è il “Papa Buono”, l’altro il malvagio “Pastore Tedesco”. Misteri della vita.

Da questa visione, che rifiuta il soggettivismo e mette in guardia dall’idea “di una morale totalmente autonoma, che preclude il riconoscimento dell’imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo”, derivano secondo il Papa una serie di conseguenze. In primo luogo, la necessità del rispetto della vita umana e una condanna senza appello dell’aborto: “la fuga dalle responsabilità, che svilisce la persona umana, e tanto più l’uccisione di un essere inerme e innocente, non potranno mai produrre felicità o pace”. Quindi – e veniamo al punto dolente – il tema della famiglia. Quasi per inciso, Benedetto XVI ammonisce rispetto ai tentativi di rendere l’unione familiare “giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione che, in realtà, la danneggiano e contribuiscono alla sua destabilizzazione, oscurando il suo carattere particolare e il suo insostituibile ruolo sociale”. Si noti che gli omosessuali non vengono neanche esplicitamente nominati, anche se il riferimento è chiaro. Nel capoverso successivo, infine, si afferma che la negazione di tali principi, in primis quello del rispetto della vita, “costituisce un’offesa contro la verità della persona umana”, quindi – in piena coerenza con le premesse generali – “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”.

Apriti cielo. “Il Papa: i gay minacciano la pace mondiale”, hanno strillato i giornaloni. La solita Concia si è prontamente mobilitata, accusando Benedetto XVI di “alimentare l’odio” contro gli omosessuali e assicurando, quale esperta in materia, che le parole del Papa vanno “contro qualsiasi messaggio cristiano”. Si è sollevato presto un polverone, insomma, su un documento che nessuno di quelli che ne parlano (a sproposito) ha neanche letto.

E dire che, sulle tematiche economico-sociali, Benedetto XVI scrive cose molto significative, riprovando il fatto che, “presso porzioni crescenti dell’opinione pubblica, le ideologie del liberismo radicale e della tecnocrazia insinuano il convincimento che la crescita economica sia da conseguire anche a prezzo dell’erosione della funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali”. Esorta a valorizzare adeguatamente il lavoro, che non può essere ridotto a “variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”, sacrificato sull’altare della “massimizzazione del profitto e del consumo, in un’ottica individualistica ed egoistica”. Anche qui, il Papa invita a riscoprire la logica del bene comune e di una società organicamente ordinata. Considerazioni che potrebbero suscitare interesse anche a sinistra, se quest’ultima non avesse smesso di occuparsi della povera gente per dedicarsi, per dirla con Bertinotti-Guzzanti, alla difesa “degli omosessuali e di alcune felci” (vedi video).

Di tutta la profondità della riflessione del Papa, dunque, resta solo il titolo scandalistico a caratteri cubitali, buono a suscitare l’indignazione dei guardiani del politicamente corretto. La Chiesa non viene più intesa dal mondo contemporaneo non perché, come affermò il defunto cardinal Martini, essa è rimasta indietro di duecento anni. Semplicemente, il Magistero di Papa Benedetto vola troppo alto per poter essere compreso da un mondo che ha mandato il cervello all’ammasso, rinunciando a fare uso della ragione, quella vera. Troppo alto per gli orizzonti limitati della Concia e dei suoi accoliti, che pure plasmano a proprio gusto un’opinione pubblica rincretinita. Il dramma è tutto qui.

Marco Mancini, da Campari & De Maistre

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Una svolta nell’ebraismo: Gesù era atteso da sempre

il vangelo ebraico 
 
di Marco Fasol*
*saggista e professore di storia e filosofia

 

Daniel Boyarin è una delle voci più autorevoli dell’ebraismo contemporaneo. E’ professore di Cultura talmudica e di Retorica all’Università di Berkeley in California ed è riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori, se non il maggiore esperto del Talmud e come un grande divulgatore della cultura ebraica. Nei mesi scorsi ha pubblicato a New York il testo Il vangelo ebraico (ed. Castelvecchi 2012) che ha avuto un grande successo negli Usa.

Come ha scritto Elliot Wolfson, professore di lingua e storia ebraica all’Università di New York, “Quest’affascinante ricostruzione della storia di Gesù cambierà l’idea delle persone sulle origini del cristianesimo e sul suo complicato rapporto con l’ebraismo.” Qual è la grande novità scoperta da questa autorità mondiale  dell’ebraismo? Boyarin sostiene che i vangeli cristiani hanno una profonda continuità con le tradizioni ebraiche, in particolare con le profezie messianiche dell’Antico Testamento.

Riassumo brevemente le sue tesi principali che segnano una svolta nell’interpretazione delle aspettative dell’ebraismo ai tempi di Gesù e rimettono in discussione la divisione millenaria tra ebraismo e cristianesimo.

Partiamo con alcune importantissime profezie messianiche che hanno alimentato per secoli la speranza di Israele. Il Salmo 2, collocato proprio all’inizio delle preghiere israelitiche ufficiali, presenta il Messia, in greco il Cristo, cioè l’unto con olio di consacrazione, quale re terrestre d’Israele, adottato da Dio. “Io oggi ti ho generato”, dice Dio al re, e questo significa: “Tu sei stato posto sul trono”. Infatti quell’”oggi” può solo significare il giorno dell’intronizzazione. Questa figliolanza divina del Messia viene ripresa nel Salmo 110, che fissa l’idea di un Messia elevato in cielo e seduto alla destra della potenza di Dio.  Anche qui Dio dice al re “Io ti ho generato… siedi alla mia destra finchè io non ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Questi due Salmi sono citati di frequente nei Vangeli e questo ci lascia intuire che si trattava di profezie molto importanti per le aspettative giudaiche dei contemporanei di Gesù.

In seguito, prosegue Boyarin, accadde qualcosa di drammatico nella storia d’Israele. Nel 587 a.C. Nabucodonosr espugnò Gerusalemme, che fu rasa al suolo, mentre gli Israeliti vennero deportati in esilio. Il popolo pregava allora il Signore che concedesse un nuovo re, del casato di David, e nacque così la nozione di redentore promesso. E’ in questo contesto post-esilico che si colloca un’altra celeberrima profezia, nel libro del profeta Daniele:  “Guardando ancora nelle visioni notturne ecco apparire uno simile ad un figlio di uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno. Tutti i popoli nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14).

Questo testo “divenne uno dei più influenti dell’ebraismo moderno”  scrive Boyarin e prosegue con un’impressionante descrizione analitica: il profeta ha una visione in cui vi sono due figure divine, una descritta come un uomo anziano, Antico di Giorni che siede sul trono. Ma Daniele ci informa che vi è un altro trono ed un’altra figura divina in forma “simile a un figlio di uomo” , portato tra le nuvole ed investito dall’Antico di Giorni, nel corso di una cerimonia che assomiglia moltissimo al passaggio della torcia da un vecchio re ad uno giovane, secondo un cerimoniale del vicino oriente. A questa seconda figura divina verrà dato il potere e il regno, ed un eterno dominio sul mondo intero, in accordo definitivo e completo con l’Antico di giorni. Questa visione diverrà nel corso del tempo la storia del Padre e del Figlio.  Ricapitoliamo le caratteristiche di questo Figlio dell’Uomo: è divino; è in forma umana; potrebbe essere raffigurato come una Divinità più giovane rispetto all’Antico di giorni; sarà intronizzato nell’alto dei cieli; riceverà potere e dominio, persino sovranità sul mondo intero.

Tutte queste caratteristiche di Gesù Cristo compariranno nei Vangeli ed appaiono in questo testo almeno più di un secolo prima di Gesù. Ad un certo punto, prosegue Boyarin, nella mentalità ebraica, questa profezia si fuse con quella di un re davidico e così nacque l’idea di un Messia umano e divino. Tale figura fu poi battezzata come Figlio dell’Uomo, con un’allusione alla figura divina simile ad un Figlio dell’Uomo del profeta Daniele. Bisogna aggiungere poi che l’evangelista Marco sottolinea fin dall’inizio, nel capitolo secondo del suo vangelo, che questo Figlio dell’Uomo ha caratteri divini: ha il potere di rimettere i peccati, come si vede nella guarigione del paralitico, ed è il Signore del Sabbath, come si vede nella sua difesa dei discepoli che raccoglievano il grano in giorno di sabato. Evidentemente non ha caratteri umani!

E quando il sommo sacerdote Caifa chiede a Gesù: “Sei tu il Cristo, il figlio di Dio benedetto?” Gesù risponde: “Io lo sono. Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”. Le nubi del cielo, nella simbologia del giudaismo dell’epoca, si riferiscono ad una teofania, cioè all’apparizione di un essere divino. Se la visione di Daniele non si riferisse ad un essere divino, allora sarebbe l’unica eccezione su circa settanta passi dell’Antico Testamento!

Allora possiamo concludere che “l’idea di un secondo Dio che fungesse da vicerè per Dio Padre è una delle concezioni teologiche più antiche in Israele.” (Boyarin, pag. 55). Riprendiamo infatti la visione del capitolo settimo di Daniele, alla luce del Vangelo di Marco. Vi riconosciamo questi elementi: i due troni; le due figure divine, una anziana e una giovane di aspetto; la figura giovane è destinata ad essere il Redentore e l’eterno padrone del mondo. Allora abbiamo tutti gli elementi per concludere il ragionamento. Leggiamo le parole stesse di Boyarin: “E’ già presente in Daniele, l’idea di un re divino, di divina designazione, che governa la terra… Ci sono molti elementi del Messia… La figura del secondo Dio e redentore proviene quindi, a mio avviso, dai primordi della religione di Israele” (Boyarin, p. 57).   “Se Daniele è la profezia, i Vangeli sono il suo compimento” (p 61).  “Io ritengo che sia possibile comprendere il Vangelo solo nell’ipotesi che sia Gesù sia gli ebrei che lo circondavano sostenessero una cristologia alta (che considera Gesù come Dio) secondo la quale lo status messianico coincidesse con una condizione umana e divina” (p. 62-63). La ragione per cui molti ebrei arrivarono a credere che Gesù fosse divino era che stavano già aspettando un Messia / Cristo di natura umana e divina. “Questa aspettativa era parte integrante della tradizione ebraica” (p. 64).

Ricapitolando, Boyarin arriva a sostenere che già nell’antico ebraismo erano presenti, anche se in forma misteriosa e profetica, le idee dell’Incarnazione divina e della Trinità. Mi sembra che si tratti proprio di una svolta interessantissima per i rapporti contemporanei tra ebraismo e cristianesimo. Le tesi di questa “autorità rabbinica” di fama mondiale possono aprire la porta ad un dialogo tra ebraismo e cristianesimo capace di trovare un terreno comune molto più ampio di quanto si è creduto finora. Leggiamo le testuali parole di Boyarin: “Gli ebrei dovranno smetterla di svilire le idee cristiane su Dio, considerandole una congerie di fantasie ‘non ebree’, forse pagane, sicuramente strampalate… le idee cristiane non sono del tutto aliene alle nostre, sono nate dalle nostre, ed a volte , forse, da alcune antichissimo idee ebraico-israelitiche.” (p. 27). “Oggigiorno quasi tutti riconoscono che il Gesù storico è stato un ebreo che viveva secondo gli antichi dettami ebraici. Sta inoltre aumentando il consenso nell’intendere gli stessi Vangeli e persino le lettere di Paolo come parte integrante della religione del popolo di Israele nel primo secolo d. C.” (p 38)     

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Naprotecnologia: vincere l’infertilità in modo etico e naturale

La difficoltà sempre più diffusa per una coppia ad avere bambini è un dato certo. Le cause no. Si può trattare di problemi ormonali, di disfunzioni del ciclo, di motivazioni psicologici – ansia, stress – di fattori legati all’inquinamento, persino a un’errata alimentazione. Non c’è quindi un’unica diagnosi e di conseguenza una cura che vada bene per tutti i casi. Sta di fatto però che il problema dell’infertilità esiste, ed è causa di dolore e disperazione.

Per questo motivo, spesso le coppie ricorrono alla fecondazione in vitro, ovvero alla fecondazione artificiale, i cui risultati non sono certi e rischiano di aumentare ancora di più la sofferenza e l’umiliazione. Il desiderio di generare vita finisce con il ferire la dignità umana e l’etica. La fecondazione artificiale, infatti, ancora prima di implicare un problema religioso è una minaccia alla coscienza e alla morale. Le parole di questa donna sono, a mio avviso, di profondo equilibrio e chiarezza: “Questa soluzione ( il concepimento artificiale) non ci piaceva, non soltanto per motivi religiosi, ma anche semplicemente umani. – Il trattamento ‘meccanico’ dei coniugi e della loro intimità sessuale, il congelamento degli embrioni in eccesso, l’aborto selettivo nel caso troppi embrioni trasferiti nell’utero continuassero a svilupparsi”.

Questa coppia si ritiene fortunata per aver conosciuto la Naprotecnologia, grazie alla quale ha potuto capire e risolvere le cause dell’infertilità. Naprotecnologia è un’abbreviazione di Natural Procreative Technology, letteralmente: la tecnologia della procreazione naturale. Il suo fondatore è un ginecologo, chirurgo americano, Thomas W. Hilgers che è anche il direttore dell’Istituto Scientifico Paolo VI con sede in Omaha, nello stato del Nebraska, negli Stati Uniti. Questo metodo è oggi molto diffuso anche in Polonia e in Irlanda e può vantare un’efficacia nel 50% dei casi.

Cos’è la Naprotecnologia? Si tratta di un metodo naturale, ovvero di un metodo che si basa sullo studio dell’andamento del ciclo mestruale per individuare le problematiche legate alla fertilità e alla salute della donna (parti prematuri, rischi di aborto, depressioni post-partum, sindrome premestruale, endometriosi, cisti ovariche, perdite di sangue etc.) per poi adottare le cure specifiche. Non prevede quindi il ricorso a una fecondazione in vitro: nessun embrione dovrà essere scartato e nessun embrione sarà congelato.

Ma, in concreto, come funziona? La Naprotecnologia osserva in modo rigoroso e scientifico il funzionamento del ciclo femminile. Per effettuare queste osservazioni utilizza il modello Creighton, elaborato sulla base di ricerche iniziate nel 1952 da un gruppo di scienziati. Questo modello registra l’andamento e i cambiamenti dei biomarcatori del ciclo: il muco cervicale e altre perdite. Spieghiamo meglio: gli scienziati hanno rilevato che quando si avvicina l’ovulazione il muco cervicale viene prodotto in maggiore quantità assumendo determinate caratteristiche di elasticità e densità. La presenza o l’assenza del muco è fondamentale per la sopravvivenza degli spermatozoi e quindi per il concepimento. Nel modello Creighton vengono annotate in una tabella tutte le caratteristiche di questi biomarcatori la cui interpretazione aiuterà a fornire la diagnosi delle cause della infertilità. A seconda della diagnosi saranno scelte le cure che possono essere farmacologiche e chirurgiche.

Quali sono i passi da seguire? Come prima cosa si dovrà capire il problema: questo significa che la donna sarà seguita da un istruttore per un periodo di 2-6 mesi, che le insegnerà il funzionamento del modello Creighton ovvero come annotare e riconoscere i cambiamenti delle proprie perdite e del muco. Potranno essere anche eseguite analisi biochimiche, ecografie, studi del seme maschile. Tutto questo serve per fare la diagnosi che verrà sottoposta al medico naprotecnologo per prescrivere la cura. Questa fase ha una durata di 1 – 6 mesi. L’ultima tappa prevede il mantenimento di 12 cicli buoni; verrà utilizzato di nuovo il modello Creighton per controllare che questi 12 cicli corrispondano ai valori richiesti.

Un esempio pratico: Per essere più chiari riportiamo la testimonianza del medico naprotecnologo Raffaella Pingitore che lavora in Svizzera. Si tratta del caso di una donna di 36 anni che desiderava una gravidanza da otto anni ed era ricorsa anche a cinque fecondazioni artificiali. “Le ho fatto registrare la tabella dei marcatori della fertilità e abbiamo notato che aveva un ciclo regolare, con un buon muco fertile, una fase di muco fertile soddisfacente, ma dei livelli ormonali al settimo giorno dopo l’ovulazione, un po’ bassi, il che indica un’ovulazione un po’ difettosa. Aveva anche dei sintomi di endometriosi (…). In questo caso è stata eseguita una laparoscopia, è stata trovata l’endometriosi e sono stati asportati i focolai di endometriosi sull’utero, sulle ovaie e sulle tube. Si è poi proseguita la cura anche con dei farmaci (…)”. Dopo un anno questa donna è rimasta spontaneamente incinta. La Naprotecnologia non deve essere considerata come un semplice metodo naturale ma un trattamento basato su ricerche e cure avanzate.

Come avere maggiori informazioni? La casa editrice Mimep-Docete delle suore loretane con sede vicino a Milano ha pubblicato il libro con dvd Infertilità non è detta l’ultima parola per spiegare e far conoscere questo metodo anche in Italia. Il dvd contiene delle preziose interviste alla dr.ssa Pingitore e al dr. Barbato per fare chiarezza e rispondere in modo concreto ai dubbi. Concludo con una breve riflessione: grazie alla Naprotecnologia non bisognerà più scegliere tra il diritto della madre di avere un bambino e il diritto del bambino alla rispetto della sua dignità.

Per maggiori informazioni:
Mimep-Docete: info@mimep.itwww.memep.it – tel. 0295741935
dr.ssa Raffaella Pingitore: tel.: +4191.923.38.18 – info@raffaellapingitore.ch
dr. Michele Barbato: info@serenita.org – tel.: 039.60.81.590 – cell.: 342.138.23.79
Siti utili: www.popepaulvi.com; www.fertilitycare.ch; www.fertilitycare.net; www.aafcp.org

Erica De Ponti
Ufficio stampa Mimep-Docete
 

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il New York Times torna a parlare di ex gay

Il New York Time torna  a parlare di un argomento veramente scomodo per tutti coloro che ritengono che l’omosessualità sia una condizione immutabile. Lo aveva già fatto un anno fa intervistando Michael Glatze, mentre pochi giorni fa ha fatto conoscere la storia di Blake Smith, 58 anni.

Smith ha lottato per anni contro la sua omosessualità, poi grazie all’aiuto dell’associazione “People can change” (www.peoplecanchange.com) «i miei sentimenti omosessuali sono quasi scomparsi», ha detto, intervistato nella sua casa, condivisa con sua moglie. «Nei miei 50 anni, per la prima volta, posso guardare una donna e dire “lei è veramente hot”», ha scherzato.

Il quotidiano americano ha presentato l’uomo come «uno delle migliaia di uomini in tutto il paese, spesso conosciuto come “ex-gay”, che credono di aver cambiato i loro più elementari desideri sessuali attraverso una combinazione di terapia e di preghiera, qualcosa che molti scienziati dicono che non è mai stato dimostrato essere possibile ed è probabilmente un’illusione». Da notare come con poche parole si denigrino migliaia di persone ex omosessuali, sposati da anni con mogli e con tanto di figli, definendoli degli “illusi”. Ed ecco poi chiaramente espressa la posizione dell’ideologo, cioè colui che predilige la teoria ai fatti: la teoria di molti scienziati è che non è possibile uscire dall’omosessualità, dunque, di fronte alla realtà, tanto peggio per i fatti. 

In realtà la stessa American Psychological Association (APA), decisamente schierata in modo ideologico su questa tematica, non parla affatto di”auto-illusione”, ma ha riconosciuto onestamente che «non vi sono studi dai risultati scientificamente rigorosi sia per determinare la reale efficacia o il danno di trattamenti “riparativi”». Nel 2006, il presidente dell’APA dott. Gerald P. Koocher, ha affermato pubblicamente che l’associazione di psicologi non ha alcun conflitto con i terapisti che aiutano le persone con indesiderate attrazioni omosessuali. Inoltre, uno studio del 2010 pubblicato in peer-review sul Journal of Human Sexuality, ha rilevato che non solo le terapie psicologiche richieste da persone con indesiderate attrazioni verso lo stesso sesso (SSA) non sono pericolose, ma possono essere efficaci. Infine, un ex presidente dell’APA, Nicholas Cummings -tra i più importanti psichiatri americani- ha testimoniato la sua esperienza nella terapia verso le persone omosessuali, parlando di oggettivi successi. Come già affermato in altre occasioni, non siamo a favore di nessuna specifica terapia, ma desideriamo sostenere la libertà di autodeterminazione dei pazienti omosessuali, pervicacemente negata dalle varie lobby LGBT.

Nell’articolo citato del New York Times, cercando ancora di screditare tali cambiamenti, si è sostenuto che le «principali associazioni di salute mentale dicono che gli adolescenti sono spinti in terapia da parte dei genitori conservatori, e possono sentirsi in colpa e disperati quando i loro impulsi interiori non cambiano». Queste affermazioni sono tutt’altro che dimostrate, in realtà Eric Turkheimer, psicologo della University of Virginia ha spiegato che secondo le statistiche comparative sulle varianze non condivise (NEP), «cambiare l’orientamento sessuale richiede in generale un impegno minore che modificare tratti della personalità o curare la depressione, ma un maggiore sforzo rispetto a ridurre il peso corporeo o cambiare un atteggiamento criminale». L’avere un background religioso, come quello cristiano, aiuta certamente ad incanalare meglio l’impegno verso l’obiettivo di cambiamento, questo spiega perché molti degli ex gay pubblicamente dichiarati si sono anche riavvicinati alla religione.

L’articolo si concentra infine sulla battuta d’arresto avuta quest’anno in California dai sostenitori di questa terapia rivolta agli omosessuali che ne fanno richiesta. Una legge proibirà infatti ai terapisti di applicare tali sostegni psicologici ai minori di 18, anche se un giudice federale ha temporaneamente bloccato questa legge stabilendo che lede la libertà di parola. E’ stato citato Aaron Bitzer, un giovane ex gay di 35 anni, il quale ha sostenuto: «Se avessi saputo prima dell’esistenza di queste terapie avrei potuto evitare un sacco di depressione, di auto-odio e di pensieri suicidi», attualmente ha intenzione di completare il dottorato in psicologia e diventare lui stesso un terapeuta. Bitzer ha fatto causa al governatore della California perché con la legge da lui emanata -e temporaneamente bloccata- impedisce di svolgere il loro lavoro, violando i loro diritti alla libertà di parola.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Fede e scienza, il dibattito continua con nuove pubblicazioni

Il sociologo americano Robert Wuthrow, docente presso la Princeton University e presidente del Princeton University Center for the Study of Religion ha pubblicato recentemente il suo ultimo libro intitolato The God Problem: Expressing Faith and Being Reasonable (University of California Press 2012).

In esso, come riporta la recensione apparsa sul Christian Post (e anche sul National Post), sottolinea una ricca evidenza empirica contro la diffusa idea che la fede e la ragione -la religione e la scienza-, siano impegnate in una lotta per l’anima dell’America. Al contrario, non soltanto anch’egli ribadisce che non esiste un conflitto, ma osserva che la gran parte persone religione esprime le proprie convinzioni attraverso “norme di ragionevolezza”, cercando di parlare in termini compatibili con le norme naturalistiche.

Esse sanno bene che Dio non fa parte dei processi naturali, così come -per rubare un’analogia al fisico Russell Stannard- il signor Ford non è parte del motore delle automobili Ford. Credono ai miracoli, ma credono anche ai processi naturali di remissione della malattia, nell’abilità del chirurgo, o nell’efficacia del farmaco. Così, prosegue Wuthrow, si verifica una “mescolanza di lingue.”  Non esiste uno schema religioso e uno schema naturalista, la maggior parte delle persone assegna con successo uno o l’altro a seconda della situazione, senza vivere alcun conflitto interno.

Anche in Italia abbiamo la fortuna di avere numerosi pubblicazioni su queste tematiche. Segnaliamo quella recente del prof. Fabio Musso, docente di Filosofia della scienza all’Università dell’Insubria, affronta a sua volta il rapporto tra scienza e fede – o, se si preferisce, tra scienza e religione. Il titolo del volume è “La scienza e l’idea di ragione. Scienza, filosofia e religione da Galileo ai buchi neri e oltre, con la prefazione di Evandro Agazzi.

Musso, secondo la recensione apparsa su L’Occidentale, contrasta abilmente le ancora attuali, purtroppo, opinioni positiviste secondo le quali solo nella scienza si dà vera conoscenza, e le asserzioni della filosofia e della religione (ma anche dell’etica) altro non sono che enunciati privi di significato. La conoscenza, per loro, sarebbe soltanto quella empirica, basata sui dati immediati, e la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dal metodo dell’analisi logica. Questa tesi si basa su un’assunzione piuttosto forte, secondo la quale solo la scienza possiede i caratteri dell’oggettività, mentre tutte le altre manifestazioni della cultura umana sarebbero soggettive. Ne consegue, secondo l’autore, il manifestarsi della “malattia del secolo”, vale a dire l’incapacità di comprendere significato e ruolo del sentimento, «e questo, paradossalmente, nel momento stesso in cui lo si esalta come forse non è mai accaduto in nessun’altra epoca della storia umana». La ragione viene concepita quale fredda capacità di calcolo, chiusa in se stessa, mentre il sentimento è ridotto alla pura reattività dell’istante.

Invece il sentimento, come lo stupore di fronte alla complessità e alla bellezza del mondo che ci circonda, non sminuisce la ragione ma, al contrario, la potenzia. La spinge costantemente a risalire a quell’origine intelligente che c’è alla sua base. «Sono possibili anche altre forme di conoscenza», spiega il filosofo della scienza, «la scienza sperimentale non si occupa di tutta l’esperienza, ma solo di una parte di essa».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Progressisti e associazioni mediche contro il suicidio assistito

Pochi organi di informazione hanno riportato che lo scorso 6 novembre, assieme all’elezione presidenziale, gli abitanti dello stato americano del Massachusetts hanno rifiutato la legalizzazione del cosiddetto “suicidio assistito”. La notizia ha una certa rilevanza in quanto il Massachusetts è rinomato per essere tra i più liberal degli USA, con il 48% di abitanti non particolarmente interessato alla religione. Ma c’è un altro motivo per cui vale la pena segnalare questo risultato, ovvero che contro il suicidio assistito si sono schierate le più importanti voci medico-scientifiche e mediatiche americane, oltre ovviamente alla Chiesa cattolica.

Stiamo parlando dell’American Medical Association (AMA), la quale ha ribadito la sua posizione espressa nel suo statuto: «E’ comprensibile, anche se tragico, che alcuni pazienti in costrizione estrema – come ad esempio coloro che soffrono di una malattia terminale, dolorosa e debilitante – possano arrivare a decidere che la morte è preferibile alla vita. Tuttavia, permettendo ai medici di partecipare al suicidio assistito si potrebbe causare più male che bene. Il suicidio assistito è fondamentalmente incompatibile con il ruolo del medico come guaritore, sarebbe difficile o impossibile da controllare, e pone seri rischi sociali». Quindi, si è proseguito, «anziché partecipare suicidio assistito, i medici devono efficacemente rispondere alle esigenze dei pazienti in fine vita. I pazienti non devono essere abbandonati una volta che si determina che la cura è impossibile. Interventi multidisciplinari dovrebbero essere richiesti, compresa la consultazione di specialisti, hospice, sostegno pastorale, consulenza familiare, e altre modalità. I pazienti verso la fine della vita devono continuare a ricevere sostegno emotivo, una cura adeguata al controllo del dolore, il rispetto per l’autonomia del paziente, e la buona comunicazione». In modo molto simile si è posta la Massachusetts Medical Society (MMS)spiegando che «il suicidio assistito non è necessario per migliorare la qualità della vita», ed esprimendo soddisfazione «che la maggioranza degli elettori è d’accordo sul fatto che il ruolo del medico è quello di guarire e consolare, non di aiutare la morte».

Ricordiamo che la stessa posizione contraria a eutanasia e suicidio assistito è stata recentemente assunta o ribadita anche dalla British Medical Association (BMA), dalla German Medical Association e dalla New Zealand Medical Association.

Dello stesso avviso anche l’American Nurses Association (ANA), la quale ha proibito con forza la partecipazione degli infermieri in pratiche di suicidio assistito o l’eutanasia, «perché questi atti sono in diretta violazione del Codice Etico, le tradizioni e gli obiettivi etici della professione, e la sua alleanza con la società». Si riconosce inoltre il disagio degli infermieri soffrono quando viene loro chiesto di partecipare ad un’eutanasia e al suicidio assistito, ribadendo che esistono dei limiti al diritto per diritto dei pazienti all’autodeterminazione.

Ma anche i media progressisti hanno posto un veto. Ad esempio il New York Times ha titolato: “Il suicidio di scelta? Non così in fretta” un articolo di un disabile pro-choice, Ben Mattlin, il quale ha sottolineato l’alto rischio di abusi: «ho vissuto così vicino alla morte per così tanto tempo che io so quanto sia sottile e poroso il confine tra coercizione e libera scelta e come è facile che qualcuno, inavvertitamente, ti influenzi nel sentirti svalutato e senza speranza», sentendo la pressione che ti dice essere «”ragionevole” lasciarsi andare, per alleggerire gli altri». Malato da sempre di atrofia muscolare spinale ha risposto ai sostenitori dicendo che «non si può veramente concepire le molte forze sottili che emergono quando la vostra autonomia fisica è irrimediabilmente compromessa». Tuttavia, ha continuato, «ho imparato quanto sia facile essere percepito come una persona la cui qualità di vita è insostenibile». La sua testimonianza è preziosa perché spiega quanto anche su questo «siamo inesorabilmente influenzati dal nostro ambiente circostante», non è mai una scelta libera. Così, l’esistenza di una legge liberalizzante diventa davvero molto pericolosa.

Anche un altro disabile, Shakira Hussein, affetta da sclerosi multipla, ha preso posizione spiegando «perché non vorrei che lo Stato sia un accessorio per il mio suicidio», il motivo è che «io non mi oppongo alla legalizzazione dell’eutanasia perché non riesco a capire il desiderio di aggirare il dolore e la dipendenza, mi oppongo perché credo che sia intrinsecamente discriminatorio per lo stato determinare che il desiderio di porre fine alla vita è in alcune circostanze una patologia psichiatrica da combattere, ma in altre circostanze è una scelta razionale di interrompere una vita che è vista come in possesso di meno valore. Mi oppongo perché non credo che l’eutanasia sia una scelta autonoma in una società che stigmatizza così i corpi malati e disabili, che vede l’invecchiamento come una diminuzione piuttosto che l’accumulazione, che non fornisce l’accesso veloce e universale alle cure palliative, che ha lunghe liste di attesa per l’accesso alle cliniche per la gestione del dolore». Così, i sostenitori dell’eutanasia «rafforzano la convinzione che una vita compromessa non è una vita degna di essere vissuta».

La stessa affermazione di Hussein è stata fatta da Martin Cullen, specialista di terapia intensiva a Sydney (Australia), il quale parallelamente ha spiegato: «ho assistito ad atteggiamenti pro-eutanasia di alcuni medici. Essi credono fermamente che la vita di alcuni pazienti non è degna di essere vissuta. Questa è una arrogante mancanza di rispetto per la dignità umana». Vogliamo infine inviare un saluto a Marco Plebani, che si è spento in questi giorni a Erba (Co), immobilizzato da 35 anni a causa di un incidente in motocicletta. «Vale sempre la pena vivere», amava ricordare quando i temi del fine vita erano sulla bocca di tutti.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il destino dell’anima e il Natale, risposta al materialismo


 
 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

In un precedente articolo ho mostrato che le facoltà dell’anima umana non sono un epifenomeno e in un altro che esse segnano una discontinuità rispetto a quelle animali. Oggi mi interrogherò sul destino dell’anima umana.

A Roma, in Castel Sant’Angelo, nell’urna che raccoglie le ceneri di Adriano, della moglie e del figlio, un epitaffio scritto dallo stesso imperatore poco prima di morire inizia così:

 

“Animula vagula, blandula, “Piccola anima vagante e delicata,
hospes comesque corporis, compagna e ospite del corpo,
quae nunc abibis in loca ora partirai verso luoghi
pallidula, rigida, nudula, pallidi, freddi e spogli,
nec, ut soles, dabis iocos…” ove non avrai più i soliti giochi…”

 

La radice latina  ula, presente tre volte nel primo verso e risuonante altre due nel quarto, interpreta poeticamente l’enigmatica lievità dell’anima degli uomini, ma allo stesso tempo le facoltà sublimi di cui essa sola è sacrario in un Universo per il resto muto! Ma in che cosa consiste il destino dell’anima umana? Essa morirà col corpo o gli potrà in qualche forma sopravvivere?

Cominciamo col chiederci: se è evidente che il legame tra l’anima ed il corpo è inestricabile, come si può solo ritenere razionale l’ipotesi della continuità esistenziale della prima alla morte del secondo? A quest’obiezione dei materialisti di ogni epoca, io non saprei meglio dire delle parole usate da Cicerone duemila anni fa: “Numerosissimi sono coloro che […] impongono alle anime la pena di morte […]. Eppure non esiste altro motivo perché a loro sembri incredibile l’immortalità dell’anima, se non il fatto che non riescono a intendere e a raffigurarsi col pensiero la natura dell’anima priva del corpo. Come se invece, dell’anima dentro il corpo, fossero in grado di comprendere la natura, la forma, le dimensioni, la collocazione! […] Per me invece è diverso: quando penso alla natura dell’anima, trovo che sia molto più difficile, molto più oscuro raffigurarmi l’idea dell’anima dentro il corpo, in una sede ad essa così estranea, che non immaginarla, una volta uscita dal corpo, nella libertà del cielo, quasi finalmente fosse giunta nella sua vera casa” (“Tuscolanae disputationes”).

I greci ci hanno insegnato che la questione è sensata, ma indecidibile dalla sola ragione. Significativamente, il più razionalista ed enciclopedico di loro – Aristotele –, fu prudente sull’argomento: “Se rimanga qualcosa dopo [la morte del] l’individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l’anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l’anima sussista anche dopo” (“Metafisica”). La questione rimarrà sempre aperta sul piano empirico perché: “Nessuno viene di là che ci dica la condizione dei morti, che ci riferisca i loro bisogni, che tranquillizzi il nostro cuore, finché giungiamo anche noi a quel luogo dove sono andati essi… Vedi, non c’è chi porta con sé i proprio beni, vedi, non torna chi se n’è andato”, si legge nel “Canto dell’arpista” contenuto in un antichissimo papiro trovato nella tomba del faraone Antef. Con tutto ciò, la risposta sulla struttura dell’anima è aperta, come aperto ai due corni di un aut aut radicale sta il suo destino, oggi come 4.000 anni fa. Seneca scrisse: “La morte? o fine o passaggio”, condensando così le due concezioni opposte: la materialistica, secondo cui la morte è la fine di tutto, e la spiritualistica, per la quale la morte è passaggio ad altra vita.

Il fatto è che la questione della morte non è una tra le tante, ma la domanda delle domande, tanto che i greci demandarono la risposta alla regina delle scienze, la filosofia, che concepirono anche come “melete thanatou” (Platone, Epicuro), ossia come esercizio per imparare a morire. Non sapendo della Creazione, essi non avevano un dio cui chiedere polemicamente conto della morte riservata all’uomo, come invece poteva protestare l’ebreo Giobbe: “In pochi palmi, [o Dio], hai misurato i miei giorni e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra l’uomo che passa; solo un soffio che si agita… Allontana da me i tuoi colpi: sono distrutto sotto il peso della tua mano” (“Libro di Giobbe”). Alla fine, l’esercizio ellenico si risolse in tecniche consolatorie contro l’angoscia della morte. Con due opposte ricette. Muovendo dall’idea di Democrito che l’anima, come il corpo, è un aggregato di atomi e quindi destinata come quello alla dissoluzione, Epicuro scrisse con baldanza: “Abituiamoci a pensare che nulla per noi è la morte, poiché gioia e dolore risiedono nella sensazione; la morte invece è privazione della sensazione. […] Stolto è colui che dice di temere la morte, perché non proverà dolore quando essa si sarà presentata, ma intanto si avvelena la vita nell’attenderla! La morte non è nulla per noi, dal momento che quando noi siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non siamo più” (“Epistola a Meneceo”).

Sul versante filosofico opposto, la preparazione alla buona morte avviene nell’umile speranza che essa può essere la porta che apre all’anima del giusto il ritorno alla casa, donde quella s’era involata quando, alla nascita, si era congiunta al corpo: una casa dove ritroverà la libertà e la comunione con le anime di tutti i giusti della terra. Nella testimonianza di Platone, Socrate prima di morire arringa i suoi giudici ingiusti e consola i suoi discepoli affranti con queste parole: “Se vere sono le cose che si dicono, la morte è come fare un viaggio, che da qui porta verso un altro luogo, dove ci sono tutti quanti i morti: qual beneficio mai, signori giudici, potrebbe darsi superiore a questo? Se infatti, giunto all’Ade e ormai affrancato da voi qua che vi dite giudici, trovassi là dei giudici veri, proprio coloro di cui si racconta – Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e gli altri semidei che nella loro vita furono giusti – sarebbe poca cosa questo viaggio? E, ancora, a quale prezzo uno di voi non sarebbe disposto a frequentare Orfeo e Museo, Esiodo ed Omero? Quanto a me, vorrei essere morto molte, mille volte” (“Apologia di Socrate”).

Molto diverso, perché sapeva di avere un Signore Cui affidare la sua anima, poteva essere l’atteggiamento dell’ebreo: egli godeva del privilegio di un Dio, che Si era rivelato parlando direttamente ai suoi patriarchi, ad Abramo e a Mosè. Il credente si sa nulla, meno di polvere, ed affida la propria resurrezione all’imperscrutabile volontà del suo Creatore: “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, [Signore], risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre” (Isaia).

Con il cristianesimo, la rivelazione di Dio fa un salto a causa degli accadimenti dell’incarnazione del Figlio, della Sua morte e risurrezione in anima e corpo. Il messaggio diretto di Dio, nel quale si comunica la salvezza per tutti gli uomini, attraverso la risurrezione congiunta del corpo e dell’anima, irrompe nella storia. San Paolo non parla come un filosofo che argomenta, ma come un testimone oculare che in un tribunale riferisce sotto giuramento ciò che ha udito e visto: “Vi ho trasmesso dunque quello che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Pietro e quindi ai Dodici. In seguito, apparve a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me, che sono un aborto. […] Se Cristo non fosse risuscitato, allora vana sarebbe la nostra predicazione e vana sarebbe la vostra fede. […] Ora, invece, la verità è che Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (prima Lettera ai Corinti). Con il cristianesimo, insomma, la questione filosofica indecidibile dell’immortalità dell’anima è superata e risolta in senso positivo dal fatto storico della risurrezione in anima e corpo di Gesù e dall’immanenza ontologica di Dio che si è avverata storicamente duemila anni fa nell’Incarnazione e che si ripete ogni giorno nell’Eucaristia. L’immanenza, come si sa, è la presenza della divinità nella Natura ed è il concetto metafisicamente opposto alla trascendenza, che è lo stare della divinità fuori dell’Universo e dello spazio-tempo. Ebraismo ed islam hanno di Dio la concezione di un essere assolutamente trascendente, la cui presenza nel mondo avviene solo, misteriosamente, nella parola ai profeti e nei riti liturgici. Nel cristianesimo ciò non basta: Dio si fa uomo nella figura storica di Gesù. In Cristo, “Dio si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio”, scrisse il teologo Sant’Atanasio (“Sull’incarnazione del Verbo”). Nel Natale i cristiani celebrano l’immanenza di Dio, la Sua Incarnazione.

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”: dopo il Natale, l’immanenza tra uomo e Dio si ripete ogni giorno nell’Eucaristia. “Rimanere” non è un incontro fugace, ma un dimorare eterno, un modo di essere. L’uomo esiste in Cristo e Cristo nell’uomo. Al di fuori di Cristo manca il fondamento dell’essere: “Senza di lui è il nulla” (Giovanni). Resta il vuoto, l’effimero, il nichilismo: la morte di tutto, appunto. Più ci penso, più la cosa mi sembra inimmaginabile: dal punto di vista logico trovo una sola spiegazione, che Dio è Amore, un amore infinito.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace