Alfred Hitchcock, la morte cattolica del maestro del brivido

Hitchcock cattolicoLa morte del celebre regista Hitchcock raccontata dal gesuita Henninger, testimone dei suoi ultimi giorni di vita.

 

Il regista inglese Alfred Hitchcock è certamente una delle personalità più importanti della storia del cinema. Autore di film capolavoro, come Psyco, Vertigo o L’ombra del dubbio, è anche definito il “maestro del brivido”.

Nato da entrambi i genitori cattolici, è cresciuto in un ambiente di rigorosa morale cattolica, «sono stato cresciuto come un bambino ben educato», disse.  Frequentò il Collegio salesiano e il St Ignatius’ College di Stamford Hill  (Londra). Rimase praticante per molto tempo anche da adulto, ed è interessante notare che tre dei migliori registi che abbiano mai lavorato a Hollywood, Frank Capra, John Ford e Alfred Hitchcock, erano tutti cattolici praticanti. Nel dicembre 1926 Hitchcock si è sposato con Alma Reville, ha sempre sostenuto di aver conservato la castità prematrimoniale.

 

Hitchcock e le lacrime dopo l’Eucarestia.

Ad un certo punto si è però allontanato dalla Chiesa e recentemente uno dei suoi biografi, Donald Spoto, ha scritto che Hitchcock avrebbe respinto la visita del sacerdote negli ultimi giorni della sua vita. A tale affermazione ha però risposto sul Wall Street Journal Mark Henninger, un sacerdote gesuita che assieme ad un suo confratello amico del regista, Tom Sullivan, è stato inviato da Hitchcock stesso poco prima di morire, per celebrare una Messa a casa sua. I due sacerdoti hanno quindi officiato la funzione religiosa per Alfred e Alma.

Ha scritto il gesuita: «Hitchcock era stato lontano dalla chiesa per qualche tempo e rispondeva alla messa in latino, come si usava tempo fa. Ma lo spettacolo più notevole è stato quando, dopo aver ricevuto la comunione, ha pianto in silenzio, le lacrime gli scendevano sulle enormi guance». La cosa si è ripetuta per altri giorni fino al 29 aprile 1980, quando il celebre regista è morto e il suo funerale si è svolto nella Good Shepherd Catholic Church a Beverly Hills.

 

Altri due attori: Bear Grylls e Martin Freeman.

Sempre a proposito di cinema, recentemente sul sito web spagnolo Religion&Libertad si è parlato di due attori. Il primo è l’avventuriero  Bear Grylls, conosciuto anche in Italia per la serie televisiva Man vs. Wild e uno dei più giovani scalatori dell’Everest. Al contrario di quanto si possa immaginare, il suo modello d’ispirazione non è un eroe del cinema d’azione, ma Madre Teresa di Calcutta, come ha spiegato lui stesso. Aggiungendo: «non ho paura di ammettere che ho bisogno di aiuto. Per questo la mia fede cristiana è stata una grande forza tranquilla e una forte spina dorsale durante le mie avventure».

Martin Freeman è l’altro attore di cui si è parlato, universalmente conosciuto sopratutto per aver interpretato Bilbo Baggins nei tre adattamenti cinematografici de Lo Hobbit. Freeman ha raccontato della sua giovinezza: «La mia pietra di paragone morale era Gesù. E anche se il rapporto con la mia fede non è mai stato così facile -non sono quello che si dice essere un cattolico praticante-, io sono una delle poche persone che conosco che crede davvero in Dio».  Innamorato del Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, ha poi commentato: «L’idea che gli umili saranno esaltati è senza dubbio una grande idea, così, forse, si dice che la vita di Gesù è la storia più grande mai raccontata. Credenti o no, questa storia è la migliore lezione su come si deve guardare il mondo, ed è davvero difficile da applicare alla vita di tutti i giorni, essere cristiani è davvero difficile».

La redazione

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Marco Politi continua a disinformare: altre bufale anticlericali

Marco PolitiOgni quotidiano ha il suo vaticanista e Il Fatto Quotidiano si è scelto, non a caso, Marco Politi, anticlericale incallito, autore di libri abbastanza monotematici come “La confessione. Un prete gay racconta la sua storia” (2000) e “Io, prete gay” (2006).

Nel 2007 ha definito il Papa un «uomo ossessionato dalla paura del secolarismo», quando poi il Pontefice ha indicato gli agnostici come aiuto ai credenti. Nel 2008 ha descritto il suo pontificato come uno «spasmo di contraddizioni», ma in realtà sono aumentati costantemente nel tempo gli uditori alle udienze del mercoledì (tutti interessati alle contraddizioni?).

Nel 2010 ha preso in giro Benedetto XVI accusandolo di non saper prendere posizione sulla questione “pedofilia”, anche se perfino il suo compagno di bufale anticlericali, Marco Ansaldo di “Repubblica”, è riuscito ad ammettere che «seguendo le Linee guida stabilite dal Papa» la Chiesa può «contrastare con efficacia il fenomeno della pedofilia». Lo stesso ha fatto Gianluigi Nuzzi (spesso citato dallo stesso Politi), quando ha affermato: «Benedetto XVI è un pontefice rivoluzionario perché ha imposto una linea eccezionale di fronte a scandali di una certa gravità (la pedofilia) per mantenere la Chiesa unita. Credo che egli stia introducendo cambiamenti positivi». Non riuscendo ad imbroccarne una, Politi ha tentato allora nel 2012 di accusare il Papa di aver coperto gli abusi di Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, ma anche in questo ha fatto fiasco.

L’ideologia che guida Politi gli ha inoltre impedito di riferire ai lettori che Ratzinger è stato completamente assolto dalla vicenda che lo riguardava, il “caso Murphy”, dopo che ha consumato fiumi di inchiostro accusandolo di “insabbiamenti”, di “perdita di credibilità” e chiedendone implicitamente le dimissioni. Il giornalista del Fatto non è nemmeno riuscito a trovare il coraggio per chiedere scusa delle sue profezie circa l’esito negativo del rapporto di Moneyval sull’anticorruzione che avrebbe impedito allo Ior, la Banca vaticana, di accedere alla white list delle banche mondiali. Ovviamente il risultato è stato opposto, ma il vaticanista Politi, al contrario dei suoi colleghi, non se l’è sentita di riferire la notizia.

Recentemente ha ancora mostrato la sua inattendibilità come cronista: parlando di Vatileaks ha sostenuto che il segretario del Pontefice, Georg Gaenswein, «lascia il posto di segretario personale del Papa» e si è divertito a sostenere che «si conclude, dunque, con due decapitazioni la prima fase di riorganizzazione interna vaticana», inventandosi che avrebbe «giocato un ruolo anche la latente tensione fra il segretario papale e il cardinale Bertone, segretario di Stato vaticano». Queste sono le classiche bufale di Politi, la verità è ovviamente un’altra. Come scrivono i suoi due colleghi Gian Guido Vecchi e Paolo Rodari, autorevoli giornalisti che scrivono su quotidiani attendibili e non ideologizzati, si apprende che monsignor Georg Gänswein è invece stato confermato come segretario particolare di Benedetto XVI, e nominato prefetto della Casa Pontificia. Il segretario del Papa, al contrario dell’invenzione del vaticanista de Il Fatto, «esce da tutta la vicenda più che mai rafforzato», e inoltre «è a tutti gli effetti un attestato di stima e di fiducia del Papa nei suoi confronti e, insieme, un rafforzamento del suo peso all’interno dell’appartamento papale».

La cosa più singolare è che lo stesso Politi ha recentemente pensato di scrivere un sermone sull’etica del giornalista, come un maestro fa verso i suoi colleghi. Ha scritto: «Fare il giornalista non è scrivere ciò che mi pare». Senza pudore ha continuato: «C’è un patto che i giornalisti di qualsiasi tendenza stringono con i lettori. Informare correttamente». Ci chiediamo allora: quando Marco Politi inizierà a informare correttamente mettendo da parte la sua anacronistica ideologia anticattolica?

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Il darwinismo non ha detronizzato l’uomo, egli resta irriducibile


 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Occorre premettere, anzitutto, che Darwin è meglio non venga arruolato da nessuno. Coloro che lo hanno fatto, in passato, per darsi un’aura di scientificità, non gli hanno reso un grande servizio. Penso all’entusiasmo per il darwinismo di Galton, fondatore dell’eugenetica; o a quello di Marx, di Stalin e di Lenin, che videro nell’evoluzionismo la conferma del loro materialismo; a quello dei social-darwinisti e dei biologi guerrafondai di primo Novecento, soprattutto in Germania; a quello di Benito Mussolini che a Trento, nel 1908, in occasione dell’inaugurazione di una statua al darwinista Canestrini, rivendicava la scientificità dell’ateismo in nome, appunto, del naturalista inglese. E’ anche a causa di queste appropriazioni, non poco ideologiche, delle ipotesi darwiniane, che ancora oggi la discussione è spesso più ingarbugliata del previsto.

Fatta questa breve premessa, vorrei sostenere quello che mi sembra un concetto innegabile: nonostante il tentativo insistente e forzato di alcuni darwinisti di stabilire una continuità netta, totale, assoluta, tra l’animale e l’uomo, continuità del resto suggerita da Darwin stesso ne L’origine dell’uomo, non vi sono ancor oggi prove di tutto ciò. Anzi, quello che sappiamo ci indica una evidente discontinuità. Per l’uomo contemporaneo, come pure per Sir Alfred Wallace, colui che insieme a Darwin illustrò per primo al mondo la moderna teoria evolutiva, rimangono ancora inspiegate la pelle glabra, l’andatura bipede, la stazione eretta e la volumetria del cervello: tutte caratteristiche proprie dell’uomo e non dei primati, per giustificare le quali gli evoluzionisti hanno portato svariate argomentazioni, sempre divergenti e contrastanti tra loro.

Ma soprattutto rimane a tutt’oggi innegabile l’esistenza di un salto ontologico incolmabile tra l’animale e l’animale-uomo. Questo perché, se da una parte è dimostrabile che molte caratteristiche animali sono presenti nell’uomo, come del resto si è sempre pensato anche prima di Darwin, dall’altra è ugualmente provato che una serie di facoltà sono invece peculiari e distintive dell’uomo e solo di lui: il pensiero, l’idea di Dio, il linguaggio, il senso morale, la libertà, l’altruismo…tutte facoltà non giustificabili alla luce della pura evoluzione, che lo scienziato ateo Edoardo Boncinelli ha catalogato abilmente come “incidenti congelati”, cioè come avvenimenti fortuiti, casuali, che non sappiamo spiegare, e che pure esistono. Catalogazione, lo si comprende facilmente, che nasconde, dietro una formula brillante, ma vuota, la cruda verità e cioè l’irriducibilità dell’anima umana a meccanismi puramente materiali ed evolutivi, tanto più se casuali.

Tra gli oratori del Darwin day di Ancona nel 2009, vi era il biologo evolutivo Vincenzo Caputo, dell’istituto di Biologia e Genetica dell’università Politecnica delle Marche, che si considera certamente un grande estimatore di Darwin, e con cui ho avuto modo spesso di discutere via email. Ebbene, Caputo è autore di un breve saggio “Mente e coscienza negli animali: un excursus etologico”, in cui si prendono le distanze dalle forzature di quegli etologi che tentano di equiparare ogni capacità umana con una analoga facoltà animale, finendo appunto per identificare animali ed uomini, e, a seguire, diritti animali e diritti umani. Il leit motiv di questi etologi darwinisti è che ogni differenza tra animali e uomini sia solo quantitativa, e cioè colmabile, e non qualitativa. Eppure scrive Caputo, «non occorre riflettere a lungo per riconoscere la differenza qualitativa essenziale tra il padroneggiare le pratiche del calcolo differenziale o la trigonometria, da una parte, e il saper apprezzare la differenza tra due muchi di caramelle (come sanno fare determinate bestie, ndr), dall’altra”. Analizzando le differenze tra il linguaggio animale e quello umano, Caputo, riprendendo un celebre linguista, scrive che proprio la parola rappresenta ancora oggi «il nostro Rubicone che nessuna scimmia potrà attraversare». Infatti, «nonostante un filone di ricerca etologica intrapreso fin dai primi del Novecento, a tutt’oggi non sono stati scoperti chiari equivalenti del linguaggio umano (cfr. Deacon, 1992, 2000)».

«Anche il tentativo -continua Caputo- di insegnare a primati superiori linguaggi simbolici semplificati (sia il linguaggio americano dei segni, sia l’uso di lessigrammi) ha evidenziato le difficoltà di apprendimento apparentemente insuperabili nel passaggio dalle associazioni condizionate a quelle simboliche (Deacon, 2001). In effetti, l’insegnamento del linguaggio dei segni agli scimpanzé sembrava inizialmente indicare una notevole competenza linguistica di questi primati. Tuttavia, verifiche successive basate sull’esame al rallentatore di filmati eseguiti durante le sessioni di addestramento, rivelavano che la maggior parte dei segni formulati dalla scimmia erano suggeriti inconsciamente dai suoi stessi insegnanti e che l’animale non faceva altro che imitarli nell’intento di ottenere un premio. Altrettanto controversi sono risultati i test in cui si insegnava a degli scimpanzé a disporre dei lessigrammi secondo un ordine prescritto, in modo da formare “frasi” e ottenere premi: gli scimpanzé impararono tutti a maneggiare una certa quantità di simboli, svelando un’impressionante capacità cognitiva. Ma rimane tutt’altro che chiaro se in qualcuno di questi casi di uso dei simboli ci fosse una reale comprensione dei simboli stessi. Ed è proprio “la differenza fondamentale fra l’usare i simboli e il comprenderli a costituire la discontinuità fra gli animali e gli umani, e ciò che porta alla manifesta ed enorme distanza fra le richieste automatiche delle scimmie addestrate al linguaggio e ai voli concettuali degli umani” (Budiansky, 2007). In definitiva, la diversità fra comunicazione umana e animale emersa dagli studi etologici rende difficile tracciare le origini evolutive delle parole facendole risalire a un precursore animale. La maggioranza degli autori sembra invece ipotizzare che il linguaggio si sia originato dopo il distacco della diramazione ominide dagli altri primati (Hauser, 2002; Mithen, 2007) e che costituisca un istinto, una dotazione specie specifica innata che sarebbe rintracciabile soltanto nell’uomo (cfr. Pinker, 2007)…».

Concludendo il suo studio il professor Caputo attribuisce a Dawin il merito di averci lasciato «la consapevolezza che noi umani siamo inestricabilmente (= filogeneticamente) legati agli altri animali. Questo dato scientifico ci rende “meno soli” nell’universo, anche se la nostra peculiarità cognitiva esalta innegabilmente la distinzione di Homo sapiens entro il mondo animale. Una variante del dualismo cartesiano sembra perciò resistere (umano vs animale), malgrado le ingegnose indagini di quegli etologi e psicologi evolutivi che tentano di colmare l’abisso cognitivo che ci separa dagli altri animali. Pinker (2007) ha giustamente fatto rilevare che gli sforzi di questi ricercatori…sono destinati a uno scontato fallimento.

L’altra eredità darwiniana che ha profondamente inciso sulla nostra visione della natura è il “gradualismo”, cioè l’idea secondo la quale l’evoluzione si verificherebbe secondo un costante e continuo passaggio tra forme di vita impercettibilmente diverse: per Darwin infatti le specie non esistono, se non come costrutti metafisici della mente umana. In realtà, le ricerche svolte nel corso del Novecento hanno chiaramente dimostrato che le specie sono “prodotti” reali della natura e il meccanismo che le crea è la cladogenesi o speciazione, che Darwin non aveva pienamente compreso (cfr. Mayr, 1990). Ed è proprio la speciazione che, generando in perpetuo discontinuità fra gli organismi, tende a saturare quelle opportunità ecologiche che il divenire del Pianeta offre costantemente alla vita. Se il cambiamento evolutivo si verificasse, come Darwin pensava, esclusivamente secondo la modalità del gradualismo filetico, che può solo modificare una stessa linea di discendenza, la vita prima o poi perirebbe sotto i colpi spietati dell’estinzione.

Questa visione gradualistica del processo evolutivo, enfatizzando la continuità uomo-animale (cfr. Rachels, 1996), ha inoltre fornito all’attuale movimento animalista un potente argomento a favore dei “diritti animali”. I più accesi sostenitori della filosofia animalista hanno addirittura introdotto il termine “specismo” per stigmatizzare la discriminazione nei confronti dei “non-umani”, sottolineando che questa attitudine discriminatoria è simile al razzismo e al sessismo (cfr. Rachels, 1996). Secondo uno dei massimi esponenti del movimento di “liberazione animale”, così come il razzista attribuisce maggior peso agli interessi della sua etnia e il sessista a quella del suo sesso, “lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori di membri di altre specie” (Singer, 2003). L’animalismo più avanzato si è poi dedicato al cosiddetto “Progetto Grande Scimmia”, esposto in un libro che esordisce col seguente proclama “Noi chiediamo che la comunità degli eguali sia estesa a includere tutti i grandi antropoidi: esseri umani, scimpanzè, gorilla e oranghi” (citato in Castignone, 1997; cfr. anche Marks, 2003). Non c’è chi non veda in questo vero e proprio fanatismo zoofilo la forma più estrema di antropomorfismo. Attribuendo infatti diritti agli animali ed elevandoli di conseguenza a membri della comunità morale, li vincoleremmo a obblighi che non possono né comprendere né tantomeno ottemperare. Perseverando in questa assurda pretesa, si arriverebbe al paradosso per cui una volpe dovrebbe rispettare il diritto alla vita del pollo e intere specie sarebbero condannate ipso facto all’estinzione in quanto creature istintivamente criminali (Scruton, 2007, 2008)!».

«In realtà– conclude Caputo- pur nella piena consapevolezza del vincolo filogenetico che ci unisce agli altri animali, mi sembra pura cecità ideologica non voler vedere le incommensurabili differenze cognitive che ci separano da essi, come lucidamente sostenuto dal più grande biologo evolutivo del Novecento, Ernst Mayr (1904-2005): “L’ondata di sgomento per la “detronizzazione” dell’uomo non si è ancora placata. Privare l’uomo della sua condizione di privilegio, come imponeva la teoria della discendenza comune, fu il primo effetto della rivoluzione darwiniana, ma, non diversamente da altre rivoluzioni, anch’essa finì con l’andare troppo oltre, come dimostra l’affermazione fatta da alcuni estremisti, secondo cui l’uomo non è “niente altro” che un animale. Ciò naturalmente non è vero; certamente, da un punto di vista zoologico, l’uomo è un animale, ma un animale unico, che differisce da tutti gli altri per così tanti aspetti fondamentali da giustificare una scienza separata specificamente dedita al suo studio. Fermo restando questo punto, non si deve dimenticare in quanti modi, spesso insospettati, l’uomo riveli la sua ascendenza. Nel contempo l’unicità dell’uomo giustifica in qualche misura un sistema di valori riferito all’uomo e a un’etica antropocentrica. In questo senso una forma profondamente modificata di antropocentrismo continua a essere legittima” (Mayr, 1990, pag. 384)».

L’unicità dell’uomo, l’antropocentrismo biblico: questo è quello che un credente difende senza possibilità di arretrare, e che “il più grande biologo evolutivo del Novecento”, riconosce. Perché è solo questa unicità che salva l’uomo dal non senso, e che gli attribuisce quella dignità che gli ha permesso di dominare la natura, di alzare gli occhi al cielo, di interrogarsi sul senso dell’esistenza, di costruire, in ogni tempo necropoli e sepolcri, nella convinzione che solo le bestie sono destinate a divenire per sempre polvere e terra. Nessun darwinismo, per quanto ideologico e agguerrito, potrà mai scalfire questa verità, autoevidente da quando l’uomo esiste; autoevidente, potremmo dire, come il concetto per cui l’uomo comprende in sé la natura animale, mentre l’animale, al contrario, non è in grado di farlo.

Alla luce di queste considerazioni, anche l’espressione di Mayer, secondo cui il darwinismo avrebbe “detronizzato” l’uomo, è solo un tributo ad un certo darwinismo ideologico negato subito dopo, con l’affermazione della unicità dell’uomo. Bastava già Aristotele, senza Darwin per dirci che l’uomo è anche animale; bastava la narrazione del genesi, con la terra vivificata dal soffio di Dio creatore a renderci consapevoli della nostra natura anche animale, anche mortale. Anche, appunto…ma non solo. Nè Copernico, come si usa spesso dire, né Marx, né Darwin, né Freud, hanno dunque in alcun modo detronizzato l’uomo, se non nella lettura ideologica di chi vuole negare la sua dignità, la sua anima, per negare, al contempo, Dio i valori.

Da Scritti di un pro-life (Fede&Cultura 2009)

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Odifreddi: la vendetta (fallita) di un troglodita

Odifreddi convertito«Adoro trollare gli atei. Lo sono io stesso, ma discutere con una persona religiosa è esasperante, drenante e mi fa venire il mal di testa. Gli atei sembrano sempre uscire peggio dagli argomenti religiosi, tanto da rovinare la loro giornata», ha scritto recentemente Brian Limond sul Guardian

Probabilmente Mandi333 potrà confermarlo dato che non ha trollato un ateo qualsiasi, ma il leader dell’ateismo fondamentalista italiano, ovvero Piergiorgio Odifreddi. Ce lo ha raccontato attraverso un articolo che abbiamo pubblicato pochi giorni fa: Odifreddi: il ritorno di un troglodita. Il suo scopo? «ho voluto testare se Odifreddi è rimasto lo stesso mediocre argomentatore di sempre, oppure la pausa aveva giovato alla sua capacità razionale».

La conclusione è stata ovviamente affermativa: Odifreddi non solo ha dimostrato di non riuscire a sostenere razionalmente le tesi che anticristiane che gli hanno regalato qualche notorietà, ma ha anche mostrato il suo lato più nascosto umiliando le persone handicappate (ha usato il termine “mongoloide” come offesa) e bannando lo stesso Mandi333 in quanto avrebbe sviato dall’argomento principale, come tutti gli altri partecipanti al forum d’altra parte. Il suo racconto è stato utile anche per aprire una finestra sul “mondo odifreddino”, ovvero quel concentrato di cagnolini da guardia di medio-basso livello culturale, amanti dello sfogo online e del tifo da stadio, che il matematico incontinente è riuscito a legare al suo guinzaglio in questi anni di proselitismo.

L’articolo di Mandi333 ha suscitato un vivace dialogo tra i nostri lettori, favorevoli e contrari alla sua iniziativa. Ad un certo punto è comparso un utente con il nome “lucia verdini” che ha cominciato a commentare in difesa di Odifreddi. Chi si nascondeva dietro “lucia”? Lo stesso Odifreddi, come ha spiegato nel suo ultimo articolo. In esso ha ironizzato sul titolo di questo sito web, definendo l’UCCR «un’ossimorica organizzazione di “cristiani cattolici razionali” (sic), evangelicamente dedita alla diffamazione di tutti coloro che non riesce a contrastare sul terreno della logica e dei fatti». Essere credenti e razionali è un ossimoro? O forse la razionalità, come abbiamo scritto nella nostra presentazione, è una dote di ogni uomo, al di là delle sue posizioni esistenziali? Forse che l’ateismo non sia altrettanto un atto di fede? Forse che la fede non sia un metodo di conoscenza usato quotidianamente dall’uomo, in modo razionale o irrazionale? Forse anche questo è un altro argomento da trogloditi, come il matematico incontinente è stato giustamente definito da Mandi333?

La nostra azione, secondo Odifreddi, sarebbe quella di diffamare coloro che non riusciamo a contrastare sul terreno della logica e dei fatti. In realtà proprio lui dovrebbe ricordare quando siamo riusciti ad incastrarlo in merito al suo libro “Perché Dio non esiste” (Aliberti 2010) basandoci proprio sulla logica e sui fatti, tant’è che ha dovuto perfino modificare il suo stesso sito web per cancellare la pagina in cui promuoveva tale libro, cercando di prendere le distanze dalle cretinate che vi erano scritte e che erano uscite dalla sua bocca, come ha spiegato il suo intervistatore, Sabelli Fioretti, e anche il suo editore, Francesco Aliberti. Qui è spiegata nel dettaglio la vicenda.

Torniamo dunque all’incursione di Odifreddi su questo sito, valutandone i risultati: sostanzialmente si è autodifeso (non trovando nessun altro che lo sapesse fare adeguatamente) riproponendo le carenti risposte che aveva già dato a Mandi333 nel suo forum. Si è poi inoltrato nel difendere le tesi avanzate nei suoi libri-spazzatura, autoelogiandosi: «Credo che Odifreddi sia pericoloso per questo genere di tarlo che può instillare nell’anima con i suoi libri» (in realtà perfino il Gabibbo riesce ad essere più pericoloso per un credente, rispetto a lui), e contraddicendosi, come gli è stato fatto notare molto gentilmente da una nostra lettrice.

La “vendetta” di Odifreddi è risultata essere comunque completamente senza senso: cosa avrebbe voluto dimostrare? Voleva farci ragionare? E perché non ci è riuscito? La sua incursione è stata utile solo per un motivo, lo ha sintetizzato proprio la lettrice sopra citata, Valentina, rivolgendosi proprio a Odifreddi/Lucia: «Tu qui sei un utente scomodo eppure non vieni bannata. La realtà dimostra che questo sito è ben più aperto e accogliente di quanto faccia Odifreddi». E ancora: «Guardiamo la realtà: Odifreddi ha bannato un utente scomodo, mentre tu -sicuramente scomoda e contraria all’articolo- qui puoi commentare liberamente. La differenza la trovi da sola?».

Nel suo articolo Odifreddi non ha ovviamente detto ai suoi seguaci che ha potuto esprimere liberamente la sua posizione, e che è stato trattato in modo gentile, educato e sereno. Lo stesso non si può dire per Mandi333, che nel suo blog è stato umiliato con ogni tipo di insulti, e dove lo stesso Odifreddi lo ha profondamente ferito, non tanto per l’insulto, ma per la mancanza di rispetto verso le persone affette da handicap. Il vincitore di due Asini d’Oro si è lamentato solo del fatto che «dopo un po’ il thread è stato chiuso: chi ha dato, ha dato e chi ha avuto, ha avuto». Interrompere la possibilità di commentare dopo due giorni dalla pubblicazione degli articoli è una scelta redazionale, voluta per evitare infinite discussioni e non appesantire il sito web con commenti al di fuori del tema principale: due giorni sono più che sufficienti per esprimere la propria posizione in modo chiaro.

Ringraziamo in ogni caso Odifreddi per questa vendetta (fallita), può tornare a trovarci quando vuole, magari avendo il coraggio di usare il suo nome vero (a 63 anni è il minimo!), senza vergognarsi della brutta fama che si è costruito da solo e senza troppo rovinarsi la giornata se i nostri lettori smonteranno facilmente le sue anacronistiche affermazioni. Lo invitiamo tuttavia a trascorrere in modo più costruttivo la sua pensione. Il tempo passa per tutti velocemente e l’appuntamento con il (vero) Logico-Matematico si avvicina: non sarebbe il caso che trovasse degli argomenti che lo scagionino dal suo odio verso i credenti, piuttosto che scervellarsi per tentare -senza riuscirci- di confutare i “cattolici razionali”?

 

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Asia Bibi: un appello di liberazione da Monti e dal governo italiano

Asia BibiRingraziamo vivamente il premier Mario Monti per la sua presa di posizione a sostegno della liberazione di Asia Bibi, la contadina pakistana di 47 anni, sposata e madre di cinque figli, cristiana, incarcerata dal 2009, accusata di blasfemia, cioè di aver parlato male di Maometto, e condannata a morte sulla base di quanto dichiarato da altre donne.

In una lettera rivolta ad Avvenire, il premier ha scritto: «Caro Direttore, anche io, assieme ai molti lettori di “Avvenire” e cittadini italiani, mi voglio unire all’appello rivolto al presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, perché Asia Bibi sia liberata e possa ritornare al più presto dalla sua famiglia, dalla quale manca da oltre tre anni. Lo chiedo prima ancora che come Presidente del Consiglio, come uomo e come cristiano. La sua storia è un esempio eclatante di come oggi essere seguaci della parola di Cristo possa poter diventare una colpa, laddove l’estremismo non esita a fermarsi neanche davanti ad una donna sola e indifesa».

Monti ha proseguito: «Ad oggi a nulla è valso anche l’appello rivolto pubblicamente da Papa Benedetto XVI per una sua immediata liberazione che ha ricordato alla comunità internazionale la difficile situazione in cui si trovano i cristiani in Pakistan, spesso vittime di violenze e discriminazioni […]. Il mondo dell’associazionismo cattolico si è già mosso con una campagna di sensibilizzazione. Anche il nostro corpo diplomatico segue con apprensione questa storia insieme alle molte altre di cristiani perseguitati nel mondo, vittime di sanguinose persecuzioni, dal Medio Oriente all’India, dai Paesi africani al Pakistan».

Il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha intanto dato istruzioni all’ambasciata a Islamabad di effettuare un intervento presso le autorità pakistane per sensibilizzarle sul caso di Asia Bibi. Un’intensa attività diplomatica a sostegno di Asia Bibi è stata svolta dall’Italia anche a Bruxelles presso l’Unione Europea, nel quadro del dialogo strategico Ue-Pakistan. Il Premio Nobel per la Pace conferito all’Ue – sottolinea Terzi – oltre che uno straordinario riconoscimento, deve essere anche un forte incentivo a un impegno sempre maggiore delle istituzioni comunitarie a tutela dei diritti umani e della libertà di religione, presupposto indispensabile per la convivenza pacifica fra i popoli.

Asia Bibi ha scritto una lettera recentemente, pubblicata su Avvenire. In essa si legge una grandissima testimonianza: «Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico de­­litto, in questo mio grande Paese che amo tanto, è di essere cattolica […]. Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nel­la mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha of­ferto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’islam. Io l’ho rin­graziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta one­stà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musul­mana. “Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto –. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”».

Ricordiamo che è possibile far sentire la nostra protesta scrivendo una breve e-mail a asiabibi@avvenire.it, con questo testo: “Io sottoscritto NOME COGNOME CITTA’ aderisco all’appello per la liberazione di Asia Bibi. Chiedo al presidente del Pakistan Asif Ali Zardari di intervenire a suo favore” . Anche in inglese eventualmente: “I, the undersigned, adhere to the call for the release of Asia Bibi, a young woman sentenced to death in Pakistan with a specious charge of blasphemy and now in jail because of her faith. I ask the president of Pakistan, Asif Ali Zardari, to act in her favour”.

Nell’unirci all’appello per la liberazione di Asia Bibi, non possiamo non ricordare anche Albert Saber, un blogger non credente che il tribunale egiziano ha condannato a tre anni di prigione, accusato di blasfemia e diffamazione della religione, chiedendo anche per lui l’immediata liberazione. Secondo la International Humanist and Ethical Union (IHEU), esistono purtroppo ancora sette Paesi in cui l’ateismo è punibile con la morte, questi sono Afghanistan, Iran, Maldive, Mauritania, Pakistan, Arabia Saudita e Sudan.

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Opporsi alle nozze gay non significa essere omofobi

Manifestation contre le mariage et l'adoption pour les couples homosexuelsNel dicembre scorso il matematico Giorgio Israel, docente presso l’università La Sapienza di Roma, dove è anche direttore del Centro di ricerca in metodologia della scienza, ha riflettuto sull’imminente introduzione del matrimonio omosessuale in Francia, ricordando la domanda dello scrittore Alexandre Thomas: «È possibile opporsi al matrimonio omosessuale senza essere omofobi?». La sua risposta è stata: sì, è possibile.

Ed infatti, ha proseguito Israel, il progetto di legge ha sollevato reazioni negative anche in ambienti progressisti, oltre a tutte le comunità religiose. Particolarmente interessante il documento che il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, ha indirizzato al presidente Hollande e al primo ministro Ayrault. Bernheim, nel quale vengono contestate le motivazioni “progressiste” addotte per sostenere il progetto, ovvero compiere un passo importante nella lotta democratica contro le ingiustizie e le discriminazioni, in coerenza con la lotta contro il razzismo, estendere il principio di uguaglianza e la difesa dei più deboli. Ma questi, ha replicato il rabbino francese, «sono argomenti che si smontano e non possono da soli giustificare una legge», sono «argomenti che si conformano al dominio dei benpensanti per paura degli anatemi» e quindi «non c’è né coraggio né gloria a votare questa legge».

Il matematico italiano ha a sua volta commentato: «Vi sono tante vie per eliminare le ingiustizie e le discriminazioni in oggetto, ma la via scelta risponde a un altro progetto ben più ambizioso: l’eliminazione delle differenze di genere. È una vecchia minestra ideologica che viene propinata da trent’anni da numerosi teorici postmodernisti secondo cui la vera matrice dei razzismi sono i dualismi, le strutture binarie su cui è fondata la civiltà occidentale: uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente. Per cui la “liberazione” discenderebbe dal riconoscimento che la naturalità è una costruzione culturale priva di fondamento. (Come se le società non occidentali non fossero dominate da strutture binarie ancor più radicate). Sono posizioni ideologiche legittime, quanto è legittimo non condividerle e quanto è illegittimo produrre una simile “rivoluzione” sotto le mentite spoglie della lotta all’omofobia». Per quanto riguarda l’adozione per coppie omosessuali, ha proseguito il documento di Bernheim, citato da Israel, essa determinerebbe «un percorso regressivo al termine del quale si intravedono i fantasmi di cui il pensiero mitico, su tutti i continenti e in tutte le tradizioni, ci aveva liberati: l’indifferenziazione sessuale, l’individualità assoluta mentre i miti degli uomini, nella loro saggezza, avevano insegnato in senso inverso che la nascita dell’umanità passava attraverso la scoperta della differenza: quella dei sessi, quella degli altri, quella della morte».

A questo articolo di Israel ha risposto in modo decisamente scomposto il leader omosessuale Angelo Pezzana, affermando che «chi si oppone ai matrimoni gay è certamente omofobo». Con argomenti traballanti ha di fatto confermato che l’approvazione delle nozze gay servirebbe -secondo lui- a contrastare l’omofobia. Ha aggiunto, questa volta correttamente, che su questo argomento «la fede non c’entra nulla», ma sbagliando a sostenere che «il matrimonio è un contratto». Non è affatto così, come ha spiegato ottimamente la storica Lucetta Scaraffia. Pezzana ha quindi concluso: «Cari amici omofobi […] vincerete ancora qualche battaglia, ma la guerra no, quella l’avete persa».

La replica di Israel non si è fatta attendere, sottolineando fin da subito l’abuso dell’accusa “omofobi” a chiunque abbia opinioni contrarie: «o si sta zitti e si applaude oppure si deve subire il marchio d’infamia», ha scritto. Nel suo articolo «Pezzana non si misura con i numerosi argomenti del lungo documento del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim […], di questo pare che non si possa discutere», ed inoltre, ha continuato il matematico ebreo, «vorrei piuttosto mettere in guardia Pezzana dall’illusione che col matrimonio gay si possa battere l’omofobia. Da quando esiste il matrimonio gay in Spagna, non solo ne sono stati celebrati assai pochi rispetto alle attese, ma l’abitudine di usare il termine “maricón” (frocio) e di chiamare “mariconada” qualsiasi vestito, abitudine, oggetto “strano”, inusuale o ritenuto ridicolo, impazza più di prima. E lo spazio manca per i tantissimi esempi analoghi».

Infine, ha concluso Giorgio Israel, «colpisce soprattutto che la carenza di argomentazioni di Pezzana si copra con l’affermazione trionfalistica: “vincerete ancora qualche battaglia, ma la guerra no, quella l’avete persa”. Se il “voi” si riferisce agli amici omofobi di Pezzana, mi guarderei dal trionfalismo: temo che costoro siano lungi dall’aver perso la guerra, e che i loro dominî siano lungi dal restringersi. Se invece si riferisce a chi solleva obiezioni argomentate in modo tollerante, schiacciato tra due intolleranze, allora sì che la guerra è persa. È indubbio che il matrimonio gay verrà introdotto per legge in un numero crescente di paesi, tra poco anche in Italia. Ma la storia dell’umanità è disseminata di guerre vinte eppure sbagliate. Vincere non vuol dire affatto aver ragione: c’è bisogno di ricordarlo? Tra le vittorie ci sono anche quelle di Pirro o le vittorie controproducenti, proprio perché l’obbiettivo era sbagliato. I processi complessi, che affondano nella psicologia profonda delle persone, non si modificano per decreto. Anzi, è proprio così che si rischia di ottenere come risultato quello che non si voleva».

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Nuova singolare scoperta sulla Tilma di Guadalupe

Hillary Clinton osserva il mantello della VergineNon ci sono solo le incredibili guarigioni di Lourdes o il grande mistero dell’immagine della Sacra Sindone, ancora oggi inaccessibile ai più potenti laser eccimeri dei laboratori dell’Enea di Frascati.

Nell’universo cattolico (e solo in esso) esistono tanti altri misteri, tante altre grandi sfida per la scienza e per la fede (ricordiamo che la Chiesa cattolica afferma che nessun miracolo è necessario alla fede del credente, esso può essere semmai un aiuto ma mai il “motivo” per cui si è credenti), e una di queste è certamente l’immagine di Nostra Signora di Guadalupe impressa sul mantello (detto anche “Tilma”) appartenuto a Juan Diego Cuauhtlatoatzin, in seguito all’apparizione avvenuta in Messico nel 1531. Nel santuario che è stato costruito è conservato il mantello di Juan Diego, sul quale è apparsa raffigurata l’immagine di Maria, ritratta come una giovane dalla pelle scura (è chiamata dai fedeli Virgen morenita). 

L’immagine non presenta traccia di coloranti di origine vegetale, minerale o animale, come rilevato nel 1936 dal premio Nobel per la chimica Richard Kuhn e la figura di Maria è impressa direttamente sulle fibre del tessuto (esistono delle piccole parti dipinte, come “ritocco”, realizzate in un secondo momento), come determinato dalle foto all’infrarosso del biofisico dell’University of Florida, Philip Serna Callahan nel 1979, il quale ha affermato che l’immagine non è scientificamente possibile essere realizzata dall’uomo. Nel 1977 l’ingegnere peruviano José Aste Tonsmann analizzò al computer le fotografie ingrandite di 2500 volte e riscontrò che nelle pupille di Maria appare un altro disegno, ovvero una sorta di fotografia del momento in cui Juan Diego ha mostrato il mantello al vescovo Juan de Zumárraga, alla presenza di due altri uomini e una donna. Gli occhi della Vergine sul mantello si comporterebbero dunque come occhi umani, che riflettono ciò che vedono attraverso un effetto conosciuto come Purkin-Sampson’s images, e avrebbero “fotografato” la scena con una leggera rotazione di differenza tra i due occhi, come appunto accade normalmente a causa della diversa angolazione della luce che arriva alle pupille. Al centro di esse si vedrebbe inoltre un’altra scena, più piccola, anche questa con diversi personaggi.

Un altro aspetto fortemente misterioso è la durata e la conservazione del tessuto: la fibra di maguey che costituisce la tela dell’immagine, infatti, non può durare più di 20 o 30 anni. Vari secoli fa si dipinse una replica dell’immagine su una tela di fibra di maguey simile, e la stessa si disintegrò dopo alcuni decenni. Mentre, a quasi 500 anni dal presunto miracolo, l’immagine di Maria continua a essere perfetta come il primo giorno. Nel 1921 Luciano Pèrez, un attentatore inviato dal governo, nascose una bomba in un mazzo di fiori posti ai piedi dell’altare; l’esplosione danneggiò la basilica, ma il mantello ed il vetro che lo proteggeva rimasero intatti. Infine, la disposizione delle stelle sul manto non sarebbe casuale ma rispecchierebbe quelle che in cielo, da Città del Messico, era possibile vedere la notte del 9 dicembre 1531

Una sorprendente scoperta matematico-scientifica è invece stata realizzata di recente: dalla sovrapposizione delle stelle e dei fiori sull’immagine emergerebbe, una volta riportata sul pentagramma, un’armonia perfetta (qui la melodia che è emersa). La scoperta è stata presentata durante una conferenza presso l’auditorio San Pio X in Vaticano.

Durante l’International Workshop on the Scientific approach to Acheiropoietos Images tenutosi presso l’ENEA Frascati nel 2010, J. C. Espriella del Centro Mexicano de Sindonología ha descritto fenomeno, soffermandosi anche sugli studi scientifici realizzati e concludendo così: «l’immagine presente sulla Tilma di Guadalupe è indirizzata ad essere una immagine acheropita, perché secondo la stragrande maggioranza dei ricercatori che l’hanno studiata con un rigoroso metodo scientifico, la sua origine va al di là della spiegazione naturale e fino ad ora, nessuna spiegazione soddisfacente è stata formulata».

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Il percorso religioso dei Beatles: quattro piccole “conversioni”

The BeatlesQualcuno non conosce i Beatles? E come è possibile? Chi scrive nasce oltre vent’anni dopo la loro comparsa pubblica, tuttavia la melodia di moltissimi loro brani è più familiare di tantissimi pezzi mandati in onda oggi dalle stazioni radiofoniche.

John Lennon, il leader del gruppo,  è stato velocemente etichettato come “non cristiano” quando ha scritto la famosissima canzone “Imagine”, in cui si dice: «Immagina non ci sia il Paradiso, prova, è facile. Nessun inferno sotto i piedi. Sopra di noi solo il Cielo [..]. Niente per cui uccidere e morire e nessuna religione». Preso dall’euforia del successo un giorno disse che la sua band era diventata «più popolare di Gesù».

Benissimo, attenzione però –come ha scritto Ray Comfort nel suo nuovo libro “The Beatles, God & the Bible” – a non cadere nella «tentazione di abbracciare i Beatles come campioni di anti-cristianesimo, sarebbe un po’ troppo zelante e tradirebbe i percorsi personali di fede dei membri della band».  Ha quindi proseguito: «E’ vero che nel loro periodo di massimo splendore, nel 1964 o ’65, qualcuno chiese loro se credevano in Dio e John Lennon rispose negativamente, ma il loro pensiero è poi maturato ed ogni componente dei Beatles ha riconosciuto l’esistenza di Dio in un suo modo particolare». In particolare è stato Paul Mccarthy a sostenere: «probabilmente sembriamo anti-religiosa per il fatto che nessuno di noi crede in Dio … siamo tutti agnostici».

Durante gli anni del successo, John Lennon invitava alla rivoluzione sessuale, all’amore disinibito e libertino, il figlio Julian oggi dice«Un cattivo padre. Ed io non riesco a diventarlo per colpa sua. Mio padre cantava d’amore, parlava d’amore, ma non ne ha mai dato, almeno a me che ero suo figlio». Nel 1980, in una intervista per Playboy -qualche mese prima di venire ucciso- Lennon ha rivelato la sua piccola conversione: «La gente ha sempre avuto l’immagine che io fossi un anti-Cristo o un antireligioso. Ma io non lo sono. Oggi sono un uomo più religiosoSono cresciuto cristiano e solo ora capisco alcune delle cose che Cristo diceva attraverso le parabole».

Il chitarrista dei Beatles, George Harrison, ha composto nel 1969 la bellissima canzone-preghiera My Sweet Lord, mentre in una lettera a sua madre ha scritto: «Voglio trovare Dio. Io non sono interessato a cose materiali, questo mondo, la fama…voglio raggiungere il vero obiettivo». Harrison venne affascinato particolarmente dal misticismo indiano, dopo la sua morte nel 2001 la famiglia ha lasciato un comunicato in cui c’era scritto: «Ha lasciato questo mondo come lo ha vissuto, consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace».

Anche Paul McCartney ha cambiato la sua posizione, seppur più superficialmente rispetto agli altri, arrivando ad affermare nel 1990: «Io non sono religioso, ma sono molto spirituale». pregando per la moglie quando ha avuto problemi nel dare alla luce la loro figlia. Ha aggiunto: «Dio non ci avrebbe dato le lacrime se Egli non avesse voluto che piangessimo». McCartney ha fatto riferimento Dio anche in una canzone dal titolo “Freedom”, in onore delle vittime del 9/11, dicendo: «Questo è il mio diritto, un diritto dato da Dio. Per viver vivere una vita libera, per vivere in libertà»

Il batterista Ringo Starr nel 2010 ha affermato di aver trovato Dio, ha riconosciuto di aver perso la strada quando -sia da giovane che da membro dei Beatles- ha fatto uso di marijuana e l’LSD e poi, verso la fine del 1970, ha sofferto problemi di alcol e cocaina. Oggi il musicista è diventato astemio e al Grammy Museum di Los Angeles ha detto che la religione gioca un ruolo importante nella sua vita: «Per me, Dio è nella mia vita. Non vi nascondo questo. Penso che la ricerca sia iniziata dal 1960. Ho fatto un passo fuori dal sentiero per molti anni e ho ritrovato la strada, grazie a Dio».

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Il laico Benedetto Croce e le radici cristiane dell’Occidente

Benedetto CroceNel suo messaggio di fine anno il presidente Napolitano ha citato Benedetto Croce, celebre filosofo e storico del novecento italiano, agnostico anti-positivista è autore del saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani” (1942) in cui mostra la sua convinzione nel cristianesimo come fondamento storico della civiltà occidentale, senza tuttavia aderirvi esistenzialmente. Di Benedetto Croce si è occupato recentemente anche Ilsussidiario.net, intervistando tre filosofi italiani: Massimo Borghesi, Marcello Veneziani e Massimo Cacciari.

 

Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale presso l’Università di Perugia, ha spiegato che -nonostante il saggio in cui celebra le radici cristiane dell’occidente- «la religiosità di Croce rimane quella di sempre, immanente e laica. Nel 1943, di fronte alla catastrofe della guerra, il ritorno al cristianesimo, dichiarato come “la più grande rivoluzione che l’umanità abbia avuta”, è il ritorno ad una eredità preziosa che va ripresa in termini di civiltà e di cultura».

Con Marcello Veneziani, filosofo e opinionista su diverse testate giornalistiche, si è ricordato che Croce criticò i Patti Lateranensi, sostenendo che «ascoltare una messa è un fatto di coscienza», tuttavia Veneziani ha sostenuto: «Io credo che avesse torto. Nel senso che non si può immaginare una religione che sia vissuta soltanto nella dimensione privata, perché la religione, nella parola stessa, indica anche un legame sociale, comunitario, e come tale ha una dimensione pubblica. Da questo punto di vista credo che Croce sia stato l’interprete d’avanguardia di una esigenza che definirei neoprotestante, cioè quella che riduce la religione a fatto privato; senza cogliere l’importanza storica per il nostro Paese di ricucire la coscienza ferita degli italiani, divisi in modo innaturale tra l’essere credenti e l’essere cittadini», tuttavia, ha proseguito, «in un momento in cui la civiltà liberale deve unirsi alla civiltà cristiana per difendersi dal neopaganesimo nazista che sta attraversando e squassando l’Europa, Croce sente come suo dovere civile quello di richiamarsi all’eredità cristiana, fattore di identità e di coesione sociale. In questo contraddice il Croce liberale laico che invece pensa che la religione debba rimanere nel chiuso della coscienza individuale».

Massimo Cacciari, docente di Pensare filosofico e metafisica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, anche lui laico e non credente, si è posto sulla scia di Croce rispetto al cristianesimo: «come facciamo a non appartenere ad un evo che è marcato dal segno della croce? Solo uno stolto può ritenere che questo non è, per ciascuno di noi, credente o non credente, un problema, forse il problema e cioè quello della propria tradizione, delle proprie radici, del proprio linguaggio e della propria cultura. Per tutto l’idealismo tedesco il confronto con il cristianesimo è fondamentale, anzi è al centro della filosofia e questo trova puntualmente conferma in molte pagine sia di Croce che di Gentile».

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Il Comitato di Bioetica francese contro l’eutanasia, Hollande lo ignora

EutanasiaL’ideologia è più forte di qualsiasi norma etica, lo ha dimostrato perfettamente François Hollande, candidato ideale a proseguire in Francia quel che il movimento zapaterista ha terminato in Spagna.

Il presidente onorario del Comitato di Bioetica francese, Didier Sicard, a capo della commissione incaricata di valutare l’introduzione di “un’assistenza medicalizzata per concludere dignitosamente la vita”, come promesso nel programma elettorale di Hollande, ha consegnato al governo il rapporto finale nel quale ci si oppone esplicitamente all’introduzione dell’eutanasia e del sucidio assistito, sottolineando «l’esigenza di applicare risolutamente le leggi attuali, piuttosto che di immaginarne continuamente di nuove», mettendo in guardia contro «l’utopia di risolvere con una legge la grande complessità delle situazioni di fine vita». La Francia non ha dunque bisogno di «un passo verso l’eutanasia», dato che per i luminari il problema sta altrove. Innanzitutto, scrivono, nella relazione fra medici e pazienti, sottoposta a crescenti condizionamenti che la rendono sempre più impersonale. Inoltre, nella distanza abissale fra il clamore di certi dibattiti mediatici dal sapore molto ideologico e l’ignoranza diffusa, fra i pazienti ma pure nel corpo medico, della legge Leonetti, che nel 2005 aveva trovato un compromesso equilibrato e politicamente bipartisan, puntando in particolare sulle cure palliative.

La commissione Sicard, «non raccomanda di adottare nuove disposizioni legislative urgenti sulle situazioni di fine vita», si schiera contro la pratica eutanasica, «atto medico che, per la sua radicalità interrompe improvvisamente e prematuramente la vita», e che «sviluppa una sua propria dinamica resistente a ogni controllo efficace, che tende necessariamente a diffondersi». L’eutanasia, secondo la commissione, «interiorizza le rappresentazioni sociali negative di un certo numero di situazioni di vecchiaia, di malattia e di handicap», e quindi rischia di allontanare la medicina dal «dovere universale di umanità delle cure e di accompagnamento».

Preso atto del rapporto Sicard, Hollande ha annunciato che procederà in modo esattamente contrario: entro giugno, ha detto, si procederà alla presentazione di un progetto di legge che riguarderà l’introduzione dell’eutanasia, su richiesta del paziente, “della famiglia o dei medici curanti”. Nel rapporto del Comitato di Bioetica questa eventualità è contemplata con preoccupazione: «Se il legislatore si prendesse la responsabilità di una depenalizzazione dell’eutanasia, la commissione intende mettere in guardia a proposito dell’importanza simbolica del cambiamento di questo divieto perché: l’eutanasia impegna profondamente l’idea che una società si fa del ruolo e dei valori della medicina; ogni spostamento di un divieto crea necessariamente delle nuove situazioni limite, provocando una domanda infinita di nuove leggi; tutta la medicina comporta una parte di azione ai confini della vita senza che sia necessario legiferare ogni volta». La cultura della morte si appresta dunque ad una guerra con la scienza e la medicina.

Illuminante il giudizio finale della commissione Sicard: «Sarebbe illusorio pensare che l’avvenire dell’umanità si riassuma nell’affermazione senza limite di una libertà individuale, dimenticando che la persona umana non vive e non si inventa che nel legame con altri e dipendendo da altri. Un vero accompagnamento alla fine della vita non ha senso che nel quadro di una società solidale che non si sostituisce alla persona ma le testimonia ascolto e rispetto alla fine della sua esistenza».

Esattamente come il Comitato di Bioetica francese, si sono recentemente schierati contro l’eutanasia e il suicidio assistito anche l’American Medical Association (AMA), la British Medical Association (BMA), la German Medical Association, la Massachusetts Medical Society (MMS), l’American Nurses Association (ANA) e la New Zealand Medical Association.

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